#si dolce è il tormento
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Vi vedo, qui, così estremamente belle. E io mi sento così incompatibile che mi sembra di impazzire. È come se la vostra luce splendente fosse il riflesso di un mondo a cui non appartengo, un mondo fatto di bellezza intangibile, di armonia perfetta, di lineamenti che si intrecciano con la delicatezza di una melodia suonata dal vento. E io, in questa notte senza stelle, mi trovo a vagare nel buio della mia stessa esistenza, dove ogni pensiero si perde, si confonde, come un eco che svanisce nell’abisso dell’inquietudine.
Mi sembra che ogni vostro sguardo, ogni vostro sorriso, sia un universo a sé stante, un universo in cui non trovo il mio posto. Mi sembra di essere una nota stonata in una sinfonia sublime, una sfumatura di grigio in un quadro dove voi siete colori vibranti, vivi, pulsanti. Eppure, non posso distogliere lo sguardo. Non posso fare a meno di essere attratto da questa bellezza che mi consuma, da questa bellezza che mi sembra così irraggiungibile, eppure così vicina.
È un tormento dolce, questo. Un tormento che mi strappa via ogni certezza, che mi lascia nudo davanti all’immensità del vostro essere. E mentre vi osservo, mentre il mio cuore si perde nei vostri occhi, mi chiedo se mai ci sarà un momento, un singolo istante, in cui le nostre anime potranno sfiorarsi, in cui le mie insicurezze si dissolveranno come nebbia al sole, lasciando spazio solo alla pura essenza di ciò che siamo.
Forse, è proprio in questa distanza che risiede la nostra bellezza. Forse, è questo il segreto di ciò che ci rende umani: il desiderio incolmabile, l’attesa, la speranza che non muore mai, anche quando sembra destinata a non essere mai soddisfatta. Forse, è questo il modo in cui l’universo ci insegna a sentirci vivi: facendoci assaporare la bellezza dell’impossibile, facendoci desiderare ciò che non possiamo avere.
E mentre vi guardo ancora, in silenzio, sento che c’è qualcosa di sacro in tutto questo. Qualcosa che va oltre le parole, oltre i pensieri, oltre la ragione. C’è una verità nascosta nelle pieghe del tempo, una verità che solo i cuori più audaci possono comprendere: che �� nell’incontro delle nostre fragilità, delle nostre paure, che si nasconde la vera forza. Che è nel riconoscere la nostra stessa vulnerabilità di fronte alla bellezza del mondo che diventiamo davvero umani, davvero vivi.
E allora, anche se mi sento così piccolo, così lontano, continuerò a cercare quel legame invisibile che ci unisce, quella scintilla che, anche solo per un attimo, farà brillare la mia oscurità. Perché in fondo, in questo grande teatro della vita, non è forse la bellezza di quel che sfugge, di ciò che non possiamo possedere, a renderci eterni sognatori?
#citazioni#compagnia#distanza#frasi famose#frasi pensieri#mancanza#nuove amicizie#pagine di libri#sentimenti#tristezza
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La verità è che vivo nel tormento invisibile della mia stessa vergogna. In un fragile momento di vulnerabilità, ho abbassato le difese e ho permesso ad un'estranea di attraversare il confine della mia esistenza, come un'ombra sottile che scivola sotto il fondo di una porta.
Avevo un disperato bisogno di essere visto, di essere capito, e ho abbracciato quella presenza come se fosse l’unico faro, un lumicino di speranza nell'oscurità di una tempesta interiore.
Le onde del mio tormento si infrangevano con furia, ma lei brillava come un'ancora, un miraggio di stabilità. Questa persona mi ha regalato un'illusione di pace e sicurezza, facendomi credere di essere finalmente al riparo dalle mie paure.
È stato come un caldo abbraccio, come il primo sorso di una tazza di tè bollente durante una giornata grigia e uggiosa, un conforto inaspettato che riscaldava l’anima.
E così, lentamente, è diventata una dipendenza. Come un veleno subdolo e dolce che ha messo radici dentro di me, facendomi credere che senza di lei nulla avesse più senso. Mi sono lasciato cullare da quella fantasia di libertà, come se tutto fosse finalmente a portata di mano, come se per la prima volta mi sentissi capito, apprezzato, accolto.
E ho desiderato rimanere lì, in quell'illusione.
Non volevo spezzare l’incanto, non volevo guardare in faccia la realtà. Eppure, dietro la dolcezza, c'era sempre il sibilo della paura: paura di affezionarmi troppo, di perdere tutto in un battito di ciglia.
Mi sono trovato intrappolato tra il desiderio di avvicinarmi e il terrore di essere abbandonato, come un topo in trappola, aggrappato a un legame che sapevo fragile.
E poi, senza preavviso, quella persona si è dissolta come fumo, lasciandomi da solo a fare i conti con la mia ingenuità e con le macerie dei miei errori. Ma in tutto questo, se c'è una lezione amara che ho imparato, è che non posso portare da solo il peso di ogni colpa.
Non posso continuare a punirmi per aver aperto il cuore, per aver creduto, anche solo per un attimo, che potesse essere vero. Se ho ceduto, è perché qualcuno ha saputo danzare sulle mie fragilità, ha sfiorato i miei sentimenti e, anche se inconsapevolmente, ha scelto di fare leva sulle mie paure, lasciandomi indifeso.
E ora, mi prometto di non dimenticare. Di riconoscere chi, con una maschera di gentilezza, si muove nell'ombra agendo con una sottile sagacia, cercando di toccare le vulnerabilità altrui per soddisfare i propri bisogni nascosti.
E mi auguro, con dolcezza, di non dover più incrociare la strada di chi trasforma la fiducia in un'arma.
Questa, forse, sarà la mia salvezza.
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Un tentativo fallito
Søren rimpianse Regine per tutta la vita, la osservava da lontano per cercare di capire se Regine provava ancora qualcosa per lui. Arrivò persino a scrivere al marito di lei una lettera chiedendo di poter parlare a Regine. Si ritiene che Johan, timoroso, la bruciò e non ne parlò con la donna. Di seguito la Lettera del 1849 a Regine, da Kierkegaard spedita, ma alla quale non ricevette mai risposta.
Allo stimatissimo signor X: la lettera acclusa è mia per la Vs. compagna di vita. Decidete Voi se consegnargliela o meno. Io non cerco, in modo alcuno, di potarVela via: intendo solo narrarle ciò che fummo, perché lei si senta libera di ricordare il bene, e il male, di quello che fu la nostra storia. Ho l’onore di professarmi Vostro devotissimo S.A.K
Mia Regine, il cuore, è come una casa subacquea ove vi sono molte stanze: giù nel fondo, poi, vi sono camere piccole, ma accoglienti, dove si può stare tranquillamente seduti, mentre fuori il mare tempestoso; in alcune di esse possiamo udire in lontananza il rumore del mondo (non angosciosamente assordante, ma sempre più fievole e quieto… sai perché? Perché gli abitanti di queste stanze sono coloro che s’amano). Ma da lungo tempo oramai, cara amica, non abiti più queste segrete magioni: io e te siamo separati, lontani nello spazio infinito del tempo, nella piccola circoscrizione dello spazio: non è poi così immensa Copenaghen! Ti scrivo ora, perché finalmente voglio che ti sia chiaro perché la nostra storia è finita. Da quando ti conobbi, ho sempre cercato di vivere artisticamente: volli farmi simile a te, cercando di ritrovare una sensibilità prontissima a cogliere ogni cosa fosse interessante nella tua vita: avevi il dono, cara amica, di saper presentare come arte (non la chiamerò poesia, perché tu con le parole non eri brava come con i suoni e con le immagini: eri erotica in ogni tuo gesto, come solo una ragazza della tua età può essere) qualsiasi cosa tu vivessi: era questo che mi aveva fatto innamorare di te, era questo che mi allontanava terribilmente da te. La tua arte, amica mia era il ‘di più’ che solo tu potevi donarmi, perché tutta la tua esistenza (bisogna dirlo!) era impostata sul godimento artistico: e un po’ di quel piacere eri riuscita a passarlo a me… il punto è che io non potevo vivere così in eterno, perché io non sono così, e pur di piacere a te, violentavo me stesso. Dolce tortura, ma pur sempre tortura! Da quando ti ho conosciuta, ho cercato per settimane, ovunque, la tua figura: sapevo che, attorno a te, girava un uomo di grande valore, e io di lui avevo paura perché egli ti era vicino, come uno spettro in una città morta: cosa avesse lui più di me, l’arguzia, l’aspetto… io non l’ho mai capito. Eppure, piccola Regine, ho avuto la fortuna di conquistarti, perché l’amore che io potevo offrirti (e lo sai) era perfetto e totale; il suo, era solo desiderio (anche tu lo desideravi? Immagino di sì, perché è difficile convivere col desiderio!) mentre la mia, era devozione. Forse tu non eri pronta a cotanto sentimento? La storia parlerà per noi. Regine… non ti chiamo ‘mia’ perché non lo sei mai stata (e io ho pagato duramente la felicità che l’idea di possederti mi dava un tempo)… e tuttavia, come posso non dire ‘mia’, dato che tu fosti per me ‘mia’ seduttrice, ‘mia’ assassina, origine della ‘mia’ sventura, ‘mia’ tomba… già. Ti chiamo ‘mia’, e parlando di me, mi chiamo ‘tuo’; tuo tormento vorrei essere, ricordarti con la mia oscura presenza, quello che fummo assieme come in un eterno incubo di morte… ma perché perseguitarti, quando – se mai in vita fui felice, fu quando tu m’ingannavi? Ma davvero poi il tuo corpo poteva così manifestamente mentire? E la tua mente, il luccichio dei tuoi occhi, erano davvero falsi come io ora credo? Regine mia, non c’è proprio nessuna speranza, davvero nessuna? Il tuo amore non si ridesterà mai più? Io lo so che, nonostante tutto e tutti, tu mi hai amato, benché non sappia dire donde mi venga questa certezza. Sono pronto ad aspettare a lungo; aspetterò, aspetterò fino a che non sarai sazia degli altri uomini, e quando il tuo amore per me risorgerà dalla tomba: allora, e solo allora, riuscirò ad amarti come sempre, e ti renderò grazie come un tempo, Regine, quando, poggiato al tuo seno, ascoltavo il dolce e regolare moto del tuo respiro, e ti ringraziavo per esser con me. Non potrai essere così crudele e spietata verso di me in eterno, mia Regine: giungerà il giorno del tuo perdono o del tuo ravvedimento… non ricordo neppure chi dei due distrusse la nostra storia. No Regine, chi abbia lasciato chi ora non conta.
Sei stata crudele con me, al pari di come io lo fu con te, è vero. In realtà, tu non lo sai, io ho taciuto il mio dolore e le poche cattiverie dette su di te non hanno che la consistenza dell’aria: solo Dio sa cosa ho sofferto (e voglia il Signore che nemmeno ora io te le racconti)! Mia Regine io ti devo molto… e ora che non sei più mia, ti offro una seconda volta ciò che posso e oso e conviene che ti offra: me stesso Sì, ti dono questo cuore che già in passato fu tuo, e lo faccio per iscritto, per non stupirti e non sconvolgerti. Forse la mia personalità ha fatto su di te un’impressione troppo forte, in passato: ciò non deve accadere una seconda volta, e se tu dovessi accettare la mia mano tesa, dovrebbe essere per vero amore, non per impressione. Mia Regine, prima di dirmi di no!, ti prego, rifletti seriamente (per amore di Dio nei cieli) se puoi, o meno, parlarne con me con serenità, e in tal caso se preferisci farlo per lettera o direttamente a voce. Se invece tu, dopo accurata riflessione, decidessi comunque di non darmi più alcuna risposta, se la tua risposta al mio amore fosse ‘no’, ricorda almeno – per amor del cielo – che per te, e solo per te, ho fatto, e rifarei mill’altre volte, questo passo.
In ogni caso resto, quale sono stato dall’inizio fino a questo momento, sinceramente il tuo devotissimo S.A.K.
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New song to work on.
I'm a tenor but I'm stealing this one from the sopranos.
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Jessica, la mia piccola sorellina
Sono giunta qui senza scoprire il tuo mondo, un amore nascosto che resta profondo. Vorrei solo abbracciarti, anche per un momento, ho sofferto tanto, il tuo ricordo è il mio tormento. e credimi di tutto il resto del mondo non mi importa, non ti ho potuta vivere, il destino ha chiuso quella porta.
La mia mente ha mentito per anni, in silenzio, ma il tuo volto è tornato, nel mio cuore. Io so quanto ho sofferto, quando ti ho perso . So che sei qui, anche se lontana, nessuno potrà spezzare i nostro legame.
Tu sei nel giorno, così come nella notte, nei sogni più belli, poterti averti con me, è un dono prezioso, ma so che se un amore è profondo niente lo può cancellare. sei la luce che illumina i miei passi. nulla e nessuno potrà farmi dimenticare il tuo volto.
Scusa se non parlo di te , ma mi viene un nodo in gola. in ogni passo che faccio, sei nei miei pensieri incisa. Ricordo i tuoi piedini, i giorni di lotta, la malattia che ti portava via, ma il nostro amore non si è spento.
Eri il mio conforto, lo sapevo, non ero sola, ma quando te ne sei andata, la mia anima diventò triste e vuota. La sofferenza ha cancellato molti di quei momenti, ma nel profondo del cuore, tu sei sempre stata presente.
Non voglio più fingere, la tua mancanza pesa, la tua dolcezza è la mia resa. Quando piangevi, io ti stringevo la mano, un amore eterno, che mai avrà un finale.
Ricordo il tuo profumo, dolce come un fiore secco, e per questo mi circondo di fiori spenti , che mi riportano a te. un amore che ho cercato di nutrire, mamma si dimenticava di te come faceva con me, e io ricordo, mangiavo il tuo latte in polvere, cercando di mostrarle un modo per salvarti.
Vedo attorno a me tanti fratelli pieni di odio, mentre il mio cuore desidera solo averti qui, crescere insieme, condividere gioie e litigare, raccontarti ogni mio dolore, mi chiedo perché non sei potuta venire con me .
Perdonami se avevo solo 5 anni , anche tu sei stata segnata dal dolore. Ma so che ora gli angeli ti abbracciano, non guardare questo mondo con i miei occhi, guarda il cielo, le nuvole e il sole ora non devi più avere paura. Da la su proteggimi, in ogni mio sbaglio correggimi, ti prego ascoltami e guidami.
sai quanto bene ti voglio ti tengo nel cuore come un sogno . perdona la mamma che ora è con te, lo sai che la sua malattia la aveva cambiata e ora i suoi mostri vivono dentro di me, ma non mi arrenderò li combatterò per voi.
Mi mandi i cuori? Sei tu che mi chiami? O è mamma che sussurra nel vento? Voglio dirti che ti penso sempre, scusa se non riuscivo a parlare di te,
ma ogni volta che ci provavo, e ad ogni parola era facile il pianto come ora mentre scrivo queste parole. sai ancora adesso mi nascondo e piango tutto quello che ho perso.
-keyla0953
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Hello Missfortune
Meglio avere rimorsi che rimpianti
Ogni tanto ci vuole qualche perla.
Che mi sia dovuta imbarcare per Honk Kong per trovarla un po' mi stupisce ma quando una cosa è bella...è bella. A prescindere da dove sta. E questo drama è bello.
Hello Missfortune narra le vicende di Yu, giovane ragazza solare e gentile morta in giovane età. Nella serie, tutti i morti, dopo avergli cancellato la memoria, vengono spediti ad in "piano" in base a cosa hanno combinato come essere umani, con il 9° piano - l'ultimo - interpretabile come il Paradiso, praticamente.
Yu finisce al secondo piano ma poiché i suoi genitori sono al terzo e lei li vuole incontrare, diventa "Amministratrice della Vita", un lavoro che le permette di raccogliere punteggio per raggiungere i suoi parenti e scalare quindi i piani.
Questi amministratori vengono assegnati ad un essere umano ed il loro compito è quello di distribuirgli fortuna e sfortuna durante la giornata, in base alle richieste "dall'alto".
Il cliente di Yu in questo caso è Pak Ho, un ragazzo che poraccio ha già una vita di merda, una personalità depressa e non ha certo bisogno che Yu gli porti sfortuna. Per dirla male... Pak Ho è morto dentro.
E' talmente deprimente che la stessa Yu si dispiace di fargli dispetti e incasinargli la vita. D'altronde sto ragazzo ha perso la madre, il padre lo ha obbligato a chiedere un prestito a suo nome e gli strozzini lo vogliono morto. Ha abbandonato gli studi e lavora come riders, la sorella non se lo incula e deve occuparsi della Nonna mezza disabile.
Yu, dispiaciuta per il ragazzo, da una parte cercherà di sabotarlo e dall'altro gli sarà sempre più vicina, aiutandolo e confortandolo quando ce ne sarà bisogno. Cercherà di fargli vedere il bello della vita, tirandolo fuori dalla depressione e tra i due nascerà una tenera storia d'amore - anche se lei è morta - che riuscirà a far nascere sul viso di entrambi dei teneri sorrisi.
A fare compagnia a Yu ci sono anche i suoi due colleghi: Pau Sau Yuk e Santino. Entrambi una sorta di mentori per la giovane Yu, che la aiuteranno e guideranno , senza però dimenticare che anche loro hanno delle storyline a parte.
Come si evince, la trama è molto carina. Mi è piaciuta l'idea di questi morti che vengono assegnati a dei vivi ed ero curiosa di capire perché dovessero portargli sfiga o fortuna. In base a cosa? perché? Tanto più che Pak Ho è un bravissimo ragazzo: dolce, gentile, sottomesso, sacrificale fino all'eccesso. Quindi perché farlo soffrire così?
Ma non è tutto oro quel che luccica. La serie infatti, mi sorprende andando avanti. Quando le "coincidenze" diventano troppo palesi perché siano solo un caso, Hello Missfortune sgancia la bomba e tira fuori un escamotage che ho adorato:
(Da qui spoiler a raffica)
Ogni Amministratore è legato al suo cliente dalla vita che avevano prima di morire. Il dolore, rimpianto e delusione tra loro, costituisce un nodo che entrambi gli appartenenti dei due mondi devono sciogliere per poter andare avanti. E questo è un messaggio bellissimo ed ho amato come la serie lo abbia portato in scena.
Alcuni nodi però, sono più difficili da districare, come nel caso dei due protagonisti. La relazione che lega i due è dolorosa, sanguinolenta e straziante. Tanto che sembra che mai e poi mai questi due potranno trovare la pace e superare il loro tormento.
Pak Ho in questo caso è colui che sembra soffrire di più anche solo per il fatto che ricorda:
ricorda come sette anni prima, in una notte come le altre, una ragazza ferita e spaventata, gli era corsa incontro pregandolo di salvarla. Ricorda come lei si fosse nascosta terrorizzata dietro dei cartoni mentre un ragazzo la prendeva per i capelli, minacciandola di morte, mentre le proclamava il suo amore. Ricorda come la ragazza urlava di lasciarla ma lui non ascoltava e rimproverandola di volerlo lasciare, la prendeva per i capelli sfracellandole la testa su un muro. Ricorda lo sguardo senza vita della ragazza che lo guardava dritto negli occhi.
Ricorda come qualche giorno dopo, una ragazza venne trovata morta in avanzato stato di decomposizione.
E ricorda che non ha fatto nulla. Non l'ha aiutata. Non ha chiamato la polizia o lo ha detto a qualcuno. L'ha semplicemente lasciata morire.
Pak Ho rammenta tutto questo. Non può dimenticare e si punisce non vivendo pienamente e degnamente la sua vita. Come dice lui stesso :-" non sono un bravo ragazzo. Merito di soffrire così."
Quasi come se morendo, quella ragazza si fosse portata via anche la vita di Pak Ho.
L'angoscia e lo strazio per noi spettatori può finire? Certo che no. La situazione può sempre peggiorare. o migliorare
Perché quando sembra che Pak Ho superi tutto questo dolore grazie a Yu e finalmente si apra alla vita, Yu si rivela quella ragazza. E adesso se lo ricorda pure lei.
Lei che ha visto i suoi genitori morire in giovane età ed è stata lasciata sola da tutti, bullizzata dalle compagne per essere orfana. Lei che ha fatto l'errore di amare un uomo che l'ha ammazzata brutalmente e senza rimpianti. Lei che anziché scappare alla prima avvisaglia di pericolo, è rimasta con il suo futuro assassino pur di non rimanere da sola. Lei che disperata ha chiesto aiuto ed è stata abbandonata anche da un giovane Pak Ho.
La scoperta del loro passato condiviso è straziante per entrambi e spiega perché Yu sia diventata l'amministratrice di Pak Ho. Tutti e due hanno un nodo da sciogliere che blocca le loro vite nel dolore e nella rabbia.
Ed allora, per Pak Ho, la redenzione può essere la sua vicina di casa, vittima di un fidanzato abusante che si rivelerà essere proprio l'assassino di Yu. Pak Ho non è riuscito a salvare Yu ma può salvare lei. Deve salvare almeno lei. La vicina di casa diventa quasi uno specchio di Yu agli occhi di Pak Ho.
E mentre Pak Ho cerca di fare la cosa giusta, Yu lotta con la rabbia, l'ingiustizia che sente: come può essersi innamorata del ragazzo che l'ha lasciata morire? La collera di Yu è una cosa viva, ardente e fuori controllo. Così tanto che minaccia di uccidere Pak Ho, scaraventandolo giù dalle scale.
Ma proprio vedendo quanto impegno, quanta disperazione, il ragazzo impieghi per salvare la vicina di casa - finendo anche i coma - che il cuore frantumato di Yu fa pace con la sua morte e sopraggiunge il perdono. Per Pak Ho e per se stessa.
Il finale è una cosa agrodolce e poetico ed è perfetto a parer mio.
Yu e Pak Ho trascorrono un ultimo giorno da fidanzatini - Pak Ho non ha mai sorriso così tanto - prima che Yu se ne vada. Ha risolto il suo nodo ed è finalmente pronta a raggiungere serenamente i suoi genitori al terzo piano.
Pak Ho, scampato alla morte, rimarrà nel mondo dei vivi invece, ma questa volta vivendo davvero la sua vita, senza sensi di colpa, ansie o rimpianti.
Non è un lieto fine da commedia rosa ma d'altronde neanche questa serie lo è. E' una storia di rimpianti e sbagli. Di cose non dette e dispiaceri. Di solitudine, angoscia e dolore. Ma anche di redenzione e perdono. Di amore, speranza e salvezza.
Insegna a non avere rimorsi nella vita perché è un attimo che questi diventino rimpianti che pesano sul cuore rovinando l'esistenza gettandoci nel tormento.
Detto questo, vorrei anche spezzare una lancia a favore del drama per la trattazione del tema del femminicidio: realistico, crudo ed angosciante. Il fidanzato di Yu e della vicina poi, nella sua relazione con le due ragazze, rappresenta perfettamente la pericolosità della relazione tossica.
Ho tremato quando la vicina di casa, con il volto tumefatto e piena di lividi, difende il fidanzato con Pak Ho che cerca di convincerla a lasciarlo:- ci sono dei giorni in cui è arrabbiato e alza le mani. Ma è solo una volta ogni tanto. Se gli altri giorni stiamo bene e siamo felici, perché dovrebbe finire tra noi? Quei giorni della settimana sereni non contano?"
La vicina di casa, esattamente come Yu, è una ragazza sola. Distante dalla famiglia che non le può dare supporto, senza amici e che trova un bellissimo ragazzo che sì, ogni tanto ha degli scatti d'ira e le fa male...ma poi le chiede scusa promettendole che non lo farà più e mostrando pentimento. La manipola e confonde, spaventandola e riempiendola d'amore subito dopo.
E' agghiacciante da vedere e se ho dovuto guardare angosciata la fine di Yu, ho pregato per tutta la serie, che almeno lei si salvasse.
Hello Missfortune non è una serie perfetta. Ha chiaramente un basso badget e le prime puntate sono un po' lente e poco avvincenti. Non aiuta - ma quello era scritto nel copione - che il lead di questa storia avesse la depressione negli occhi e la morte nel cuore, mostrando un protagonista maschile bel lontano dai super fighi, brillanti e arguti a cui sono abituata.
Inoltre ho trovato il "perdono" di Santino e sua madre un po' frettoloso e tirato via. Santino poteva essere un bel personaggio - più della vena comica della serie - ma ahimè credo che non sia stato sfruttato benissimo.
Ho invece adorato Pau Sau Yuk e la sua fame insaziabile. Così come la sua relazione con il suo cliente. Fantastici. Sono anche rimasta stupita quando ha rinunciato ad andare anche lei al terzo livello assieme agli altri due, poiché così facendo, non sarebbe più potuta andare a mangiare il cibo nel mondo dei vivi.
Ultimo appunto lo voglio fare per la scena post credit:
mi è piaciuto tantissimo come abbiano girato una scena dove Pak Ho tenta di salvare Yu ma muore nel processo ed è lei questa volta, a lasciarlo morire. Come lui poi diventi il suo amministratore di vita, presupponendo una storia parallela a quella che abbiamo già visto.
Concludendo, una serie da vedere per chi cerca qualcosa di più impegnativo, con messaggi importanti e lezioni di vita. Una buona recitazione, belle tematiche e buona musica. Pecca per alcune cose ma nel complesso, ottima serie.
Voto: 7.9
#hello missfortune#hello miss fortune#hong kong#hong kong drama#hubert wu#chan pak ho#erica chan#poon siu yu
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GLI OCCHI
Dillo piano e lentamente che gli occhi ti guardano con la loro profonda bellezza e sono a contagiarti con la loro polvere magica e sembra che il mondo lì dentro sia svanito, legato al filo d’argento di un vecchio aquilone portato dal vento che lo segue senza far domande.
Gli occhi che virano in tondo quando il vento gli è amico e ti chiamano con i loro sensi di colpa o con la loro tenerezza fino a sembrare la forma più umana per volare ,con quel dolce distacco emotivo a voler cancellare quel senso di agonia, quella verità nascosta, quelle emozioni spinte che sanno rispondere solo al silenzio. Per un attimo sembra che ci sia la stessa intensità, il racconto di innumerevoli storie, il distacco e il fuoco. Si ritraggono e si proteggono e rimangono in attesa con il loro sorriso amaro a zittire le voci per poi lasciarsi travolgere da una rottura improvvisa, da un particolare, dal desiderio di immergersi dentro una felicità nuova. Gli occhi arrivano guardinghi, penetrando nei tessuti, levigando le forme, si appostano per non farsi notare o ti guidano da lontano cercando quell’addio che non arriva,
quella mancanza che ha ucciso la lentezza. Sono pronti a chiudere e a farsi chiudere come la colla e l’acqua calda, a divagare e a scrivere nel cielo, a seguire il volo della rondine e ad intrufolarsi nei colori. A lasciarsi andare in modo assolutamente involontario, senza nascondersi, aderendo alle superfici con la loro semplice presenza, con quella tristezza di anima complicata che traspare al di là dei vetri dentro i simboli del sole,
Gli occhi fanno prove d’incastro, si abituano alla luce e vagano nel buio e uccidono il respiro con la loro comunicazione non verbale quando entrano in contatto con qualcuno. Sono anche la stupida paura e i rimpianti, il dolce alito dell’amore, la vendetta e l’odio.
Occhi pieni di precipizi per cascarci dentro, che ti portano a dormire insieme, che ti avrebbero voluto dire e invece sanno tacere, che vogliono raggiungerti, arrivare a te, più forti delle parole. Occhi fuori dalla tua vita, rimasti a stazionare nell’anima. Occhi come fortezze irraggiungibili, che non si vergognano, ma che hanno pianto tanto, che si mettono in discussione e che cercano il rispetto, che sono stati male per amore e che hanno dipinto sorrisi tra le mura domestiche. Occhi che non vogliono essere per tutti, ma che corrono il rischio , che si abbandonano alle voglie , che gustano l’intensità di un momento, che sanno confondersi con le albe e i tramonti . Rincorrere le onde dei mari, i lontani paesaggi, le transumanze di animali e di uomini, gli orrori e le guerre. Che sanno confondersi nella pietà, con tutto quello che non può essere evitato, che cercano disperatamente una seconda possibilità, che implorano il perdono. Che sembrano calmi ma hanno l’inferno dentro .
E il tempo non cura le loro ferite, le cicatrizza soltanto, allora sono a raccontarsi bugie con se stessi e cercano di non vedere perché c’è di più, c’è il denaro e la maldicenza, l’incuria e l’ignominia, con il tormento che li perseguita fino a ritrovarsi nel pensiero di una limpida giornata, della pioggia fitta che cancella ogni impronta e riporta il sereno. Occhi che scendono
e salgono, che vanno in alto e poi in basso a destra o sinistra come fanno i pittori, che guardano la propria immagine negli specchi d’acqua e rischiano l’incontro con se stessi , che non si espongono mai al mondo o che invece si lasciano abitare e si abituano a costruire nidi per la gente di passaggio.
Occhi come i tuoi fedeli, pieni di vita interiore, che mettono a nudo il tuo inconscio personale,
che sanno accarezzarti e farti volare in cielo, che sono inferno e paradiso, che proiettano tutto quello che c’è di positivo , che non sanno svanire perché sono importanti , che hanno i loro tempi e che vogliono vivere, che sanno che il passato non ci appartiene più e non vogliono attenuare i sorrisi più cari, che sanno di meraviglioso e sono l’unico miracolo possibile, che sanno percepire e fremere. Lottare quando disorientati e delusi vanno verso la notte e in quel vuoto che si apre ritrovare le forze per passare oltre, nell’assenza di segni e significati ad aprire le mani e tornare bambini. Che sanno sognare e stabilire completezza, con questa loro forma di semplicità e di amore ti accarezzano il volto e sono gioielli che lasciano le loro perle sulla tua pelle a rimuovere quel silenzio inopportuno, perché in due si può lottare come giganti.
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32. (Di sera)
Quasi le sette, di sera. Avevo messo la faccia adatta. Non è una cosa difficile, per me. Ne ho tante e non mi costano niente, le faccio io. Parecchie le ho già dentro. Quando si tratta di una maschera sono un regista, un ottimo regista. E mi scrivo pure il copione.
Quella volta recitavo l’uomo che sta tornando a casa. Era sera perché era già buio, altri stavano rientrando come me, chissà se anche loro, come me. Chissà. Mi venne da passare davanti alla cattedrale, avrei allungato un po’, ma tanto dovevo solo far passare la vita. I mattoncini piccoli, la sagoma lunga come una nave da carico, magari è ancora aperta. Mi piaceva l’odore delle chiese. Un misto di umido, fresco, di tende pesanti sull’uscio, forse magari fortunatamente anche di un po��� d'incenso smarrito nella navata.
Il portone era aperto, provai ad entrare, l’anta cedette. Non c’era nessuno, la funzione era finita, meno male. Solo qualche piccola luce, vicino all’altare. Il resto si nascondeva tra ombre sempre più spesse. Mi sedetti ad un banco, tra gli ultimi. E così, mani tra le mani, le braccia abbandonate sulle ginocchia, sembravo un peccatore pronto a confessare qualcosa, un peccato, un peccato grave. E invece me ne stavo semplicemente lì, come un pesce nella pancia di quello più grande, pronto a scomparire. Forse andava pure bene, quel posto, per scomparire. I pensieri, il dolore, tutti quei maledetti benedetti viluppi che erano diventati la mia stessa persona, forse come le foglie d’autunno in un parco m’avrebbero sepolto, ricoperto, da quante erano, e forse lì sotto quegli occhi che dentro non volevano smetterla di vederti, di pensarti, forse si sarebbero chiusi. Gli occhi si sarebbero chiusi, e io con loro.
Mentre fantasticavo su questa possibilità, che invariabilmente non faceva altro che riportarmi a te, e ai tuoi capelli che scompigliavano ogni mia sensata assennata considerazione, entrò una vecchia. Dimessa, piccola, camminava piegandosi su un’anca, faticosamente. Guardavo come fosse vestita, mentre si avvicinava ad una cappella laterale. Dalle scarpe al giaccone era una donna senza pretese, non solo per l’età; era una di quelle donne sfiorate appena dalle mode, che comprava dove c’era convenienza ed un minimo di decenza, senza armadi da rinnovare, spenti i colori. Si avvicinò ai candelieri, di quelli dove si fa un’offerta e si accende il lumino. Potevo immaginare il suo ritorno a casa, senza nessuno che l’aspettasse. I figli lontani, la pensioncina, la tv.
Chissà se ha mai avuto la tentazione di farla finita.
“Ma certo”, sembrò mi dicesse, “ma certo”. Avevo da argomentare, contro questa silenziosa affermazione, che certe paranoie toccavano solo le menti viziose, che alla sua età i sacrifici di sicuro l’avrebbero dovuta temprare ben oltre quel desiderio macabro. Eppure, perché no? Chi mai può conoscere la misura del dolore, se non chi lo vive? Chissà se anche lei, come me, sotto le foglie, non avesse mai desiderato addormentarsi davanti alla televisione e chiudere gli occhi e dimenticare tutto, quella dolce puttana tentazione, di chiudere gli occhi per non avere mai più nessun ricordo, nessun respiro. Non bastavano le ossa vecchie, non bastava la pelle sfiorita, non era sufficiente; bisognava che il cilicio del tempo l’avesse segnata dentro, che la stringesse nel cerchio dei giorni che ripetevano lo stesso stridente motivetto, quel refrain fatto di lacrime, di tormento, ma più ancora di amore inespresso, mutilato, ingabbiato, soffocato al chiuso.
Eppure, santa donna, eppure, avevi acceso una candela. Perché, perché l’avevi accesa? Era per quel santo di gesso col bambinello in braccio? Era perché ci credevi, a quella sfilata di croci d’oro, ed al trionfo lassù, in alto, troppo in alto perché lo potessimo vedere? Perché?
Accese la candela, si segnò con la croce, stette qualche secondo con lo sguardo verso la statua, e poi curvò per riavviarsi all’ingresso. Uscendo mi guardò di sfuggita, accennò un saluto per infilarsi definitivamente nella notte di fuori. Avrei voluto togliermi la maschera ed abbracciarla e restare così, tutta la notte, tutti i giorni necessari. Vidi in lontananza il prete che si avvicinava e allora mi alzai e uscii anche io. Cominciava il freddo.
Dovevo cercare qualche altare, dentro di me, qualche altare dove mettere una luce, qualcosa. Non sapevo se t’avrei ancora rivista, non sapevo se, rivedendoti, avrei letto nei tuoi occhi il desiderio o invece solo una malinconia pacifica e tranquilla. O forse niente del tutto, forse solo uno sguardo fermo alla superficie dei miei occhi, senza voglia di entrarmi dentro. Non importa.
Non importa.
Tornerò a casa, accenderò quella luce, vivrò, e me ne starò così, per dare ancora quello che posso, il mio cuore aperto, che invoca.
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Mi sento intrappolata nel mio malessere, mi sento così stanca, mi sento così immeritevole di troppe cose, non perchè credo di non valere, ma pure se ci credo, le cose continuano a mancare.
A volte sto sul letto e mi viene solo da piangere perchè vorrei sentire una carezza, una coccola, una parola dolce per me, solo per me. Ma niente, il vuoto.. mia mamma si siede a volte accanto a me quando mi vede in quel modo e (senza malizia lo so) mi dice “ti prego smettila, tu sei forte non fare così non ce la faccio a vederti così” e quando lo dice mi devo sentire pure in colpa, quando vorrei solo rispondere che sono stanca di essere forte, vorrei solo che questo dolore che mi prende ogni parte del mio corpo dentro e fuori svanisca, mi dia tregua. E l’unica soluzione possibile che riesco a vedere è solo quella di morire. Perchè mi scoppia la testa, perché non dormo più la notte, perché ogni volta che chiudo gli occhi faccio solo incubi e quando sono sveglia è solo sopravvivere cercando di spingermi a fare qualcosa che potrebbe farmi stare bene ma bene veramente non mi ci sento mai, non ci riesco e accorgermene mi fa sentire ancora più sconfitta. È solo un tormento, un dolore che invalida tutto quanto. Per quanto cerchi di controllare un pensiero, di sforzarmi a fare le cose giuste, io mi sento sempre morta dentro. E nessuno, nessuno può capire quanto sia doloroso, quanto sia insopportabile e invalidante veramente.
Io sto vivendo solo per loro due.. ma io non ce la faccio più veramente. Non ce la faccio più e non so come fare
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Canto notturno di un Pastore Errante per l'Asia - Giacomo Leopardi
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L’ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s’affretta, Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, Ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale È la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell’umano stato: Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, Perché reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, Perché da noi si dura? Intatta luna, tale È lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi Il perch�� delle cose, e vedi il frutto Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l’ardore, e che procacci Il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand��io ti miro Star così muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell’innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa, Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell’esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno Quasi libera vai; Ch’ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell’agio, ozioso, S’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il dì natale.
-- Forse la poesia più rappresentativa della visione poetica Leopardiana e della sua filosofia di vita, elegge il pastore nomade come suo portavoce, in un colloquio tra la luna e il suo gregge.
Poesia di profonda ispirazione romantica, strutturata in sei strofe che affrontano una tematica autonoma divenendo sei quadri, immagini dell'umana sofferenza nella vita, a cui il poeta non sa dare risposta. Ma le domande che l'uomo - Leopardi si pone, sono le inquietudini esistenziali che nutrono la profondità umana regalandoci una delle più belle poesie della letteratura Italiana.
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L’ultima Cena
Ancora un passo
verso l’ignoto.
Che spinge la crosta terrestre
a dividersi in moto
sotto le onde irrompenti
del mare del tempo.
Irreale silenzio
che precede l’azione,
lo scroscio improvviso del mio stesso pensiero,
che lacera dentro e mi lascia da solo
all’ombra di un vizio che il raziocino elude.
Strisciando, pimpante
nell’acido sangue
di un sacrificio di un essere inerme.
Follia o confusione
Non trovo la quadra
da qual direzione questa luce s’irradia.
Son cieco e contento
e respiro a malapena
Rifiuto il compromesso
e ne taglio la corda
che mai torni in me la voglia
di adattarmi alle sue catene.
Mi scorre nelle vene tutta quella rabbia
che giace infondo al mare.
Tu credi che sia sabbia,
invece è cenere del mio coraggio
scomposta in frammenti alle rive del mondo.
Mi coloro di ogni forza elementale
e tutte le incarno nel bene e nel male.
Anche quando il fuoco mi ustiona le membra,
così poi le lacrime mi rendono degna,
di essere solo una goccia di pioggia
che cade per fede e la terra accarezza,
che penetra dolce senza farsi domande,
ignara del giorno in cui tornerà in superficie,
si immola al suo essere quadro e cornice.
Dalla materia alla forma
dalla padella alla brace.
Non trovo la quadra,
ma vi siedo al centro.
Sono il punto nel mezzo di un passaggio nel tempo.
Dal gelido futuro
al passato bislacco,
dal luogo più oscuro, al più diafano albergo,
dal luogo da cui vengo, a quello in cui mi perdo.
Di tutte le storie che ho mai immaginato,
di quei mondi attraenti
dove non più mi reco,
è rimasto un alone,
viola come il mio nome,
un impasto sfuocato di un tormento voluto.
Un livido al braccio,
un embargo sfacciato,
un passaggio obbligato
verso il lato sbagliato.
E’ questo che prova il vento,
quando viene calmato?
E’ questo che provò il primo uomo
quando venne creato?
Il cosmo nell’occhio
ed il caos nel petto,
il timor divino di sentirsi prescelto.
La noia mortale,
che tale è di fatto,
il prendere atto di un limite imposto.
Il contro-pacco di chi si credette furbo,
lo schiaffo morale che conduce al risveglio.
Sbadiglio.
E l’ossigeno mi informa della composizione atmosferica
che mi circonda.
La luce mi parla
ed il suono mi assilla
ed io sono stanca
come un cuore ed una stella.
Pulsante del niente che tutto alimenta,
schiavo ed amante
di una dea senza nome
La mia mente si ribella
al paradosso del normale,
sono l’alfa privativo
del destino morale.
Sono io, l’alga che intossica il mare
la reazione spontanea di una tribù ancestrale.
Sono la protezione della glia universale,
l’anello di congiunzione
tra l’erudito ed il banale.
La scomodità di non avere un colore,
mentre la strega comanda al mio cuore.
Ora giungo per forza,
e non per volere,
ad una risoluzione
perché è cosi’ che funziona
in questo mondo mortale:
la fine è l’inizio della trasformazione.
Dunque eccomi all’uscio
di una porta di ottone,
intarsiata ad arte da ogni scelta ed azione,
raffigurante la vita che hai scelto di fare,
il piano infinito e la sua rampa di scale.
Ed ogni gradino
è una stella nel cielo,
un cancello che porta ad un prescritto sentiero.
Ad ogni livello, ti ritrovi al cospetto
di un confine cobalto che ti mostra te stesso.
Guardati in tasca:
c’è il tuo passaporto!
Una collezione di tutti i viaggi che hai fatto,
i visti e i giudizi,
i vizi e gli indizi,
i test superati ed i sogni nascosti.
Alienato da un mondo che tu stesso hai creato,
ti portano il conto e nemmeno hai mangiato.
Eri sazio e ubriaco e
e sei stato tradito.
Ma all’ ultima cena, chi è che ha pagato?
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Non sto dicendo che penso sia un uomo buono. Non so cosa fa con le altre ragazze – non lo so davvero. Ma con me e con Olivia no, non posso pensarlo. Ci credo, che ci tiene a noi. È solo più sincero di tanti altri. Più disinibito. Non ha paura delle cose come me e te.
Fatima afferrò il piano di lavoro alle sue spalle, la pelle sulle nocche tesa. So che vuoi essere come lui, disse, e so come ti sembra questa situazione. D’aspetto sei come loro, parli come loro, pensi di poter essere come loro. Vivere fregandotene delle regole. Ma non puoi. E sai perché? A te non piace ferire la gente. Non puoi essere come lui. Non puoi avere quello che ha lui!
Pensi che non mi ponga tutte queste domande? Lo sai che mi ci sono autoflagellata per mesi? Mi odio per aver scopato con lui anche solo una volta, figurati quanto mi odio visto che mi piace così tanto. Le so tutte queste cose! Perché continui a darmi il tormento?
Perché ti voglio bene, disse Fatima con tono più dolce. E voglio che tu sia al sicuro, non saperti manipolata tutto il tempo. Voglio che le persone ti rispettino! Voglio che tu riesca a fidarti di loro! Non sono io che ti sto dando il tormento. Ti voglio bene, Eve, tutto qua. E questo si chiama amore.
Mi si spezzò il cuore. Era Fatima che stavo tradendo scegliendo di aiutare Nathan, Fatima, seria e determinata, Fatima che non offriva riparo a nessuna delle mie debolezze, semplicemente perché sperava di tirare fuori dalle donne qualcosa di più di quella cieca lealtà. Era la sua definizione dell’amore a essere la più completa; il suo amore era la ferma decisione di proteggermi e di rendere il mondo sacro, inviolabile. Mi vergognai di chiamare amore ciò che provavo per Nathan – quell’esiguo, inebriante piacere misto a gratitudine che poteva trasformarsi in indignazione nel giro di un minuto.
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Paolo Fresu & Uri Caine - Si dolce è il tormento Official Live Video
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[ Søren Kierkegaard e Regine Olsen - “Lettera del 1849” a Regine, da Kierkegaard spedita, ma alla quale non ricevette mai risposta. Il 19 novembre 1849, Schlegel. marito di Regine, ricevette questa lettera di Kierkegaard che chiedeva il permesso di parlare con sua moglie, ma decise di non rispondere.]
Allo stimatissimo signor X:
la lettera acclusa è mia per la Vs. compagna di vita.
Decidete Voi se consegnargliela o meno.
Io non cerco, in modo alcuno, di potarVela via: intendo solo narrarle ciò che fummo, perché lei si senta libera di ricordare il bene, e il male, di quello che fu la nostra storia.
Ho l’onore di professarmi Vostro devotissimo
S.A.K.
"Mia Regine,
il cuore, è come una casa subacquea ove vi sono molte stanze: giù nel fondo, poi, vi sono camere piccole, ma accoglienti, dove si può stare tranquillamente seduti, mentre fuori il mare tempestoso; in alcune di esse possiamo udire in lontananza il rumore del mondo (non angosciosamente assordante, ma sempre più fievole e quieto… sai perché? Perché gli abitanti di queste stanze sono coloro che s’amano).
Ma da lungo tempo oramai, cara amica, non abiti più queste segrete magioni: io e te siamo separati, lontani nello spazio infinito del tempo, nella piccola circoscrizione dello spazio: non è poi così immensa Copenaghen!
Ti scrivo ora, perché finalmente voglio che ti sia chiaro perché la nostra storia è finita.
Da quando ti conobbi, ho sempre cercato di vivere artisticamente: volli farmi simile a te, cercando di ritrovare una sensibilità prontissima a cogliere ogni cosa fosse interessante nella tua vita: avevi il dono, cara amica, di saper presentare come arte (non la chiamerò poesia, perché tu con le parole non eri brava come con i suoni e con le immagini: eri erotica in ogni tuo gesto, come solo una ragazza della tua età può essere) qualsiasi cosa tu vivessi: era questo che mi aveva fatto innamorare di te, era questo che mi allontanava terribilmente da te.
La tua arte, amica mia era il ‘di più’ che solo tu potevi donarmi, perché tutta la tua esistenza (bisogna dirlo!) era impostata sul godimento artistico: e un po’ di quel piacere eri riuscita a passarlo a me… il punto è che io non potevo vivere così in eterno, perché io non sono così, e pur di piacere a te, violentavo me stesso. Dolce tortura, ma pur sempre tortura!
Da quando ti ho conosciuta, ho cercato per settimane, ovunque, la tua figura: sapevo che, attorno a te, girava un uomo di grande valore, e io di lui avevo paura perché egli ti era vicino, come uno spettro in una città morta: cosa avesse lui più di me, l’arguzia, l’aspetto… io non l’ho mai capito. Eppure, piccola Regine, ho avuto la fortuna di conquistarti, perché l’amore che io potevo offrirti (e lo sai) era perfetto e totale; il suo, era solo desiderio (anche tu lo desideravi? Immagino di sì, perché è difficile convivere col desiderio!) mentre la mia, era devozione.
Forse tu non eri pronta a cotanto sentimento? La storia parlerà per noi.
Regine… non ti chiamo ‘mia’ perché non lo sei mai stata (e io ho pagato duramente la felicità che l’idea di possederti mi dava un tempo)… e tuttavia, come posso non dire ‘mia’, dato che tu fosti per me ‘mia’ seduttrice, ‘mia’ assassina, origine della ‘mia’ sventura, ‘mia’ tomba… già. Ti chiamo ‘mia’, e parlando di me, mi chiamo ‘tuo’; tuo tormento vorrei essere, ricordarti con la mia oscura presenza, quello che fummo assieme come in un eterno incubo di morte… ma perché perseguitarti, quando – se mai in vita fui felice, fu quando tu m’ingannavi?
Ma davvero poi il tuo corpo poteva così manifestamente mentire? E la tua mente, il luccichio dei tuoi occhi, erano davvero falsi come io ora credo?
Regine mia, non c’è proprio nessuna speranza, davvero nessuna? Il tuo amore non si ridesterà mai più? Io lo so che, nonostante tutto e tutti, tu mi hai amato, benché non sappia dire donde mi venga questa certezza.
Sono pronto ad aspettare a lungo; aspetterò, aspetterò fino a che non sarai sazia degli altri uomini, e quando il tuo amore per me risorgerà dalla tomba: allora, e solo allora, riuscirò ad amarti come sempre, e ti renderò grazie come un tempo, Regine, quando, poggiato al tuo seno, ascoltavo il dolce e regolare moto del tuo respiro, e ti ringraziavo per esser con me.
Non potrai essere così crudele e spietata verso di me in eterno, mia Regine: giungerà il giorno del tuo perdono o del tuo ravvedimento… non ricordo neppure chi dei due distrusse la nostra storia.
No Regine, chi abbia lasciato chi ora non conta.
Sei stata crudele con me, al pari di come io lo fui con te, è vero.
In realtà, tu non lo sai, io ho taciuto il mio dolore e le poche cattiverie dette su di te non hanno che la consistenza dell’aria: solo Dio sa cosa ho sofferto (e voglia il Signore che nemmeno ora io te le racconti)! Mia Regine io ti devo molto… e ora che non sei più mia, ti offro una seconda volta ciò che posso e oso e conviene che ti offra: me stesso.
Sì, ti dono questo cuore che già in passato fu tuo, e lo faccio per iscritto, per non stupirti e non sconvolgerti. Forse la mia personalità ha fatto su di te un’impressione troppo forte, in passato: ciò non deve accadere una seconda volta, e se tu dovessi accettare la mia mano tesa, dovrebbe essere per vero amore, non per impressione.
Mia Regine, prima di dirmi di no!, ti prego, rifletti seriamente (per amore di Dio nei cieli) se puoi, o meno, parlarne con me con serenità, e in tal caso se preferisci farlo per lettera o direttamente a voce. Se invece tu, dopo accurata riflessione, decidessi comunque di non darmi più alcuna risposta, se la tua risposta al mio amore fosse ‘no’, ricorda almeno – per amor del cielo – che per te, e solo per te, ho fatto, e rifarei mill’altre volte, questo passo. In ogni caso resto,quale sono stato dall’inizio fino a questo momento, sinceramente il tuo devotissimo
S.A.K."
(Alla sua morte Søren Kierkegaard lasciò tutto a Regine Olsen. Ultimo gesto d'amore di un amore che non seppe vivere.)
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