#scrittura evocativa
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"Il Giunco" di Gianfranco Isetta: Poesia tra natura e introspezione. Recensione di Alessandria today
Una riflessione poetica sull'interazione tra il mondo naturale e quello interiore, dove il giunco diventa simbolo di vita e mutamento.
Una riflessione poetica sull’interazione tra il mondo naturale e quello interiore, dove il giunco diventa simbolo di vita e mutamento. “Il Giunco”, una delle poesie più evocative di Gianfranco Isetta, ci porta in un paesaggio silenzioso, quasi sospeso, dove la natura diventa specchio di stati d’animo profondi. In pochi versi, Isetta riesce a creare un’atmosfera rarefatta e meditativa, giocando…
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Ci sono tantissime congetture sul perché Glenn Danzig abbia lasciato i seminali Misfits. Per problemi di soldi, perché Glenn si stava più buttando sul blues-metal, per problemi di songwriting e perché (sempre a detta di Glenn) i ragazzi della band punk passavano poco tempo in sala prove. Al di là di ogni altro pensiero possiamo ben sentire cosa è successo nel passaggio di testimone fra Mistifs, Samhain e Danzig: un processo che dall’immaginario horror anni ’50 è approdato a quello degli anni ’80; una progressione musicale che, in nome della velocità e dell’imbastardimento ha di fatto solo indossato la maschera metallara quando in realtà a livello stilistico è successo ben altro. Danzig, col suo progetto solista, oltre che ad esser diventato il deus ex-machina di ogni scrittura e composizione fa un bel back-to-the-roots per quello che riguarda gli stilemi musicali da prendere ed elevare.
Dietro alla produzione bombastic di Rick Rubin (che all’epoca stava davvero macinando successi come Reign in Blood e South of Heaven degli Slayer o Blood, Sugar, Sex & Magic dei Red Hot o i RunDMC) e c’è la volontà di dipingere il lato più notturno di Los Angeles. Dopo aver lanciato un roster di artisti che ti parla di strade, di rapine, di malavita e di disagio sociale Danzig è il profeta della notte. Musicalmente non c’è più niente di punk mentre il lato horror è coadiuvato dalla reinterpretazione dei Black Sabbath, dei AC/DC e dei Led Zeppelin: un blues-rock mascherato da diavolo. Glenn abbandona qualsiasi pilastro punk-rock (neanche i Ramones né i Clash fanno parte più del suo background) per andare più indietro nel tempo ed attingere da Jim Morrison o addirittura da Elvis. L’unione di questo blues-metal lento e asciutto è il debut di Glenn Danzig, che vede la partecipazione di Chuck Bisquits (D.O.A., Black Flag) alle pelli e John Christ al suo tipico tocco blues. Tutti i brani sono puro rock’n’roll vecchio stile ma con la possente voce evocativa e magnetica di Glenn: ascoltate "She Rides" se non vi sembra la sorella malvagia di un brano dei Doors… "Am I Demon", "The Hunter" e "Evil Thing" riprendono tanti stilemi di Jimmy Page e soci imbastardendoli con quel quid in più. Il tutto, stando ben fuori da qualsiasi mondo o panorama heavy metal, anche se siamo in un momento storico in cui l’hard rock spinge molto di più sulla velocità e sulla batteria. Ma non è questo lo scopo di Glenn; il suo è un viaggio musical-spirituale intorno al rock, alle sue chimere e ai suoi diavoli.
#Danzig#Misfits#Samhain#punk#blues#D.O.A.#Black Flag#rock#rock'n'roll#AC/DC#Black Sabbath#Led Zeppelin#Doors#Jim Morrison#1988#Rick Rubin#american#horror
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Peter White: "Non mi scorderò mai" è il nuovo singolo
Peter White, apprezzato cantautore dalla scrittura intensa ed evocativa, pubblica il nuovo singolo Non mi scorderò mai. Non mi scorderò mai fa parte della nuova parentesi artistica di Peter White. Un brano che, osservando con ammirazione e umile aspirazione la canzone d’autore, nasce e trae ispirazione dal periodo dell’anno in cui le giornate si allungano, il sole comincia a farsi sentire ma un…
#emergenti#genere musicale#musica indipendente#non mi scorderò mai#peter white#singolo#spotify#streaming
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Ilaria Tuti - Fiore di Roccia - di Serenella Mariani
FIORE DI ROCCIA ILARIA TUTI “Fiore di roccia” di Ilaria Tuti dire che è un libro bellissimo è restrittivo, si è catturati dalla prima all’ultima pagina con il desiderio di non smettere di leggerlo. Con la sua scrittura evocativa, l’autrice ci porta nell’atmosfera della grande guerra e nello specifico nel ruolo avuto dalle portatrici. Nessuna parola è superflua e ogni citazione entra dritta nell'anima permettendo profonde riflessioni. Ma chi erano queste portatrici? Erano donne che durante la prima guerra mondiale trasportavano ai soldati viveri, munizioni e quanto altro con le gerle sulle spalle, attraverso sentieri impervi. Nello specifico in questo libro si narra la storia di Caterina, Viola, Lucia, Maria e in particolare di Agata, voce narrante. Agata è una donna forte che vive con il padre malato, che cerca di vivere alla giornata; ma la guerra la metterà alla prova facendole affrontare molte battaglie difficili, come anche alle altre protagoniste che hanno una loro vita: sono mammee dedite alla famiglia… attraverso loro viene fuori tutta la tenacia, la determinazione, la fragilità di queste donne che mai si arrendono, che cercano di fare la cosa giusta in ogni circostanza senza mai perdere di vista il valore primario della giustizia e della solidarietà. Con le loro gerle cariche di esplosivo, rifornimenti, flaconi di tintura di iodio, lettere, bende, le donne si incamminano per quelle vette che conoscono come le loro tasche, pronte a privarsi del cibo e di quanto altro pur di contribuire alla sopravvivenza dei soldati. E’ attraverso i loro occhi che riviviamo la guerra che ci sembra così lontana e che invece con questo libro la sentiamo sulla nostra pelle. tra queste donne e i soldati si crea un rapporto di rispetto e di fiducia. L’incontro di Agata con il diavolo bainco, cecchino delle file nemiche, biondo e chiaro di pelle, diverso, ma con lo stesso sguardo spaventato che accomuna tutti, fa capire che anche il nemico è un uomo con una sua vita di padre, di figlio, di marito. In questo libro si parla di sentimenti senza mai scendere nel sentimentalismo, anzi…. Ringrazio questa scrittrice per aver riportato alla luce la storia di queste donne di cui non ne conoscevo l'esistenza, non ne avevo sentito parlare neanche nei libri di storia; la ringrazio per averle fatte rivivere per aver dimostrato, ancora una volta, il valore delle donne anche nei momenti più difficili, celebrandone il coraggio, al resilienza, la capacità di abnegazione di umili contadine, ma forti. Ascolta la recensione play_arrow FIORE DI ROCIA SERENELLA MARIANI Read the full article
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Incontro con la poetica di Juan Carlos Vásquez, traduzioni e critica poetica di Yuleisy Cruz Lezcano – Il giornale letterario
L’autore esalta, attraverso la forma espressiva, la tensione evocativa del dire, in un alternarsi di allusioni e di disvelamenti che dà forza metaforica al dettato poetico. I suoi versi si distendono spesso in una versificazione colloquiale, grazie a una forma poetica scorrevole, in cui emergono l’intensità della scrittura e la sua forza nel creare immagini. Il poeta concilia il gusto per l’immagine con il contenuto del racconto, senza ricercare rime o musicalità; la tensione espressiva viene creata dagli accostamenti insoliti. Aprire il post»
#cultura#literatura#juan carlos vásquez#authors#revistas#culture#literature#herederos del kaos#letteratura#lingua italiana#traduzioni#traduzione#viaggiointeriore#linguapoetica#poesiadautore
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Gli anni novanta: un decennio di esplorazione letteraria in Italia
Gli anni Novanta rappresentano soprattutto un decennio di grande fermento nella letteratura italiana. In questo periodo, emersero nuove voci e si consolidarono quelle già affermate, dando vita a un panorama letterario ricco e variegato. I romanzi di questo periodo riflettono i profondi cambiamenti sociali, politici e culturali che l'Italia stava vivendo, offrendo al lettore uno spaccato autentico della società italiana di quel tempo. Anni novanta: i grandi romanzi italiani "Sostiene Pereira" (1994) di Antonio Tabucchi: Un thriller storico ambientato nel Portogallo fascista di Salazar. Pereira, un mite archivista, si ritrova invischiato in un intrigo politico che lo porterà a confrontarsi con la brutalità del regime e con la propria coscienza. "Oceano mare" (1993) di Alessandro Baricco: Un romanzo breve che narra la storia di un violinista e del suo violino Stradivari. Attraverso una scrittura evocativa e poetica, Baricco esplora il rapporto tra l'uomo e l'arte, la bellezza e la morte. "Io non ho paura" (1999) di Niccolò Ammaniti: Un romanzo di formazione che narra la storia di due amici dodicenni alle prese con un mistero inquietante. Ammaniti, con il suo stile narrativo coinvolgente e ricco di suspense, dipinge un ritratto vivido e commovente dell'infanzia. "Tutti giù per terra" (1990) di Giuseppe Culicchia: Un romanzo generazionale che racconta le vicende di un gruppo di giovani precari nella Roma degli anni Ottanta. Culicchia, con ironia e disillusione, descrive la disoccupazione, la mancanza di prospettive e il malessere di una generazione. I grandi classici della letteratura italiane "recente" Oltre a questi titoli, gli anni Novanta hanno visto la pubblicazione di numerosi altri romanzi di grande valore, tra cui "Il male oscuro" di Giuseppe Bufalino, "Le parole di Giovanni" di Andrea De Carlo e "Un amore" di Margherite Duras. La letteratura italiana degli anni Novanta si caratterizza soprattutto per la sua ricchezza di temi, stili e voci. Gli scrittori di questo periodo hanno saputo raccontare le trasformazioni della società italiana con sguardo acuto e sensibile, offrendo al lettore opere che continuano ad appassionare e commuovere a distanza di anni. Gli anni Novanta rappresentano anche un decennio di grande importanza per la letteratura italiana. In questo periodo, sono nati romanzi che hanno segnato la storia letteraria del nostro Paese e che continuano ad essere letti e apprezzati da lettori di tutto il mondo. Foto di Tom da Pixabay Read the full article
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Appunti di lettura per
«Il rifiuto»
(Musicaos, Balbec, 1)
di Davide Morgagni.
Dieci anni fa, nel 2014, venne pubblicato «I pornomadi» di Davide Morgagni, nella collana «Smartlit» di Musicaos Editore. Il primo manoscritto del primo romanzo di quello che oggi è «Il rifiuto» si intitolava «Canti di un pornomade». Nei vari ragionamenti attorno alla pubblicazione mi ricordo che quella parola, «Canti», oltre a essere molto evocativa (Leopardi, Lautréamont, Dante, etc.), poteva essere associata a un’altra opera, i «Canti dei caos» (2001, 2003, 2009²) di Antonio Moresco e così, per evitare cortocircuiti allusivi, trattandosi di un esordio, suggerii l’opportunità di togliere il libro dal repentaglio di intitolarsi «Canti di…» essendo il terzo titolo di un editore che aveva -caos come suffisso del suo nome, per sfuggire ogni tipo di ammiccamento. Cercammo così un riparo a distanza cautelativa dal capolavoro di Moresco, che a sua volta negli anni seguenti sarebbe divenuto parte di un lavoro ancora più grande. Una cautela che a posteriori, come spesso capita con le cautele letterarie di persone troppo devote alla letteratura, incorse nell’esagerazione di presupporre l’esistenza di lettori più che ideali, sublimi, invece che delle cimici di Majakovskij.
Dal punto di vista linguistico-narrativo ciò che avviene ne «I pornomadi» è la genesi di un mondo e allo stesso tempo del «modo di esprimerlo». In una città infuocata un autore si scaracolla in balìa di mete imprecisate, tra un’estate e un inverno, con l’unico movente di esistere. L’idea di proporre un romanzo che contenesse un mondo senza somigliare a un romanzo-mondo era connaturata anche alla modalità in cui il volume si presentava nella sua prima edizione, con le opere d’arte fotografica di Lorenzo Papadia a costituire una narrazione visiva, e un’impaginazione “estesa”, che supportava l’idea di voler porre il lettore dinanzi a qualcosa di inedito, sotto più aspetti possibili. Questa realizzazione era alternativa alle aspettative e faceva parte dello stesso esordio, si trattava di un «io esiste».
Ricapitolando, una scrittura endogenetica, per un mondo che si costruisce dalla propria stessa lingua, raccogliendo testo, immagine, suono, urlo. Strumenti per narrare presi in prestito, oggettivamente, dalla poesia. Per usare un geniale e formidabile «metro» Eggersiano, in una scala dal 0 a 10 dove 0 è Poesia e 10 è Narrativa, «I pornomadi» si situa, oscillando, tra un 5 e un 7. Si tratta di una riflessione che troverà compimento nei romanzi successivi confluiti ne «Il rifiuto». Che impressione poteva fare sui suoi primi lettori «Il tropico del Cancro» di Henry Miller, pubblicato a Parigi nel 1934? Solo una ventina di anni prima la letteratura tradizionale (Gide che nel 1912 «rifiuta» “Dalla parte di Swann”) faceva i conti con l’«incomprensione» della prima parte della Recherche di Proust. Non c’è adito di paragone se non nel sottolineare che sempre, in tempi, luoghi e circoli differenti, la letteratura per emergere si pone complicemente come rottura con ciò che la precede nell’immediato, salvo poi essere ripresa – se riuscita – come continuità con lo stesso.
«I pornomadi», col suo stile «delirio» assume una modalità narrativa di derivazione céliniana, un «tenere bordone» costantemente «in levare» che dà movimento col suo stesso porsi, una scrittura che proviene da Miller, Deleuze, Guattari, Joyce, Beckett, Bataille, Céline, Bukowski; mi è sempre sembrato un «ponte» tra la concretezza sperimentativa e i suoi «misteri pedagogici», uno studio che devia dalla lezione originaria per creare qualcosa di originale e totalmente appartenente alla nostra lingua. Un romanzo “Il rifiuto” sul fatto che si possa scrivere un romanzo, fare scrittura, essere scrittura, tenuto conto di ciò che è stato prodotto in filosofia, teatro, poesia, negli ultimi cinquanta anni, tanti all’incirca ne sono trascorsi dalla pubblicazione dell’Anti-Edipo, dalla letteratura di avanguardia degli anni Settanta, dagli sperimentalismi più oltraggiosi, sia quelli riusciti che quelli mancati, quelli che hanno conservato una certa forza e quelli dileguati.
Perdere tutto per affermare l’esistenza di sé stessi, questo sembra urlare il protagonista de «I pornomadi».
«Strade negre» pone altre due urgenze sotto la lente focale della scrittura. Il «delirio» religioso – la prima metà si svolge a Roma, con il protagonista che segue un corso per diventare conservatore/divulgatore dei beni religiosi della Città Eterna – e il «delirio» da anti-potenza del «genere» del milieu culturale occidentale al suo tramonto.
«La nebbia del secolo», uscito nel 2019 con Leucotea Edizioni, è il terzo romanzo, riveduto, de «Il rifiuto». Romanzo più breve e altrettanto folgorante, è ambientato a Parigi nel periodo storico recente, dove il fantasma del terrorismo ha costituito la paranoia globale per eccellenza, concretizzandosi in attentati ancora oggi temibili, prima dello scoppio della pandemia e al margine di ogni guerra.
Dopo aver delirato i continenti, le religioni, i popoli, parlando di virus, guerre, conflitti, giunge la Pandemia. Il romanzo, fino a oggi inedito, «Finché c’è rabbia», racconta gli ultimi anni vissuti, quelli del Covid, nel racconto del protagonista. Le sue vicende non sono centrali di una storia che è più grande, che ci ha investito. Uno dei protagonisti è il Capitalismo, cui viene sferrata una critica viscerale, programmatica, che sottende tutta la narrazione.
«Il rifiuto» così si compone di quattro romanzi, quattro romanzi differenti per stile nei quali si produce un movimento stilistico dal caos iniziale, in cui la lingua poetica fa accadere il mondo, gettando sul piatto quelli che saranno i temi caratterizzanti del Romanzo: con il contrasto particolare (Capitalismo, Espressione, Spersonalizzazione), la Religione Universale e le religioni particolari, la religione dell’Arte, la religione del Maestro, la religione della Devozione Domestica, la religione della Famiglia, la religione allo Stato, la religione dello Studio, eccetera; e ancora lo Spettro della Storia Universale, attraversato a sua volta dagli spettri del terrorismo e della paranoia internazionale, con tutto ciò che compone il Secolo.
«Il rifiuto» è in tal senso rifiuto post-moderno, costruito sulle macerie del post-modernismo. Il post-moderno sanciva la fine della pretesa delle “Grandi Narrazioni”, dagli anni Settanta a oggi sembrava che si dovessero avverare tutte le promesse non solo stilistiche e narrative, ma anche di vita, di uno sviluppo consapevole, rispettoso delle coscienze e del sentire ecologico planetario. Una molecolarizzazione delle esperienze che si sarebbe accompagnata a un grado di umanità più apprezzabile. Tutto ciò ovviamente non ebbe luogo, se non teorico. Solo l’ipotesi di vivere su un pianeta insieme a cinque miliardi di persone, un giorno, poteva atterrire. Mentre scrivo siamo ottomiliardi settantasettemilioni quattrocentosessantasettemila e novecentonovantanove. Impossibile a credersi oggi, per chi vive in un’epoca che è somma di tante epoche che possono coesistere. Dagli anni Settanta a oggi è trascorso mezzo secolo, immaginare di riportare alcuni riferimenti culturali all’oggi senza storicizzarli sarebbe paradossale come interpretare il 1950 con le categorie del 1900.
Per prescindere dall’empasse cui potrebbe condurci la storia ci si attiene alla creazione poietica, ai testi, alle influenze, in tal senso Gilgamesh è nostro contemporaneo. Nel miscuglio babelico dei linguaggi si è aperta con la Rete una Babele ancora più grande, districabile per chi ha in amore la complessità, la Società del Controllo è divenuta realtà, e oggi che ognuno di noi è misurato, controllato, enumerato, accountizzato, di quale bisogno si scopre desiderante la comunità dei clienti (lettori, ascoltatori, videoutenti) dell’infotainment? Narrazioni. Grandi. Innumerevoli. Ovunque. Grandi narrazioni. Chiusura del cerchio (canto del cigno o requiem) del post-modernismo, “Il cerchio si chiude”, come termina Stephen King il suo capolavoro virologico “L’ombra dello scorpione”.
«Il rifiuto» affronta questi temi con la densità leggera di un volo, pagina dopo pagina, mettendo a nudo i meccanismi psicologici, sociali, antropologici, mentali, narrativi, che ci vengono presentati dai metadiscorsi che viviamo. C’è un elemento comico che ritorna, come ce ne sono tanti, ilari, più o meno forti e incisivi, ma questo di cui parlo è – se vogliamo – metacomico: il protagonista, che si trova a dialogare con i suoi amici, conoscenti, spesso si sente rivolte frasi di questo tenore «sai, penso che quello che sto vivendo è importante, penso che lo racconterò in un libro», oppure «penso che scriverò un libro». In un mondo creato da un protagonista ossessionato dalla descrizione di un mondo traducibile e decifrabile per lui soltanto, gli altri, che subiscono il mondo senza comprenderlo, si sentono più atti di lui a raccontare la realtà.
La scrittura filosofica è un genere poco letto, non mi riferisco ovviamente alla scrittura di romanzi a metà tra saggio e narrativa, o romanzi scritti da filosofi. Tutto ciò che c’è di politico e filosofico ne «Il rifiuto» traduce permanentemente un’urgenza stilistica, permettendo a questa scrittura la distanza tra autore, da una parte, e artista dall’altra. Se gli strumenti che Davide Morgagni utilizza attingono a un bagaglio simile, gli ambiti sono totalmente differenti. «Il rifiuto» intende porsi in un dialogo con le persone, i critici, i lettori, in generale, pensanti, a questi, da controcanto (di un pornomade) indico ad esempio la lettura dei romanzi di Aldo G. Gargani.
«Il rifiuto» è un romanzo lontano da Dio, fuori dalla sua grazia, se il protagonista può sembrare un asceta, questa sua ascesi si compie tra le mura, in un appartamento leccese, o romano, o parigino, senza wc, dove non c’è grazia del signore; c’è vicinanza a tutte le creature, compresi gli innumerevoli animali del creato, a dimostrazione di un anelito ecologista/ambientale di fondo (pulci api foche mucche blatte vermi formiche microbi granchi lombrichi gatti pidocchi tonni pesci-spada galline polli sirene ragni topi cavalli gechi ramarri cani passeriformi molluschi bruchi testuggini merluzzi cicale grilli farfalle iene rondini fringuelli mosche tacchini ricci platesse polpi zanzare tigri cinghiali rondini piccioni scimmie pinguini giraffe bufali conigli rane mosconi manzi gazze capre agnelli struzzi tartarughe pipistrelli civette lucertole salmoni lumache porcospini moscerini calamari gamberoni ostriche colombe vipere ippopotami scorfani anguille orche foche seppie totani pappagalli cigni scoiattoli bisce avvoltoi scimmie anatre pecore pulcini millepiedi vitelli delfini pipistrelli pescecani gorilla babbuini rospi sanguisughe pesci palla leoni lupi asini ghepardi balene fagiani).
Molte creature ma, all’orizzonte, nessun Dio. Eppure non si tratta di un pensiero laico, quello che viene sfrondato da queste pagine, perché quella del protagonista non è un’ascesi raggiunta in mezzo alle persone buone e cordiali, al contrario, è una segregazione spesso ricercata per salvarsi e per difendersi dai barbari. Per non parlare delle volte in cui il protagonista, semplicemente, parla la lingua della verità in mezzo ai sordi, recando letteralmente la saggezza al mercato, come lo Zarathustra di Nietzsche, che compie l’oltraggio peggiore, quello di «bruciare» la news della sua scoperta «oltreuomo» con la condivisione.
Ciò che succede nei vari piani che situa il romanzo fa anzitutto in modo che ciò che risulta in esso romanzato (l’amore, le relazioni, le amicizie, i quartieri, le città, le metropolitane) trascorre in secondo piano rispetto alla società, ai conflitti generali di interesse economico, all’attrito tra classi sociali. «Il rifiuto» diviene così un dispositivo artistico rivolto all’esterno. Ricapitolando, una storia che abbraccia le vicende del protagonista nell’arco di quindici anni, con luci a più punti focali mirate a illuminare l’agire dell’individuo come reagente in una società paranoica-ossessiva-delirante. Il protagonista/Narratore, pure con diverse «facies», è sempre lo stesso, così i comprimari.
C’è un termine che si affaccia ed è: profezia. Quando la scrittura letteraria, poetica o narrativa, compone un quadro realistico di tutte le tensioni in gioco nel momento descritto, spostandosi in avanti fino a prevedere possibilità, la scrittura diviene profetica; un termine religioso – come ascesi – che ritorna in un ambito dal quale l’orizzonte di un qualsivoglia Dio è compromesso.
«Il rifiuto» è preludio a una narrativa dell’avvenire (non inteso come futuro, “ciò che avverrà”), di ciò che avviene nel suo farsi, che si compone passo dopo passo, della creazione di un contesto e dell’internamento di un protagonista nell’agire stesso che è stato contestualizzato a parole. La ricezione di una scrittura simile, è assimilabile a quella di una scrittura poetica, per quanto riguarda il suo abbrivio, che evolve in un percorso narrativo che porta al lettore stralci dal sapore joyciano, milleriano, beckettiano.
I luoghi in cui accade questo «avvenimento» (sempre da “avvenire”) narrativo sono tre, in tempi differenti e che si rincorrono, principalmente Lecce, Roma, Parigi. Il protagonista occupa sempre un altrove in ognuno di essi, ciò che percepisce il lettore è una velocità estrema, istantanea, centrifuga. Del centro, pur essendone affascinato, il Narratore coglie tutte le contraddizioni, la mancanza di umanità nei rapporti, la spersonalizzazione, l’egoismo. Non c’è un obiettivo, c’è una vita di margine vissuta al limite, nell’«underground». Torna qui, anche nel rapportarsi ai luoghi, la dimensione ascetica di una purezza etica, né santa né laica.
L’aggettivo «negro», come gli altri, è un simbolo. La negrezza/negritudine cui fa riferimento il Narratore è la risposta etica al disfacimento dell’Occidente. In particolare nell’ultimo romanzo, l’inedito «Finché c’è rabbia», dove lo sfondo delle vicende è lo Spettro Pandemico, si pone come fatto compiuto uno scollamento senza ritorno di tutti gli attori sociali. Non hanno più niente di esotico gli uomini del sud che ciondolano fuori dai bar per arrivare alla fine di un’altra giornata. Sono zombie, batterie senza carica positiva, salvati dal pasto quotidiano della Caritas e da un giaciglio di fortuna. Il racconto dell’umanità vissuta a contatto stretto, questo è il sud, un certo meridionalismo narrato da Davide Morgagni ne «Il rifiuto». Viene raccontata la povertà, l’indigenza, la vita degli ultimi. È uno dei temi che vengono messi di più in risalto nel quarto romanzo che compone «Il rifiuto», «Finché c’è rabbia».
Non potevano che volerci dieci anni per misurare un certo tipo di ampiezze. Termino con una breve considerazione sulla forma finale in cui è presentato «Il rifiuto». Perché quattro romanzi, al di là dell’Opera, in un volume? L’idea dell’autore, nel presentare «Finché c’è rabbia», era che questo romanzo chiudesse un ciclo di storie, tutte vissute e raccontate dallo stesso Narratore, e che questa conclusione avesse un titolo ideale che racchiudesse queste storie, per l’appunto, «Il rifiuto». Abbiamo creduto, di comune accordo con l’autore, che valesse la pena presentare questi quattro romanzi insieme, perché erano trascorsi dall’inizio de «I pornomadi» dieci anni, durante i quali avevamo il presentimento che fossero accadute molte cose.
A ciò si aggiunge il fatto, oggettivo, che sarebbe stato difficoltoso e magari affaticante, per il lettore odierno, ricomporre un puzzle narrativo i cui frammenti, seppure facilmente reperibili, andavano rinvenuti richiedendo quattro atti di volontà separati. Ciò per evitare, parafrasando l’Amleto/CB, quelle “spiegazioni che ci ammazzano”, nell’avere a che fare con un romanzo che richiamava inevitabilmente la prosecuzione all’inverso degli altri tre. Lo stesso senso è anche quello di questo intervento, che cerca di sollevare alcuni temi presenti nei quattro romanzi che fanno «Il rifiuto», che oltre a essere un romanzo da leggere, sia ad alta voce che interiormente, è un romanzo politico, nel senso più schietto e originario che si può dare oggi a questo termina.
E adesso dimentichiamoci di tutto per leggere «Il rifiuto».
Buona lettura.
«Il peggio passa e se ne fa una sintassi», «Io scrivo per le pulci di periferia», «Vedi ragazzo – quando perdi cerca di perdere tutto – e quando muori assicurati di essere morto», «Il demonio ha in serbo grandi fichi sbucciati per le nostre bocche ragazzo e quando ogni cosa va in frantumi è perché e eterna», «La Storia è un riciclaggio di antichità e remote invarianti ed è per sempre immondizia puzzolente di morte e morti e gambe e occhi paralizzati», «Poi ha compreso che soffrire non serve, ma ciò non serve a smettere di soffrire», «Nella disperazione non si vede nulla, ma la disperazione vede tutto».
«Il rifiuto» di Davide Morgagni è la prima uscita della collana «Balbec», di Musicaos Editore, nella quale sono in programmazione le uscite dei nuovi libri di Giuseppe Goisis, Raffaele Gorgoni, Francesco Lanzo.
Luciano Pagano
«IL RIFIUTO» (Musicaos, Balbec, 1) - Davide Morgagni
in distribuzione dal gennaio 2024
ANTEPRIMA a LECCE - VENERDÌ 22 DICEMBRE alle ORE 19
presso ASTRAGALI TEATRO (Via G. Candido, 23)
interveranno:
Fabio Tolledi [direttore artistico e regista di Astràgali Teatro]
Simone Giorgino [Docente di Letteratura Italiana Contemporanea / UniSalento]
Luciano Pagano [Editore]
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E lo fa attraverso la sua scrittura densa e scattante, potente ed evocativa. 🍊”Un paese felice”, Carmine Abate
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LAPSUS di Angela Kosta: Un viaggio poetico nell'anima lacerata. Recensione di Alessandria today
Una poesia che esplora il tormento e la ricerca di senso attraverso versi intensi e profondi
Una poesia che esplora il tormento e la ricerca di senso attraverso versi intensi e profondi “LAPSUS” di Angela Kosta è una poesia che si addentra nei meandri dell’esistenza umana, esplorando il dolore, il tormento e la ricerca di senso. I versi intensi di questa poesia si presentano come un inno muto, dove il sorriso tra i denti e l’anima lacerata convivono in una danza di contrasti. Le parole…
#Abissi dell&039;Anima#Angela Kosta#dolore#Emozioni#esistenza#esistenza in bilico#ESPRESSIONE POETICA#espressioni artistiche#fragilità umana#indulgente#introspezione#Introspezione Profonda#LAPSUS#LETTERATURA CONTEMPORANEA#Libri di poesie#Lirismo#Lotta interiore#Malinconia#negazione#parole evocative#Poesia#poesia esistenziale#poesia italiana#poesie di Angela Kosta#Recensione#Recensione libro#Ricerca di Senso#scrittura evocativa#Sofferenza#Stile poetico
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La Pura luce di Maria Campeggio sul paesaggio poetico del Sud, tra semantica evocativa e limpida scrittura.
di Anna Stomeo Maria Campeggio, raffinata voce poetica tra le più quotate nel panorama artistico-espressivo salentino, giunge, con questa pubblicazione (Maria Campeggio, Di pura luce. Poesie, Ed.Storiedilibri.com di Pasquale Cavalera, 2023), alla sua quarta raccolta poetica, consegnandoci una silloge di intensa e profonda riflessione e di limpida scrittura.Oltre cento componimenti, senza…
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"PAIN AU CHOCOLAT", IL NUOVO SINGOLO di TIBE, ESCE IL 14 APRILE 2023
Dal 14 aprile 2024 sarà in rotazione radiofonica "Pain au chocolat", il nuovo singolo di Tibe disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 31 marzo. "Pain au chocolat" è un pezzo estremamente umano. Un'infinità di immagini più o meno complesse si susseguono fino al ritornello che celebra i gesti semplici. Commenta l'artista sul nuovo brano: "Spesso si va alla ricerca della poesia in termini ambiziosi ma forse questa si nasconde, in bella vista, nell'umanità delle abitudini".
Tibe è innamorato delle parole. Si avvicina al mondo hip hop fin da piccolo ma tra i suoi ascolti Pino Daniele, Modugno e altri pilastri del cantautorato italiano la fanno da padroni. Tibe è un cantautore con influenze urban. La sua scrittura è estremamente evocativa e un'attenta ricerca delle parole rende ogni suo pezzo un susseguirsi di immagini. Dopo i singoli "Percepisco Musica" e "Un Posto al Sole", "Pain au chocolat" è il nuovo singolo disponibile sulle piattaforme di streaming digitale dal 31 marzo 2023 e in rotazione radiofonica dal 14 aprile.
https://www.youtube.com/@tibeofficial1563
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Millepiani: ogni brano è una parte del mio viaggio personale
Millepiani è un cantautore poliedrico e capace di intrecciare la sua musica con spunti differenti, provenienti da diversi linguaggi. La sua scrittura spesso tocca vertici di complessità che necessitano di essere decodificati, per poter essere colti in tutta la loro forza evocativa: ecco perché abbiamo deciso di confrontarci con Alessandro, facendogli qualche domanda mirata a creare per voi una…
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"PAIN AU CHOCOLAT", IL NUOVO SINGOLO di TIBE, ESCE IL 14 APRILE 2023
Dal 14 aprile 2024 sarà in rotazione radiofonica "Pain au chocolat", il nuovo singolo di Tibe disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 31 marzo. "Pain au chocolat" è un pezzo estremamente umano. Un'infinità di immagini più o meno complesse si susseguono fino al ritornello che celebra i gesti semplici. Commenta l'artista sul nuovo brano: "Spesso si va alla ricerca della poesia in termini ambiziosi ma forse questa si nasconde, in bella vista, nell'umanità delle abitudini".
Tibe è innamorato delle parole. Si avvicina al mondo hip hop fin da piccolo ma tra i suoi ascolti Pino Daniele, Modugno e altri pilastri del cantautorato italiano la fanno da padroni. Tibe è un cantautore con influenze urban. La sua scrittura è estremamente evocativa e un'attenta ricerca delle parole rende ogni suo pezzo un susseguirsi di immagini. Dopo i singoli "Percepisco Musica" e "Un Posto al Sole", "Pain au chocolat" è il nuovo singolo disponibile sulle piattaforme di streaming digitale dal 31 marzo 2023 e in rotazione radiofonica dal 14 aprile.
https://www.youtube.com/@tibeofficial1563
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"PAIN AU CHOCOLAT", IL NUOVO SINGOLO di TIBE, ESCE IL 14 APRILE 2023
Dal 14 aprile 2024 sarà in rotazione radiofonica "Pain au chocolat", il nuovo singolo di Tibe disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 31 marzo. "Pain au chocolat" è un pezzo estremamente umano. Un'infinità di immagini più o meno complesse si susseguono fino al ritornello che celebra i gesti semplici. Commenta l'artista sul nuovo brano: "Spesso si va alla ricerca della poesia in termini ambiziosi ma forse questa si nasconde, in bella vista, nell'umanità delle abitudini".
Tibe è innamorato delle parole. Si avvicina al mondo hip hop fin da piccolo ma tra i suoi ascolti Pino Daniele, Modugno e altri pilastri del cantautorato italiano la fanno da padroni. Tibe è un cantautore con influenze urban. La sua scrittura è estremamente evocativa e un'attenta ricerca delle parole rende ogni suo pezzo un susseguirsi di immagini. Dopo i singoli "Percepisco Musica" e "Un Posto al Sole", "Pain au chocolat" è il nuovo singolo disponibile sulle piattaforme di streaming digitale dal 31 marzo 2023 e in rotazione radiofonica dal 14 aprile.
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Blusex, un ottimo disco di esordio
Non si possono che fare in complimenti ai Blusex, giovanissimo combo salentino, per il loro album d’esordio. Certo, non è raro trovare gruppi che fin dal primo disco si esprimono già molto bene. Un po’ più difficile è ascoltare band davvero ispirate. I Blusex rientrano in questa casistica. Base rock, in italiano, ma contaminato da mille influenze diverse. Ci sono canzoni con richiami più diretti, come il caso di Baby lo sai, loro primo singolo (recensione), andamenti più reggeaggianti, indie, blues, con venature funky, rythm and blues. Tutto senza il minimo problema di coerenza stilistica. Che in ogni caso c’è. Solo che è dettata dallo stile complessivo dei nostri. Uno stile pensa solo ad esprimersi. E per farlo non teme di mettere le mani in situazioni diverse. Anche molto distanti tra loro.
Si ascolti Uccidimi ora. Una falla buia, scura, pesante, claustrofobia, completamente agli antipodi rispetto alla maggior parte del disco. Una plauso alla voce. Riesce ad adattarsi ad ogni contesto con estrema naturalezza. È calda ed evocativa, così come arrabbiata e urlata. I brani al loro interno mantengono la coerenza dei cambi. I suoni stessi mutano. Da crunch si fanno acidi. Ora acustici, si abbassano i toni, poi impennano improvvisamente. Il tutto contribuisce a creare un disco variegato, stimolante. Sono anche presenti accenni agli anni ’70. In barcollo, una semiballad lisergica, fa capolino un suono di tastiera inconfondibile. Anche in questo caso è la voce a fare la differenza.
È perfettamente nel personaggio narrato dal testo. Quindi, di conseguenza, melodia strascicata, non troppo lineare. Gli omaggi agli anni di piombo proseguono con Occhi blu. Una ballata più classica che molto deve ai Fab four. Tutto li richiama. La strumming della chitarra, l’arrangiamento, la successione degli accordi. Sia ben chiaro che non è un plagio. È un omaggio a quel modo di fare musica. Si torna su coordinate più contemporanee con la seguente Il vino. Un brano poprock con sfumature indie. Molto azzeccato l’accompagnamento diviso tra chitarra acustica sovrapposta ad un’altra con un leggero crunch. Un brano leggero, ma non per questo banale. Fuori dai coglioni è un altro omaggio.
Questa volta ad un grande della musica italiana, Rino Gaetano. Dalla base strumentale alla metrica del cantato, tutto lo richiama. Soprattutto il testo. Ed è proprio questo che arriva in faccia come uno schiaffo nell’ultimo brano, Pensa. Rimane la leggerezza della base, fluida che passa da un andamento rock/funk alla fusion con naturalezza. Il testo invece è un sasso in uno stagno. La narrazione da intima si fa di denuncia sociale. Affronta un mondo che nella vita dei Blusex non deve essere lontano.
Parla di Cosa nostra, di persone che sparano, di gente che lotta, di libertà. Racconta dell’importanza, appunto, del pensare. Del fermarsi prima di agire e capire. Capire quello che sta succedendo, quello capita nella vita. Spiega come si importante riuscire a capire prima di tutto. Di quanto è fondamentale non giudicare senza conoscere. Sottolinea l’inalienabile diritto ad essere liberi pensatori. Cittadini che devono potersi fare un’opinione. Soprattutto a fronte e di fronte a chi ha perso la vita lottando contro un sistema corrotto e un altro colluso, infiltrato, radicato.
Concludendo. Si possono solo ribadire i complimenti ai Blusex. Bravi, in tutto. Non cercano mai di strafare. Gli strumenti non vogliono dimostrare nulla a nessuno. Solo a se stessi. Fanno bene il proprio lavoro. La produzione è pulita quanto basta senza per questo essere fredda. Anzi. I suoni sono avvolgenti. Nella capacità di scrittura c’è anche molta intelligenza. La capacità di miscelare ritmi saltellanti a testi non banali anche quando affrontano temi saturi come l’amore. Quello che è emerge dai solchi è una band affiatata, che si diverte. Che ha ben presente il compito della musica: non solo divertire ma far anche pensare.
Un disco consigliato a tutti. Un lavoro che ha diversi piani di lettura. Nessuno meno importante degli altri. Lo si può lasciare andare come sottofondo o lo so può ascoltare con attenzione. Quello che trasmette è la sensazione che si può provare in un giorno di primavera, sdraiati sotto un albero a guardare le nuvole che cambiano forma. Con i pensieri che vagano con leggerezza. Gli stessi pensieri che poi, non si sa per quale motivo, diventano seri, pregni di domande fondamentali. Un passaggio comune ai tutti, tuttavia non per questo per tutti uguale. Ed è questa la chiave di lettura di questo ottimo lavoro.
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Anna Piaggi
https://www.unadonnalgiorno.it/anna-piaggi/
Anna Piaggi è stata la figura più affascinante della cultura della moda italiana.
Giornalista e scrittrice, musa dei più grandi maestri della Couture, aveva un’estetica spiazzante che incarnava il concetto più sublime di stile.
Superava l’eccentrico nei suoi ricercatissimi look che, spaziando tra epoche e luoghi geografici, hanno influenzato e ispirato generazioni di stiliste e stilisti.
Uno per tutti, Karl Lagerfeld che le ha dedicato il libro Anna-cronique. Un diario di moda del 1986.
Nata a Milano, 22 marzo 1931, prima di diventare giornalista è stata segretaria e traduttrice per Mondadori. È stata sposata con Alfa Castaldi fotoreporter che lei ha introdotto nel mondo della moda, dal 1962 fino alla morte di lui, nel 1995. Un sodalizio artistico e culturale che li ha visti lavorare insieme per mostre, happening e campagne pubblicitarie innovative.
Ha vissuto per un periodo a Londra che ha rappresentato il punto di svolta nel suo approccio stilistico e la consapevolezza di poter diventare con la sua immagine e la sua scrittura, tutto ciò che desiderava.
Ha scritto per diverse riviste nazionali e internazionali tra cui l’Espresso e Panorama e contribuito a creare periodici quali Arianna o Vanity.
Anna Piaggi si è inventata il ruolo editoriale del direttore creativo e anticipato i concetti di Made in Italy e di vintage, con la sua attitude ha creato tendenza riuscendo a trascinare designer e creativi di tutto il mondo.
Si è inventata la rubrica D.P. Doppie Pagine di Anna Piaggi per Vogue nel 1988, in cui ha sperimentato la sua nuova forma di giornalismo. Con un approccio dal sapore postmoderno, raccontava la moda in maniera evocativa attraverso giochi di parole e grafiche accattivanti.
Ha saputo intercettare e decodificare, come nessuno e nessuna prima di lei, il messaggio degli stilisti e delle stiliste.
È arrivata al vintage, in una sorta di operazione filologica, tramite l’analisi degli abiti nella loro storia, percorso necessario per poterli comprendere nella loro interezza.
Vedeva il disegno come sublimazione della fotografia e la costruzione dei suoi look era concepita come un disegno in cui tutto era studiato.
Maestra indiscussa dell’abilità di trasformarsi, è stata una figura fluida, a tratti grottesca, ma sempre originale e unica.
Ha concepito la moda come sistema aperto, di denuncia delle norme estetiche, abbattendo le convenzioni che girano attorno alla costruzione estetica dell’identità, creando nuove possibilità. Con la sua presenza incarnava l’elemento perturbante, destabilizzando tutto ciò che la circondava.
Nella sua stupefacente libertà è un’icona che resterà per sempre nella memoria collettiva. È stata in grado di utilizzare l’effimero per mettere in discussione i limiti culturali del quotidiano, a volte stretti e giudicanti.
La moda è stata la sua arma capace di sovvertire gli stereotipi estetici.
Ha lasciato la terra e il suo mitico guardaroba il 7 agosto 2012, a Milano.
Nel 2016 le è stato dedicato il documentario, Anna Piaggi – Una visionaria nella moda, a cura di Alina Marazzi che, attraverso i racconti e le interviste di personaggi della moda che l’hanno conosciuta, ha intrecciato la storia del costume, delle avanguardie artistiche, del teatro e della musica, per comporre il ritratto della donna che ha saputo dare alla moda il senso più alto e profondo.
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