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#scuola di via cavour
carmenvicinanza · 2 months
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Antonietta Raphaël
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Antonietta Raphaël, pittrice e scultrice, è stata un’importantissima rappresentante della Scuola Romana.
Ha avuto una vita intensa, operosa e devota all’arte, mostrando la verità senza illusioni e con grande determinazione.
Ha trasformato la pratica artistica in uno strumento di indagine sul suo mondo interiore, evocando dimensioni oniriche e immaginifiche in cui la figura femminile l’ha fatta da protagonista.
Soprattutto con l’autoritratto, che ha segnato tutta la sua produzione, ha messo al centro il tema dell’identità esplorata attraverso il racconto di sé e del suo mondo.
Nata a Kovno, un piccolo villaggio nei pressi di Vilnius, in Lituania, il 29 luglio probabilmente del 1895, era l’ultima figlia del rabbino Simon e di Katia Horowitz. Nel 1905, dopo la morte del padre, andò a vivere con la madre a Londra, dove si era diplomata in pianoforte alla Royal Academy e si manteneva dando lezioni di solfeggio. Nella seconda metà degli anni Dieci del Novecento, nacque il suo interesse per il disegno.
Alla morte dalla madre, nel 1919, si era trasferita a Parigi e successivamente, a Roma dove, nel 1925, frequentando l’Accademia di Belle Arti, aveva conosciuto Mario Mafai, con cui nacque un fruttuoso sodalizio artistico e una lunga e travagliata storia d’amore che ha portato alla nascita delle figlie Miriam, Simona e Giulia.
Nel 1928 ha realizzato alcuni dei suoi dipinti più noti, come Autoritratto con violino, Mafai che disegna e Simona in fasce, che raffiguravano scene familiari.
L’anno seguente, ha esposto per la prima volta il suo lavoro alla I Mostra del sindacato fascista degli artisti, nel palazzo delle Esposizioni di Roma. È stato in quell’ambito che il gruppo espressionista di cui faceva parte insieme a Mafai, composto da Scipione, Cipriano Efisio Oppo, Amerigo Bartoli, Alberto Ziveri, Arturo Martini, Wanda e Alfredo Biagini, venne battezzato con il nome di Scuola di via Cavour prendendo spunto dall’indirizzo della loro abitazione.
Ancora nel 1929, le sue opere esposte alla Mostra collettiva presso la Casa d’arte Bragaglia e alla Camerata degli artisti nella mostra Otto pittrici e scultrici romane le portarono importanti segnalazioni da parte della critica.
Dal 1930 ha vissuto a Parigi e poi a Londra, tornando definitivamente a Roma alla fine del 1933. Si era, nel frattempo, appassionata alla scultura, il mezzo di cui è diventata un’imponente protagonista nella storia dell’arte.
Il 20 luglio 1935, dopo separazioni e ritrovamenti, ha sposato Mario Mafai che è rimasto l’amore della sua vita, fino alla fine.
Ha esposto alle Mostre del Sindacato dal 1936 al 1938 fino a quando le leggi razziali fasciste costrinsero la famiglia a cercare rifugio prima a Forte dei Marmi e poi a Genova, dove rimase fino alla fine della guerra, conducendo una vita appartata, sostenuta dalla solidarietà e dall’amicizia di importanti collezionisti, come Emilio Jesi e Alberto Della Ragione. Il marito era stato, intanto, arruolato nel 1942.
Nei difficili anni della guerra ha realizzato le sue sculture più mature, tra cui Madre di Alberto Della Ragione (1941), Mafai con il gatto (1942), Busto di Simona (1943) e Mafai con i pennelli (1943).
Dopo tante ristrettezze economiche arrivarono le prime mostre importanti alla Galleria Barbaroux nel 1947 e poi la Quadriennale di Roma nel 1948 e nel 1959 e alla Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950, nel 1952 e nel 1954.
Nel 1956 è stata premiata al Premio Spoleto.
Nel 1960 è stata pubblicata la prima monografia e il Centro Culturale Olivetti le ha dedicato la prima grande retrospettiva sul suo lavoro, con 39 dipinti e 13 sculture, poi trasferita a Torino e a Roma.
Gli anni Sessanta sono stati segnati da tanto lavoro (ancora sculture e grandi dipinti dedicati a temi biblici come Il cantico dei cantici e Le lamentazioni di Giobbe), ma anche dal dolore per la malattia e poi la morte del marito, nel 1965. Sul filo della memoria ha dipinto, l’anno seguente la tela Omaggio a Mafai.
Nel 1967 un ampio nucleo delle sue opere realizzate tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta venne presentato nella mostra Arte moderna in Italia 1915-1935 a palazzo Strozzi a Firenze.
Alla fine del decennio, grazie al successo crescente delle sue mostre, è riuscita a portare a compimento la fusione in bronzo di tutta la sua produzione plastica.
Nel 1970 venne selezionata dalla Quadriennale di Roma per la mostra Scultori italiani contemporanei. 
Si è dedicata con passione anche alla litografia mentre continuava ad affrontare, con l’energia straordinaria che ha caratterizzato tutta la sua vita, le ultime due grandi tele, forse le più gioiose di tutte la sua produzione: Omaggio a Picasso e Grande Concerto sul Lago di Vico.
È morta a Roma il 5 settembre 1975 lasciando una traccia indelebile nella storia artistica del nostro paese.
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siciliatv · 4 months
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Successo per il Corteo Storico Medievale dell'Istituto Comprensivo "V. Brancati" di Favara
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Ieri mattina, 14 maggio, l'Istituto Comprensivo "V. Brancati" di Favara ha organizzato con successo il corteo storico medievale, coinvolgendo i ragazzi della scuola secondaria di primo grado. L'evento ha avuto inizio alle ore 10:00 dall'Istituto di Via Grotte e ha visto la partecipazione entusiasta di numerosi studenti. Il corteo, guidato dalla Dirigente Scolastica dott.ssa Carmelina Broccia, l'assessore comunale Emanuele Schembri e dalla dott.ssa Rossana Florio, Direttrice dell'archivio storico di Agrigento si è snodato per le vie principali della città, passando da via IV Novembre e Via Roma, fino a giungere in piazza Cavour e quindi al Castello Medievale dei Chiaramonte. Qui, gli alunni hanno intrattenuto i partecipanti con letture di antichi documenti forniti dall'Archivio di Stato di Agrigento, diretto dalla dott.ssa Rossana Florio, con cui la scuola ha instaurato un proficuo rapporto di scambio culturale. Tra gli interventi di risalto all'interno della Sala del Collare, anche quello del vicensindaco della città Antonio Liotta e dell'arch. Giacomo Sorce, Dirigente che ha annunciato la firma di un protocollo d'intesa con la scuola della Dirigente Broccia. L'evento di ieri ha rappresentato la conclusione del percorso didattico ed educativo "La Ricerca del bello tra Arte e Storia", sviluppato durante il secondo quadrimestre dell'anno scolastico. La dott.ssa Broccia ha sottolineato l'importanza di ripartire dal bello come valore sociale, politico e culturale, offrendo agli alunni un'esperienza formativa di alto valore. Durante il progetto, i ragazzi hanno studiato il patrimonio artistico locale, sviluppando il senso del "Bello" e dell'"Arte" come espressione dell'interiorità umana. Hanno riscoperto i monumenti e i beni culturali di Favara, imparando a valorizzarli e conservarli. Particolare attenzione è stata dedicata appunto al Castello Chiaramonte, importante costruzione medievale. Gli studenti, preparati dai loro insegnanti, hanno sfilato in costumi d'epoca, mostrando con orgoglio il frutto del loro lavoro e condividendo con i cittadini presenti le ricchezze artistiche di Favara. L'evento è stato accolto con grande entusiasmo e partecipazione, segnando un importante momento di crescita culturale per la comunità. Read the full article
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jacopocioni · 1 year
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Porte e postierle di Firenze (prima parte)
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Firenze le mura, le torri e Porta alla Croce, a sinistra. Se percorriamo i viali che cingono il centro storico della città di Firenze troviamo il tragitto punteggiato da antiche vestigia che ne occupano le grandi piazze, come il Progetto Poggi, realizzato alla fine dell’Ottocento, aveva previsto: sono le antiche Porte della città. Tutto il percorso corre tra presente e passato quando al posto delle strade che stiamo percorrendo esisteva il giro della cerchia trecentesca della quale rimangono, a simulacro, quasi sperdute sentinelle, le imponenti costruzioni solo di alcune delle Porte di accesso alla città. “La terza cerchia aveva un perimetro di otto chilometri e mezzo, le mura erano larghe due metri e alte undici metri e due terzi, fino alla sommità della rettangolare merlatura guelfa. La sormontavano grandiose porte e settantatré torri di difesa” scriveva il Davidsohn nel suo saggio “Firenze al tempo di Dante” Seguiamole prendendo le mosse di qua d’Arno, dal Ponte alla Vittoria.
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Firenze, Porta al Prato in un dipinto di Fabio Borbottoni *(XIX secolo)
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Firenze, Porta a Faenza, in un antico codice Incontriamo per prima la Porta detta al Prato che prendeva il nome da un esteso manto erboso oltre borgo Ognissanti dove la gioventù di allora si esercitava a giocare alla “palla al calcio” come Benedetto Varchi raccontava nella sua “Storia fiorentina”; imponente anche se isolata, confonde oggi la sua mole nel traffico cittadino. Proseguendo il giro giungiamo alla Fortezza da Basso, il vecchio Forte San Giovanni Battista, voluto nel XVI secolo da Alessandro de’ Medici, una fortezza cinquecentesca possente che a sua volta aveva inglobato nel Mastio una grande porta di accesso delle mura preesistenti dette arnolfiane (costruite tra il 1284 ed il 1333) dal nome dell’architetto che le disegnò, Porta a Faenza, costituita da un’antiporta e collegate con un ponte a tre arcate che scavalcava il Mugnone. Il suo nome pare derivi da un monastero di suore fondato nel 1282 da Santa Umiltà di Faenza, detto anche il Monastero “delle donne di Faenza”. Continuiamo costeggiando parte dei giardini che oggi circondano la Fortezza così come voluto dall’architetto Poggi che sostituirono i fossati e fecero da raccordo con i nuovi viali, e proseguiamo verso Porta San Gallo, al centro di un’ampia piazza, oggi chiamata della Libertà, già Cavour, nome che nel tempo ha mutato proprio perché la toponomastica dal XIX secolo mutava in base agli avvenimenti storici che gli umani ritenevano via via rilevanti mentre anticamente era il territorio e le sue caratteristiche o i mestieri che vi si svolgevano a stabilire la denominazione del luogo. La Porta deve il suo nome alla presenza di una chiesa e di un convento che erano nei pressi, fuori dalla Porta stessa, una porta maestra per il grande traffico di persone e veicoli che l’attraversavano mentre due leoni, scolpiti sulle mensole che la ornano, vegliavano e proteggevano la città.
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Firenze, Fortezza da Basso, in un dipinto di Fabio Borbottoni Prima di giungere alla terza porta incontriamo, al centro del grande viale che lo contorna, il cosiddetto Cimitero degli inglesi, in origine nei pressi e fuori da Porta a Pinti o Fiesolana, un accesso alla città demolito nel 1865 proprio per far spazio ai grandi viali, secondo il progetto Poggi che si richiamava ai boulevard parigini, voluti da un altro architetto innovatore che aveva fatto scuola nel XIX secolo: il barone Hausmann. Percorso il lungo viale entriamo in una nuova piazza occupata da giardini e al cui centro resta la vecchia Porta detta alla Croce. Anche nel passato i nomi erano mutevoli e questa Porta, in base a ciò che raccontano i cronachisti del tempo, si è appellata in modo diverso: Porta S. Candida, dall’ospedale che le sorgeva davanti o alla Croce al Gorgo perché arrivava fin lì un braccio secondario dell’Arno. Siamo giunti in prossimità del fiume e ci troviamo davanti alla Torre della Zecca Vecchia, il cui nome ricorda il luogo dove venivano coniate le monete fiorentine servendosi dei magli azionati dall’acqua del fiume, un rimasuglio delle tante torri che la Signoria di Firenze aveva deciso di erigere nel 1324 quando “ordinò di fortificare le mura di qua d’Arno con barbacani da farsi al di fuori dei fossi e che ogni 200 braccia di muro si facesse una torre” (Repetti in “Dizionario corografico della Toscana” 1855) alla quale fa da dirimpettaia la bella torre di San Niccolò l’unica che, a differenza delle altre e delle stesse porte, non fu “scapitozzata”. Erano infatti cambiati i metodi di assalto e di assedio, le bombarde avevano preso il posto delle catapulte e pertanto le strutture difensive furono tutte abbassate, solo porta san Niccolò con la sua alta torre non fu abbattuta proprio perché protetta dalla collina retrostante.
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Schema della struttura della porta-torre e dell’antiporta Le porte erano infatti costituite da torri fortificate a base quadrangolare, da un accesso preceduto da un’antiporta fortificata anch’essa, per difendere ulteriormente l’ingresso, costituita da uno spazio chiuso da muri che prevalentemente poggiava su due archi che fungevano da ponte sui fossati. Siamo così passati di là d’Arno dove una cortina dell’antica cinta si eleva tra olivi e giardini costeggiando il leggiadro parco di Villa Bardini con una muraglia che sale alta e stretta fino al Forte di Belvedere: in basso vi si apre Porta San Miniato che per una stradetta che si snoda sotto le mura conduce a Porta San Giorgio, della seconda cerchia, che prende il nome dalla bella chiesa dedicata al martire cristiano. Porta San Giorgio è la più antica delle ancora esistenti, datata intorno al 1258, ed è la più alta sulla città la cui torre subì anch’essa la scapitozzatura.
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Firenze, Porta Romana in un dipinto di Borbottoni L’antica cerchia quindi scendeva verso la grande Porta Romana che racchiudeva il Borgo di Santo Spirito in Oltrarno ed era anche detta di San Pier Gattolino dal nome di una chiesa in via Romana. Prese il nome attuale solo nell’Ottocento perché da lì iniziava la strada che conduceva a Roma, oggi via Senese. Proseguiamo quindi sul grande viale costeggiando resti di mura e giungiamo a Porta San Frediano: fu aperta nel 1332 su progetto di Andrea Pisano che aveva modificato quello originale di Arnolfo di Cambio. Si chiamò anche Porta Pisana ma fu più conosciuta come Porta Verzaia a ricordare nel toponimo il verdeggiare di orti e giardini.
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Firenze, Porta San Frediano, pala di Filippino Lippi Abbiamo così concluso il giro “in visita” a ciò che rimane della antiche mura con le loro strutture difensive, ma vogliamo affidare alla storia e alle parole dei cronachisti e degli storici la possibilità di immaginare e ricostruire dai loro racconti la città perduta e provare a figurarci e la Firenze delle origini, quella romana, e quella della cerchia antica cantata da Dante e quella della cerchia trecentesca o arnolfiana della quale abbiamo percorso il perimetro. Porte e postierle di Firenze (seconda parte)
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Salvina Pizzuoli
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tuttatoscana.net https://tuttatoscana.net/storia-e-microstoria-2/firenze-porte-e-postierle-prima-parte/ Read the full article
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Racconto questa storia in particolare per Giulio, augurandogli molta fortuna e un sacco di problemi. 
Credo che il fatto essere otto miliardi e essendo buona parte del genere umano in grado di leggere e scrivere, questo illude la maggior parte di quella popolazione scrivente di saper creare qualcosa di artisticamente valido. 
A mio avviso per essere scrittori non è solo necessario raccontare le emozioni e i sentimenti più intimi degli altri, dell’intera umanità. Questa è una operazione che richiede una quantità di enpatia e pratica nella comunicazione, che se ci guardiamo attorno, capiamo benissimo che non può essere che sono tutti artisti. O sono tutti artisti stronzi. 
Mi ero lasciato con la ragazza, e stavo impazzendo. Letteralmente i giorni scivolavano via in emozioni che poi avrei saputo come gestire. I miei occhi vedevano e pensavano cose che non erano reali ma sul momento mi sembrano fossero totalmente reali. 
Per riprendere il controllo del mio cervello decisi di iniziare a scrivere qualcosa. Studiavo scienze politiche e la storia di Camillo Benso Conte di Cavour mi sembrava un’idea figa, tanto mi bastava per portarla avanti. 
A un mese ebbi una specie di attacco. Il mio cervello fece blackout. Tutto quello che avevo memorizzato, gli appunti etc. non avevano più senso per me. Riscrissi l’intero spettacolo. 
Che poi non era un vero spettacolo ( data la perdita enorme) ma un Canovaccio. Mi ispiravo molto a Marco Paolini, il mio eroe nel campo teatrale, punto di riferimento su come narrare una storia. 
Edit per i posteri: non sono stato nemmeno l’equivalente dell’unghia incarnita di Paolini sul palco. 
Per promuoverci creammo una campagna di crowdfunding the ricevette finanziamenti solo da una mia amica a Roma: 5 euro. 
Oltre a me c’era un gruppo di ragazzi che suonavano per conto loro a Recanati,l e gli dissi: voi fate i vostri pezzi, io parlo, vediamo quello che viene fuori. La sera stessa suonavano 5 band e a noi sarebbe servito il Signore dei fonici per equalizzare una voce al microfono e 5 strumenti separati. Non ci riuscimmo, il pubblico sentì mezzo spettacolo coperto dalla musica. 
Provammo quasi due settimane d’estate in una casetta di campagna. Era bello lì, con le file di viti, stavamo mezzi nudi al caldo chiusi in una stanzetta ad urlare e a suonare. 
Il giorno delle prove dovetti andare nella scuola di musica più vicino e riuscii a farmi prestare un rullante con la mia magica abilità di fare molta pena alla gente. 
La sera del concerto fummo rimandati. Due mesi dopo ebbi la seconda operazione, Come si vede dalla foto, avevo due gobbe. 
Morale per Giulio: se scrivere ti serve per scopare, fatti la maglietta da scrittore. E scopa. Ma fare lo scrittore o l’artista in generale significa fare questo ogni giorno della tua vita, e te deve piacere. Ecco io ti auguro che ti piaccia. 
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italianartsociety · 8 years
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By Jean Marie Carey
Mario Mafai, who with his wife Antonietta Raphaël was one of the central figures of a group of artists called the Scuola di Via Cavour, was born 12 February 1902 in Rome, where he lived and worked for much of his life until his death there in 1965.
From 1922 until 1925 he attended the Accademia di Belle Arti in Rome. There he met the sculptor Raphaël, who introduced him to the work of the Ecole de Paris. By 1927 the painter Scipione and the sculptor Marino Mazzacurati gathered regularly in Mafai’s studio. During this period Mafai painted views of the River Tiber, self-portraits, and still-lifes.
Mafai stressed the tonal qualities in his paintings. This concentration on the subtle gradation of values endowed the commonplace objects of his still-lifes with a heightened, magical reality. After 1935 he developed veiled anti-Fascist themes in the Demolition series, exhibited at the Galleria della Cometa in Rome in 1937. In 1939 Mafai and Raphaël fled to Genoa, though later that year he was drafted. Mafai returned to Rome in 1943 and continued working on his principal themes, also producing some abstract works during the 1950s.
The Centro Studio Mafai Raphaël holds archives of the artists’ live and works. Mafai’s paintings are also in the permanent collection of the Galleria d’Arte Moderna of Roma Capitale. 
Reference: Emily Braun. "Mafai, Mario." Grove Art Online. Oxford Art Online. Oxford University Press. (http://www.oxfordartonline.com/subscriber/article/grove/art/T053082)
Demolition of the Augusteo, 1936.
The Roman Forum, 1930.
Sunset on the Lungotevere, 1929.
Basilica of San Lorenzo, 1949.
Further Reading: Mario Mafai and Antonietta Raphaël. Mafai Raphaël. Rome: Trimarchi Arte Moderna, 1990.
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di-biancoenero · 5 years
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La scuola di recitazione di Paolo Azzurri in Via Cavour 12 a Firenze
Un nuovo tentativo di avviare una produzione cinematografica anche in Toscana, fu fatto nel 1908 con l’avvio di una societa’ collettiva a nome Ireos, con teatro di posa coperto situato sulla terrazza - tetto di uno stabile al n.13 di via Spontini . Disponeva anche di una sala cinematografica, di un camerino per gli artisti e di un laboratorio con sistema Pathe’ . Nel corso del 1909 la Ireos realizzo’ una quindicina di pellicole, alcune ‘dal vero’ e alcune a soggetto, comico o drammatico, ma di queste pellicole non ce n’e’ traccia nelle fonti dell’epoca, percio’ si suppone che non ebbero circolazione causa scarsa qualita’ e la societa’ chiuse i battenti nel 1910. Furono fatti alcuni tentativi di riaprire lo stabilimento, ma nonostante gli investimenti in personale qualificato, le pelicole girate si contano sulle dita di una mano e non ebbero circolazione. A differenza di altre citta’ in Toscana mancavano le riviste specializzate, i capitali , gli imprenditori e, forse, come dimostrano i fallimentari e comunque sempre limitati tentativi degli anni a seguire, un vero e proprio entusiasmo per il nuovo mezzo di comunicazione, come c’era ad esempio a Torino.
Nel 1919 nasce in via Vecchietti 7 a Firenze la Casa Editrice Cinematografica G. Montalbano, fondata da un conte fiorentino . Sono in tutto 5 le pellicole che produce, due feuilleton e due bozzetti educativi per l’infanzia, tutti recensiti sulla stampa locale dell’epoca. Il quinto film, Il Grido dell’Aquila puo’ essere considerato il primo film di propaganda fascista. Girato a Settignano, la storia inizia dalla disfatta di Caporetto e racconta le vicende del giovane Beppino, che si oppone agli scioperanti in fabbrica e partecipera’ alla marcia su Roma. Il film fu programmato per uscire nelle sale il 28 ottobre del 1923 in occasione del primo anniversario della marcia, ma accolto poco entusiasticamente dalla critica, spari’ dalla circolazione.
Fonte :
La Toscana e il Cinema, a cura di Luca Giannelli, edizione fuori commercio della Banca Toscana, 1994
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iltrombadore · 4 years
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Katy Castellucci, la realtà e il sogno della pittura
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Conobbi nei primi anni Ottanta la persona di Katy Castellucci (1905-1985) per poco tempo, quasi di sfuggita: quella fu l’unica occasione, e non saprei dire se la vidi lungo la Via dell’Oca, dove lei abitava accanto a suo nipote Sandro Pagliero, mio caro amico, oppure durante una di quelle provvide esposizioni che all’epoca misero in evidenza le migliori qualità artistiche della Scuola Romana tra le due guerre mondiali, grazie all’opera di galleriste fuori del comune quali sono state Netta Vespignani e Lucia Stefanelli Torossi. Fu un breve incontro, certo, il mio: che tuttavia ricordo sempre vivido ed eloquente perché l’immagine di Katy Castellucci mi si stampò negli occhi come fosse il tipo di una presenza antica e, chi sa perché, a me del tutto familiare. Lei era una donna in età avanzata, e portava i capelli incanutiti affioranti appena dal copricapo che li raccoglieva, in modo impertinente e un poco, quasi, sbarazzino. Era una figura in ogni caso distinta e ben composta, la sua, figura discreta d’altri tempi, di una vanità giovanile raccolta e spiritosa, dal punto di sorriso piegato sui labbri appena mossi, fino alla fresca agilità di un corpicino minuto, esile, ma asciutto, sicuro e ben piantato.  
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Poi, la chiave esplicativa di quel fascino che da lei emanava mi fu, a poco a poco, abbastanza chiara. Katy, nella persona vivente, era come lo stampo animato di uno di quei suoi personaggi femminili, di quelle signore e signorine che aveva saputo così bene ritrarre, dipingere e incastonare in effigie dalle pose diverse di quasi mezzo secolo prima: nude, vestite, azzimate o semi-discinte, con lo sguardo breve, il dialogo dell’ occhio spalancato e interrogante, la spalla enunciata in aggetto di movimento vibrante e sospeso. Presa dal vero, la pittura diventava sogno, e la vita a sua volta diventava sogno della pittura. Sopravviveva, nella presenza e nei modi di Katy Castellucci, lo spirito germinale di quella bohème romana che aveva animato gli studi di Via Margutta e tutto intorno le vie del Tridente, dall’Accademia di Belle Arti, alla salita di Ripetta, a piazza del Popolo, nel pieno degli anni Trenta fin lungo tutto il buio tunnel della guerra e le genuine e  fin troppo ingenue speranze di rinascita che ne seguirono. Una parziale suggestione, era forse la mia, assuefatta e attirata dall’occhio di Mafai e Ziveri penetrante nel mondo cantabile delle comari romane, stenditrici di panni al sole, o in quello abietto e disperato dei bordelli popolari, con le donne sulle scale di Pirandello, quelle popolane alla finestra di Guttuso, oppure le fanciulle velate dal mesto colorismo crepuscolare di Cavalli, e da tutto quel tesoro di immagini femminili ricavato dalla più intensa delle cronache familiari: era come la stenografia o la memoria di un racconto ininterrotto di esperienze vissute e trasposte sulla tela, coi volti e le trepidanti movenze delle adolescenti dipinte da Antonietta Raphael, l’elegante tratto luminoso delle vesti ricamate da Adriana Pincherle, certi corpi accucciati e torniti dal veloce pennello di Toti Scialoja, nei primi anni Quaranta, con una giovanissima Titina Maselli a fare da modella e figura emblematica di  espressività contenuta nelle volute fisiognomiche dei contorni e nell’implorante apertura dello sguardo. 
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Pure tra diverse maniere di vedere, ad inseguire varianti e regole di stile, lo spirito veramente originale della “Scuola Romana” di quel tempo si riconosceva nell’approccio narrativo e autobiografico, nel viatico  non retorico di una pittura moralmente intesa come pietra di paragone della vita: una naturalezza espressiva della generazione artistica che si allontanava dai moduli e precetti estetici del “Novecento”e dalle risultanze spettacolari del dinamismo futurista, per ripiegare invece sul crinale di un racconto figurativo più intimo e molto umano, legato ai valori emotivi della composizione d’immagine. Era il segno di una attenzione meticolosa per la formulazione del dipinto come testimone e contrassegno di un autentico “essere nel mondo”, un vademecum spirituale che andava ben oltre la tecnica e i rituali del professionismo e di ogni qualsivoglia retorica celebrativa e ufficiale. Di questo approccio alla pittura “come vita” -la cui lezione principale veniva da Scipione, e seguiva sul piano letterario il movente poetico delle “occasioni” montaliane- l’animo gentile di Katy fu tutto preso e determinato: la sua radice espressiva si circondò così dei sentimenti immediati e vivamente fissati sulla tela travalicando le più veloci traduzioni impressioniste per tornire a fondo l’impasto sintetico degli effetti cromatici  che miravano a modellare una forma sospesa, incantata, e pure fedele al vero, senza accorgimenti artificiosi, senza soverchie magìe, tutta aderente al motivo esistenziale e psicologico del soggetto figurato. 
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Della pittura di Katy avevo avuto notizia, all’epoca in cui la conobbi, solo per sommi capi: me ne ero fatta l’idea sommaria di una valida e meticolosa seguace della “scuola di Via Cavour”, per quell’impaginato semplificante tutto su di un piano e la stesura calibrata dei colori giunti a tono per condensare l’immagine in superficie, secondo che avevo visto in alcune sintomatiche tele di Mafai alla metà degli anni Trenta. Il tonalismo e la passione per il timbro del colore mi pareva allora lo scopo dominante la pittura di Katy. Ed era solo in parte vero, poiché era un giudizio approssimativo. Solo quando di lei si fece una prima retrospettiva, qualche anno dopo la sua scomparsa - promossa da Lucia Torossi, con gli scritti di Claudia Terenzi, Fabio Benzi, Romeo Lucchese e Federica Pirani- fu possibile, almeno a me, di avere una sensazione più esauriente di quella volontà d’arte condensata sulla tela, secondo un percorso che è assieme stilistico ed esistenziale.  Molta cultura visiva passa per le pitture di Katy; molta esperienza umana, molto vissuto. Siamo nel pieno degli anni Trenta. Roma trema al cospetto delle demolizioni, e si risveglia al clamore futuristeggiante di un gusto razional-classicista che rimodella l’Augusteo, la spina di Borgo, l’area dei Fori, i campi aperti all’atletismo, dallo Stadio dei Marmi alle palestre del Foro Mussolini. Sotto la traccia delle immagini ufficiali, costeggia in silente conflitto il profilo inquieto di una nuova generazione che tenta di riconoscersi chiusa in sé stessa,  sul filo di una vitalità pittorica che trasfigura il dato esistenziale in un ermetico lirismo della realtà.  
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La pittura non è documentazione. Altro è la pittura, altro la fotografia. Il vero diventa fantasma dipinto, prensile immagine, sintesi di forma e colore. Ecco Scipione, ecco Raphael e Mafai, ecco Marino Mazzacurati e Ziveri, ecco Cavalli, Cagli e Capogrossi, Afro, Mirco e Janni, mentre si fanno strada Fazzini, Montanarini, Savelli e De Felice, Omiccioli, Scialoja e tutti gli altri, assai sensibili alla versione formale di una pittura da cui possa traboccare un contenuto emotivo, fin troppo umano, anche quando presentato in forma di mitologema “primordiale”. Abbinando il vezzo femminile alla forza di carattere, con il beneficio di una grazia spontanea, il vocabolario estetico di Katy trasfigurava così l’esperienza del quotidiano nello smalto di un armonico cammeo, il cui effetto visivo travalica il tempo storico conservandone i lineamenti. Alle eleganze tonali raggiunte nel 1935-1936 (al tempo in cui espose alla Cometa di De Libero le sue opere insieme a quelle di Adriana Pincherle) si affiancano le vibranti e scabre pulsioni sentimentali di certi nudi raggomitolati, e i successivi autoritratti, l’accento realistico ed espressivo nel dialogo intimo intrecciato con il volto di sua sorella Guenda, compagna di vita e prove morali, mettendo a frutto un bagaglio stilistico (Ziveri, soprattutto) per conferire al dato narrativo l’incanto della pittura. Katy viveva così il sogno della pittura tanto quanto viveva la sua vita di donna moderna immersa nei fragori del secolo. E d’altra parte che non fosse solo un mondo inventato, ma piuttosto un diffuso tessuto di umanità e di vita culturale, ce lo ricorda Romeo Lucchese, quando descrive per esempio la comunità di “piccola Atene, lontana dal regime”situata ai bordi del Tevere sul galleggiante a due  passi dalla salita di Ripetta dove si incontravano quasi tutti gli artisti che sarebbero stati  associati alla “Scuola Romana”, assieme ad architetti, galleristi, scrittori e poeti. 
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Forse, il garbuglio di stili e personalità emerse con i cento fiori della “Scuola Romana” trova il suo epicentro espressivo nel comune bisogno di testimoniare, l’accento di vitalità che si racconta incastonata nella pittura e in un disegno febbrile di corpi, volti, brani di scenario e paesaggio urbano immersi nella luce di Roma, quando limpida, quando corrusca, come tela di fondo di drammatiche, inesauste e impredicabili attese esistenziali. Era così tratteggiato il clima culturale di quella sovrabbondante inquietudine “ermetica” d’anteguerra, che si sarebbe risolta per diverse diramazioni espressive e riduzioni stilistiche dopo le prove morali del traumatico crollo del regime fascista, nella attività di resistenza, di cui molti artisti furono interpreti appassionati, e anche Katy ne fu partecipe, col tratto di una fedele e costante attenzione, quando fece la spola per collegamenti informativi tra Roma e Milano, dove il marito Corrado De Vita era impegnato nella clandestinità. Il segno della fedeltà alla pittura intesa come sogno della realtà era la conferma di un’adesione alla vita intesa come sogno della pittura. 
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Quel sintomatico scambio di arte e vita venne messo ancora più alla prova nel tumultuoso secondo dopoguerra che moltiplicò le energie artistiche e l’incanto narrativo autobiografico -temperie distintiva della “Scuola Romana”- si venne ad affievolire cedendo il passo alle prevalenti tendenze del neo-formalismo astratto e del realismo ideologico, con la minuta compagine dei “pittori fuori strada”(Scialoja, Sadun, Stradone, Ciarrocchi) a tentare la via d’uscita di un palpitante esistenzialismo figurativo. Katy Castellucci, dal canto suo, restò legata alla scelta originaria di una pittura pervasa di sognante “figuratività” che sembrò riemergere quasi intatta quando nel 1951 si presentò come quasi vent’anni prima ad esporre con Adriana Pincherle  presso lo Zodiaco di Linda Chittaro. Di quella mostra, l’ occhio arguto di Alfredo Mezio colse soprattutto il “bagaglio romano e marguttiano” rilevandone la “cartavelina tonale, neopicassiana, purista”, accanto alle sentite derivazioni da Mafai e Ziveri. Quella occasione fu, che io sappia, l’ultima impegnativa  comparsa pubblica dell’ opera di Katy, che non mutò di stile, se non per poche varianti, vicine alla parallela attività di insegnante, costumista e scenografa. Era la conferma di un comportamento morale oltre che estetico: poche in vita furono le esposizioni, poche le sortite, ma costante fu l’impegno  custodito, come messaggio di serietà e sincerità, nella bottiglia della pittura. Peccato, ma non è forse un caso, se  Katy non compare nel film-melodramma “Le modelle di Via Margutta” girato da Giuseppe Scotese nel 1945 dove altri suoi amici artisti -Fazzini, Montanarini, Tamburi, Guzzi, Tot, Scordia- si avvicendarono a recitare la parte di sé stessi negli studi del n.51. In quel clima di nascenti speranze nate dopo il trauma della guerra, avremmo visto volentieri la sua elegante figuretta, così emblematica della “Scuola Romana”, in movimento sullo schermo. Eppure oggi anche quell’assenza ci dice molto, ci racconta di lei, della sua discrezione e gentile ritrosia, e suggerisce sul suo temperamento artistico molto più della presenza.
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lamilanomagazine · 6 months
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Torna il 6 e 7 aprile la ciclopasseggiata "Bari Pedala"
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Torna il 6 e 7 aprile la ciclopasseggiata "Bari Pedala" Domani, sabato 6, e domenica 7 aprile, in largo Giannella, torna Bari Pedala, la ciclopasseggiata organizzata dalla coooperativa Zero barriere, dall'Aps Lezzanzare e dall'ASD Scuola di ciclismo Franco Ballerini con il patrocinio del Comune di Bari - Assessorato allo Sport giunta quest'anno all'ottava edizione. La due giorni si aprirà il 6 aprile, alle ore 10, con attività di sensibilizzazione ed educazione stradale tenute da Amichi di Michi Visaggi cui seguirà un ricordo del comandante della Polizia locale Nicola Marzulli, scomparso nel 2018, con un premio assegnato a Claudio Villani, alunno della scuola Zingarelli di Bari che si è distinto per comportamenti meritevoli come quelli che hanno contraddistinto la storia personale e professionale del generale Marzulli, indimenticabile per il suo impegno civico volto a educare la comunità al rispetto delle regole. Nel pomeriggio, sempre in largo Giannella, in programma prove di mezzi inclusivi (hugbike ecc.) e un'area dedicata al freestyle, con l'accompagnamento del d.sabile.j Leonardo Baccarella e dell'animazione de Lezzanzare. Domenica 7 aprile, a partire dalle ore 9, la tradizionale ciclo-passeggiata in partenza da tre quartieri diversi (Carbonara, San Paolo e Japigia) che convergerà in largo Giannella per consentire ai partecipanti di godersi il lungomare nel tratto compreso tra il Kursaal Santalucia e il ponte di via Di Vagno. All'appuntamento in largo Giannella, al quale interverrà l'assessore allo Sport Pietro Petruzzelli, parteciperanno più di 20 elementi della Fanfara e le majorette della scuola Massari - Galilei. "Nicola Marzulli è stato un esempio da imitare - dichiara Antonio Garofalo presidente de Lezzanzare -, poiché amore chiama amore e rispetto genera rispetto, quello per la propria città. Il bene comune ci appartiene e perciò va difeso da chi cerca di appropriarsene o peggio di sfregiarlo in nome di logiche sbagliate, di voglia di supremazia, del semplice menefreghismo di chi assiste lo spettacolo e si sente autorizzato a criticare poiché spettatore non pagante. Gli stessi che guardano alle regole come degli obblighi e non come un tacito accordo per vivere tutti civilmente nel rispetto reciproco. La prima regola non scritta è il rispetto delle regole. Ogni volta che sorge il sole e illumina Bari sarà più facile guardarla negli occhi perché un uomo mite dal cielo la difende dal menefreghismo e dall'inciviltà: si chiama Nicola Marzulli." "La scuola di ciclismo Franco Ballerini ormai da anni è diventata un punto di riferimento per l'attività ciclistica barese - spiega Pino Marzano, presidente delll'ASD Scuola di ciclismo Franco Ballerini -. Abbiamo abbracciato un'idea inclusiva per la pratica sportiva poiché sentiamo fortemente l'importanza di allargare la visione di comunità che prevede l'approccio alla bicicletta anche a bambini con patologie di disturbo del comportamento, ciechi, persone down ecc, grazie a mezzi speciali messi a disposizione grazie ad alcuni progetti a cui abbiamo partecipato. Bari Pedala è il risultato di ciò che facciamo ogni giorno, è la nostra concreta presenza sul territorio quale ente accreditato alla realizzazioni di eventi di grosse dimensioni in questo ambito". Per consentire lo svolgimento della manifestazione, la Polizia locale, con apposita ordinanza, ha disposto le seguenti limitazioni al traffico per domenica 7 aprile: 1. dalle ore 9.30, relativamente al passaggio dei ciclisti, è istituito il divieto di circolazione sui seguenti percorsi: a. percorso A - "Parco Pratolagemma": via A. De Curtis, strada Donadonisi, via Ospedale di Venere, via Trisorio-Liuzzi, via G. Petroni, via J. F. Kennedy, viale L. Einaudi, viale della Resistenza, largo 2 Giugno, viale della Repubblica, viale Unità d'Italia, sottovia Luigi di Savoia, piazza Luigi di Savoia, via De Giosa, via Cognetti, corso Cavour, piazzale IV Novembre, lungomare sen A. Di Crollalanza, piazza Diaz, largo Giannella; b. percorso B - "Chiesa di San Marco": via Caldarola, viale Magna Grecia, viale Japigia, via Oberdan, via Capruzzi, sottovia Luigi di Savoia, piazza Luigi di Savoia, via De Giosa, via Cognetti, corso Cavour, piazzale IV Novembre, lungomare Imp. Augusto, lungomare sen A. Di Crollalanza, piazza Diaz, largo Giannella; c. percorso C - "Fermata Tesoro": via Tramonte (Fermata Metro "Tesoro"), via Lonero, via Bonomo, strada rurale del Tesoro, strada arginale Torrente Balice, lungomare IX Maggio, via Van Westerhout, via Verdi, via Giordano, via Pinto, via Adriatico, lungomare Starita, corso Vittorio Veneto, corso sen. A. De Tullio, piazzale C. Colombo, lungomare Imp. Augusto, piazzale IV Novembre, lungomare Imp. Augusto, lungomare sen A. Di Crollalanza, piazza Diaz, largo Giannella; 2. dalle ore 10.00 alle ore 13.00, relativamente al passaggio dei ciclisti, è istituito il divieto di circolazione sulle seguenti strade e piazze: a. lungomare A. Di Crollalanza, tratto compreso tra largo Adua e piazza Diaz; b. piazza Diaz, carreggiata tra la rotonda L. Giannella e il passeggiatoio alberato; c. lungomare N. Sauro; d. piazza A. Gramsci, carreggiata prospiciente il mare, tratto compreso tra il lungomare N. Sauro e il prolungamento del cavalcavia G. Garibaldi; 3. dalle ore 12.30, relativamente al passaggio dei ciclisti, è istituito il divieto di circolazione sui percorsi sopra menzionati che verranno impegnati in senso inverso fino ai punti di partenza A, B e C. Per ulteriori informazioni e per conoscere il programma completo della manifestazione consultare il seguente link.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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siciliatv · 4 months
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paoloxl · 7 years
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Viaggio tre le ragazze i ragazzi che scelgono l’estrema destra, sempre più presenti nelle scuole italiane “Io sono fascista”, dice un ragazzino di tredici anni che va in terza media. “Pure io sono fascista”, dice il suo amico. “Anche io, siamo tutti fascisti”, gli fa eco un altro. È settembre, hanno appena cominciato la scuola, alcuni sono già in prima liceo, altri alle medie. Le giornate in classe sono brevi, il sole permette di girare in maglietta e calzoncini, e piazza Cavour, a Roma, è il luogo dove ci si ritrova appena usciti da scuola, o dopo pranzo, o all’ora dell’aperitivo, o appena finita la cena. Ventenni, diciottenni, sedicenni, tredicenni, appoggiati alle panchine o agli scalini sul retro del palazzo di giustizia detto Palazzaccio, divisi in comitive per età. I più grandi hanno le facce ingrugnite, i caschi in mano con gli adesivi dei gruppi politici o della tifoseria, sbuffano per dire che non parlano con i giornalisti, ogni tanto provano delle mosse di arti marziali. I più piccoli si rincorrono per la piazza, cercano modelli, un gruppo, un’identità in cui sia facile riconoscersi. Piazza Cavour è una specie di palcoscenico: chi viene per lo più sa di essere osservato e che quello che succede qui avrà un’eco anche nazionale. Una ribalta che può essere cercata, o di cui si farebbe volentieri a meno. Per esempio nessuno cita volentieri gli scontri che ci sono stati nell’ottobre 2016, quando un ragazzo di 16 anni è stato accoltellato all’addome e per i quali un anno dopo, nel gennaio 2017, sono state arrestate sette persone, tra cui tre minorenni. Alcuni erano militanti dell’organizzazione di estrema destra Fronte della gioventù e frequentavano la sezione del quartiere Prati. La destra radicale usa la moda e si nasconde sempre meno “Io non sono d’accordo sulle cose estremiste, sono un po’….”, esita uno dei ragazzi incontrati in questi mesi a piazza Cavour. “Fascista”, suggerisce la sua amica. “No, fascista no, sono tipo a scatti”. È una specie di coro, di cui ci siamo segnati alcune frasi ricorrenti: “Te devi rende conto che questa piazza soprattutto è fascista”, “Tra queste persone qui gira molto l’idea fascista”, “È proprio una moda”, “Per me il fascismo è una moda”, “Sì anche per me è una moda”, “Per me è una bella moda”, “Io sono fascista, certo, per moda”. Quello che indossano ce lo conferma, dalle magliette di Blocco studentesco (Bs), il ramo giovanile di CasaPound Italia (Cpi), alle toppe con il tricolore. Molti comprano vestiti Pivert, il marchio d’abbigliamento legato a Cpi. Una delle sue figure chiave è Francesco Polacchi, ex leader di Bs, che nel 2009 guidava gli scontri con gli studenti del movimento dell’Onda, nato nel 2008 per protestare contro i tagli del governo Berlusconi sulla scuola. In una società in cui l’antifascismo non è più un valore riconosciuto come tale, la destra radicale usa la moda e si nasconde sempre meno, anzi cerca sempre più spazi di visibilità, ha bisogno di farsi conoscere, spesso ci riesce. L’avanzata mediatica della destra Dalla nebulosa di movimenti e partiti che si sciolgono e si riformano, emergono soprattutto Forza nuova (Fn) e Cpi. La prima è stata fondata nel 1997 da Roberto Fiore e Massimo Morsello, protagonisti negli anni settanta del gruppo neofascista Terza posizione. Accusata di antisemitismo e negazionismo, vuole marciare su Roma come fecero i fascisti, fomenta le violenze contro gli immigrati, è contro l’interruzione volontaria di gravidanza e le unioni civili – uno dei suoi leader, Giuliano Castellino, è stato arrestato per aver ferito due vigili e un poliziotto mentre provava a impedire l’assegnazione di una casa popolare a una famiglia eritrea. CasaPound nasce nel dicembre 2003 con l’occupazione di un ex palazzo governativo in via Napoleone III a Roma, occupazione riconosciuta in seguito sia dal sindaco di centrosinistra Walter Veltroni, sia da quello di destra Gianni Alemanno. Negli anni, Cpi ha occupato altri edifici, aperto un centinaio di sezioni in Italia ed elaborato la proposta di un mutuo sociale. Ispirato alla politica economica fascista, in particolare al manifesto di Verona, prevede la costruzione di case popolari da vendere a prezzi agevolati e senza tassi d’interesse solo a famiglie italiane. Non vieta le unioni civili tra persone dello stesso sesso né l’aborto, ma è contro l’adozione per le coppie gay e crede che gli stranieri siano una minaccia economica e culturale per l’Italia, tanto da parlare di pericolo di sostituzione della popolazione italiana. Da ottobre 2017 Cpi ha fatto il pieno di attenzione. I dibattiti tra i giornalisti e il segretario e candidato premier Simone Di Stefano nella sede romana di via Napoleone III hanno scatenato le ovvie polemiche, prima e dopo le elezioni di Ostia, dove il partito ha preso il 9 per cento. La cultura è importante, ci ripetono molti capi della nuova destra, anche se poi sbagliano i congiuntivi I dibattiti portano a galla alcune contraddizioni: con chi si dichiara fascista si discute o no? Si rischia di sdoganarli o li si costringe a misurarsi con la democrazia? C’è il rischio di essere usati da chi nasconde legami con la criminalità e la violenza? Sono domande che nascono anche riguardo all’aggressione di Roberto Spada contro il giornalista Daniele Piervincenzi. Dare spazio a fatti del genere, anche se per denunciarli, garantisce una credibilità a chi li compie? Il blitz dei militanti di Forza nuova (Fn) sotto la sede di Repubblica o quello dei quattro skinhead a Como è roba di imbecilli o il sintomo di cosa? La manifestazione antifascista, sempre a Como, intercetta una diffusa indignazione o è una testimonianza minoritaria, visto che a partecipare sono state un migliaio di persone, tra cui pochissimi giovani? È innegabile che le cose si stiano trasformando. Tra chi sostiene che siamo di fronte a un’onda nera e chi ridimensiona questi fatti, c’è da considerare qualche dato, che ci riporta alle ragazze e ai ragazzi. Nelle scuole di Firenze Nel novembre scorso, alla consulta provinciale degli studenti a Firenze ha stravinto la rinata Azione studentesca (As), che si era sciolta ma si è riformata nel settembre 2016, orientata ancora più a destra. Spirito e volontà, sangue e terra, muscoli e sangue, le foibe, sono alcune delle loro parole chiave. Il gruppo protesta spesso contro l’alternanza scuola-lavoro. “Non saremo i vostri schiavi da fast-food”, scrivono in fasciofont sugli striscioni che attacchinano sui muri di Firenze. In 45 scuole della provincia fiorentina As ha ottenuto 18mila voti, 32 seggi su 58 e la presidenza con Mattia Micunco del liceo Agnoletti di Sesto Fiorentino. Il punto di riferimento di As è Casaggì, centro sociale di destra nato a Firenze nel 2005 contro l’alleanza tra gli ex missini del Movimento sociale italiano (Msi) e Berlusconi, e che oggi si dichiara “di destra identitaria”. “Cerchiamo di tenere insieme chi non si riconosce nei partiti tradizionali”, dice il coordinatore nazionale di As, Anthony La Mantia, 25 anni. Cita il gruppo di Rinnovazione a Rieti, i presidenti delle consulte provinciali di Pistoia e di Perugia, entrambi di As, i militanti a Taranto, a Brescia, a Siracusa, e Gioventù identitaria a Brindisi (anche se loro precisano che non ci sono alleanze in corso con As). “Azione studentesca ha 180 iscritti in quaranta città. Si muovono bene, fanno molto attacchinaggio”, dice La Mantia. L’anno scorso hanno fatto il loro primo campo nazionale a Leonessa, in provincia di Rieti. “Il volantinaggio alle sette di mattina, anche con zero gradi, trasmette un senso di sacrificio. E poi ci tengo alla preparazione culturale”, aggiunge. La cultura è importante, ci ripetono molti capi e gregari della nuova destra, anche se poi sbagliano i congiuntivi. Il canone va dallo scrittore nazionalista giapponese Yukio Mishima a figure di cui la destra si è appropriata come nel caso del militante nordirlandese cattolico Bobby Sands. Inoltre, recupera l’enfasi sull’autodeterminazione dei popoli (rivista oggi in salsa sovranista), e si appoggia ad alcune nuove case editrici. Una è Passaggio al bosco, che ha aperto a Firenze nel 2017. Ripubblica testi classici per la destra come quelli di Ernst Junger o Giano Accame, e libri di nuovi ideologi come Marco Scatarzi (fondatore di Casaggì), o testi in cui si loda l’onnipresente neonazista Leon Degrelle e si citano in chiave antimodernista pensatori come il matematico e filosofo cattolico Olivier Rey o l’intelluettuale Byung-Chul Han, autore di saggi critici sul mondo digitale. Tutto nasce con Terza posizione Le ragazze e i ragazzi appartenenti a questa destra identitaria non si vergognano del fascismo, rimosso o ridimensionato tra gli anni novanta e i duemila dopo la svolta di Gianfranco Fini a Fiuggi verso un partito meno nostalgico del fascismo. Guardano piuttosto a gruppi neofascisti come Terza posizione, fondata nel 1977 da liceali e universitari, tra cui i futuri protagonisti di Forza nuova e di CasaPound, ovvero Massimo Morsello, Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi. Nel libro La fiamma e la celtica, Nicola Rao racconta che molti come loro, dopo l’uccisione nel 1979 del militante di 17 anni Alberto Giaquinto, durante il primo anniversario di Acca Larentia, lasciano l’Italia. Negli anni successivi, la repressione dello stato, i processi per le stragi e la latitanza cancellano i movimenti e i gruppi di estrema destra che non si sciolgono da soli o non si autodistruggono. Il corteo di CasaPound per il quarantesimo anniversario di Acca Larentia a Roma, il 7 gennaio 2018. (Christian Mantuano, OneShot/Luzphoto) Per i neofascisti, gli anni tra il 1979 e il 2006 sono una parentesi. Morsello, Fiore e Adinolfi li passano all’estero, ma tornano tra il 1999 e il 2000 (Morsello è morto nel 2001). È a loro che le ragazze e i ragazzi più giovani fanno riferimento, più che a Gianfranco Fini, che non sanno neanche chi sia. Laterale rispetto all’organizzazione, Adinolfi è letto e considerato il padre nobile di CasaPound. Uno dei suoi testi più citati è il breve scrittodiffuso nel 2008. Si intitola Sorpasso neuronico e liquida tutte le scelte della destra parlamentare ed extraparlamentare degli ultimi trent’anni: In tutti quegli anni nessuna proposta politica ha fatto presa, non ci sono stati consensi di massa, ma è successo che uomini e clan si sono contesi parte del voto passivo, quello refrattario al cambiamento, quello nostalgico non del ventennio ma di una gioventù trascorsa al bar di fronte alla sezione. Adinolfi, come altri neofascisti, si ritaglia un suo fascismo, e sceglie quello tra il 1919 e il 1922, e quello tra 1943 e il 1945. Quella che propone è una nuova generazione politica ispirata all’arditismo, al futurismo, allo squadrismo. E scrive: “Abbiamo davanti praterie da riconquistare di fronte a una società atomizzata”. Il linguaggio sembra in certi casi quello caricaturale di Fascisti su Marte, ma questo non diminuisce il fascino esercitato sui più giovani. È un codice cameratesco, capace di conquistare i ragazzi che non hanno anticorpi contro questo tipo di retorica. Scrive ancora Adinolfi: Quando il senso di appartenenza a qualcosa di potenzialmente edificante diventa rituale da pitecantropi, […], quando le braccia tese perdono l’energia futur/ardita per diventare sgradevoli e aritmiche gesticolazioni di emarginati, quando le camicie nere si sporcano di ragù, allora s’inverte la tendenza positiva dell’ancoraggio storico/simbolico […]. La mentalità futur/ardita è opposta: interventista, fa le cose e non le predica. Risponde al motto mussoliniano ‘il fascismo è la chiesa di tutte le eresie’. […] Bisogna distruggere tutto quello che c’è di estrema destra e recuperare tutto quello che c’è di fascista. Basta parlare con Rolando Mancini, coordinatore nazionale di Blocco studentesco, neolaureato in giurisprudenza e praticante in uno studio di avvocati della capitale, per capire quanto abbiano presa le parole di Adinolfi. Lo facciamo all’indomani delle elezioni studentesche dell’autunno 2017, in cui la loro lista – così dichiarano nei loro comunicati stampa – ha ottenuto 56mila preferenze nelle scuole di tutta Italia; la presidenza delle consulte a Fermo, Ascoli e Viterbo; la maggioranza in scuole del centro di Roma come il linguistico Caetani e il tecnico Bernini; e l’85 per cento al tecnico Faraday di Ostia. Sulle elezioni scolastiche non esistono dati ufficiali, soprattutto per quanto riguarda le consulte provinciali – organi poco rappresentativi, votati da pochi studenti – ma i risultati sono usati lo stesso dai movimenti neofascisti per fare propaganda. Mancini è cauto nel parlarci. Lo incontriamo nella sede di CasaPound in via Napoleone III, a Roma. E anche qui sentiamo risuonare i toni e le parole di Gabriele Adinolfi. Il palazzo all’interno è spoglio, c’è un’aria catecumenale, alle pareti le immagini delle donne legate al fascismo e segni di quello che Umberto Eco identificava come ur-fascismo. Ci sediamo su poltrone sfondate. La trincerocrazia di Blocco studentesco Quello che scrive Adinolfi in Sorpasso neuronico sul proselitismo è: Allora è tutto da rifare, […] ma fondandolo su di una gerarchia reale, sulla comunicazione e sull’organicità e rispondendo ad un S.O.S. acronimo, in questo caso di Strategia, Organizzazione e Stile. Quello che dice Mancini è: Abbiamo rilanciato l’arditismo, bisogna essere sempre attenti allo stile, fare panico mediatico. Ti faccio un esempio. Ci sono centri sociali che dicono ‘legalizziamo la marijuana’, noi diciamo ‘legalizziamo il duello’. Lo facciamo come provocazione, ma ci piacerebbe che venisse ripristinato il duello vero in un mondo di duelli finti come quelli su Facebook. Non ci interessano neanche più le battaglie che contraddistinguevano il nostro movimento negli anni novanta, quelle contro la droga e l’aborto, per esempio. Le abbiamo superate. L’aborto non è una bella cosa, però è una scelta della donna. Sulla droga siamo contrari, perché non è che puoi scegliere l’arditismo e poi farti la cannetta che ti addormenta. Però non ci facciamo battaglie politiche. Ci piace più fare, che non far fare. E il fascismo? Sempre Mancini: “Il fascismo è un grande padre severo, a cui dobbiamo rendere conto del nostro operato. Come facciamo con i ragazzi di Acca Larentia. Abbiamo un rapporto sacrale con i morti, ci accusano di essere tanatofili, ma quando commemoriamo i tre militanti del Fronte della gioventù uccisi il 7 gennaio 1978, noi pensiamo veramente che i morti marciano con noi”. Gli chiediamo di raccontarci cosa spinge un ragazzo ad avvicinarsi a Blocco studentesco e lui spiega che “c’è la fascinazione per un simbolo, la bandiera, che agisce su un piano emozionale. Noi trasformiamo questa fascinazione in una coscienza politica. Da ragazzino non avevo letto La dottrina del fascismo di Costamagna, ero attratto dai simboli della destra, dall’impatto visivo di quel mondo”. Una volta che un ragazzo sceglie Bs che succede? “Ogni sezione ha il suo responsabile, c’è la trincerocrazia, il posto e il ruolo te li guadagni con il tempo, con l’esperienza”, dice. “Molti non rimangono, perché la militanza è tosta, ci sono due riunioni a settimana, poi c’è il volantinaggio la mattina presto davanti alle scuole, le affissioni”, aggiunge, “e poi ci sono i turni a CasaPound, che è sempre aperta. Questo può causare problemi a casa. I genitori non sono contenti che i figli fanno volantinaggio per CasaPound. Ma le criticità io credo che ti forgiano. Capita che dei ragazzi litighino con le famiglie e restino a dormire qua”. Uno dei miti fondanti per la destra va cercato nei ragazzi che combatterono nella prima guerra mondiale La violenza? “La nostra violenza è sempre di difesa. Reagiamo quando siamo provocati”, dice. Gli ricordiamo, a proposito di provocazioni, l’irruzione di CasaPound nella sede del quarto municipio a Roma per chiedere la chiusura del centro dove la Croce rossa ospita dei migranti, e lui dice che gli scontri con i militanti di sinistra ci sono stati perché “noi non ci facciamo passare addosso”. Gli chiediamo del ragazzo di 18 anni picchiatoperché indossava una maglietta del CinemaAmerica e perché ritenuto comunista. “Non ne so molto”, risponde. “Però posso dire che pure io, quando al liceo indossavo una maglietta degli Zetazeroalfa, magari mi beccavo con l’antifascista e ci davamo due schiaffi. Io credo che la scazzottata può succedere ogni tanto. Per me è una cosa sana, vuol dire che hai vissuto”. Mentre Mancini parla, l’interno di via Napoleone III ci sembra sempre di più un sacrario. Le luci fioche, le foto che somigliano a quelle delle lapidi. Lui stesso insiste più volte sul rapporto con la morte. Ma perché un ragazzo dovrebbe essere affascinato da questo tema? Elia Rosati, ricercatore di storia all’università di Milano che da anni studia le destre radicali, ricorda che uno dei miti fondanti per la destra italiana va cercato nei ragazzi che combatterono o morirono nella prima guerra mondiale, tra arditismo e dannunzianesimo, e che diventarono la prima generazione ad aderire al fascismo nel 1919. Nel libro Comunità immaginate, Benedict Anderson mostra la relazione tra il nazionalismo e il sentirsi parte della comunità dei propri morti. Per capirlo ancora meglio, e per capire la destra oggi in Italia, bisogna guardare da vicino a quello che è successo il 7 gennaio 2018, durante la marcia organizzata per il quarantennale dell’agguato davanti alla sezione romana di Acca Larentia in cui furono uccisi i giovani attivisti di Fronte della gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta – un terzo ragazzo, Stefano Recchioni, fu ucciso negli scontri con le forze dell’ordine, scoppiati per protesta poche ore dopo. Un corteo funebre Il corteo parte da piazza Asti, percorre via Tuscolana, ed è lungo quasi un chilometro. I militanti si dispongono in fila per sette, per fare più scena. CasaPound organizza, fa il servizio d’ordine, detta i tempi e vieta le foto. Per tre ore nessuno rilascia interviste. Ma prima dell’inizio, Adriano Scianca – giornalista e scrittore, classe 1980 – accetta di parlare, unendo la dimensione politica (ed elettorale) a quella del sacro. “Puntiamo al 3 per cento”, dice. E poi aggiunge: “I caduti sono il nostro pilastro metapolitico”. Bomberino e scarpe New Balance, i partecipanti sono tutti bianchi e quasi tutti maschi, si salutano stringendosi l’avambraccio, i vecchi danno ordini ai più giovani. Gianluca Iannone, presidente di Cpi è il regista, e governa la scena. Simone Di Stefano è il segretario, si muove con un fare più defilato. Mauro Antonini, candidato alla regione Lazio alle elezioni del 4 marzo, spiega che il loro atteggiamento rispecchia “la divisione dei ruoli che c’è all’interno del movimento. Di Stefano parla a chi non è di CasaPound, va in tv, è la nostra faccia all’esterno. Iannone parla ai militanti, alle sezioni. È il capo tribù”. Una manifestazione organizzata da CasaPound per chiedere la chiusura del centro di accoglienza in via del Frantoio a Roma, il 30 giugno 2017. (Matteo Minnella, OneShot/Luzphoto) E infatti è Iannone che indica dove fermarsi, in che ordine schierarsi. Fino all’arrivo alla sezione di via Acca Larentia, dove tutti i partecipanti sono inquadrati per gridare “presente” e ricordare così Bigonzetti, Ciavatta e Recchioni. La scena si ripete tre volte. Braccia tese, saluti romani, poi il gruppo si scioglie. Una scena lugubre. Ai lati della folla, i vecchi camerati brontolano. Mario Merlino (1944) neofascista storico, storce il naso per come CasaPound ha colonizzato il corteo: “Doveva essere una commemorazione, hanno fatto una sfilata elettorale”. Maurizio Lupini, un sopravvissuto all’agguato del 1978, si lamenta per essere stato escluso dal rito. È la prima volta che un solo gruppo neofascista riesce a fare proprio il corteo. Una giornata come questa mostra che CasaPound e Blocco studentesco somigliano più a delle sette religiose che a dei partiti politici: la formazione è un’iniziazione, il cameratismo un legame sacro. Il giornalista e scrittore Marco D’Eramo ci dice: “Nell’adolescenza scopriamo il sesso e la morte, l’età più metafisica della vita umana, anche quando si esprime a randellate. Il paragone con le sette religiose non è peregrino”. L’indottrinamento dei militanti E come nelle sette, ci sono dei princìpi da rispettare. Per molti militanti neofascisti questi princìpi sono quelli del decalogo della decima Mas. Jacopo, un ragazzo di 21 anni che ha militato in Blocco studentesco, dice: “Ogni volta che parli, che fai un comizio, che fai un’azione, lo tieni presente”. I precetti recitano: “Sta zitto, sii serio e modesto, non sollecitare ricompense, sii disciplinato, sii rispettoso, devi avere il coraggio dei forti non quello dei disperati, sii dignitoso, sii fedele, non usare droghe, dà valore alla vita”. Se somigliano a regole di vita, è perché lo sono, e servono a cementificare l’unione tra il partito e i ragazzi. A tal punto che “quando vivi CasaPound per 24 ore al giorno e poi la lasci, più che essere bollato come traditore, ti senti tu di essere un traditore, di aver lasciato un ideale”, dice Jacopo. Anche Forza nuova punta molto sull’indottrinamento dei giovani. In un’informativa del novembre 2017 del Raggruppamento operativo speciale dell’arma si legge: Si evidenzia come l’attenzione del gruppo si concentri sull’attività di indottrinamento dei giovani sin dall’età adolescenziale, al fine di meglio coinvolgerli in una devota condivisione di intenti dettati dal movimento e ai quali ispirare la propria militanza e la propria vita (…) Tale capacità di trasportare i minori in un contesto caratterizzato da dettami rigidi e intriso di odio e razzismo evidenzia la portata reale della pericolosità di un gruppo che riesce così a radicarsi negli aderenti sia da un punto di vista ideologico che comportamentale. Le conseguenze di tutto questo, le racconta Federica Angeli su Repubblica: A me la cosa che interessa di più so’ i ragazzini, i ragazzini, dice uno dei leader della sede storica romana di Forza nuova. Giovani reclute da crescere nell’odio e che sfuggono all’educazione di madri e padri, cambiano umore, si fidano ciecamente dei dettami dei leader del movimento. Ci sono i genitori di alcuni ragazzini che frequentano la sezione del partito che chiamano disperati i responsabili del movimento: ‘Noi non esistiamo più’, dice il padre di un 17enne in una conversazione intercettata dai carabinieri nel 2014, ‘esistono solo il partito e i capoccioni del partito, noi genitori non contiamo un cazzo’. Tra i libri assegnati per la formazione ci sono Il Capo di Cuib dello scrittore nazionalista romeno Corneliu Zelea Codreanu, che cominciò a fare politica proprio fondando un movimento studentesco, oppure Militia di Leon Degrelle. Due testi che sono una sorta di manuali di formazione spirituale-militare, scritti con uno stile marziale che può sembrare quasi parodico. Valerio Renzi, che ha studiato l’avanzata delle destre a Roma e l’antropologia della politica giovanile, conferma l’immagine della setta: “Alcune organizzazioni come Forza nuova e CasaPound somigliano più a una setta che un partito, compresa l’iniziazione, l’inclusione o l’esclusione. La struttura elitaria crea una voglia di essere inclusi, e per farlo il movimento ti organizza tutti gli aspetti della vita”. Elia Rosati parla di “santa teppa”, e ricorda che nel romanzo di formazione Nessun doloredi Domenico Di Tullio – militante e avvocato di CasaPound – si racconta proprio la storia di amicizia tra due diciottenni di Blocco studentesco, che fanno di tutto, finendo anche in carcere, per non tradire il partito. “Il fascismo del terzo millennio è vissuto come un’esperienza prerazionale, uno stile di vita capace di cogliere la ragione interiore delle persone e soddisfare il loro bisogno di identità”, scrive la docente di antropologia Maddalena Gretel Cammelli in Fascism as a style of life. “Violenza e morte sono rivendicate, eseguite e messe in atto come strumenti concreti per collegare il fascismo contemporaneo con le sue manifestazioni storiche”. Contro il femminismo Anche il ruolo delle donne all’interno del neofascismo giovanile è studiato. Dentro Lotta studentesca le donne non hanno il diritto di salutare con l’avambraccio, perché il saluto romano appartiene ai legionari, uomini e combattenti. Le donne devono curarli. Per Ls e Fn, inoltre, devono stare a casa. A dicembre, i volantini usati da alcuni militanti di Forza nuova a Carpi per una raccolta firme, dicevano: “Firmate per il reddito alle madri, in modo tale che ogni donna, scegliendo di fare la casalinga, percepisca 500 euro al mese”. Sulla pagina di Fn si precisa che il reddito alle madri sarebbe stanziato solo per quelle che accettano “di rimanere a casa invece che andare a lavorare”, e solo se sono italiane. Le giovani di Ls non possono uscire per andare ad attacchinare, perché è pericoloso per le donne, “considerate inferiori rispetto agli uomini e inutili in caso di problemi o scontri con altri gruppi”, dice un militante di Ls. Le militanti di Ls vengono educate al rifiuto del femminismo. Le femministe sono paragonate a “cagne (…) che chiedono di abortire o di diventare uomini”, si legge su Ordine Futuro, rivista legata a Forza nuova. Il 18 novembre a Trieste alcuni militanti organizzano una manifestazione contro lo ius soli in contemporanea con quella contro la violenza sulle donne del movimento Non una di meno. Un corteo di Casapound a Roma, il 21 maggio 2016. (Christian Mantuano, OneShot/Luzphoto) Due giorni prima, il vicesegretario nazionale di Forza nuova Giuseppe Provenzale ha scritto su Facebook un post sull’interruzione volontaria della gravidanza: “Il diritto all’omicidio/aborto non è mai ammissibile in linea di principio da chiunque affermi di essere un difensore della Patria”. La nume tutelare del “femminismo” di Fn è Evita Perón. L’associazione Evita Peron è “un’associazione di donne che si rivolge alle donne”, si legge sul loro sito, “oggi troppo spesso private della loro identità a causa dei guasti devastanti prodotti dal ‘femminismo’, perché tornino a rivendicare il loro diritto ad essere madri del futuro della nostra società”. Scrive Provenzale: Nasciamo per creare famiglie, non per vivere nella strada. Le militanti dovevano agire a fianco dei loro camerati ma affrontare le problematiche dello specifico femminile evitando assolutamente di correre il rischio di ‘mascolinizzarsi’. In politica la donna deve essere al fianco dell’uomo, ma senza mai permettergli di immischiarsi nei suoi affari. L’estate scorsa a Catania, Forza nuova ha organizzato la prima colonia estiva Evita Peron: le educatrici insegnavano ai bambini il cromatismo ariano e spiegavano il significato dei tre colori nella bandiera nazista. Ogni bambino poteva dipingere la “bandiera della tradizione” sulla tela, come un’attività ludica. Dentro Blocco studentesco il clima è un po’ diverso: la presenza delle ragazze è sempre minoritaria, i ruoli sono formalmente uguali. “Prima la politica era considerata un argomento riservato agli uomini, mentre ora non è così”, dice Clara, una militante romana. Le ragazze in sezione si occupano “della segreteria, perché siamo più predisposte, del doposcuola o della raccolta alimentare, ma tutte queste attività sono svolte anche dai ragazzi”, aggiunge. Non sono contrarie all’interruzione volontaria della gravidanza, ma Clara ritiene che “il femminismo abbia come prerequisito la sottomissione all’uomo da parte della ‘femmina’ che non vuole prendersi gli oneri e gli onori di essere donna”. Il nuovo fascismo un’ideologia ce l’ha Più di un commentatore ha usato parole come populismo, qualunquismo e antipolitica per incasellare la nuova destra, ma così si rischia di avere approccio semplicistico e riduttivo. Nel 2010 il gruppo I cani cantava: “I pariolini di 18 anni/ animati da un generico quanto autentico fascismo”. All’epoca i neofascisti avevano provato a fare un tentativo di mimetismo e qualunquismo a opera di Blocco studentesco e Casapound. Dice Mancini: Io faccio parte di Bs dalla sua nascita, nel 2006. I giovani erano lontani dalla politica, ma contro la riforma della scuola di Mariastella Gelmini si organizzarono molte manifestazioni, creammo un coordinamento trasversale con i collettivi di sinistra. Poi tutto cambiò quando intervennero gli universitari della Sapienza, che non tollerarono l’accordo. Gli scontri con gli studenti di sinistra a piazza Navona a Roma nell’ottobre 2008 fanno parte dell’automitizzazione di Bs, che si presentò con slogan tipo “Né rossi né neri, ma liberi pensieri”. Il 2008 è un anno cruciale. Gabriele Adinolfi in Sorpasso neuronico intravede la nascita della forza politica legata a Beppe Grillo, ma gli dà dieci anni di vita. Il ricercatore in scienze politiche all’università di Pisa Lorenzo Zamponi sostiene che l’Onda fosse il primo movimento trasversale, postpolitico, e che anche da quella esperienza sia nato il Movimento 5 stelle. Ma Claudio Riccio, al tempo uno dei leader dell’Onda, avverte: “Blocco studentesco ha sempre rappresentato i fascisti o poco più. Nel 2008-2009 fecero un un’operazione di mimetismo che non gli riuscì come spesso non gli riesce, attraverso slogan qualunquistici”. Quel fascismo, oggi, è meno generico. Nel 2012 il Secolo d’Italia, il giornale con cui Flavia Perina aveva cercato di emancipare la destra dall’eredità neofascista, ha smesso di uscire in edicola. Alla fine del 2017 ci va invece il giornale della nuova destra. Si chiama Il Primato Nazionale e il suo direttore, Adriano Scianca, è l’instancabile divulgatore di alcuni concetti chiave per la nuova destra: dalla fine della destra e della sinistra teorizzata da Alain de Benoist in Populismo all’idea che il multiculturalismo possa portare al suicidio di una nazione come sostiene Éric Zemmour, passando per la minaccia della “grande sostituzione” sostenuta da Renaud Camus. Riecheggiando quest’ultimo concetto, Scianca scrive in L’identità sacra: Il popolo da eliminare è innanzitutto quello europeo, la cui stessa esistenza […] rappresenta il grande scandalo, il peccato storico da redimere. L’Europa […] agita ancora i sonni di chi aspetta da millenni di “chiudere” l’avventura storica dell’uomo, vedendo i suoi tentativi costantemente frustrati. Ed è da questa frustrazione che nasce il progetto più criminale mai concepito: il cambiamento di popolo. Mischiato a complottismi tipo il piano Kalergi – che sostiene l’esistenza di un progetto ideato per sostituire la popolazione europea attraverso l’immigrazione africana e asiatica – il timore per la “grande sostituzione” è un’idea che fa presa sui ragazzi. Camus – pensatore di riferimento sia di Matteo Salvini sia di Marine Le Pen, oltre che dei movimenti neofascisti dell’Europa dell’est – è convinto che occorra resistere all’invasione dei popoli non europei. Ed è proprio su questa difesa che i neofascisti italiani, divisi su temi come l’aborto, ritrovano l’unità. Sulla difesa identitaria, ma anche sull’antifascismo. Valerio Renzi si è fatto la stessa idea: “Un antifascismo svuotato di senso offre un bersaglio facile per l’antagonismo di maniera delle destre radicali”, dice. “I neofascisti riescono a presentarsi come un’alternativa, riusando simboli, nomi e miti del neonazismo: pensa a come viene citato Degrelle, un collaborazionista che ha scritto un pamphlet intitolato Adolf Hitler per 1000 anni!”. Contro l’antifascimo e con l’integralismo cattolico Un militante di Ls ci spiega che hanno abbandonato molte delle vertenze nelle scuole per intraprendere una campagna “contro la cultura antifascista” perché facendo così sanno di ricevere più luce e più consensi. Oltretutto, è una battaglia sostenuta dai dirigenti del partito. Per il segretario nazionale Roberto Fiore l’antifascismo è uno strumento con cui le élite di sinistra “occupano lo stato”. Per Mirco Ottaviani, responsabile del partito in Emilia-Romagna, “è ora di decretare la fine di questa repubblica antifascista e del clima d’odio che l’ha accompagnata sin dalla sua fondazione”. Intanto, i militanti hanno fatto presìdi contro le iniziative dell’Associazione nazionale dei partigiani (Anpi). Oltre alla lotta contro l’antifascismo, a caratterizzare Forza nuova e Lotta studentesca è l’aderenza all’integralismo cattolico. I loro militanti, diversamente da quelli di CasaPound, non sono affascinati dal neopaganesimo di Julius Evola e dalle sue pacchianerie misticheggianti. Per loro la messa è un momento di aggregazione, anche se papa Francesco è visto come una specie di avversario politico. Una comunità di riferimento celebra il rito ad Albano Laziale: è quella dei lefebvriani di San Pio X. In molti citano la figura di don Ennio Innocenti. Nato nel 1932, è oggi cappellano della Sacra fraternitas aurigarum urbis a Roma. Sui rapporti con il neofascismo, risponde: “Ho sempre avuto amicizie con alcuni neofascisti, mi sembravano tra i pochi a combattere contro la deriva iperliberista e illuminista di questa società. Quelli di Fn sono tra questi. Il problema è che sono ignoranti. Roberto Fiore voleva fare una scuola, ma poi non hanno fatto nulla. Non hanno abbastanza radici storiche e culturali per motivare le loro convinzioni”. Le ragioni della crescita nelle scuole Saranno pure ignoranti e confusi, come sostiene Innocenti, ma sanno essere efficaci e convincenti, e in molti casi allarmanti per la capacità di fare proselitismo. A Ostia “sono così presenti in tante di quelle scuole che in pratica le controllano”. Una ragazza del liceo Anco Marzio racconta che fa di tutto per dare un senso all’antifascismo, ma il contesto in cui deve farlo è questo: Il problema è tutto il decimo municipio di Roma, non solo Ostia. Nei licei la presenza delle liste neofasciste è ridotta, ma nei tecnici hanno una forte influenza. Approfittano del menefreghismo che c’è in quelle scuole per la politica. Hanno cominciato dando una mano a fare le occupazioni. L’anno scorso, per esempio, al Faraday l’occupazione l’hanno fatta ex studenti, militanti di Blocco studentesco. In certe scuole, il logo di Bs è ovunque, l’essere studente si confonde con l’essere militante di destra. Si piazzano davanti alle scuole a danno i loro volantini, reclutano, e gli studenti non si ribellano: Bs non viene neanche percepita come il ramo giovanile di un partito come CasaPound. Questo perché si prendono i ragazzini di quindici anni, li mettono a fare la raccolta di generi alimentari fuori dai supermercati, gli fanno fare assistenza alle famiglie, non sembra politica all’inizio. E poi picchiano. Intimidazioni: una testata a uno, uno sputo a un altro. L’antifascismo, in contesti del genere, è una battaglia di resistenza. E anche se il numero dei neofascisti non è aumentato, la loro presenza si nota perché il processo di desertificazione a sinistra è stato ed è drammatico. Francesca Picci dell’Unione degli studentimostra un appello che hanno scritto per “promuovere dentro le scuole e dentro le consulte iniziative e assemblee informative sul significato e sull’importanza che oggi ha l’antifascismo”. Non è un’eccezione, nell’ultimo anno le iniziative antifasciste si sono moltiplicate. Ma il vero tema sollevato da chi fa politica a sinistra è un altro. Fare politica alle superiori diventa difficile per le riforme che sempre di più tendono a reprimere l’espressione politica degli studenti: dal voto in condotta al numero di assenze da non superare (anche se si fanno per scioperare), pena la bocciatura. Gli stessi rappresentanti degli studenti molto spesso sono impauriti dalle minacce dei dirigenti, dai docenti. Una ragazza dei collettivi di sinistra a Milano, che preferisce rimanere anonima, dice: “Molti, piuttosto che essere bocciati o rimandati, smettono di fare politica. Le scuole sono sì ancora il laboratorio per il paese. Ma è chiaro che se le occupazioni sono criminalizzate, se le mobilitazioni contro l’alternanza scuola-lavoro incidono sul voto finale, la partecipazione diventa complicata”. Francesca Coin, docente di sociologia all’università Ca’ Foscari di Venezia, aggiunge: “Le assemblee e la partecipazione politica distraggono dall’efficienza e a volte sono considerate addirittura nocive. Non è difficile capire perché l’immaginario politico delle nuove generazioni tenda a destra, quando sin da piccoli hanno ricevuto, anzitutto tagli, ammonimenti e prescrizioni”. Una manifestazione di CasaPound per chiedere la chiusura del centro di accoglienza in via del Frantoio a Roma, il 30 giugno 2017. (Matteo Minnella, OneShot/Luzphoto)
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giulianuma · 4 years
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Nedo Fiano, sopravvissuto alla Shoah, ci ha lasciato Ci ha lasciato, nel tardo pomeriggio di oggi, Nedo Fiano, sopravvissuto alla Shoah e instancabile testimone delle nefandezze del nazifascismo.Nedo Fiano nasce a Firenze il 22 aprile 1925. Dopo dopo l'emanazione, nel 1938, delle leggi antiebraiche fasciste firmate dal re Vittorio Emanuele III, Nedo dovette abbandonare la scuola a 13 anni per la sola colpa di essere nato. Dopo l'8 settembre 1943 i mentre i tedeschi occuparono l'Italia centro settentrionale Fiano e la sua famiglia cercarono rifugio nelle dimore di amici. Il 6 febbraio 1944, all'età di 18 anni, i fascisti lo arrestarono mentre passeggiava in via Cavour a Firenze e lo rinchiusero nel carcere della città. Successivamente Nedo venne trasferito nel campo di concentramento di Fossoli. insieme con altri undici membri della sua famiglia.Il 16 maggio 1944 fu deportato, insieme con tutti i suoi familiari , nel campo di sterminio di Auschwitz Birkenau. ll viaggio durò sette giorni e sette notti all'interno di un vagone usato per il trasporto di bestiame, senza sapere cosa stesse succedendo e il perché. Ad Auschwitz arrivò il 23 maggio.L'11 aprile 1945 fu liberato dalle forze alleate, nel campo di concentramento di Buchenwald, dove era stato trasferito dai nazisti in fuga, unico superstite della sua famiglia. “Ciò che ha connotato tutta la mia vita – sottolineava sempre Nedo - è stata la mia deportazione nei campi di sterminio nazisti. Con me ad Auschwitz finì tutta la mia famiglia, vennero sterminati tutti. A diciotto anni sono rimasto orfano e quest’esperienza così devastante ha fatto di me un uomo diverso, un testimone per tutta la vita” Nel suo libro “A 5405 (il suo numero di matricola ad Auschwitz) Il coraggio di vivere” Nedo scrive: “Il tempo si è fermato ad Auschwitz. Dopo una vita quel " non luogo" è duro, arcigno, severo come allora. Sono lì in visita. Io sono cambiato, lui no. Mancano le SS, i cani... Avverto la severità e il silenzio di un grande cimitero; la gola mi si secca, gli occhi si inumidiscono, la mente va lontano e ricostruisce quello che il tempo e gli uomini hanno distrutto. Psrtecipiamo al lutto di @efiano (presso Asti) https://www.instagram.com/p/CI_zDjjBYMK/?igshid=pz6czq7vilsx
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giancarlonicoli · 4 years
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6 lug 2020 08:50 MEMENTO MORRICONE - È MORTO A 91 ANNI IL GRANDE COMPOSITORE. SI ERA ROTTO IL FEMORE - HA CREATO MUSICHE IMMORTALI PER I GRANDI WESTERN DI SERGIO LEONE, POI PASOLINI, PONTECORVO, BERTOLUCCI, TORNATORE, TARANTINO - PERSE IL FRATELLINO QUANDO QUESTI AVEVA SOLO TRE ANNI, ''DA ALLORA CERCAI SEMPRE PIÙ RIFUGIO NELLA MUSICA''. SPOSATO DAL '53 CON MARIA TRAVIA. ''MENTRE IO COMPONEVO LEI SI SACRIFICAVA PER LA FAMIGLIA E I FIGLI. PER 50 ANNI CI SIAMO VISTI POCHISSIMO. IL SUO UNICO PRIVILEGIO ERA…'' - HA INVESTITO TUTTO IN UN APPARTAMENTO DAVANTI AL CAMPIDOGLIO, COSÌ GRANDE CHE OGNI MATTINA FA JOGGING ALL'INTERNO - ''IL RUMORE È UNA RISORSA PER LA MUSICA. NEI WESTERN MISI COLPI DI FRUSTA, DI MARTELLO, DI CAMPANE. E POI LA VOCE UMANA, MA USATA COME UNO STRUMENTO. CHE CANTA, FISCHIA, SI SCHIARISCE LA GOLA, SCHIOCCA LA LINGUA…PERFINO DEI COLPI DI TOSSE''
MUSICA: È MORTO ENNIO MORRICONE
(ANSA) - E' morto nella notte in una clinica romana per le conseguenze di una caduta il premio Oscar Ennio Morricone. Il grande musicista e compositore, autore delle colonne sonore più belle del cinema italiano e mondiale da Per un pugno di dollari a Mission a C'era una volta in America da Nuovo cinema Paradiso a Malena , aveva 91 anni. Qualche giorno fa si era rotto il femore.
BIOGRAFIA DI ENNIO MORRICONE
A cura di Giorgio Dell'Arti per www.cinquantamila.it  e https://anteprima.news/
Roma 10 novembre 1928. Compositore. Autore di celebri musiche da film. Premio Oscar alla carriera nel 2007 e premio Oscar per la miglior colonna sonora originale per il film di Quentin Tarantino The Hateful Eight nel 2016 (era alla sua sesta candidatura). In tutto ha scritto le musiche di oltre 500 tra film e serie tv. Le sue composizioni sono state usate in più di 60 film vincitori di premi. Ha vinto tre Grammy Awards, tre Golden Globe, sei Bafta, dieci David di Donatello, undici Nastri d’argento, due European film awards, un Leone d’oro alla carriera, un Polar music prize. «Il successo di una musica non dipende solo dalla scrittura, ma dalla scelta degli strumenti. Le prime note della colonna sonora di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto sono eseguite dal mandolino e da un pianoforte volutamente stonato».
• Vita «Quando il Duce annunciò la dichiarazione di guerra mia madre, che lo ascoltava alla radio, scoppiò in lacrime, e io con lei. Mio padre suonava la tromba. Non eravamo poveri, ma con la guerra arrivò la fame: i surrogati, il pane appiccicoso, la mollica che sembrava colla. Mio zio aveva una falegnameria, e io impolveratissimo andavo con il triciclo a prendere sacchi di trucioli per portarli dal fornaio: ogni dieci sacchi, un chilo di pane. Le notizie arrivavano come attutite.
Al mattino studiavo al conservatorio, la sera suonavo la tromba per gli ufficiali tedeschi, riuniti in un locale di via Crispi, a ballare i valzer di Strauss con le ragazze romane. Un giorno in piazza Colonna incontrai un prete partigiano, don Paolo Pecoraro, che mi disse: tra poco ne sentirete delle belle. Seguì un botto. Era la bomba di via Rasella. Poi arrivarono gli americani, e suonavo per loro negli alberghi di via Cavour. Non ci davano soldi ma cibo – pane bianco, cioccolata, anche pietanze cucinate – e sigarette; io non fumavo, rivendevo le sigarette e portavo i soldi a casa».
• «Tra i 14 e i 16 anni, Ennio Morricone, d’estate, suonava con un gruppo al Florida, nei pressi di via del Tritone. Nel locale “c’era un clima un po’ da casa di tolleranza, sotto i tavoli succedevano cose sconce. Ogni tanto la polizia faceva una retata e una volta una delle ragazze, per non farsi arrestare, finse di essere la mia fidanzata, acchiappandomi e dandomi un bacio. Io, prima d’allora, non avevo mai baciato una donna. Ero sconvolto. Lei riuscì ad andarsene indisturbata”» (Leonetta Bentivoglio).
• Perse il fratellino Aldo quando questi aveva solo tre anni: «Come accadde? “Fu una morte assurda, provocata dall’insipienza di un medico. Aldo aveva mangiato delle ciliegie cadute da alcuni vasi. La sera prese a vomitare. Pensammo a un’influenza. Era estate e il nostro dottore di famiglia era in vacanza. Chiamammo il sostituto che sbagliò completamente la diagnosi (…). Morì per un enterocolite acuta, scambiata per un banale mal di pancia (…). Fu terribile (…), mio padre finì con l’accentuare il suo lato più severo. In contrasto netto con l’atteggiamento della mamma, la cui bontà assoluta era spesso fuori luogo. C’era un’esagerazione in entrambi i sensi che mi disorientava. Cercai sempre più rifugio nella musica» (ad Antonio Gnoli).
• «Per guadagnare, iniziai a fare i primi arrangiamenti musicali alla radio (…), poi un giorno mi chiamò Luciano Salce e realizzai le musiche del mio primo film. Il regista mi fece vedere il filmato e lo musicai. Quell’esperienza andò bene e per qualche anno collaborammo assieme. Poi vennero gli altri registi».
• Diploma in Tromba (nel 1946) e in Composizione (nel 54, sotto la guida di Goffredo Petrassi) all’Accademia di Santa Cecilia, è diventato «il compositore italiano più noto all’estero. Le sue colonne sonore sono entrate nella leggenda. I grandi nomi del rock lo citano e gli rendono omaggi su omaggi. La sua prolificità, poi, è ineguagliabile: anche venticinque film in un anno (oltre 500 dal 1960 a oggi ­– ndr)» (la Repubblica).
• «I Metallica da anni aprono i loro concerti con le note di The Ecstasy of Gold da Il buono, il brutto e il cattivo, e la cosa mi ha sempre divertito molto, perché io con la loro musica non ho nulla a che fare!».
• Nomination all’Oscar per I giorni del cielo (Malick 1978), Mission (Joffe 1986), Gli Intoccabili (De Palma 1987), Bugsy (Levinson 1991), Malèna (Tornatore 2000), The Hateful Eight (Tarantino 2015, vinto); Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 1995. Tra i film per cui ha composto la colonna sonora: Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto il cattivo, C’era una volta il west, Giù la testa, C’era una volta in America (1964, 1965, 1966, 1968, 1971, 1984, tutti di Sergio Leone), Uccellacci e uccellini (Pasolini 1966), La battaglia di Algeri (Pontecorvo 1966), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Petri 1970), Novecento (B. Bertolucci 1976), Nuovo cinema Paradiso (Tornatore 1988). «Mi sono trovato bene con tutti, con Pontecorvo, con Montaldo, Bolognini, Elio Petri. Ultimamente, ed è uno di quelli con cui mi sono trovato meglio in assoluto, c’è Tornatore».
• «Sergio Leone era dispettoso, spesso anche velenoso con i suoi colleghi. Nacque tutto con Per un pugno di dollari: voleva mettere nella scena finale, il duello tra Volonté e Eastwood, il popolare Deguello tratto dal film di Howard Hawks Un dollaro d’onore, con le musiche di Tiomkin. Gli dissi che non avrei più fatto il film: non si può togliere a un compositore la soddisfazione di fare una scena importante. Lui allora mi chiese una cosa simile al Deguello, cosa che mi guardai bene dal fare. Ripresi invece, a sua insaputa, una ninna nanna che avevo scritto qualche anno prima per i Drammi Marini di Eugene O’Neill per la tv.
La feci sentire a Sergio facendogli credere che l’avevo scritta per l’occasione. Fu entusiasta. Qualche anno dopo glielo rivelai e lui trasformò questa cosa in una regola: mi invitò a fargli sempre ascoltare i temi che altri registi avevano criticato o scartato. Anche per C’era una volta in America utilizzai il tema d’un film che all’ultimo non avevo più fatto». «Ma è vero che da bambini eravate stati a scuola assieme, e che lo scopriste solo quando vi ritrovaste, trent’anni dopo, per la colonna sonora di Per un pugno di dollari? “Appena entrato la prima volta a casa mia – era il 1963 – glielo dissi. Non ci credeva. Allora gli mostrai la foto della terza elementare. C’eravamo tutti e due. Nacque subito un feeling”» (a Paolo Scotti).
• «Pasolini, con il quale ho collaborato in tutti i film tranne che in Medea, mi diceva: “Faccia quello che vuole”. Per questo non lo lasciai mai».
• «Ho paura dell’aereo, è uno dei motivi che non mi fa più lavorare per gli americani. E poi non sono un direttore d’orchestra e, infatti, al massimo dirigo Morricone. Quando salgo sul podio mi piace, ma il mio mestiere è comporre».
• Dal 1946 a oggi ha scritto più di cento titoli di musica non da film: ultimi Silicio e altri frammenti (2006), Vuoto d’anima piena (2008). Nel 1965 entrò a far parte del Gruppo di improvvisazione Nuova Consonanza.
• Sua opera preferita: la Tosca di Puccini.
• «Film che Ennio Morricone avrebbe voluto musicare: Arancia Meccanica (“Il problema nacque sul luogo dove incidere le musiche. Io volevo registrare a Roma, ma lui non amava volare e chiedeva di incidere a Londra. Le cose si complicarono anche perché in quel momento lavoravo con Sergio Leone, e alla fine rinunciai”), La sottile linea rossa (“In quel periodo viaggiavo molto e il regista Terence Malick non riuscì a trovarmi nel momento in cui si chiudevano i contratti»), L’ultimo imperatore (“Ma in quel caso non sono stato chiamato”)» (Antonio Monda).
• «Ennio Morricone evita i set per i quali scrive la colonna sonora. Tre eccezioni: C’era una volta il west e C’era una volta in America solo per il primo ciak, La leggenda del pianista sull’oceano più a lungo perché doveva coordinare Tim Roth al pianoforte» (Antonella Amendola).
• Fa ascoltare in anteprima la sua musica alla moglie: «È lei che giudica prima di tutti. Nel passato capitava che spesso i registi mi fregavano: di tutti i brani che proponevo sceglievano i più brutti. Ora non accade più. C’è mia moglie. Non ha una conoscenza tecnica della musica. Ma giudica come farebbe il pubblico. È severissima» (a Federica Lamberti Zanardi).
• La moglie, sposata il 13 ottobre 1956, si chiama Maria Travia. Ha dedicato a lei tutti e due gli Oscar vinti: «È un atto di giustizia. Mentre io componevo lei si sacrificava per la famiglia e i nostri figli. Per cinquant’anni ci siamo visti pochissimo: o ero con l’orchestra o stavo chiuso nel mio studio a comporre. Nessuno poteva entrare in quella stanza tranne lei: il suo unico privilegio». Quattro figli, tre maschi e una femmina, uno solo, Andrea (Roma 10 ottobre 1964), s’è dato alla musica, Giovanni (1966) fa il regista, gli altri sono Marco (1957) e Alessandra (1961).
• «È un signore alquanto stravagante, lontano dagli stereotipi del genio e sregolatezza. Uomo metodico, apparentemente imperturbabile, completamente dedito al lavoro e alla famiglia, con una santa moglie che lo accompagna dovunque: «Vado a letto abbastanza presto, la sera alle 10: mi alzo alle 4 del mattino, faccio ginnastica e una camminata ma non fuori, in casa. Poi esco a prendere i giornali, li leggo e poi non mi fermo più: se ho cose urgenti da fare vado avanti fino a sera”. E se è in tournée? “Se ho il concerto vado a letto tardi, dunque mi alzo un po’ più tardi e non faccio ginnastica”» (Marinella Venegoni).
• Il 25 febbraio 2007, dopo cinque nomination senza esito, gli venne conferito l’Oscar alla carriera per «i suoi magnifici contributi all’arte della musica cinematografica». Gli consegnò la statuetta Clint Eastwood («Io certamente non sarei qui se ogni apparizione del mio Gringo nei western di Sergio Leone non fosse stata accompagnata dalle sue note suggestive»), che tradusse il suo discorso di ringraziamento dall’italiano all’inglese a tutta la platea. Celine Dion cantò il Tema di Debora da C’era una volta in America.
Era il primo brano dell’album We all love Ennio Morricone, appena distribuito dalla Sony Classics in tutto il mondo, in cui le sue musiche sono interpretate da star internazionali come Bruce Springsteen, Metallica, Yo Yo Ma, Herbie Hancock ecc. «Ho ricevuto in Italia e nel mondo tanti premi, non so nemmeno quanti, premi importantissimi, da quello del presidente della Repubblica al Bafta britannico, dai Golden Globe al Grammy. Ma l’assenza di un Oscar era come un buco lì in mezzo, un vuoto che mi dava un po’ fastidio, lo confesso».
• All’inizio di febbraio 2007 diresse per la prima volta in America: concerto nella sala dell’Assemblea generale dell’Onu, aperto da Voci dal silenzio, la suite nata dopo l’11 settembre («La dedica è dentro i suoni, e l’ho poi allargata a tutte le stragi della storia umana»), e poi al Radio City Music Hall di New York, «pubblico in piedi e standing ovation a ripetizione» (Gino Castaldo).
• Il 16 aprile 2007 debuttò al Teatro alla Scala dirigendo la Filarmonica e il Coro in un concerto a favore dell’Associazione don Giuseppe Zilli, presentato da Giorgio Armani. In programma i suoi grandi temi: «Alcune cose le devo fare, altrimenti la gente sta male. Mission, ad esempio, che deve il suo successo a un’intensa carica di ascetismo e spiritualità». L’anno precedente era stato per la prima volta sul podio dell’orchestra milanese per una tournée estiva in Italia.
• Nel 2009 il Presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, ha firmato un decreto che lo nomina al grado di Cavaliere nell’ordine della Legione d’Onore.
• Nel 2010 e nel 2013 ha ricevuto il David di Donatello per la miglior colonna sonora, rispettivamente per Baaria e per La migliore offerta, entrambi di Giuseppe Tornatore. Per quest’ultimo film ha vinto anche l’European Film award, sempre nel 2013.
• Ha aperto il concerto del primo maggio 2011 (anno del 150° dell’Italia unita), dirigendo una sua composizione, Elegia per l’Italia, ispirata al Va pensiero di Verdi e all’inno di Mameli.
• Nel febbraio del 2016 è il tredicesimo italiano a ricevere una stella, la numero 2574, sulla Walk of Fame in Hollywood Boulevard, Los Angeles.
• Nel 2016 ha ricevuto il suo terzo Golden Globe per la colonna sonora di The Hateful Eight, l’ultimo film di Quentin Tarantino, che ritirando il premio in sua vece sul palco lo ha così definito: «Morricone è il mio compositore preferito, e quando parlo di compositore non intendo quel ghetto che è la musica per il cinema, ma sto parlando di Mozart, di Beethoven, di Schubert». «Ha detto una cosa carina, l’ha detta grossa come è grosso lui, pieno di sostanza. Mi fa piacere che mi abbia fatto un elogio gentile ma non siamo noi a doverci collocare, sarà la storia a decidere e perché arrivi il tempo giusto ci vogliono secoli» (Morricone a Michela Tamburrino) [Sta 12/1/2016]. Per lo stesso film ha ricevuto anche un Bafta.
• Politica «Non ho mai parlato di politica in vita mia. Controlli negli archivi: non troverà una sola intervista al riguardo. Non mi schiero. Non milito. Faccio un altro mestiere (...) Non sono mai stato comunista, né socialista. Sono cattolico, nella Prima Repubblica votavo democristiano. Del resto, Gesù per me è stato il primo comunista. Mi sento dalla parte dei poveri, anche se ho una bella casa; ma i soldi non li ho rubati. Ho ammirato De Gasperi. Ho condiviso il progetto di Moro di aggregare al centro le forze popolari. Avevo un’alta concezione di Craxi. E ho sempre stimato Andreotti: sono stato felice che sia stato assolto, e che abbia sempre rispettato i magistrati, a differenza di altri (...) Della politica di oggi non mi piacciono gli insulti ai senatori a vita, e le calunnie contro Prodi». Eletto nella Costituente del Partito democratico: «A mia insaputa» (ad Aldo Cazzullo).
• Fu designato da Francesco Rutelli come membro del Consiglio di amministrazione del Teatro dell’Opera di Roma in rappresentanza del ministero. Venne sostituito da Bruno Vespa a dicembre del 2008: «Nel maggio 2007 il ministro Francesco Rutelli firmò il mio decreto di nomina quando mi trovavo all’estero. Mi sembrava scorretto sottrarmi. Andai alla prima seduta del Consiglio e dissi: “Guardate, io ho una mia professione, non posso occuparmi di tutto questo, non verrò mai più”. Lasciai anche prima della fine della seduta e informai della mia scelta il sindaco Walter Veltroni. E davvero non tornai mai più. Nessuno ebbe da ridire».
• «Una domanda a Beppe Grillo: “Perché non dire le stesse cose, ma senza urlare?”. Aveva dimenticato di chiederglielo quella sera a Modena per l’anniversario di Pavarotti, quando lo hanno immortalato accanto all’ex comico (…). “Uno scatto con nessuna valenza politica ma di simpatia – ci tiene a precisare –. Mi faceva ridere quando faceva il comico mentre oggi ha intrapreso un’altra strada”» (a Simone Pieranni).
• «Il mio sogno è sempre stato reinterpretare l’inno di Mameli. L’ho realizzato per Cefalonia, il film per la tv: una versione più lenta, solenne. Ma quando diressi al Quirinale il cerimoniale mi bloccò».
• Musica «Cinema e musica hanno una qualità identica che è la temporalità: se vogliamo dare un parere su un film dobbiamo aspettare che finisca e lo stesso vale per la musica, che sia di Beethoven o di Mozart. Questo vuol dire che la durata dell’evento sonoro applicato al film deve essere della stessa qualità temporale di quest’ultimo. Se un regista chiede un pezzo di 20 secondi, si può essere certi che non funzionerà».
• «È importante il silenzio nella musica? “È la sua parte più segreta e intima. Qualche tempo fa Riccardo Muti ha eseguito a Chicago una musica che scrissi nel ricordo della tragedia delle Twin Towers e che ho chiamato, non a caso, Voci dal silenzio. C’è un istante, dopo un grave trauma, in cui tutto si ferma. Tutto tace. È in quel momento che il suono manifesta la sua forza. Viviamo in una società del rumore che ha sconfitto il silenzio”» (ad Antonio Gnoli).
• «Non condannerei il rumore. È una risorsa per la musica. I rumori non sono difetti, non sono errori (…). Sono una fonte di ispirazione, perfino sgradevoli ma di brutale bellezza, densi di esperienza e di vita. Nei western di Sergio misi anche colpi di frusta, di martello, di campane. E poi la voce umana, ma usata come uno strumento. Voce che canta, che fischia, che si schiarisce la gola, che schiocca la lingua… In una partitura dedicata all’inverno misi perfino dei colpi di tosse».
• «Suono il pianoforte piuttosto male, ma ho sempre pensato che se il regista lo accetta così, quando lo avrò strumentato, con le suggestioni timbriche e l’orchestrazione gli piacerà ancora di più. Purtroppo con il regista si tratta di intendersi sempre e solo sul discorso tematico, trascurando quello che c’è attorno alla melodia, che secondo me è molto più importante».
• «Ascoltavo Bach, ma ora non più perché c’è una convergenza tra sperimentazioni per il cinema e altre che seguo per le mie composizioni libere. La musica del cinema non è solo musica sinfonica, è musica del nostro tempo. Il compositore si rivolge a una platea vasta e deve tenere conto di tutto quello che succede in musica. Bisogna avere le carte in regola per scrivere una sinfonia, ma se serve una canzone da cantautore io la scrivo. In Uccellacci e uccellini, Pasolini mi disse: “Vorrei una musica per accompagnare i titoli, cantati da Modugno”, e allora ho scritto una filastrocca».
• Vizi
Ha investito tutto quello che ha guadagnato in un grande appartamento vicino all’Ara Coeli, in Roma, con le finestre che si affacciano sul Campidoglio. Mille metri quadri coperti: ogni mattina fa footing facendo il giro completo di tutte le stanze.
• Appassionato di scacchi, ogni tanto gioca contro qualche campione, in simultanea o no.
• Tifoso della Roma: «Allo stadio ora non vado da tanto, devo dire la verità, mi piace stare a casa. Ho questo schermo grandissimo in cui vedo la testa di Totti enorme. Quando andavamo allo stadio con Sergio Leone ricordo sempre il delirio, il parcheggio, l’entusiasmo della folla ma anche le file. Quanto alla mia prima volta allo stadio, ho un ricordo nitido. Andai a Campo Testaccio con mio padre, ero piccolo. Avevamo un posto in piedi dietro alla porta» (da un’intervista sul sito ufficiale della Roma).
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milanonews · 4 years
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Vimercate, scritte contro il lockdown sui muri: «Gesto deprecabile»
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«Scuole aperte, ora», «lock down regime», a caratteri cubitali, e altre scritte simili sono apparse in via Cavour, in centro, vicino alla sede del Giornale di Vimercate e in via Dozio, nei pressi di una scuola, la sala civica e la mensa dei dipendenti comunali Fonte: Corriere della Sera
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hotelsulmare · 7 years
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Incanti di Natale a Loano
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Luci, suoni e sapori a Loano per salutare l’arrivo del Natale e per dare il benvenuto al nuovo anno. L’illuminazione artistica vestirà a festa la città, il mercatino Villaggio Magie di Natale offrirà una atmosfera festosa in una scenografia da fiaba e il programma di eventi “Incanti di Natale”, promosso dall’Assessorato al Turismo, Cultura e Sport del Comune di Loano, animerà le festività natalizie con concerti, iniziative per le famiglie, presentazione di libri, presepi e appuntamenti sportivi. Non mancheranno il tradizionale tuffo in mare invernale e gli spettacolari fuochi d’artificio.
Il clou degli eventi sarà rappresentato dal Capodanno in Piazza, un grande spettacolo di fine anno in compagnia dello ZOO di 105. Musica live e DJ set con i Supernovanta e con la partecipazione diPaolo Noise, Pippo Palmieri e Wender, i tre membri storici del programma radiofonico di grande successo.
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Novità di quest’anno sarà la pista di pattinaggio su ghiaccio nella Marina di Loano che insieme all’illuminazione artistica porterà un’atmosfera di festa nel porto, regalando divertimento a grandi e piccini.
Sabato 25 novembre, alle ore 17.00 nei Giardini San Josemaria Escivà, si svolgerà, alla presenza delle autorità cittadine e regionali, l’inaugurazione del mercatino Villaggio Magie di Natale, promosso dall’Associazione Centro Culturale Polivalente di Loano.
Qui le famiglie troveranno lo spazio ideale per i bambini. Le decorazioni luminose, realizzate a mano, che abbelliscono lo spazio e i piccoli chalet con gli oggetti da regalo faranno immergere i visitatori in un magico clima natalizio. Incorniciato da una scenografia da fiaba il mercatino offrirà un programma di intrattenimento per tutta la famiglia e street food natalizio con le tante golosità delle feste.
Babbo Natale attenderà i bambini nella sua rinnovata e accogliente casetta per fare con loro una foto e per raccogliere le letterine di natale. Sotto un albero incantato, un elfo trucca-bimbi giocherà con i più piccini. Al centro della vasca della fontana una scintillante slitta di Babbo Natale sarà a disposizione di chiunque desideri fare una fotografia.
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I pomeriggi di shopping saranno accompagnati da eventi musicali e da animazioni per i più piccini che si svolgeranno alle ore 15.30 nell’area spettacoli del Villaggio Magie di Natale.
Il ricco programma di intrattenimento vedrà protagonista il 2 dicembre, Sante che intratterrà i bambini con i giochi musicali disco bimbo e karaoke.
Sempre ai più piccoli è dedicato, il 9 dicembre, il Circo di Natale, laboratorio di arti circensi per bambini con il gruppo “Circo Incerto”.
Il 16 dicembre il mercatino sarà animato dai VoxArt formazione composta dagli allievi della scuola "VoxArt cantare a 360°" diretta da Davide Comentale.
Il suono di zampogna e pipita il 22 dicembre riporteranno alle tradizionali sonorità pastorali natalizie dell’Italia centrale e meridionale e faranno rivivere l’atmosfera di festa della notte della Vigilia di Natale.
Il Circo Incerto sarà nuovamente protagonista il 23 e il 30 dicembre e condurrà i bambini alla scoperta del magico mondo del circo, tra equilibrismo e giocoleria.
Il 26 dicembre si alzerà il sipario sull’inedita edizione “Improvvisamente tu... a Natale” curata dall’Associazione Modern Jazz Dance di Loano diretta da Teo Chirico.
Nel nuovo anno tornerà ad animare il Villaggio di Natale il Circo Incerto (4 gennaio) che coinvolgerà i bambini in esercizi di giocoleria, equilibrismo e sul trapezio aereo.
Il giorno dell’epifania la rassegna di intrattenimento nel Villaggio Magie di Natale si chiuderà con l’arrivo della befana a suon di musica e tante ciapelette (caramelle).
Il 7 dicembre alle ore 17.00 l’accensione del grande albero di Natale in Piazza Italia, darà il via all’illuminazione artistica della città. La festa coinvolgerà gli alunni della scuola primaria dell'Istituto Comprensivo Statale Loano-Boissano e dell’Istituto Rossello, che daranno vita ad un concerto vocale, e l’Associazione “U Gunbu de Löa” che animerà il pomeriggio eseguendo un ampio repertorio di canti della tradizione popolare natalizia.
Nella stessa giornata sarà inaugurata la pista di pattinaggio su ghiaccio allestita nell'area parcheggio di Marina di Loano e sarà accesa anche l’illuminazione artistica nel porto. La pista avrà una superficie di oltre 300 metri quadrati e sarà aperta a grandi e piccini. I più giovani e i meno esperti potranno cimentarsi nello “skating” su ghiaccio grazie ai “pinguini” che aiuteranno i principianti a mantenersi in equilibrio. La pista di pattinaggio sarà in funzione fino al 7 gennaio.
Per tutto il periodo natalizio, le Mille luci delle Feste valorizzeranno le vie commerciali  della città. Piazza Italia sarà abbellita dallo scintillante albero di Natale. Un tappeto di luci a led bianche ricoprirà le vie del centro storico (via Garibaldi, Cavour, Doria e Boragine, piazza Massena, Via Ghilini e piazza Rocca) e l’incrocio che porta a Monte Carmelo, avvolgendole di  una calda atmosfera di festa. Nel cuore del centro storico, un susseguirsi di sfere luminose segneranno il percorso nel dedalo dei caruggi  (via Ricciardi, Via Rosa Raimodi, Via Rocca, Via Colombo, Via Opisso, Via Giardino,) fino a raggiungere via Stella e una grande pallina tridimensionale abbellirà piazza Rocca.
Una sfavillante arcata di ghiaccio valorizzerà le vie che costeggiano il lungomare (via Nazzaro e Sauro, Corso Roma, Piazza Mazzini), lungomare Loreto, piazza  Palestro, via Stella, Piazza Massena. Mentre un luminoso cielo stellato ricoprirà via Martiri Foibe e Corso Europa.
Archi di stelle risplenderanno in via Genova, via Dante, via Cesarea, via dei Gazzi, via Trento Trieste, via Pascoli e Monte Carmelo.
Sulla via Aureliala prima rotatoria, lato levante,  ospiterà una grande stella tridimensionale e un tappeto di luci avvolgerà la base delle altre tre rotonde.
Verzi sarà abbellita da luminosi fiocchi di neve e da uno scintillante abete. Infine, le luci disegneranno il profilo dell’Oratorio delle Cappe Turchine e illumineranno la facciata della Parrocchia S. Maria Immacolata. Immagini sacre saranno proiettate sull’esterno della Parrocchia S. Giovanni Battista.
Nel periodo delle feste si rinnoverà la rassegna Libri sotto l’albero dedicata agli appassionati della lettura. Sei in tutto gli appuntamenti con i libri, gli autori, la poesia e la musica. A condurre gli incontri sarà la curatrice della rassegna Graziella Frasca Gallo. L’accompagnamento musicale e canoro sarà affidato al Maestro Roberto Sinito.
Ad inaugurare la rassegna, che si svolgerà nella Civica Biblioteca, alle ore 16.30, sarà il 2 dicembre la presentazione del libro “E allora baciami” (Rizzoli, 2017) di Roberto Emanuelli. Lo scrittore romano ha  esordito con “Davanti agli occhi” (2016), un piccolo caso
editoriale intorno al quale è nata sui social un’appassionata comunità di lettori. Nel suo nuovo romanzo Emanuelli racconta una storia d’amore e di coraggio.
Il 10 dicembre sarà ospite dell’iniziativa Francesco Carofiglio. Lo scrittore pugliese presenterà il suo ultimo romanzo “Il Maestro”. Un uomo e la sua solitudine, una ragazza altrettanto sola e assetata di conoscenza, un appartamento nel cuore di Roma e un amore sconfinato per Shakespeare e la recitazione. Questi sono gli ingredienti principali del romanzo di Carofiglio pubblicato da Piemme.
Giorgio Genta, presidente dell’Associazione DopoDomani Onlus presenterà il 16 dicembre il libro “Combattendo la disabilità gravissima con una vita (quasi) normale”.
Genta incontrerà il pubblico per raccontare la sua esperienza di resilienza difronte alle difficoltà che ogni giorno il mondo della disabilità vive.
Saranno Graziella Frasca Gallo e il Maestro Roberto Sinito (chitarra e voce) a dar vita il 23 dicembre all’incontro di “Poesia e Musica”. Gli autori più celebrati si intrecceranno con quelli meno conosciuti, in un viaggio tra emozioni e sentimento.
Il 30 dicembre la rassegna incontra Marco Braico, autore del libro “Teorema del primo bacio” (2017, Piemme), romanzo sulla scuola, gli insegnanti, i ragazzi, i primi amori e le prime prove dolorose della vita.
“Libri sotto l’albero” si chiuderà il 7 gennaio con la presentazione del noir “Un piede in due scarpe” (2017, Rizzoli) di Bruno Morchio. Dopo Bacci Pagano, Morchio torna con un nuovo personaggio seriale per raccontare una faccia diversa della sua Genova. L’autore incontrerà il pubblico loanese per condurlo nei misteri più grandi di quelli del crimine: i segreti della psicologia.
Arricchiranno il programma culturale delle feste due conferenze dell’UNITRE di Loano che si svolgeranno nella Sala Consiliare di Palazzo Doria alle 16.00: “L'icona Bizantina” a cura di Giorgio Oikonomoy (2 dicembre), “Avevo un fazzoletto azzurro“ a cura di Franca Benedusi (16 dicembre). Il 4 gennaio le conferenze lasceranno il posto alla presentazione del libro “Monte Carmelo di Loano” il racconto della presenza carmelitana dal 1609 ad oggi.
Infine la Pro Loco Loano, sempre in Sala Consiliare il 5 gennaio, alle ore 20.30, presenterà il libro “Canti liguri inediti e non“ di Giorgio Coggiola. L’incontro sarà animato dalla presenza del coro “I Pertinaci“.
La musica accompagnerà le festività natalizie con concerti nelle chiese, negli oratori e in piazza. A dare il via alla rassegna Musiche Celesti sarà, il 9 dicembre alle 18.00, il Concerto di Natalenella Chiesa Madonna di Loreto. Protagonista del concerto inaugurale, sarà Paola Arecco (pianoforte) accompagnata da Elisabetta Vosilla (voce) e Gianni Gollo (flauto). La pianista tornerà ad esibirsi in duo il 17 dicembre alle 16.30 nella Chiesa SS. Cosma e Damiano. Insieme a Gianni Gollo (flauto) eseguirà un programma di musica sacra e natalizia.
L’Associazione Musicale Loanese presenterà due concerti nell’Oratorio N.S. del SS. Rosario (Cappe Turchine). Il 20 dicembre alle 17.00 sarà eseguito il concerto del Coro delle Voci Bianche Città di Loano e il  29 dicembre alle ore 21.00 il Concerto di Natale del Coro Polifonico con brani che appartengono alla tradizione classica della musica sacra e natalizia.
“Cantique De Noel“ è il titolo del concerto del 23 dicembre che si svolgerà alle ore 21.00 nella Chiesa di Sant'Agostino. Il programma della serata prevede brani legati alle festività del periodo natalizio eseguiti da Melissa Briozzo.
La rassegna il 26 dicembre si sposterà nel Convento di Monte Carmelo dove alle ore 16.00 Nicoletta Ghilino e Davide Baglietto eseguiranno un concerto di voce, pianoforte e cornamuse dedicato al Natale.
Il 30 dicembre la Chiesa di Sant'Agostino ospiterà alle ore 21.15 il concerto "Corale Cantico - Natale in Quartetto” con Simona Briozzo (voce) Marco Cravero (chitarra elettrica/acustica),Federico Fugassa (contrabbasso), Alessandro Graziano (violino). Il repertorio spazierà tra i classici brani della tradizione Natalizia con qualche incursione nel gospel.
Musiche Celesti si chiuderà nell’Oratorio N.S. del SS. Rosario, il 6 gennaio con l’ultimo concerto della rassegna annuale “I Concerti dei Turchini -  Le Musiche dell'anima". Alle ore 16,45l’orchestra da camera Gli Archi di Zinaida eseguirà musiche di Vivaldi, Sarasate, Saint-Saens e Paganini sotto la guida del Maestro concertatore Maria Caterina Carlini.
Il 5 gennaio tornerà ad animare piazza Italia l’appuntamento musicale Racconti d’inverno organizzato dall’Associazione Compagnia dei Curiosi. La grande festa con balli delle Valli Occitane inizierà a scaldarsi, dalle 17.00, con il duo composto da Luca Declementi (organetto, voce, fifre e cornamusa) e Davide Bagnis (batteria). I musicisti del gruppo Lou Pitakass lasceranno poi il posto alGRAN BAL DUB il progetto di Sergio Berardo (Lou Dalfin) e Madaski (Africa Unite), che unisce la tradizione dell'Occitania e delle sue danze con il sound dell'elettronica e del dub.
La musica sarà anche l’ingrediente principale del Capodanno in piazza che saluterà la fine del 2017.
La band dei Supernovanta accompagnerà il pubblico fino ai rintocchi della mezzanotte con uno spettacolo in cui il dj-set incontrerà le voci maschili e femminili, sax, chitarra e percussioni per dar vita ad una grande animazione dal vivo.
Lo spettacolo sarà incentrato sui più grandi successi della dance anni ’90 con lievi incursioni nei primi anni 2000, e con uno sguardo agli evergreen degli anni Settanta e Ottanta e ai brani classici che segnano l’ingresso al nuovo anno.
Il mitico countdown verrà affidato a un trio davvero d’eccezione, super guest della serata che da loro prende il nome di CAPODANNO by LO ZOO DI 105.
Ad annunciare il primo minuto del 2018 saranno Paolo Noise, Pippo Palmieri e Wender, tre membri storici del programma più irriverente e di successo della radio italiana. I “cattivi ragazzi”, che ogni pomeriggio da Radio 105 fanno ridere il pubblico dei giovani e non solo, coinvolgeranno la piazza con musica e sketch per iniziare il nuovo anno con il sorriso. Il finale della serata sarà affidato aiSupernovanta.
La festa proseguirà il primo gennaio, con gli spettacolari fuochi d'artificio in programma alle 18.00 sul molo Kursaal. Dopo lo spettacolo pirotecnico nell'area parcheggio di Marina di Loano si terrà un concerto gratuito.
Il 28 dicembre si terrà la XXXI^ edizione del Cimento Invernale di Nuoto. Nello specchio acqueo antistante i Bagni Medusa, dalle ore 10.00, gli appassionati cimentisti si metteranno alla prova affrontando il tradizionale “tuffo in mare” di fine anno
Completerà il programma delle feste di natale l’iniziativa Vin brulé e cioccolata calda del Gruppo Alpini di Loano che si svolgerà il 30 dicembre e il 5 gennaio alle ore 18.00, in Piazza Vittorio Vento. La tradizionale distribuzione del vino caldo e della cioccolata avrà l’obiettivo di raccogliere fondi per l’Ospedale Gaslini di Genova.
Durante le feste inoltre allo Yacht Club di Marina di Loano si terranno due cene “speciali”: una la sera della vigilia di Natale (il 24 dicembre) e un'altra la sera di San Silvestro (il 31 dicembre).
In Palazzo Doria infine saranno allestite due mostre. Dall’1 al 15 dicembre si potrà visitare l’esposizione di opere pittoriche realizzate nell’ambito del laboratorio artistico dell'UNITRE di Loano e dal 21 al 7 gennaio la personale dell’artista Roberto Lafornara che presenterà alcune delle sue ultime opere, in stile pop art, realizzate su materiali quali vinile, juta e cartone da imballo.
Nel Palazzo Kursaal dal 22 dicembre al 7 gennaio si potrà visitare la mostra Loano per il mare. Nel salone centrale del palazzo Kursaal si potranno ammirare i pezzi più significativi della collezione dedicata alla marineria loanese e della provincia di Savona, che l’Associazione Culturale Marinara Lodanum ha conservato con grande cura nel piccolo museo. La mostra resterà aperta tutti i giorni dalle 15.00 alle 18.00.
La vela e il calcio saranno i protagonisti del Natale loanese di sport. Dal 4 al 9 dicembre e dal 15 al 20 dicembre il Centro Federale di Alta Specializzazione per la Vela della Federazione Italiana Vela, in collaborazione con il Circolo Nautico di Loano e la Marina di Loano, ospiterà l’allenamento della Classe 49er femminile (13/18 novembre) e della Classe 49er maschile.
Dal 27 al 30 dicembre, nel Palazzetto dello Sport E. Garassini, l’A.S.D. Loanesi San Francesco sarà impegnata nell’organizzazione del Torneo di calcio giovanile Città di Loano - Trofeo “Ettore Mussi” riservato alle categorie Pulcini e Piccoli Amici.
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solitaryfossil · 7 years
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FONTANESI, Antonio
Italian painter (b. 1818, Reggio Emilia, d. 1882, Torino)
Romanticism
Countryside
1867-68
Oil on canvas, 150 x 190 cm
Galleria dell'Arte Moderna, Palazzo Pitti, Florence
Italian painter. In 1832, at the age of 14, he began attending the local Scuola di Belle Arti where he was a pupil of Prospero Minghetti (1786-1853). Fontanesi's early work revealed his versatility: in the 1830s he produced tempera murals for several houses in Reggio Emilia, such as the Casa Zanichelli, Via S Filippo (in situ), and the Casa Ghinizzini, Via Emilia Santo Stefano (in situ), combining townscapes and architectural perspectives with friezes and medallions in an 18th-century manner. For the 1841-42 and 1845-46 theatre seasons he designed stage sets for performances of operas, including Verdi's Nabucco, performed in the Teatro Comunale. He began painting landscapes in this period.
Although he was appreciated in Reggio Emilia, Fontanesi resented the limited cultural climate, and shortly after his mother's death in 1845, he left for Turin. Probably stirred by the ideals of the contemporary Italian revolt against the Austrians, he then moved on to Milan, where he joined the forces of Garibaldi in 1848. In 1859, he was again to briefly join Cavour's armed forces in Bologna. In 1850, he moved to Geneva, where he stayed until 1865. His main area of interest was landscape painting, which he expanded on after visiting the 1855 Exposition Universelle in Paris. He is known for his works in the romantic style of the French Barbizon school.
Fontanesi lived in Meiji period Japan between 1876 and 1878. He introduced European oil painting techniques to Japan, and exerted a significant role in the development of modern Japanese Western style painting.
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pangeanews · 4 years
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Sergio Zavoli dettava al telefono le interviste – perfino le virgole –, pareva statuario ma sapeva commuovere. Il suo libro più bello attacca così: “Dalle mie parti un conto è crescere, un altro è venir su…”. Un ricordo
La prima volta. Fu un non incontro. La mostra, accaduta a Rimini esattamente dieci anni fa, s’intitolava “Confronto a 10”. In sostanza, un poeta – o presunto – era accoppiato a un artista. Io portai una traduzione dalle Lamentazioni da affiancare alle opere di Massimo Pulini. Sergio Zavoli si accompagnò ai quadri di Alberto Sughi. La mostra partì, Zavoli, giornalista dei giornalisti, già Senatore della Repubblica e Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, restò a Roma.
*
1982: Sergio Zavoli tra Giulietta Masina e Federico Fellini
Mi accadde, negli anni, di intervistarlo, un paio di volte. Zavoli incuteva timore – il direttore di allora, Franco Fregni, disse “fai tu”. Feci. Avevo un numero romano. E un appuntamento telefonico, a cui, mi consigliarono, era utile non trasgredire di neanche un minuto. Quanto a questo – almeno in questo – sono nordico. Telefonai. La voce di Zavoli zoppicava. D’altronde. Aveva 90 anni, tutti l’avevano udito, commosso, sulla tomba di Tonino Guerra, a Santarcangelo, rievocare il comune sodalizio con Federico Fellini. “Non so se questa nostra benedetta Romagna, curiosa e distratta che si commuove a ciglia asciutte e abbonda negli affetti, così ribalda e tenera, sfrontata e timida si sia mai stupita che un’aria di collina e di riviera, profumata di poderi e di spiagge, un secolo fa avesse salutato l’arrivo di due ingegni destinati, un giorno, a incantare le più diverse genti del pianeta”. A me parve inesorabile e privo di commozione. Sapeva come commuovere, però. Facevo le domande, Zavoli dettava le risposte. Dettava è il verbo esatto. Parlava come se stesse leggendo un testo. Dettava anche le virgole. “Qui ci vuole il punto”, mi diceva, ogni tanto, “qui la virgola”. La professionalità di quell’uomo – insomma, uno che si è inventato la Rai – coincideva con il talento puro. Quando pensò di aver detto tutto, avevo ancora un paio di domande in faretra, mi disse, “la saluto, le auguro un notevole futuro”, e attaccò. Quasi a dire, non mi chiami più. Il futuro non fu notevole, e l’augurio, forse, si rivela anatema, ma questo poco importa, ora. Sembrava stanco di tutto – anche di essere stanco.
*
Stando a Rimini, all’altra riva del noto, fu ovvio, per me, occuparmi di Zavoli. Per desiderio di sfregiare i sacrari, lo pungevo, ogni tanto. Scriveva poesie pubblicate da Mondadori, ad esempio. Non mi piacevano. Qualche anno fa mi misi – pur superficialmente – a spulciare nella sua carriera in Senato – è stato senatore per quattro legislature, dal 2001 al 2018. Mi restò impressa la frase di Mario Luzi – Senatore pure lui, per merito – che lo ricordava, “ebbe a dirmi, parlando della politica, che non c’è mai tanto bisogno di politica come quando è la politica ad autorizzarci a voltarle in qualche modo le spalle”.
*
Come molti, Sergio Zavoli – ravennate di nascita, riminese di crescita – lasciò Rimini, antica colonia romana, per la grande madre, Roma. Ha fatto quel che sappiamo, con quel viso volitivo, quadrato, serio e aperto, ambizioso. Ha firmato una prefazione potente per La mia Rimini di Fellini, edita da Guaraldi. “Da quel tre novembre del 1993, quando ci congedammo in piazza Cavour – con lo spettacolo dei fazzoletti che parevano tutte le farfalle cavolaie venute a salutarlo dagli orti dei quattro borghi – Rimini ha letto e ascoltato ogni genere di commento, e anche di giudizio, su quel figliolone ravveduto, cioè arresosi all’idea che la Romagna fosse davvero l’origine sentimentale, fantastica, anche civile, della sua esistenza; e Rimini il luogo di una definitiva conciliazione tra vita e morte. Tutto accadde quel giorno, nella suite 315 del Grand Hotel, dove le finestre rimasero a lungo aperte, con il gonfiore delle tende libere di respirare, così pareva, il suo stesso respiro, e la terrazza, sotto, su cui i ragazzi di Amarcord avevano ballato tenendo tra le braccia la nebbia. La città, liberatasi di una vecchia e ostentata diffidenza, restò attonita all’annuncio del malanno e gli fu vicina con un silenzio tra riguardoso e materno, ora che Federico era a Rimini per viverci un tempo mai, prima, così lungo, forse unendo l’idea della sua salute ai segni di una accogliente fraternità. Rimini, diventata una grande casa, amabile in quell’affetto riscoperto e forse messo a frutto per sempre”, scriveva Zavoli, che ha preferito morire nel luogo del successo e non in quello dell’infanzia. E poi, come chi scrive in punta di diamante, potendo scrivere tutto con la potenza di chi conosce gli uomini e i loro trasalimenti, “Pochi, nel cinema di ogni tempo, hanno affrontato con tanta ammonitrice innocenza, senza soppesare opportunità, equilibri, convenienze, i grandi temi incombenti sull’uomo. Federico Fellini l’ha fatto, libero da blandizie e compromessi, non ammiccando ai potenti, ma rivolgendosi soltanto a noi. Senza invettive, grida, proclami, sentenze, semmai inclinando, verso la fine, a un severo silenzio scavato dentro il rumore della nostra epoca”.
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Ho conosciuto Zavoli per lo più attraverso Mario Guaraldi, il grande editore. A volte non ci si conosce che per sotterfugi, sottolineature, i sussurri di un altro – ed è sufficiente. Guaraldi, nel 2005, aveva ristampato il libro che Zavoli amava più di tutti, Romanza. Edito nel 1987 da Mondadori, se n’erano dimenticati in fretta – d’altronde, un grande giornalista non si occupa di facezie e di fiction, ma di grandi inchieste. Mario Pomilio – uno scrittore che non smetto di amare – ne parlava, in prefazione, come di “un libro di fede nell’uomo”, che “possiede in egual misura la splendida concretezza dell’effettivamente vissuto e l’alone delle cose diventate favola e miraggio”. Qui, in omaggio, pubblico le prime pagine. Un uomo che ha vissuto così profondamente la Storia, rischia di essere refrattario al sentire, è puro pensare, quasi una statua – Zavoli, statuario, lacrimava dentro, forse, in una specie di isola privata, nella Villa Adriana del cuore, tra la gola e l’ombelico, una zattera. (d.b.)
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Dalle mie parti un conto è crescere, un altro è venir su. Crescere dà un’idea di creatura rara, la cui esistenza va sorvegliata con cura e alla cui perfezione si riservano regole mondane, princìpi morali e norme estetiche in funzione della preziosità di ciò che, appunto, deve crescere; mentre venir su è l’opposto, è la natura che affida alle lune, come per il vino, la sorte buona o cattiva di chi s’inerpica alla meglio sui fianchi dell’esistenza. Pensavo a questa distinzione, un po’ animosa e un po’ ingenua, ai tempi della scuola, quando nei modi d’essere o di apparire dei compagni intravedevo le differenti vite dei padri e quindi le sorti già separate dei figli, immaginando così un destino di diversità che nessuna cometa avrebbe potuto deviare dal suo corso. Non per nulla, mi dicevo, si cresce a corte, in villa, in collegio, alla scuola di un maestro o all’ombra di un potente; e si viene su come Dio vuole, bene o male a seconda della salute, delle circostanze e della fatalità.
Vedevo crescere poca gente, tantissima ne vedevo venir su: difesa dalle mura, nascosta nei parchi e guardata dai precettori, nel primo caso; ovunque, e fra un’indistinta quantità di persone, nell’altro. Questa visione del mondo, così drasticamente spartita, mi si chiarì quando iniziammo a praticare uno sport, ciascuno il suo preferito. Vidi allora che per un verso si diventava creature pervase da una sobria bellezza, aggraziate, ragguardevoli e risolute, per l’altro aureolate di nulla, dai toni andanti, secondarie e dubbiose. Le prime giocavano a tennis, sciavano, tiravano di scherma, mentre le seconde praticavano il football, boxavano, correvano in bicicletta. Le une avevano della vita un’idea disinvolta e briosa, le altre ispida e insicura.
Sono immerso a tal punto nella memoria di quegli anni, e così segnato da come furono vissuti, che basta un soprassalto per risvegliare una giovinezza rimasta chissà dove; quando viene maggio, ad esempio, qualcosa mi riconduce sulla Via Emilia, dopo il ponte di Tiberio, in attesa del Giro d’Italia. Avevo, per quel giorno, un complice straordinario. Era Vidmer, il figlio di Elconide Moretti, l’infermiera non diplomata che faceva iniezioni magistrali lungo tutta la strada, a qualunque ora, senza strofinamenti e con la mano sinistra. Quanto al padre, un analfabeta, aveva mandato a memoria ciò che stava scritto su ogni marmo o pietra della città, dalle iscrizioni romane all’elenco dei caduti in guerra, dagli editti comunali alle epigrafi sui sarcofaghi del Tempio, e leggendo e illustrando riga per riga tutta quella storia si era guadagnato il necessario per morire, un po’ ogni sera, nelle cantine povere della città, che sanno di vini giovani e di sigari spenti, le stesse dove si era distinto suo nonno e, prima ancora, il bisavolo. Non era mai del tutto sobrio, né proprio alticcio. Di natura ilare, amava provocare sensazioni, nella sua intenzione, gioiose; così, per scuoterlo, dava di gomito a chiunque gli sembrasse infelice o semplicemente rabbuiato. Quando voleva indurre l’Elconide almeno a un sorriso, le ricordava il più bel pezzo del suo repertorio: il concepimento di Vidmer su un barchino, a due miglia da terra, grazie a un equilibrismo del quale la moglie aveva parlato per anni con un’ammirazione un po’ pudica e un po’ spericolata; sicché il ragazzo, ascoltando, si era fatto della vita un’idea, quantomeno, di instabilità. Ma da quel richiamo era rianimata sempre meno; le vanterie del marito la facevano anzi scivolare in uno scoramento ognora più fondo.
Al contrario di me, che ogni mattina me ne liberavo in fretta risalendo da un unico inabissamento, Vidmer rimaneva a lungo influenzato dal sonno, al termine del quale indugiava in un mondo di splendide infondatezze: sognando di saper dare una risposta a qualunque cosa, anche alle più rare e astruse, si svegliava con nozioni fantastiche, ma sicure, di tutto. L’effetto di quella naturale e serena millanteria cominciava a declinare nel corso della mattinata ed era del tutto svanito nel pomeriggio. Fino a quel momento, dunque, Vidmer intersecava, connetteva e risistemava il mondo con la speditezza di chi ha finalmente trovato il bandolo della semplicità.
Sergio Zavoli
*Il testo è tratto da: Sergio Zavoli, “Romanza”, Guaraldi, 2005; in copertina: ritratto fotografico di Sergio Zavoli photo Dino Ignani
L'articolo Sergio Zavoli dettava al telefono le interviste – perfino le virgole –, pareva statuario ma sapeva commuovere. Il suo libro più bello attacca così: “Dalle mie parti un conto è crescere, un altro è venir su…”. Un ricordo proviene da Pangea.
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