#romanzo mitteleuropeo
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pier-carlo-universe · 5 months ago
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"Vacanze Spezzate per Wolfgang Gross di Ilaria de Franceschi": Un Viaggio tra Intrigo e Fascino Storico. recensione di Alessandria today
Ilaria de Franceschi ci guida in un viaggio appassionante tra Trieste e Vienna, con un thriller che combina tensione, mistero e profondi legami storici.
Ilaria de Franceschi ci guida in un viaggio appassionante tra Trieste e Vienna, con un thriller che combina tensione, mistero e profondi legami storici. Il romanzo “Vacanze Spezzate per Wolfgang Gross” di Ilaria de Franceschi è un thriller avvincente che si snoda tra i suggestivi scenari di Trieste e Vienna, coinvolgendo il lettore in un intreccio di misteri, segreti e avvenimenti storici. Il…
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cinquecolonnemagazine · 2 years ago
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L’ultima messa del gastaldo di Diego Lavaroni
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Tante piste per il capitano Rotario L’ultima messa del gastaldo di Diego Lavaroni edito da Gaspari è un avvincente giallo storico ambientato a metà ‘800.  La Notte di Natale del 1843, dopo la messa di mezzanotte, a Buttrio fu assassinato Girolamo Zecchini, gastaldo del conte d’Attimis Maniago. Il Commissario distrettuale del Regno Lombardo-Veneto affidò le indagini al capitano della gendarmeria Valerio Rotario. Furono analizzate la pista massonica, quella della vendetta passionale, ma anche della rappresaglia politica, date le frequentazioni della vittima con gli ambienti risorgimentali, ambienti eretici e vicende di stregoneria. Ma il capitano Rotario disponeva di risorse intuitive, grandi riserve di logica e di una notevole dose di pragmatismo e riuscì a districare il ginepraio; ma la soluzione del caso lasciò nel suo animo una insostenibile amarezza. Diego Lavaroni, autore del libro, psicologo, psicoterapeuta ha scritto diversi saggi e di volumi, si occupa di studi e ricerche in ambito psicologico e delle tradizioni popolari. Per la Gaspari ha pubblicato Il covo delle ultime streghe (2020) e Voci popolari della Resistenza (2021). L’ultima messa del gastaldo di Diego Lavaroni è un romanzo ricco di colpi di scena che conduce il capitano Rotario a battere diverse piste. Nell’intervista, l’autore del libro ci racconterà qualcosa in più, svelandoci anche una sorta di legame familiare che lo ha spinto a scrivere questa affascinante storia. L’ultima messa del gastaldo di Diego Lavaroni L’ultima messa del gastaldo è il suo nuovo romanzo, un giallo storico ambientato nella metà dell’ ‘800. Perché ha scelto questo periodo? C’è stato un elemento, un fatto che l’ha colpita particolarmente? Il gastaldo Girolamo Zecchini è stato assassinato proprio la notte di Natale del 1843, dopo essere uscito dalla messa di mezzanotte e dunque è stato l’evento stesso a impormi l’analisi e l’approfondimento di quel periodo che, peraltro, è trascurato dalla storiografia e ignorato dalla letteratura.  Dell’assassinio me ne parlò, quando ero ancora un ragazzo, mio nonno Emilio che non andò al di là di qualche congettura probabilmente alimentata dalla voce popolare. In ogni caso, allora, la polizia non riuscì a risolvere il caso individuando il colpevole o i colpevoli. Avevo quindi un debito affettivo nei confronti del nonno e uno più distaccato nei confronti del gastaldo. Un altro motivo di interesse è il fatto che cento anni prima un altro gastaldo, sempre al servizio dei conti d’Attimis Maniago, era stato il protagonista della torbida vicenda di stregoneria e massoneria che ho descritto nel «Covo delle ultime streghe». Al capitano della gendarmeria Valerio Rotario tocca risolvere il caso dell’omicidio del gastaldo del conte d’Attimis Maniago. Qual è la caratterista principale del capitano? Ci sono tratti peculiari, magari insoliti, che ci può anticipare? La personalità del capitano Rotario rispecchia la considerazione che la gente comune nutriva dei confronti degli austriaci, considerati più efficienti e forse anche meno rapinosi, dei governanti ‘Serenissimi’ che li avevano preceduti. Se l’élite borghese e intellettuale anelava alla lotta risorgimentale, il popolo semplice, costituito in gran parte da contadini poveri e in grande misura analfabeti, qui, al confine orientale non disprezzava l’organizzata struttura amministrativa, modellata su quella della contigua monarchia asburgica.  Il capitano Rotario interpreta dunque questa percezione popolare che peraltro è ancora radicata nel sentire friulano. In ogni caso, io ho immaginato che fosse il personaggio che ognuno di noi vorrebbe essere e che pretendiamo dai rappresentanti della giustizia: un uomo perbene, rigoroso, indifferente al potere e alle lusinghe dei potenti. Poiché queste sono terre multietniche e plurilingue, ho anche immaginato che si trattasse di un personaggio (autenticamente mitteleuropeo) consapevole della complessità delle interazioni tra le diverse etnie. I personaggi che caratterizzano L’ultima messa del gastaldo sono realmente esistiti oppure sono frutto della sua fantasia? Come ho detto, il gastaldo è realmente esistito, come del resto i vari personaggi che ho inserito nella vicenda. Gli unici però a essere documentati oltre al gastaldo, sono don Sebastiano Venier, il prete che ha svolto la funzione la notte di Natale, il conte d’Attimis Maniago e il conte Bartolini. Gli altri attori hanno fatto sicuramente parte di quel mondo, ma li ho reinventati, non disponendo di altri materiali. Per la ricostruzione dell’ambiente mi sono avvalso di testi e di documenti che trattano da varie prospettive quel periodo del regno Lombardo-Veneto, in questi luoghi, ma ho attinto anche alle testimonianze di persone vissute nel Novecento che conservavano memoria dei racconti ascoltati dalle voci delle generazioni che li avevano preceduti. Diego Lavaroni insieme allo scrittore Paolo Maurensig (foto concessa gentilmente dall'autore) Lei è uno psicologo appassionato di tradizioni popolari. In merito a quest’ultimo ambito, c’è un aspetto che la attira particolarmente? Non so il legame con la morte, con il cibo, le superstizioni ecc? L’interesse per le tradizioni popolari è sicuramente legato al bisogno di comprendere il processo di cambiamento psicologico dell’essere umano, nei passaggi generazionali. Come si è evoluto il pensiero? (ammesso che si sia evoluto); quali sono le connessioni con le visioni dei nostri progenitori e com’è cambiata la nostra sensibilità sotto la spinta degli straordinari cambiamenti tecnologici esplosi in un arco di tempo brevissimo? (rispetto al lento e millenario percorso di cambiamento); siamo sempre gli stessi, dal punto di vista psicologico, o ci siamo trasformati in esseri umani diversi? Sono interrogativi che mi hanno sempre affascinato e che mi stimolano a esplorare le strutture psicologiche di comunità vissute in culture e periodi diversi. Mi sono soffermato in particolare sul gioco popolare, quel complesso di attività ludiche che si è dissolto sostanzialmente negli anni Cinquanta del Novecento e che è stato sopraffatto dalle strabilianti irruzioni degli eroi fantastici dei videogiochi. Quando si accinge a scrivere un nuovo romanzo, qual è la parte dell’intero processo che la affascina di più? Navigando nel mondo delle tradizioni popolari, ma anche in quello molto intricato della vita quotidiana, capita spesso di incontrare personaggi avvincenti, protagonisti di vicende suggestive o di storie minime, ma che ci mettono nelle condizioni di osservare il mondo da prospettive inconsuete, meno formali.  Sono questi personaggi che di solito ispirano una storia (sono molto più numerose quelle inedite) e che inducono ad analizzare la trama delle relazioni, le pulsioni motivazionali che danno vita alle rappresentazioni incomparabili degli esseri umani. Un aspetto affascinante è sicuramente quello che induce a cogliere le tortuose dinamiche che ordiscono la trama delle storie personali, talora senza che i protagonisti della storia ne abbiano una autentica consapevolezza. Read the full article
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pangeanews · 5 years ago
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Elogio di Max Beerbohm, “il principe degli scrittori minori”, come lo definiva Virginia Woolf, morto a Rapallo qualche decennio fa. Pubblicatelo!
Oggi 20 maggio è la ricorrenza infausta della morte terrena di Max Beerbohm. Ma che nome è? Chi è questo Carneade che morì nel 1956 (!) a Rapallo?
Diciamo subito che è stato ripreso nel 2015 dalle edizioni della NY Review of Books: L’Olimpo senza menate classiste o di genere. In questi 5 anni a New York si sono anche tolti lo sfizio di cambiargli la copertina, migliorandola. Nella prima edizione compariva quel grassoccio di Beerbohm, non era uno splendore bensì per contrappasso un abile caricaturista: così ora trovate su Amazon un suo bozzetto nella nuova copertina.
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Beerbohm nasce nel 1872, è amico di Wilde, il nostro Cecchi lo imita una pagina sì e l’altra pure, però siccome è di Kensington a Londra (zona attuale delle ambasciate) non ha bisogno di scrivere cento romanzi e di lui resta poco. Nemmeno a Rapallo nessuno sa più dove abitasse. Mi illudo di aver trovato la sua casa in una villa sopra il Porticciolo che ha il motto Incedo per ignes suppositos cineri doloso…
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Sentite come lo elogiava la Woolf nel 1922: “Era il principe degli scrittori minori, era se stesso con semplicità, in modo diretto, ed è rimasto se stesso. Con lui abbiamo avuto un saggista in grado di maneggiare lo strumento più idoneo e pericoloso per l’arte del saggio: la personalità. Lui ha infuso la propria dentro la letteratura, non in modo inconsapevole e impuro, ma al punto che non sappiamo dove inizi il Max saggista e dove finisca il Max privato” (The modern essay).
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Lo trovai in una biblioteca londinese e mi colpì il titolo di quella raccolta made in NY: chi era questo Principe degli scrittori minori come lo vezzeggiava Virginia Woolf? Era, tanto per cominciare, autore di un piccolo gioiello antologizzato ai suoi tempi da Borges & Bioy Casares. Questo gioiello è Il più bel racconto di Enoch Soames e lo trovate online perché fu antologizzato a sua volta da Sellerio. Quel libretto andò sotto il titolo Storie fantastiche per uomini stanchi e così si condannò alla macerazione obliosa del tempo.
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Per rilanciare uno come Beerbohm, in effetti, non poteva andare a segno l’operazioncina Sellerio, stile Sciascia puro: non funzionò poi nemmeno la galanteria patriottarda dei bolscevichi Editori Riuniti quando produssero una piccola collana fantascientifica, Il Pesanervi, buttandovi dentro un romanzo di Beerbohm che più snob non si potrebbe, Zuleika (poi ripreso da Baldini+Castoldi). Cosa bisogna fare con Beerbohm? È veramente un ingestibile rompipalle? E allora va agguantato come fossimo un’iguana feroce. Lo si potrebbe anche sfogliare su google books come lettori anarchici.
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Beerbohm è il caso classico di snob diventato magicamente lettura aristo-pop. Era un santino di Bolaño, che voleva rinascere o come Beerbohm o come uno scrittore belga.
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Ora dovete fare voi la prova del nove. Mi ero tradotto sopra la pagina inglese un saggetto di Beerbohm dove il nostro eroe faceva ironia sui casi letterari che ai suoi tempi erano ripescati soprattutto in area miteleuropea (vi dice niente? Non sembra la vecchia piaga adelphiana con Sebald e compagnia cantante?)
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A proposito: la Mitteleuropa era una Pangea letteraria, una grossa falda lungo la quale si mescolavano identità. Oggi ne resta poco e la ritroviamo forse leggendo i libri di chi la visse. Gente come Sebald, o come il Kolniyatsch inventato da Beerbohm, sono il parto incongruo di un’Europa che è esistita in un sogno di mezza geografia e mezzo tedesco innestato su gerghi autonomi: ceco, polacco, tedesco apolide, addirittura e poi ungherese che è lingua di radici differenti.
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A mo’ di parentesi.
Fortuna che da noi Adelphi accarezza l’inconscio degli italiani mettendo nel catalogo tanta Germania ed Europa di mezzo. Dagli anni Ottanta Calasso ha sollevato lo stemma della cultura italiana con l’esplosione quantitativa delle sue collane extra-letterarie e poi con l’arruolamento di autori fuori dal suo canone ancestrale e mitteleuropeo. Ha assunto un’identità più individuale. Adelphi è ora chiaramente la proiezione, o meglio l’allungamento, della mente del suo unico stake-holder. Con tutte le idiosincrasie del caso, bellissime e buffe, che la portano al pop dell’individualismo. Perciò nel catalogo c’è roba per tutti (o quasi). Devoti di Mitteleuropa, servitevi.
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A ben vedere Beerbohm aveva ragione nella satira della Mitteleuropa. I tedeschi, gli ungheresi e i loro vicini approdati ad Adelphi lungo una vena carsica hanno un’identità bruta: vanno fino in fondo alla loro barbarie per apparire un goccio più civili. I loro pensieri, le loro azioni sono irruente: il risveglio brusco da un torpore sotto un albero di pianura. Siamo sicuri che queste ‘qualità’ diano loro diritto a essere qualcosa di più che semplici libri da leggere?
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Per non concludere.
Se prendete il libro di un inglese purosangue come Max Beerbohm, che gioia invece! Potete immaginare che con la sua classe Beerbohm ridesse sotto i baffi delle mode isteriche che giungevano dalla Mitteleuropa. Godetevi questa sua vita immaginaria alla Schwob, coagulata nel 1920. Cioè quando pubblicò una delle sue ultime cose (And even now) prima di scappare a Rapallo e sotterrare la penna. (Andrea Bianchi)
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Max Beerbohm, Kolniyatsch
Nessuno di noi che teniamo gli occhi fissi sul paradiso della letteratura europea può dimenticare l’emozione che provò quando, pochi anni or sono, la stella infuocata di Kolniyatsch danzò davanti ai nostri sguardi. Giacché nessuno potrà obiettare al riguardo, sostengo ora di esser stato il primo a valutare la magnitudine di questa stella e ad anticiparne l’ascesa che di fatto fu trionfante. Questo nei giorni che Kolniyatsch era ancora vivo. La sua morte recente ci dà lo spunto perché arrivi il suo boom definitivo. Io non ne resterò fuori. Farò spintoni per arrivare a incidere il mio nome, ben largo, sulla pietra tombale di Kolniyatsch.
Questi cari stranieri vanno sempre elogiati con cura. Con la sola menzione dei loro nomi voi evocate dentro il lettore o ascoltatore un vago senso della loro superiorità. Grazie a Dio, non siamo insulari come un tempo. Non dico che non abbiamo talenti in patria. Ne abbiamo cumuli, piramidi, tutt’intorno. Ma dove trovare quel modo di titillare genuino se non ci servissimo dei rifornimenti in apparenza inesauribili che ci vengono forniti dalle anime angosciate del Continente – Slavi infantili dagli occhi grandi, Teutoni titanici, Scandinavi del tutto ciechi, tutti tra loro differenti eppure in subbuglio nelle loro tenebre comuni, tutti tesi in un sol gesto per cavar fuori di sé le loro forze da esportare all’estero! Non vi è dubbio che la nostra continua ricezione di questi benefit abbia avuto un effetto corroborante sul nostro carattere nazionale. Di solito eravamo abbastanza flemmatici, o sbaglio? Abbiamo imparato a essere vibranti.
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Di Kolniyatsch, come di ogni spirito magno e autentico in letteratura, è vero che va giudicato più quel che scrisse rispetto a quel che fu. Ma la qualità del suo genio, tutto nazionale e però universale, è al contempo così profondamente personale che non possiamo permetterci di chiudere gli occhi davanti alla sua vita – una vita felicemente non sprovvista di quei dettagli sensazionali che poi son quello che realmente ci interessa.
“Chi ha lacrime per piangere, si prepari a versarle adesso”. Kolniyatsch nacque, ultimo di una lunga serie di raccoglitori di stracci, nel 1886. All’età di nove anni aveva già fatto sua una robusta passione per l’alcolismo che doveva avere in seguito una grossa influenza nell’impastarne carattere e sviluppo di pensiero. Non si ravvisano nella sua infanzia altre promesse circa il suo carattere eccezionale. Non fu prima del suo diciottesimo compleanno che assassinò la nonna e fu mandato in quel ricovero dove compose poesie e opere teatrali che appartengono a quella che oggi definiamo la sua prima maniera. Nel 1907 fuggì dal ricovero o chuzketch (cella) come lui la chiamava sardonicamente e, avendo acquisito denaro con violenza, diede, salpando per l’America, prova precoce che il suo genio era di quelli che valicano frontiere e mari. Sfortunatamente, non era un genio atto a passare oltre il lazzaretto di Ellis Island. L’America, sia detto a suo titolo imperituro, lo respinse. Già nel 1908 lo troviamo di nuovo nei suoi vecchi quartieri, mentre lavora a romanzi e confessioni autobiografiche che, nell’opinione di qualche critico, saranno la pietra di paragone della sua fama. Purtroppo oggi non è così. Domani saranno passati quindici giorni dacché Luntic Kolniyatsch ha lasciato in pace questo mondo, nel ventottesimo anno di sua vita. Sarebbe stato l’ultimo a volere che indulgessimo in qualche sentimentalismo malaticcio. “Qui non c’è nulla per le lacrime tranne quel che va bene ed è onesto e che potrà farci tranquilli in una morte sì nobile”, soleva ripetere.
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Max Beerbohm in una caricatura pubblicata su “Vanity Fair” nel 1897
Era matto Kolniyatsch? Dipende da quel che s’intende con questa parola. Se ci riferiamo, come fecero i burocrati di Ellis Island insieme ai suoi amici e parenti, allora dobbiamo ammettere che non aveva quel genere di atteggiamento compiaciuto e timido che noialtri abbiamo, e allora Kolniyatsch non era sano. Dando per assodato che fu matto in un senso più ampio, noi opponiamo invece un blocco cementizio anti-bomba davanti agli Eugenisti. Provate a immaginare cosa sarebbe oggi l’Europa se non vi fosse mai stato Kolniyatsch! Come avverte un suo critico: “Davvero non diciamo nulla di esagerato affermando che a breve verrà il tempo, e potrebbe essere anche più vicino di quanto presumono molti tra noi, quando Luntic Kolniyatsch sarà riconosciuto, a buon diritto o meno, come uno dei meno indegni scrittori estremamente sintomatici degli inizi del ventesimo secolo i quali sono, possibilmente, ‘per sempre’ o per un periodo di tempo più o meno, certamente, degno di considerazione”. Questo è detto con finezza. Ma dal canto mio mi spingo più in là. Dico che il messaggio di Kolniyatsch ha mandato a fondo ogni altro messaggio che è o sarà. Mi domandate quale sia, precisamente, questo messaggio? Ebbene, è fin troppo elementare, troppo vicino al cuore della nuda Natura, per poterne dare un’esatta definizione. Sapreste dire qual è il messaggio di un pitone arrabbiato che sia più soddisfacente di S-s-s? O di un bulldog infuriato col suo Moo? Il messaggio di Kolniyatsch sta tra questi due. Appunto: da qualunque lato lo affrontiate, non riuscireste a inserirlo in una sola categoria. Era un realista o un romantico? Nessuno dei due, ed era entrambi. Da più di un critico è stato chiamato pessimista, ed è vero che parte della sua opera può essere calibrata sul suo pessimismo personale – di corsa e arrabbiato e non al modo dei suoi banali precursori che erano pessimisti verso le cose in generale, o verso le donne o se stessi, perché il suo pessimismo è profuso con pari durezza e odio verso bambini, alberi, fiori, luna e in verità verso tutto quel che i sentimentali hanno serbato in loro favore. D’altro canto, la sua fede bruciante in un Demonio personale, il piacere sincero causatogli da terremoti ed epidemie e la sua credenza che tutti tranne lui saranno riportati in vita per morire ibernati in una epoca glaciale ventura, ebbene questi elementi gli conferiscono un tono ottimista.
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Per nascita e frequentazioni fu uomo di compagnia e allo stesso tempo aristocratico da capo a piedi, e Byron l’avrebbe chiamato fratello, anche se poi c’è da tremare a pensare a come lui avrebbe chiamato Byron. Per prima ed ultima cosa, fu artista e per la sua maestria tecnica si staglia su tutti gli altri. Che sia in prosa o in versi, si mantiene in un ritmo spezzato che è quello proprio della vita, con una cadenza che ti prende alla gola, come un terrier che abbia catturato un topo e sugge da voi fino l’ultima goccia di pietà e stupore. La sua abilità nell’evitare “la parola inevitabile” è semplicemente miracolosa. È la disperazione del traduttore. Lungi da me diminuire le devote fatiche di Mr. e Mrs. Staccapanni [Pegaway], la cui monumentale traduzione delle opere complete del Maestro si sta avvicinando alla sua splendida conclusione. La loro promessa di una biografia della nonna assassinata è attesa con trepidazione da tutti coloro che nutrono un interesse sconfinato – e chi di noi non è tra questi? – verso i materiali kolniyatschiani. Ma Mr. e Mrs. Staccapanni sarebbero tra i primi ad ammettere che la loro resa della prosa e dei versi che così tanto amano è una sostituzione malfatta della realtà sostanziale. Volevo affrontare io questa fatica, ma loro vi si sono fiondati e hanno cominciato prima di me. Grazie al cielo, non possono privarmi del piacere di leggere Kolniyatsch nel suo idioma gibrico originale e di beffare chi non ci riesce.
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Dell’uomo in se stesso – ché in molte occasioni ebbi il privilegio e il permesso di visitare – ho la più piacevole e la più sacra delle rimembranze. La sua personalità era di quelle magnificamente vivide ed intense. Il volto incantevole di forma perfettamente conica. Gli occhi due lampade rotanti collocate molto vicine tra di loro. Il sorriso ti inseguiva in una caccia amorosa. Vi era un tocco di cortesia medioevale nella repressione che si imponeva per non afferrarti la giugulare. La voce aveva note che ricordavano M. Mounet-Sully negli ultimi passaggi maestosi dell’Edipo re. Ricordo che parlava sempre col più gran disprezzo delle traduzioni di Mr. e Mrs. Staccapanni. Le paragonava a – mi fermo qui! Il boom del caso Kolniyatsch non è ancora al suo massimo. Di qui a un paio di settimane potrò rialzare il prezzo delle mie Conversazioni con Kolniyatsch.
Max Beerbohm
* traduzione di Andrea Bianchi
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pangeanews · 5 years ago
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Perché non si legge Fogazzaro? Non andava bene a nessuno, né al Partito né al Vaticano. Eppure, avrebbe dovuto vincere il Nobel… Dialogo con Alberto Buscaglia
Senatore del Regno d’Italia, candidato al Premio Nobel per la letteratura, il vicentino Antonio Fogazzaro (Vicenza 1842, 1911) è stato uno degli scrittori più interessanti e inquieti nel panorama del secondo Ottocento, sospeso fra decadentismo e verismo, tra romanticismo sentimentale e irrequietezza scapigliata. Antonio Fogazzaro è ancora oggi – come ci rivela l’attento regista e critico cinematografico Alberto Buscaglia, che allo scrittore della Valsolda dedica da tredici anni un premio letterario – sottovalutato e misconosciuto. Le sue opere non vengono studiate a scuola (anche per colpa dei prof) e addirittura dalle cineteche spariscono i suoi film. Nella nostra lunga chiacchierata, Buscaglia ci ricorda di quando Fogazzaro ha rischiato di prendere il Nobel (mancato perché è rimasto in silenzio di fronte alla censura cattolica del suo romanzo più controverso, Il Santo) e di come gli scrittori di oggi siano molto narcisisti e poco lettori.
Com’è possibile che ci siamo dimenticati di Antonio Fogazzaro?
Fogazzaro è uno scrittore in qualche modo rimosso da una precisa generazione, quella “impegnata” del dopoguerra, prima fascista poi marxista, e proprio per precise ragioni ideologiche. Inoltre era inviso al mondo cattolico, da cui peraltro proveniva. Fogazzaro era uno scrittore all’avanguardia, da un punto di vista intellettuale, e non solo come autore di romanzi; ha subito accolto, secondo una sua originale visione trascendentale, l’evoluzionismo darwiniano, dando prova di grande attenzione a quel che accadeva nel mondo scientifico. Inoltre è uno degli scrittori che più ha rinnovato il romanzo dopo Alessandro Manzoni. Dopo Malombra, la cesura con la produzione letteraria precedente si fa netta, definitiva. Era un intellettuale che leggeva i romanzi in tedesco, in francese, fatto che lo ha reso un autore mitteleuropeo, internazionale. Fogazzaro di fatto rompe con la “tradizione” manzoniana (se poi di tradizione italiana del romanzo si può parlare), e ne inventa un’altra, insieme a personaggi come Verga, Pirandello.
Perché è così poco conosciuto in Italia?
Oggi Fogazzaro è meno celebrato anzitutto perché si legge molto poco. A scuola, la maggior parte dei docenti che vivono di rimbalzo i vecchi pregiudizi ideologici non lo commentano perché non lo hanno letto, così non lo tengono in considerazione, lo sottovalutano, e non lo fanno leggere. Con la cultura imposta nel dopoguerra dal Partito Comunista Italiano sono stati enfatizzati il Neorealismo e il Realismo critico, due categorie solo ideologiche, impraticabili sul piano estetico. Fogazzaro, nei suoi romanzi, non guarda forse in modo realistico alla società del suo tempo? O Guido Morselli, non scriveva del suo e nostro tempo? Eppure la sua opera così geniale, ma non in linea con le direttive politico-culturali del partito comunista, non trovò un editore, se non dopo il suo suicidio. Ma a scuola si continua a far leggere soprattutto l’Italo Calvino del Sentiero dei nidi di ragno; forse qualcosa di Verga, o di Pirandello, ma sorvolando sul suo teatro, l’opera sua che ha veramente rivoluzionato la scrittura teatrale e la pratica di palcoscenico: il Pirandello che è stato maestro di Bertolt Brecht e di tutto il teatro d’avanguardia venuto dopo.
Ma non si legge Fogazzaro. Quanto ha influito la messa all’indice dei suoi romanzi?
Sono stati due i romanzi censurati di Fogazzaro: Il Santo e Leila, ma lui per fortuna non seppe del secondo perché morì prima. Il Santo conteneva le idee del Modernismo cattolico, il movimento riformatore che era nato in Francia. Il romanzo fu subito tradotto in varie lingue e letto con grande interesse anche negli Stati Uniti. Fogazzaro ricevette persino una lettera entusiasta dall’allora presidente americano.
Perché Antonio Fogazzaro non vinse il Nobel per la Letteratura?
Fu proprio per Il Santo che non riuscì a prendere il Nobel. L’Accademia di Svezia, che lo aveva candidato, era il 1906, scelse di non darglielo perché lo scrittore si era chiuso in un silenzio totale di fronte al Vaticano che aveva messo all’indice il suo romanzo, non aveva commentato, insomma non aveva reagito. Così il Nobel per la letteratura fu assegnato un po’ alla svelta a un altro italiano, Giosuè Carducci… forse perché non era ancora nato Dario Fo (scrivila pure questa battuta!). Insomma, Antonio Fogazzaro è stato un uomo perseguitato anche da se stesso. Se avesse portato avanti le sue idee, probabilmente avrebbe vinto il Nobel e forse la sua opera avrebbe avuto un’altra storia…
Qual è il tuo romanzo preferito?
Io preferisco Malombra, il più audace sul piano dei contenuti, oltre che della forma narrativa. Preferisco Malombra anche tra i film fogazzariani di Mario Soldati. Lui stesso dichiarò di aver girato Malombra “credendo nel cinema”. Oltre ai volumi dedicati ai concorsi letterari del premio Fogazzaro, in questi anni, grazie a New Press Edizioni, abbiamo pubblicato tre libri dedicati al cinema di Soldati dalle opere di Fogazzaro. Abbiamo ritrovato e pubblicato le sceneggiature di lavorazione, confrontandole con i film e i romanzi. Abbiamo avuto tra le mani le sceneggiature che poi venivano utilizzate sul set. Recentemente sono state presentate all’Accademia Olimpica di Vicenza e uno dei relatori ha detto che queste nostre pubblicazioni rappresentano un momento essenziale della critica cinematografica del futuro. Perché si tratta di un tipo di analisi filologica del film ancora poco utilizzata, quella che analizza la storia di un film, quel che è successo dalla scrittura al montaggio definitivo.
Una ricerca quasi archeologica che ti ha portato alla pubblicazione di Daniele Cortis, il film di Mario Soldati dalla sceneggiatura allo schermo (New Press Edizioni, 2018), terzo capitolo della trilogia dei saggi dedicati ai film di Soldati, ispirati alle opere di Fogazzaro. Daniele Cortis, scritto nel 1885, è il secondo romanzo di Antonio Fogazzaro, iniziato subito dopo il successo di Malombra (1881) e continuato in un momento emotivamente tormentato per l’autore, come documenta il saggio di Tiziana Piras dedicato alla elaborazione del romanzo e al rapporto con il film. Fogazzaro trasferì nel nuovo romanzo il suo travaglio sentimentale, raccontando la storia di un “amore sublime” ma impossibile, ambientata sullo sfondo della piccola provincia vicentina e su quello romano della politica dell’Italia postrisorgimentale. Che fine ha fatto questa pellicola?
 Questo film praticamente non esiste più. È un film perduto, non c’è più, né in Vaticano – era stato prodotto da Universalia film, una casa di produzione del Centro Cinematografico Cattolico – né nelle cineteche italiane. Abbiamo trovato per caso la sceneggiatura a Villa Fogazzaro, e non era neanche la sceneggiatura definitiva. Si tratta di un film “fantasma”, noi abbiamo potuto studiarlo grazie a una copia presente presso la videoteca di Firenze, dove abbiamo trovato uno scadente VHS registrato da un passaggio televisivo di una sconosciuta emittente privata. In seguito, dopo altre disperate ricerche, abbiamo trovato a Padova una copia 16 mm del film di proprietà di una cineteca privata (con pellicola spezzata e rimontata a caso), una copia utilizzata all’epoca nei circuiti minori. Con queste due copie di scarsissima qualità abbiamo potuto rimontare il film; ma ovviamente non si tratta di un vero restauro, perché per questo sarebbe necessario ritrovare il negativo.
È una storia incredibile. “Già. Che dire? Che qualcuno possa aver fatto sparire il film solo perché scomodo dal punto di vista dei suoi contenuti? Non si tratta di un film arcaico del periodo “muto”; si tratta di un film girato nel 1946, che aveva anche vinto il premio per la migliore fotografia al festival di Venezia del 1947. E si tratta di una produzione importante per l’immediato dopoguerra, con un bravissimo di Gino Cervi, un giovane Vittorio Gassman e, nella parte della protagonista, la figlia di Churchill, Sara, nota attrice del teatro e del cinema inglese, voluta dal produttore Salvo D’Angelo che già allora, primo trai i produttori del tempo, pensava a coproduzioni internazionali”. Nel 2020 Alberto Buscaglia vara la XIII edizione del Premio dedicato ad Antonio Fogazzaro; quali sono le novità di questa stagione?
Anzitutto si tratta di un premio che si rinnova dal punto di vista organizzativo attraverso la costituzione di un’associazione culturale. Con la sua nuova struttura, il Premio Antonio Fogazzaro riparte con i suoi tradizionali e apprezzati concorsi, quello per il Racconto inedito e quello per la Poesia edita in italiano e in dialetto, accogliendo inoltre l’ingresso di un concorso dedicato alle Tesi universitarie proposto dagli organizzatori del prestigioso Premio Crotto dei Platani. Il Premio, inoltre, estenderà i suoi orizzonti verso una più accentuata internazionalizzazione: già da quest’anno concretizzata tramite la collaborazione con la Fondazione svizzero/tedesca Museo Hermann Hesse di Montagnola.
Cosa significa promuovere un premio letterario oggi?
Significa un impegno costante a promuovere un’attività culturale sul territorio e un dialogo non sempre facile con le istituzioni. Il bilancio di questi tredici anni è positivo perché, al di là della delle difficoltà economiche, il premio si è affermato a livello nazionale con la partecipazione di autori provenienti da tutta Italia e l’invio di migliaia di testi che testimoniano una forte esigenza di scrittura, e di lettura (speriamo).
Non si legge più?
Un premio letterario nasce anche per stimolare la lettura. Purtroppo oggi, con le nuove tecnologie, la lettura è diventata un problema, dalle scuole elementari in avanti. Invece occorre valorizzare e stimolare la lettura. Come facevano una volta gli aspiranti scrittori: prima leggevano i classici e i contemporanei, poi scrivevano. Oggi sarebbe necessario che la scuola stimolasse e imponesse la lettura. Abbiamo bisogno di momenti di cultura e abbiamo bisogno di personale politico competente che capisca il problema, ma in questo momento siamo in mano a un reale analfabetismo “funzionale” – e purtroppo è tutto presente nel governo. E poi penso che anche gli autori considerati importanti oggi in Italia leggano solo se stessi. Lo vedi da come scrivono. Purtroppo c’è un forte narcisismo nel mondo delle lettere in Italia, e molti scrivono soltanto per vincere certi premi letterari. Per non parlare della assurda sovrabbondanza di magistrati che scrivono gialli (e poi magari entrano anche loro in politica).
Linda Terziroli
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Alberto Buscaglia è nato a Milano (1944). Regista e sceneggiatore, è stato assistente nei primi film di Ermanno Olmi, di Eriprando Visconti e Gianfranco De Bosio. Con il fratello gemello Gianni è stato fotografo di scena del Piccolo Teatro di Milano nelle stagioni 1963/64, collaborando con Giorgio Strehler e Virginio Puecher. Dal 1973 al 2000 ha collaborato con la Rai con produzioni radiofoniche e televisive, tra le quali, nel 1983, i film documentario De là del mur, la poesia di Delio Tessa e Alla ricerca di Guido Morselli. Dal 1999 collabora con la Rete Due della RSI, Radio televisione della Svizzera italiana, con produzioni radiofoniche di prosa, sceneggiati e docufiction. Nel 2008 ha ideato il Premio Antonio Fogazzaro di cui cura la direzione artistica e nel cui ambito ha curato, con l’italianista Tiziana Piras, la pubblicazione delle sceneggiature di Piccolo mondo antico (2014), di Malombra (2015) e di Daniele Cortis (2018) di Mario Soldati.
L'articolo Perché non si legge Fogazzaro? Non andava bene a nessuno, né al Partito né al Vaticano. Eppure, avrebbe dovuto vincere il Nobel… Dialogo con Alberto Buscaglia proviene da Pangea.
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