#riflessioni sui sentimenti
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Talvolta mi stupisce la sua lucidità, che però trasuda sempre comprensione e rispetto. Certo che mi sono capitati anche degli “approfittatori”! Ma se ci penso bene, mi dico che preoccuparmi di svelare se un’amicizia sia interessata o no non ha molto senso. Sarebbe un lavoro quasi “da illusionista”: dovrei passare il tempo a cercare dove sta il trucco. Preferisco invece godermi lo spettacolo. Se scopro l’inganno, muore lo spettacolo e, con lui, l’illusionista. Ma se non scorgo il trucco perché il mago è stato bravo, allora chi se ne importa… Penso invece che, se un rapporto è piacevole, lo è al di là delle ragioni per cui viene portato avanti. Va bene così. Questo, però, non mette al riparo dai tradimenti degli amici. Ma, a differenza di un rapporto d’amore, quello d’amicizia è più ragionato, nel piacere come nel dolore. Inoltre, emotivamente non si fa un investimento di unicità: puoi avere una donna soltanto, ma diversi amici. Forse questo accade perché dietro un rapporto d’amicizia non c’è la forza generatrice. La fedeltà è un’esigenza che nasce da un enigma: se la donna che ho accanto è molto disponibile anche “in trasferta”, questo non mi rende sicuro della paternità di un eventuale figlio. Ecco, penso che agli albori del genere umano il concetto di fedeltà e di unicità sia nato da questo principio. Insomma, il tradimento di un amico o di un amore sono due delusioni molto diverse. Honoré de Balzac sintetizza benissimo questo mio pensiero: «Quel che rende indissolubili le amicizie e ne raddoppia l’incanto è un sentimento che manca all’amore: la sicurezza». La fiducia, data e richiesta, è la vera differenza che distingue, nella nostra vita, le persone che ci accompagnano dal resto del mondo.
#paolo bonilis#citazioni#citazione#citazioni libri#citazione libro#frasi#libri#libri letti#riflessioni#pensieri#Perché parlavo da solo#perché parlavo da solo#biografia#autobiografia#attualità#narrativa contemporanea#amore#amicizia#riflessioni sui sentimenti#sentimenti#fiducia
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Ma a cosa serve il Natale quando si è adulti?
Che magia ha ancora, che sentimenti dovrebbe portarci, che riflessioni ci invita a fare?
il Natale dovrebbe servire proprio per essere vicini a chi è solo e non farlo sentire tale, farlo sentire ancora appartenente ad una comunità e non abbandonato a se stesso e non mi riferisco solo alle persone ma anche ai nostri compagni di viaggio a quattro zampe.
Ci sono persone tra noi che tra mille scazzi che la vita ti propone ogni giorno hanno il tempo per un gesto, una parola, una testimonianza e non sono dei superman o superwoman ma sono normali come me.
Persone che aiutano, che si attivano concretamente a favore di una buona causa.
A loro penso sempre più frequentemente e il Natale serve proprio per fermarci un attimo a riflettere sul senso di quello che facciamo, abbiamo fatto e sopratutto faremo, sempre nei limiti del nostro possibile.
Questo è il senso (secondo me) per noi adulti di questa giornata particolare.
Se riuscissimo a fare solo un piccolo sforzo in questa direzione forse ne guadagneremmo tutti.
I post sui socials sull'inutilità di questa giornata lasciateli ai maigoduti.
Buon Natale a tutti.
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È da un po’ che non scrivo. O meglio dire che non mi perdo a scrivere.
Pensieri e riflessioni sciolte, libere di correre e volare; a differenza mia.
Per struttura fisica non siamo dotati di ali. Forse è per questo che si lascia correre la mente. Pensieri disconnessi, pazzi. Super discutibili, inconcludenti.
𖧷
Stavo pensando alle case delle persone.
Sì, proprio alle case delle persone😂.
Quando un amico ti mostra una foto o entri dentro casa sua e della sua famiglia e inizi a guardarti un po’ attorno com’è giusto che sia…
Poi se sei puntiglioso/a (tipo me) noti una cyclette piazzata dietro al divano in soggiorno (magari con la speranza che nessuno la noti, nonostante sia al centro del passaggio praticamente), il pavimento in netto contrasto coi mobili uno di colore diverso dall’altro.
Sul tavolo una tovaglia con una stampa che non metteresti nemmeno su un tavolo da giardino di una villetta abbandonata, magari dove batte il sole tutto il giorno, sperando così che il sole sbiadisca quell’affare.
Soprammobili giganti, foto con cornici che vanno da quella più minimal alla più intarsiata e colorata.
Poi parli con le persone, entri nel calore famigliare. O semplicemente a contatto con loro.
E con la gentilezza ogni oggetto sembra bello nel posto in cui si trova e nemmeno quella tovaglia stampata la sostituiresti o la toglieresti da dove si trova.
Passi avanti sui gusti particolari della gente, alla fine quello è esteriore.
𖧷
Con questo penso a me stessa. L’esteriore conta poco. Soffermarsi all’esteriore conta poco.
Devo curare più la bellezza e l’ordine dentro la mia anima, nei miei sentimenti e nei miei pensieri.
Pensare a risplendere dentro ed irradiare col sorriso sincero ogni persona accanto a me che mi ama e che per me ci sarà sempre, per sempre.
𖧷
Si accettano molte cose nella vita, perché quando ami passi oltre e copri una moltitudine di difetti, di dossi, di cose che magari anche non piacciono.
Smussi ogni angolo, perché quando ami abbracci, e l’abbraccio è il primo luogo che chiami casa. Una casa deve essere senza spigoli, senza critiche, fatta di parole gentili, comprensione ed ascolto.
Piccole cose, un miliardo di piccole belle cose, di gesti, parole e sguardi quotidiani.
Dettagli che arricchiscono la vita, la bellezza di un quadro completo la costituiscono solo un miliardo di dettagli diversi.
Perciò è stupendo essere tanto diversi, avere un miliardo di sfaccettature in cui ci si perde a conoscersi. Dettagli che completano quel quadro. È naturale che se approfondisci non troverai che differenze. Ma sono differenze che rendono una persona unica, un quadro unico, una bellezza unica. Un incastro perfetto è fatto di legami creati da combinazioni uniche e irripetibili. Non ci sono legami uguali, unici modi e strade per sentirsi connessi ed uniti.
L’amore trasforma il modo di pensare, e quando cambia la nostra mente perché pensa in positivo siamo cambiati anche noi, e con noi cambia anche il nostro destino.
~ 25/09/23
CR diary
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Ho iniziato a vedere una serie a tema zombie - fine del mondo. Questa di per sé è già una notizia, in quanto nutro sentimenti contrastanti verso questo genere di tematiche, il che mi porta a evitare il genere del tutto.
Tuttavia, una volta superata la fase iniziale, dove l'alto livello di tensione mi causa una sensazione assimilabile al dolore fisico, quello che resta sono effetti speciali un poco grotteschi, la trama e alcune riflessioni.
La prima è di tipo generale, tutta la storia gira attorno ad un eterogeneo gruppo di persone, in continuo mutamento nella composizione, che ha come unico collante sociale quello di salvare l'umanità scortando un soggetto 0 presso una sede X per creare un vaccino.
Niente va come dovrebbe, la missione muta mille volte nella forma ma la sostanza resta la stessa. In questa situazione la domanda che spesso ci si fa è: "quale umanità si sta cercando disperatamente di salvare?"
Chi è rimasto è violento, criminale, sadico. Chi si è dimostrato umano o solidale ha fatto spesso una fine atroce.
Questo senso di impotenza verso un mondo destinato all'autodistruzione lo vivo praticamente ogni volta che sui social ho l'idea di leggere i commenti agli articoli che trattano tematiche calde, che quindi solleticano la pancia facendo scrivere mostruosità violente tutto d'un fiato.
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Stagione Teatrale di bari 2023-2024: Questo weekend la celebrazione dei 100 di Italo calvino
Stagione Teatrale di bari 2023-2024: Questo weekend la celebrazione dei 100 di Italo calvino. Il 15 ottobre è il compleanno di Italo Calvino: nato nel 1923, domenica prossima avrebbe compiuto 100 anni. Per #100Calvino, nell’ambito della Stagione teatrale di Bari 2023_24 del Comune di Bari-Assessorato alla Cultura -Teatro Pubblico Pugliese, al Teatro comunale Piccinni, dopo il Prix Rai del 2 ottobre con le letture di Neri Marcorè e dopo lo spettacolo Il Castello del Teatro delle Bambole del 9 ottobre, questo weekend sono in programma una serie di spettacoli e iniziative. Domani, sabato 14 ottobre, alle ore 10.30 (riservato alle scuole/Istituti Superiori) e alle 21, e domenica 15 ottobre, alle 18, il Premio UBU Mario Perrotta porterà il suo “Come una specie di vertigine - Il Nano, Calvino, le libertà”, di cui è regista e interprete, con la collaborazione alla regia di Paola Roscioli. Dopo lo spettacolo rivolto alle scuole, Mario Perrotta incontra gli studenti per un dibattito sui temi dello spettacolo e sulla figura di Calvino (con approfondimento a cura di Giancarlo Visitilli). Domenica 15 ottobre, alle ore 11, sempre sul palco del Piccinni: La Palestra - Edizione speciale “Buon Compleanno Calvino!”, una Lezione spettacolo con la direzione artistica di Francesco Maria Asselta e la consulenza scientifica di Lea Durante. “In questo weekend proseguiremo nel nostro omaggio a Italo Calvino, uno degli scrittori più importanti del ‘900, con l’aiuto di Mario Perrotta, attore, drammaturgo e regista pluripremiato, e con uno speciale appuntamento di La Palestra, il format di approfondimento e confronto che per il terzo anno accompagna alcuni dei temi e degli autori della stagione comunale di prosa - commenta l’assessora alle Culture Ines Pierucci . Abbiamo voluto dedicare all’opera di Calvino, al suo impegno politico e culturale, al suo rigore, alla sua fantasia, l’apertura della stagione di prosa della Città di Bari, lasciando che a condurci alla scoperta del suo mondo fossero alcuni tra i nomi più importanti del panorama culturale contemporaneo, per offrire al nostro pubblico riflessioni ed emozioni di grande valore artistico e civile”. Sabato 14 ottobre alle ore 21 Domenica 15 ottobre alle ore 18 Come una specie di vertigine - Il Nano, Calvino, la libertà; scritto, diretto e interpretato da Mario Perrotta, con la collaborazione alla regia di Paola Roscioli Info a questo link. COME UNA SPECIE DI VERTIGINE Il Nano, Calvino, la libertà durata 75’ Permàr – Compagnia Mario Perrotta / ERT- Teatro Nazionale scritto, diretto e interpretato da MARIO PERROTTA collaborazione alla regia Paola Roscioli mashup e musiche originali Marco Mantovani / Mario Perrotta con il sostegno di Regione Emilia Romagna, Comune di Medicina in collaborazione con Teatro Asioli di Correggio, Duel In scena un uomo, o meglio, la sua voce interiore. È la sua anima che fa spettacolo. Tra i tanti abitanti delle pagine dei romanzi di Calvino, è quello meno libero: ha un corpo, una lingua e una mente che non rispondono alla sua urgenza di dire, di agire. Oggi e solo oggi, però, ha deciso di fare spettacolo della sua esistenza, dei suoi pensieri, dei sentimenti che lo agitano. Lui, inchiodato com’è a una croce che non ha voluto, ha deciso di prendersi un’ora d’aria, un’ora e poco più di libertà. E la cerca, la libertà, tra le pagine delle opere del “signor Calvino Italo”, la racconta come sa e come può, la trasforma in versi, in musica, in parabole e collegamenti iperbolici tra un romanzo e l’altro, in canzoni-teatro sarcastiche e frenetiche e improvvisi minuetti intimi, “scalvinando” quelle opere a suo uso e consumo. Il tutto mentre accanto scorre, amaramente ironica, la sua personalissima storia d’amore, una storia impossibile per quel corpo e quella lingua incapaci di parlare. “Il personaggio in scena è un abitante del Cottolengo, il Nano del romanzo autobiografico La giornata d’uno scrutatore, personaggio cui Calvino dedica una sola pagina se pur memorabile. Ho scelto lui e ne ho immaginato tutta l’esistenza - esistenza che Calvino non ci racconta - proprio perché il mio intento era ragionare intorno al concetto di libertà e il Nano del romanzo ne è totalmente privo”, scrive Mario Perrotta. Domenica 15 ottobre alle ore 11 LA PALESTRA edizione speciale BUON COMPLEANNO CALVINO! direzione artistica a cura di Francesco Maria Asselta consulenza scientifica di Lea Durante interventi di Silvio Perrella e Lea Durante letture di Paolo Panaro al pianoforte Mirko Signorile Ingresso libero con prenotazione su eventbrite Il progetto “Buon compleanno Calvino!”, questa occasione straordinaria del centenario della sua nascita, sarà un’opportunità per parlare della sua vita, delle sue opere, ma soprattutto della sua idea tutta personale di rappresentare un modello di intellettuale integralmente disorganico, lontano dall’impegno diretto, discutendone non solo con studiosi, critici e specialisti della letteratura calviniana (Silvio Perrella e Lea Durante), ma aprendoci anche alle sue parole con le letture di Paolo Panaro (che ha portato in scena Il Barone Rampante), e all’incontro con progetti musicali dedicati a “Le città invisibili”, interpretati da Mirko Signorile in duo con Giovanna Carone.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Il mistero della bellezza
La pietà di Michelangelo Il mistero della bellezza, un articolo che cerca di indagare il fenomeno della bellezza attraverso alcuni brevi testi e diverse riflessioni di vari autori. Fair is foul, and foul is fair: Hover through the fog and filthy air. William Shakespeare È vero, è vero senza errore, è certo è verissimo: ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto, per fare il miracolo della cosa unica. Ermete Trismegisto Beauty is truth, truth beauty, that is all Ye know on earth, and all ye need to know to be a perfect stupid. Carl William Brown Se tutte le nostre donne dovessero diventare belle come la Venere dei Medici, per un certo periodo noi ne saremmo incantati; ma presto cominceremmo a desiderare qualcosa di diverso e, ottenuto questo, vorremmo vedere accentuarsi certe caratteristiche che modifichino i criteri vigenti. Charles Darwin Chiedete a un rospo cos’è la bellezza, il bello assoluto, il kalòn. Vi risponderà che è la sua femmina, con i suoi due grossi occhi rotondi sporgenti dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo, il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello è per lui una pelle nera, oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che la bellezza è un paio di corna, quattro artigli e una coda. Consultate infine i filosofi: vi risponderanno con argomenti senza capo né coda; han bisogno di qualcosa conforme all’archetipo del bello in sé, al kalòn. Assistevo un giorno a una tragedia, seduto accanto a un filosofo. "Quant’è bella!", diceva. "Cosa ci trovate di bello?" domandai. "Il fatto," rispose, "che l’autore ha raggiunto il suo scopo." L’indomani egli prese una medicina che gli fece bene. "Essa ha raggiunto il suo scopo," gli dissi, "ecco una bella medicina!" Capì che non si può dire che una medicina è bella e che per attribuire a qualcosa il carattere della bellezza bisogna che susciti in noi ammirazione e piacere. Convenne che quella tragedia gli aveva ispirato questi due sentimenti e che in ciò stava il kalòn, il bello. Facemmo un viaggio in Inghilterra: vi si rappresentava la stessa tragedia, perfettamente tradotta, ma qua faceva sbadigliare gli spettatori. "Oh, oh," disse, "il kalòn non è lo stesso per gli inglesi e per i francesi." Concluse, dopo molte riflessioni, che il bello è assai relativo, così come quel che è decente in Giappone è indecente a Roma e quel che è di moda a Parigi non lo è a Pechino; e così si risparmiò la pena di comporre un lungo trattato sul bello. Voltaire, Dizionario Filosofico
Volto di donna La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla, e ogni mente percepisce una diversa bellezza. È persino possibile che una persona percepisca una bruttezza là dove un'altra prova un senso di bellezza: ogni individuo dovrebbe accontentarsi del suo sentimento personale, senza pretendere di regolare quello degli altri. La ricerca della bellezza reale o della bruttezza reale è altrettanto feconda quanto la pretesa di determinare ciò che è realmente dolce o ciò che è realmente amaro. Secondo la disposizione degli organi lo stesso oggetto può essere tanto dolce che amaro; e la sentenza ha giustamente stabilito che è inutile disputare sui gusti. È naturalissimo, e persino necessario, l'estendere questo assioma al gusto dello spirito, oltre che al gusto corporeo. Così il senso comune, il quale così spesso è in disaccordo con la filosofia, e specialmente con la filosofia scettica, si è ritrovato, una volta tanto, in accordo con essa nel pronunciare la stessa sentenza. David Hume, Della regola del gusto. Quando dico che la bellezza sconvolge, lo dico letteralmente, cioè mi riferisco anche ad aspetti psicopatologici. Conoscerete senz’altro la sindrome di Stendhal, che consiste nel fatto che alcune persone, di fronte a opere d’arte, sono a tal punto sconvolte da avere attacchi di panico, cioè da essere in una condizione di non padronanza di sé. La bellezza quindi non è una cosa tranquilla, la bellezza è qualcosa che ti sorprende. Ma come definire la bellezza? Tommaso d’Aquino dice in latino «pulchrum est quod visum placet», cioè "bello è ciò che quando lo guardi ti piace": tutto qua. Kant, invece, scrive che la bellezza è qualcosa che è senza concetto e senza scopo: vale a dire che, secondo Kant, la bellezza non può essere soggetta ad alcuna forma di teorizzazione – si coglie solo "intuitivamente" – e che essa è (anche questo è molto importante) “senza scopo” – perché la bellezza si inserisce nella categoria della inutilità. Thomas Mann per parlare di bellezza utilizza il verbo tedesco durchstechen, la bellezza "trafigge": qui si riconosce qualcosa di affine all’amore, infatti anche l’amore "trafigge". Bellezza e amore sono accomunati dall’avere la caratteristica di colpire.
Bellezza della natura L’uomo si trova in una condizione di dipendenza dalla bellezza, in cui tu non sei soggetto ma sei colui che patisce. E anche l’amore, al pari della bellezza, si inserisce nella dimensione della inutilità. Perché quando ogni scopo funziona come anello per raggiungere un altro scopo forma una "cattiva infinità, ossia l’infinità negativa, non essendo che la negazione del finito il quale però torna a nascere di nuovo e quindi non è superato". E allora ci vuole qualcosa di inutile per dare un senso alla nostra vita – e cosa c’è di inutile nella nostra vita, che non ha bisogno di rimandare ad altro, che è significativo e pieno di senso? Io conosco solo l’amore e la bellezza, che sono due dimensioni inutili, ma proprio perché inutili sfuggono alla catena dell’utilità, entro cui ogni cosa rimanda ad altro per il suo significato. Umberto Galimberti, il Mistero della Bellezza Sintetizzando, secondo il filosofo Nicola Abbagnano si possono distinguere cinque concetti fondamentali del Bello, e precisamente: 1) il Bello come manifestazione del bene; 2) il Bello come manifestazione del vero; 3) il Bello come simmetria; 4) il Bello come perfezione sensibile; 5) il Bello come perfezione espressiva. La prima concezione è propria di Platone e poi di Plotino dove assume carattere teologico e mistico; la seconda è sviluppata nell'età romantica, per esempio in Hegel per il quale bellezza e verità sono la stessa cosa. Il concetto del Bello come simmetria è presente in Aristotele, che lo tramanda anche alla filosofia medioevale e al Rinascimento; la quarta concezione invece è quella con cui nasce e si afferma l'Estetica, per esempio in Baumgarten (Aesthetica, 1750), e l'ultima accezione rappresenta un completamento di questa in quanto si considera il Bello come espressione riuscita e quindi arte. Il bello richiama talvolta anche il concetto di bene. Se in generale Bene indica tutto ciò che ha valore, pregio e dignità, in filosofia tale concetto si presenta secondo due prospettive, una metafisico-oggettivistica, il Bene è la realtà perfetta e suprema, e una soggettivistica, secondo cui il Bene è ciò che si desidera e piace. La prima teoria è tipica del mondo antico e medioevale (Platone, Aristotele, Plotino e Tommaso), che parlano del Bene come fonte della verità, del bello, del conoscibile, Bene come Dio, etc.; la seconda del pensiero moderno e contemporaneo che definisce il bene solo in relazione al soggetto che lo vuole, e ciò sia in senso relativistico, sia come in Kant che parla del bene voluto da una volontà buona, cioè guidata da una legge universale. Alcune filosofie contemporanee infatti preferiscono parlare del valore anzichè del Bello, considerando il valore come una realtà assoluta ed ultima, e si inscrivono nella stessa concezione tradizionale del bene. Carl William Brown
Bellezza del corpo Leggendo un libretto del filosofo Maurizio Ferraris sulla bellezza, scopriamo ancora varie cose interessanti. A Boston esiste, dal 1993, it MOBA (Museum of Bad Arts), un museo di "brutte arti" che organizza mostre, conferenze, sviluppando un'idea semplice ma efficace: prendi un po' di croste e le chiami con it loro nome. L'operazione non riesce sino in fondo, alcune opere non sono poi cosi male, e nel complesso si ha l'impressione che la percentuale di arte brutta non sia significativamente superiore a quella presente in molti musei di belle arti, antiche e moderne. Ma quello che importa e che il MOBA ironizza su un dogma verso cui il senso comune contemporaneo in materia d'arte tocca il massimo consenso. Cioe sulla tesi secondo cui la bellezza non e piu l'obiettivo fondamentale di quelle che una volta si chiamavano "belle arti", per distinguerle dalle arti utili. È un fenomeno che viene da lontano, e risale almeno al Romanticismo, caratterizzato da Hegel (al quale i romantici non piacevano affatto) come un predominio del contenuto sulla forma, come una disarmonia prestabilita e fortemente voluta. E non a caso nel 1853 un hegeliano, Rosenkranz, scrisse Estetica del brutto, cogliendo lo spirito dell'epoca (senza dimenticare poi che, in una tradizione che dai greci porta a Hume e a Voltaire, e viene contraddetta solo da teorie fortemente normative come il classicismo di Winckelmann, appare chiaro che la bellezza, in quanto qualità antropologica, reca in sé sempre un tratto ineliminabile di storicità e di relatività). Ovvio, per qualche decennio, tra Otto e Novecento, ci fu ancora qualche visitatore impreparato che di fronte a croste o a capolavori gridava "Brutto! Brutto!", ma oggi la verità è radicalmente diversa, e di fronte a quelle stesse croste o a capolavori si mormora "Bello! Bello!", non perché li si consideri belli, ma per far capire - in una maniera un po' contorta - che non si è di quelli che ritengono che un'opera d'arte debba essere bella. All'origine di tutto questo, sul piano dei costumi di massa, è ovviamente Duchamp: prendi un orinatoio, o uno scolabottiglie (curioso strumento, d'altra parte) o una ruota di bicicletta, lo esponi in un ambiente adatto (galleria, museo), gli dai un titolo e lo firmi, e lì realizzi la meravigliosa transustanziazione concettuale per cui un oggetto comune diventa un'opera d'arte. Da questo punto di vista, schivare la bellezza è centrale per evitare che qualche incompetente possa pensare che il miracolo dipenda dall'azione di proprietà estetiche, e non dall'invenzione concettuale. Già, le "proprietà estetiche", ossia, sempre nel parlar comune, le proprietà legate alla bellezza, nelle espressioni "chirurgia estetica", "istituto di estetica", "migliorare l'estetica" di un boiler (o magari di un orinatoio adibito a usi ordinari).
Articolo sul bello e la bellezza Che fine fanno le proprietà estetiche, nel momento in cui l'arte sembra essere tutta concettuale, e infischiarsene della bellezza? E, questione subordinata e minore, che fine fa l'estetica, intesa come dottrina filosofica che si occupa del bello e dell'arte, nella convinzione, ormai non più garantita, che i due termini abbiano molto in comune? Il bello, se così possiamo dire, è però che l'estetica non è affatto morta, anzi, è in condizioni di salute molto migliori rispetto a qualche anno fa. Da una parte, trova nuovi campi di applicazione (per esempio l'universo dei consumi di massa e del web) e nuovi strumenti di indagine (come / nelle ricerche della neuroestetica). Dall'altra, ritrova significati che con il tempo si erano persi, per esempio l'idea che l'estetica non si occupi solo di arte ma anche di percezione (aísthesis, da cui il nome "estetica"). Come è possibile? Probabilmente, la diagnosi secondo cui la bellezza non conta sottovaluta due circostanze. La prima è che i discorsi sulla sparizione della bellezza vengono regolarmente costruiti su un tipo di arte, quella visiva, che è estremamente anomala. Perché proprio l'arte visiva ha subito più direttamente l'impatto della riproducibilità tecnica dell'arte, che ha sollevato gli artisti da obblighi rappresentativi che favorivano la maestria tecnica, anche se non necessariamente la bellezza. Poi, in modo crescente, c'è stata la producibilità tecnica delle opere, ossia il fatto che tra creare un'applicazione per un telefonino e produrre un'opera non c'è alcuna differenza di fondo. Il risultato è che la manualità non conta più niente in arti in cui, in precedenza, costituiva un elemento decisivo. E chiaro che qui abbiamo a che fare con un radicale cambio di registro, che viceversa non si è prodotto in altre arti, in cui la manualità non aveva sin dall'inizio alcuna importanza (per esempio, nella letteratura) o che sin dal loro sorgere sono state caratterizzate da una fortissima componente di riproducibilità e producibilità tecnica, come il cinema e le sue evoluzioni digitali. Questa trasformazione, però, non ha affatto comportato la scomparsa dell'estetica nel suo senso tradizionale di filosofia dell'arte, sia perché si tratta di spiegare la grandissima dose di concettualità delle arti visive, sia perché si tratta di fare i conti con gli sviluppi dell'opera d'arte nell'epoca della sua diffusione di massa e della sua producibilità tecnica. Ma accanto a questo c'è un secondo elemento forse anche più interessante, e cioè il fatto che non è per niente vero che la bellezza sia scomparsa. Se dal MOBA passiamo alla moda, nessuno si sentirebbe imbarazzato a dire che un abito è brutto, o bello, e d'altra parte non ci vuol molto per vedere quanto i giudizi estetici abbiano a che fare con una delle caratteristiche fondamentali dell'essere umano, il piacere e il dispiacere che viene provocato in noi dal semplice presentarsi sensibile di cose o di persone. Questo lo aveva visto bene Kant, e il ritorno a una estetica come aísthesis, come teoria della sensibilità, ha il merito di ricordarcelo.
Sant'Agostino e il diavolo La bellezza ha lasciato alcune opere, ed è migrata altrove, trasferendosi, per così dire all'ambiente naturale (il paesaggio e la sua tutela) e culturale, incominciando dagli immediati dintorni dell'arte, come i musei, per venire ai vini, ai cibi, alla cura del corpo. E l'estetizzazione del mondo di cui tanto si è parlato ai tempi del postmoderno, ma è anche qualcosa di più, e cioè la consapevolezza del fatto che la sensibilità ci mette in contatto con una sfera reale e inemendabile (se il vino sa di tappo, sa di tappo, e non c'è sortilegio concettuale che tenga), insegnandoci che il mondo non è semplicemente come ce lo dipingiamo, o ce lo dipingono. Senza dimenticare poi che la bellezza può decidere della felicità delle persone come tutta una letteratura sull'amore e i sentimenti, che abbiamo cercato di antologizzare, dimostra con larghezza. Il nocciolo di questo aspetto lo ha colto bene Stendhal: "la bellezza è una promessa di felicità". Questa frase sposta il dibattito dalle sfere somme, e dai paragoni fuori luogo, al nocciolo della faccenda, dicendoci che la bellezza non è una entità magniloquente, bensì una proprietà terziaria (cioè espressiva) connessa a oggetti, opere, eventi e soprattutto persone: c'è qualcosa nel mondo che si stacca dalla nebulosa delle cose circostanti perché esprime qualcosa, e in particolare una promessa, quella di renderci felici. La promessa potrà non essere mantenuta per intero (ed è ciò che accade il più delle volte, il che spiega perché la bellezza ha una qualche parentela con l'inganno e addirittura con il pericolo, come in Rilke e in Fitzgerald), oppure potrà durare troppo poco (ed è per questo che la bellezza è legata alla malinconia e alla caducità, come nei versi di Baudelaire), ma intanto importa che in quel preciso punto del mondo ci sia una promessa di quel genere, che si rivolge proprio a noi. La bellezza, dunque, importa. Ma bisogna evitare l'eccesso inverso rispetto alla squalificazione novecentesca. L'idea di Dostoevskij secondo cui la bellezza salverà il mondo è in ultima analisi tutt'altro che benigna: non date né scienza né pane al mondo, dategli lustrini e veline, e che si accontenti. Insomma, si sente il vento, non tanto della follia, quanto piuttosto dello stupore a poco prezzo e del raggiro che pagheremo caro. Un rischio collaterale di questa frase così immodesta (perché veniva da uno scrittore, dunque da un professionista della bellezza) è inoltre di fare odiare la bellezza, e di farle preferire il brutto per il brutto. Il che, fra l'altro, è storicamente avvenuto. Non appena un artista, un critico, un filosofo, si sono infuriati con l'idea che la bellezza avesse la meglio sulla giustizia e sull'umanità, il primo gesto è stato per l'appunto teorizzare, o purtroppo anche realizzare, opere brutte, che non fornicassero con l'estetismo, che ci mettessero sotto gli occhi i dolori del mondo, senza redimerli, ossia lasciandoli brutti, anzi, aggiungendo bruttezza a bruttezza. E poi, già che ci siamo, si è provveduto a riempire il mondo di case brutte, di calzoni a zampa, di panini alla piastra, e ovviamente di opere che meriterebbero di finire al MOBA. Maurizio Ferraris, Bellezza Comunque possiamo aggiungere che sulle categorie estetiche del bello si è proprio detto tutto e il contrario di tutto, come sulle altre questioni del resto. Ad esempio, Edmund Burke, filosofo e politico irlandese del XVIII secolo, ha elaborato una particolare teoria del bello e del sublime nel suo saggio del 1757 intitolato: A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful ( Un'indagine filosofica sull'origine delle nostre idee del sublime e del bello). Secondo Burke, il bello e il sublime sono due concetti estetici distinti. Il bello si riferisce a ciò che è piacevole alla vista e all'udito, e che suscita una sensazione di armonia e proporzione. Burke ha descritto il bello come "ciò che è formato in modo tale da suscitare la semplice approvazione dello spirito". Egli ha sostenuto che il bello è un concetto universale, che può essere apprezzato da tutti gli esseri umani indipendentemente dalla loro cultura o dalla loro esperienza. Read the full article
#Abbagnano#ammirazione#amore#Aristotele#arte#assassinio#Baumgarten#bellezza#bello#bene#Brown#bruttezza#brutto#Burke#DeQuincey#Dostoevskij#emozioni#estetica#felicità#Ferraris#Galimberti#gusto#Hegel#Hume#kalòn#Kant#Mann#mente#mistero#Moba
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Jonio incanta con “LA LUNA (Eppure son fermo)”: introspezione e connessione in musica
Il giovane cantautore leccese porta il suo singol già disponibile sui digital stores in promozione radiofonica dal 6 dicembre
Jonio, il nome d'arte di Vittorio Rizzo, cantautore originario di Lecce classe 2001 continua a conquistare il pubblico con la sua cifra stilistica unica e profondamente emotiva. Dopo l'uscita su tutti i principali store digitali il 4 ottobre 2024, "LA LUNA (Eppure son fermo)" entra ufficialmente in promozione nazionale nelle radio italiane dal 6 dicembre.
Il brano è un viaggio introspettivo che ruota attorno a un dialogo immaginario con la luna, simbolo di desiderio, mistero e conforto. Con un testo ricco di immagini poetiche e domande, Jonio esplora i temi dell'identità e della vulnerabilità emotiva. La frase centrale "Cosa sono per te?" trasporta l'ascoltatore in un mondo fatto di incertezze e riflessioni, specchio di uno stato di crisi emotiva che trova nella musica uno spazio per esprimersi senza filtri. La luna non è solo una presenza irraggiungibile, ma anche un rifugio emotivo e una metafora attraverso cui l’artista manifesta il desiderio di cambiamento e la tensione tra immobilità e speranza.
Ascolta il brano
Musicalmente, "LA LUNA (Eppure son fermo)" si distingue per un arrangiamento che punta sull'equilibrio tra intimità e modernità, curato nei minimi dettagli: una delicatezza che conferisce malinconia al brano, ma nello stesso tempo con sfumature contemporanee. Questa fusione stilistica riflette le luci e le ombre che caratterizzano il testo, creando un'esperienza d'ascolto avvolgente e stratificata. Il minimalismo dell'arrangiamento permette alla voce di Jonio di emergere in tutta la sua autenticità, amplificando l'impatto emotivo delle parole.
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Jonio ha iniziato il suo percorso artistico con lo studio approfondito di pianoforte, diplomandosi al Conservatorio "Tito Schipa" di Lecce. La sua musica fonde influenze indie-pop e cantautorali, con testi capaci di entrare in sintonia con emozioni universali. Con "LA LUNA (Eppure son fermo)", il cantautore conferma la sua abilità di tradurre sentimenti complessi in canzoni che arrivano dritte al cuore degli ascoltatori, mantenendo uno stile personale e innovativo.
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MATTIA RAME: "Mare Mare" in radio e sulle piattaforme
Dopo l'uscita di "Muoviti" lo scorso Aprile, Mattia Rame presenta il suo ultimo lavoro "Mare Mare", dal 14 Luglio in radio e sulle piattaforme accompagnato dal videoclip. Il brano è il secondo singolo estratto che andrà a far parte del prossimo disco "Lo Spazio, l'Egitto, Battiato".
Il brano, nato come omaggio all'indimenticabile Franco Battiato che ha influenzato in maniera potente anche le liriche dell'artista romano e accompagnato dal videoclip per la regia di Valerio e Andrea Vasselli, offre un'esperienza musicale coinvolgente, intrisa di citazioni letterarie e riflessioni profonde sul nostro tempo. Il ritornello del brano è, infatti, un omaggio esplicito al celebre ritornello di "Summer on a solitary beach" che va a fondersi con le parole di Mattia, creando un'atmosfera unica. La melodia che vuole trarne ispirazione, insieme ai versi che mescolano le parole del Maestro con i sentimenti di Mattia sulla precarietà dei nostri tempi, creano un connubio di emozioni e riflessioni.
A livello testuale "Mare Mare" trae ispirazione dai"Diari Intimi" di Baudelaire, un'opera che ha lasciato un'impronta duratura nella mente di Mattia Rame. In particolare, una frase ha letteralmente spaccato il suo cervello: "I bigotti del Belgio assomigliano tutti ai cristiani antropofagi dell'America del Sud".
"Ancora non so dire bene se poi io la abbia effettivamente capita, ma qualche tempo fa, mentre scrivevo questa canzone, che poi è diventata il mio vero e proprio omaggio a Battiato, è tornata alla luce". - Spiega Mattia Rame.
Durante la scrittura di "Mare mare", Mattia ha annotato frasi enigmatiche come "Pazzi animisti nelle congreghe d'Oriente" e "Uomini prendono il virus al funerale di uno sciamano" che, a seguito dell'esperienza vissuta con la pandemia di Covid-19, assumono un tono sinistro. Queste citazioni sono state abilmente intrecciate con riferimenti alla nostra dipendenza dai cellulari e agli onnipresenti selfie, dando vita a una riflessione che attraversa tutto il testo del brano.
Il nucleo concettuale di "Mare mare" ruota intorno alla frase che potrebbe apparire marginale nel testo: "Sui giornali non troveremo come essere Uomini". In un'epoca in cui siamo bombardati dalle informazioni, Mattia sostiene che non possiamo trovare nell'informazione stessa ciò che ci rende esseri umani migliori. È solo attraverso la cultura che possiamo scoprire il senso delle cose e del nostro essere. La canzone rappresenta un invito a fuggire dalla frenesia e dalla compulsione del tempo presente, come se fossimo di fronte al mare, chiedendo di essere cullati dolcemente nei suoi pensieri necessari, ma pregando al contempo di non esserne annegati.
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MATTIA RAME: "Mare Mare" in radio e sulle piattaforme
Dopo l'uscita di "Muoviti" lo scorso Aprile, Mattia Rame presenta il suo ultimo lavoro "Mare Mare", dal 14 Luglio in radio e sulle piattaforme accompagnato dal videoclip. Il brano è il secondo singolo estratto che andrà a far parte del prossimo disco "Lo Spazio, l'Egitto, Battiato".
Il brano, nato come omaggio all'indimenticabile Franco Battiato che ha influenzato in maniera potente anche le liriche dell'artista romano e accompagnato dal videoclip per la regia di Valerio e Andrea Vasselli, offre un'esperienza musicale coinvolgente, intrisa di citazioni letterarie e riflessioni profonde sul nostro tempo. Il ritornello del brano è, infatti, un omaggio esplicito al celebre ritornello di "Summer on a solitary beach" che va a fondersi con le parole di Mattia, creando un'atmosfera unica. La melodia che vuole trarne ispirazione, insieme ai versi che mescolano le parole del Maestro con i sentimenti di Mattia sulla precarietà dei nostri tempi, creano un connubio di emozioni e riflessioni.
A livello testuale "Mare Mare" trae ispirazione dai"Diari Intimi" di Baudelaire, un'opera che ha lasciato un'impronta duratura nella mente di Mattia Rame. In particolare, una frase ha letteralmente spaccato il suo cervello: "I bigotti del Belgio assomigliano tutti ai cristiani antropofagi dell'America del Sud".
"Ancora non so dire bene se poi io la abbia effettivamente capita, ma qualche tempo fa, mentre scrivevo questa canzone, che poi è diventata il mio vero e proprio omaggio a Battiato, è tornata alla luce". - Spiega Mattia Rame.
Durante la scrittura di "Mare mare", Mattia ha annotato frasi enigmatiche come "Pazzi animisti nelle congreghe d'Oriente" e "Uomini prendono il virus al funerale di uno sciamano" che, a seguito dell'esperienza vissuta con la pandemia di Covid-19, assumono un tono sinistro. Queste citazioni sono state abilmente intrecciate con riferimenti alla nostra dipendenza dai cellulari e agli onnipresenti selfie, dando vita a una riflessione che attraversa tutto il testo del brano.
Il nucleo concettuale di "Mare mare" ruota intorno alla frase che potrebbe apparire marginale nel testo: "Sui giornali non troveremo come essere Uomini". In un'epoca in cui siamo bombardati dalle informazioni, Mattia sostiene che non possiamo trovare nell'informazione stessa ciò che ci rende esseri umani migliori. È solo attraverso la cultura che possiamo scoprire il senso delle cose e del nostro essere. La canzone rappresenta un invito a fuggire dalla frenesia e dalla compulsione del tempo presente, come se fossimo di fronte al mare, chiedendo di essere cullati dolcemente nei suoi pensieri necessari, ma pregando al contempo di non esserne annegati.
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MATTIA RAME: "Mare Mare" in radio e sulle piattaforme
Dopo l'uscita di "Muoviti" lo scorso Aprile, Mattia Rame presenta il suo ultimo lavoro "Mare Mare", dal 14 Luglio in radio e sulle piattaforme accompagnato dal videoclip. Il brano è il secondo singolo estratto che andrà a far parte del prossimo disco "Lo Spazio, l'Egitto, Battiato".
Il brano, nato come omaggio all'indimenticabile Franco Battiato che ha influenzato in maniera potente anche le liriche dell'artista romano e accompagnato dal videoclip per la regia di Valerio e Andrea Vasselli, offre un'esperienza musicale coinvolgente, intrisa di citazioni letterarie e riflessioni profonde sul nostro tempo. Il ritornello del brano è, infatti, un omaggio esplicito al celebre ritornello di "Summer on a solitary beach" che va a fondersi con le parole di Mattia, creando un'atmosfera unica. La melodia che vuole trarne ispirazione, insieme ai versi che mescolano le parole del Maestro con i sentimenti di Mattia sulla precarietà dei nostri tempi, creano un connubio di emozioni e riflessioni.
A livello testuale "Mare Mare" trae ispirazione dai"Diari Intimi" di Baudelaire, un'opera che ha lasciato un'impronta duratura nella mente di Mattia Rame. In particolare, una frase ha letteralmente spaccato il suo cervello: "I bigotti del Belgio assomigliano tutti ai cristiani antropofagi dell'America del Sud".
"Ancora non so dire bene se poi io la abbia effettivamente capita, ma qualche tempo fa, mentre scrivevo questa canzone, che poi è diventata il mio vero e proprio omaggio a Battiato, è tornata alla luce". - Spiega Mattia Rame.
Durante la scrittura di "Mare mare", Mattia ha annotato frasi enigmatiche come "Pazzi animisti nelle congreghe d'Oriente" e "Uomini prendono il virus al funerale di uno sciamano" che, a seguito dell'esperienza vissuta con la pandemia di Covid-19, assumono un tono sinistro. Queste citazioni sono state abilmente intrecciate con riferimenti alla nostra dipendenza dai cellulari e agli onnipresenti selfie, dando vita a una riflessione che attraversa tutto il testo del brano.
Il nucleo concettuale di "Mare mare" ruota intorno alla frase che potrebbe apparire marginale nel testo: "Sui giornali non troveremo come essere Uomini". In un'epoca in cui siamo bombardati dalle informazioni, Mattia sostiene che non possiamo trovare nell'informazione stessa ciò che ci rende esseri umani migliori. È solo attraverso la cultura che possiamo scoprire il senso delle cose e del nostro essere. La canzone rappresenta un invito a fuggire dalla frenesia e dalla compulsione del tempo presente, come se fossimo di fronte al mare, chiedendo di essere cullati dolcemente nei suoi pensieri necessari, ma pregando al contempo di non esserne annegati.
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Le "colpe" degli Urbania
La nuova puntata di Sommessamente, il podcast di Cinque Colonne Magazine vede come protagonisti gli Urbania. Con loro parleremo della loro musica e del loro ultimo album dal titolo "Colpe". Il duo composto da Valerio Di Paolo e Isacco Borra torna con una canzone autentica e introspettiva, in bilico tra pop-autoriale e rap. L'album Colpe è una lettera aperta, densa e diretta, destinata a una compagna, agli amici, a una generazione intera. Sullo sfondo, le notti romane, fatte di increspature e riflessioni, e attimi di profonda consapevolezza. https://open.spotify.com/track/2cP8Z8LgWME5Nn7NTKmdiH?si=4c119138b5984917&nd=1 Le parole della band sul brano Quante volte scarichiamo colpe al di fuori di noi solo perché non possiamo avere il controllo di tutto. Quanto è sbagliato illudersi di un mondo senza margine di errore, forse avremmo solo dovuto alleggerire colpe Ascolta il nostro podcast L'ospite di oggi Urbania Gli Urbania sono un duo giovanissimo, nato e cresciuto nel quartiere di San Basilio: suonano per necessità, per raccontare i pensieri e i sentimenti al di là dei luoghi comuni, delle mode e delle provenienze geografiche. Dopo una gavetta sui piccoli e grandi palchi della capitale, incontrano il producer Emiliano Bonafede, con cui costruiscono un nuovo sound, lontano dai cliché, capace di unire il mondo analogico e quello digitale. Colpe è il primo frutto di questa ricca collaborazione. Read the full article
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera prescelta è "Margherita dolcevita" di Stefano Benni.
Margherita Dolcevita è una ragazzina che sa guardare il mondo. Le bastano un cuore appena difettoso e qualche chilo in più per aggiungere sale e ironia alla sua naturale intelligenza. Compatisce con affetto le stramberie della sua famiglia e volentieri si perde nel grande prato intorno alla sua casa, ultimo baluardo della campagna ormai contaminata dalla città e dimora della sua amica invisibile: la Bambina di polvere. Ma improvvisamente, come un fantasma di notte, di fronte alla casa di Margherita appare un cubo di vetro nero circondato da un asettico giardino sintetico e da una palizzata di siepi. Sono arrivati i signori Del Bene, i portatori del "nuovo", della beatitudine del consumo. Amici o corruttori? La famiglia di Margherita cade in una sorta di oscuro incantesimo: nessuno ne resta immune. E su chi fa resistenza alla festa del benessere, della merce e del potere s'addensa una nube di misteriose ritorsioni. Margherita sospetta un piano diabolico ed è pronta a mettere in gioco tutta la combattività e l'immaginazione per scoprire in quale abisso di colpevole stoltezza il suo piccolo mondo, e forse il mondo intero, sono precipitati.
“Margherita Dolcevita” è un romanzo particolare. E, in effetti, è una storia ironica, divertente, una favola senza tempo e dal finale totalmente spiazzante. Il racconto ha come protagonista l’adolescente col cuore malandato, Margherita, che ama i libri e la poesia, il cui sguardo va oltre le apparenze e la fantasia non ha confini: un personaggio davvero fuori dagli schemi, assolutamente fuori posto in una società moderna, ma che invece risulta essere la persona più “normale”. Scrive poesie brutte, incipit di racconti mai finiti, e inventa titoli di libri ostentando tanta sicurezza da farli sembrare veri. Un piccolo personaggio geniale che passa da momenti estremamente infantili all'argutezza non proprio di una ragazza della sua età, fino alle polemiche di una donna di ottant'anni. Ha i capelli biondi e ricci (come i fusilli) e non è un personaggio idilliaco, ma come tutti gli adolescenti ha caratteristiche uniche e imperfette che la rendono totalmente umana: è una ragazza positiva, onesta, sincera e coraggiosa.
“Margherita Dolcevita” è un romanzo che spinge il lettore a riflettere sui contorni sempre più netti che sta via via assumendo la nostra società: la ricerca della perfezione, il consumismo, la distruzione del nostro pianeta e il disinteresse verso il prossimo. Non è un semplice libro per bambini, ma un atto di denuncia, a volte celato, a volte evidente e diretto. Fa riflettere su ciò che conta davvero e sull'importanza dei buoni sentimenti, come la generosità, l’amicizia, l’affetto familiare, l’umiltà. La fantasia di Margherita è una barriera protettiva contro le minacce incombenti dell’era moderna, che annullano la creatività e la personalità dell’individuo e che, se ignorate o sottovalutate, diventano ogni giorno più forti e pericolose. È necessario, dunque, combattere per ciò in cui si crede, rispettare se stessi e gli altri, non aver paura di mostrarsi per quello che si è.
Può sembrare un romanzo cupo e triste, e forse in fondo un po' lo è, ma si tratta della vita.
Quel che è certo è che Benni ci proietta in un mondo di riflessioni: ci si ritrova spesso a pensare a tutte le nostre scelte, ai nostri modi di agire e alle loro conseguenze. Fino a capire che, alla fine della storia, il progresso della società ci spinge verso un mondo più comodo ma anche, per certi versi, peggiore perché fa dimenticare la bellezza di alcuni valori. Questo non vuol dire, però, che ci si debba arrendere: Margherita ne è l'esempio più vivo e lampante.
Non esiste una biografia vera e propria di Stefano Benni - fanpage autore, perché, da trent'anni, si diverte a modificarla, arricchirne dii particolari e di aspetti spesso inventati! Basti pensare che Benni si è cimentato a costruirsi almeno dodici biografie diverse! Eccone una che, però, è quasi vera. Nasce nel 1947 a Bologna ma la sua infanzia è sulle montagne dell’Appennino, dove fa le prime scoperte letterarie, erotiche e politiche. Gioca a pallone ma la sua carriera è interrotta da un infortunio. Studia al classico con risultati non eclatanti, l’università non fa per lui: cambia due o tre facoltà, ma intanto ha cominciato a scrivere. Inizia a fare l’attore, ma non guadagna una lira. È un’esperienza che gli servirà dopo. Lavora in alcuni giornali, poi Fruttero e Lucentini lo scoprono sulla rivista “Il Mago”. Scrive articoli per il Mondo, Panorama, Espresso e soprattutto per il Manifesto. Durante il militare scrive “Bar Sport”. Con i primi soldi viaggia... Ha scritto più di venti libri. È momentaneamente vivo e in buona salute.
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Un lavoro discutibile
Drammatico
Parte 1
Dannazione! Quanto ci mette ad arrivare? Ormai è passata mezz'ora…
Se avessi saputo che avrei perso tutto questo tempo, mi sarei appostato nel palazzo davanti alla scuola. Merda!
Forse ho fatto bene, in realtà. Mi hanno detto di essere discreto, per non dare loro altri grattacapi, e colpire in un luogo così affollato non sarebbe stato esattamente coerente con quella sollecitazione.
Devo ammettere, però, che mi ha dato fastidio: non è certo il mio primo incarico e se, tra la concorrenza, hanno scelto di affidarsi proprio a me, significa che sanno bene di che sono capace.
Avrebbero potuto fare quella raccomandazione a un novellino alle prime armi, non certo a un esperto!
In ogni caso, farei bene a non lamentarmi:è il compenso ciò a cui devo dare attenzione, diano pure fiato alla bocca, se vogliono.
Tre meno venti, ancora nulla. Sto cominciando ad agitarmi…
No. Sangue freddo, come sempre.
E pazienza.
D'altronde, sono rimasto ad aspettare molto più a lungo, come quella volta in cui ho passato più di due ore in una topaia maleodorante prima di sparare al magnate di un'industria russa. Doveva essersi trattenuto più del previsto con quella ragazza che poteva sembrare sua nipote.
Che schifo…
Ah, non so nemmeno perchè lo insulto! Magari era una brava persona.
Perchè cerco di convincermene?
Per farmi venire altri scrupoli e mandare tutto a puttane, ecco perchè! Mi conosco bene ormai.
Non vorrò tornare a fare la vecchia vita, per caso? Quella in cui se sopravvivi alla fame rischi di lasciarci le penne per mille altri motivi?
No, per niente.
Non tornerò mai a fare quello che facevo prima. Quel passato si trova alle mie spalle da un pezzo, quindi è meglio che non faccia più riflessioni inutili e che mi sieda di nuovo davanti alla finestra.
Anzi no, meglio bere un po' d'acqua prima. E accendere una sigaretta.
Chi è che ucciderebbe qualcuno per scelta? Sicuramente non io, che da piccolo avevo paura del sangue ma che, paradossalmente, volevo fare il chirurgo.
Il chirurgo, colui che lavora per salvare vite!
Come me anche Wade e Stuart, solo che Wade voleva operare al cervello e suo fratello al volto.
Io, invece, volevo diventare un cardiochirurgo perchè, nella mia ingenuità infantile, pensavo che se avessi "aggiustato" i cuori delle persone, queste avrebbero continuato a provare dei sentimenti e vivere felici.
Poi sono cresciuto e ho capito che i sentimenti risiedono nel cervello, ma purtroppo nessuno elabora amore o compassione. Per questo sparo ai miei bersagli proprio lì, in mezzo alla fronte.
Cazzo, è già finita! Meglio accenderne un'altra…
Ecco perchè chiunque scelga questo mestiere non lo fa per scelta, ma solo perchè spinto dai lauti guadagni promessi a ogni incarico.
E questo mi autorizza a porre fine alla vita di un essere umano? Che diritto ho io di decidere una cosa del genere?
Nessuno, dato che, di fatto, non sono io a deciderlo. Mi limito a svolgere il mio incarico nel migliore dei modi, a eseguire gli ordini. Sì, certo, anche i nazisti lo dicevano. Che scusa comoda…
Ma io non sono come quei mostri, loro uccidevano degli innocenti. Io no, io uccido solo persone colpevoli di qualcosa. Lo sono tutti, in fondo. Giusto...?
Che cos'ha la mia vita in più rispetto a quella di un altro?
Anche io ho fatto e continuo a fare delle cose orribili, inimmaginabili per alcuni, ma che non sono certamente paragonabili a quelle compiute dalle mie vittime. Giusto...?
Può darsi che anche loro abbiano ucciso qualcuno, più di uno magari, e che il mio intervento sia stato una sorta di punizione divina. Allora dovrebbe venire qualcuno per punire anche me?
Mia madre...ah, mia madre...diceva che se lavi un lenzuolo sporco nella stessa acqua in cui ne avevi lavato un altro, poco prima, quel lenzuolo non si pulirà ma, anzi, si impregnerà di quell'acqua e diventerà ancora più lercio.
E pensare che sono sempre stato convinto che non mi sarebbero mai serviti i suoi proverbi.
Che saggia donna che era, mia madre.
Ho perso il conto di tutte le persone fatte fuori da quando ho cominciato:per la maggior parte pezzi grossi della politica, della finanza e così via, ma anche persone comuni, colpevoli, direttamente o meno, di aver pestato i piedi ai miei committenti, proprio come in questo caso.
Questo caso…Dio mio, ma come si fa a chiedere una cosa del genere?
È la prima volta che ricevo un compito simile e spero vivamente che sia anche l'ultima.
Ogni volta mi convinco che il mio obiettivo sia una persona spregevole, che meriti di finire sotto terra.
Dico a me stesso che nella loro insulsa vita hanno recato del male, ma non posso esserne sicuro visto che si tratta di persone a me totalmente estranee, che posso immaginare solo grazie alle mie convinzioni personali e alle brevi descrizioni fornite dai miei committenti.
Ma come fidarsi di mafiosi, strozzini e altri individui che potrebbero essere loro stessi quelli che mi vengono descritti ogni volta?
Ecco qua, altre riflessioni inutili che compromettono il mio lavoro!
È meglio che me lo tenga stretto, per quanto discutibile che sia: mi piace troppo la bella vita che conduco adesso, piena di hotel di lusso e sigarette.
Anzi, credo che sia il momento della terza, tanto la situazione è ancora tranquilla.
A ogni modo, comunque la si voglia vedere, è così che funziona.
Puoi scegliere di chiudere gli occhi per sempre o di fare come me, essere disposto a tutto pur di accumulare anni. Il mondo è una palla di merda abitata da persone di merda. Lo hanno capito anche Wade e Stuart, che hanno abbandonato i loro sogni per ritrovarsi a spacciare.
Altro che chirurghi rispettabili.
A dire il vero, non so nemmeno come se la passano. Nè so se sono rimasti nella nostra città, nè se sono ancora vivi. Non li vedo da così tanto tempo...
E neanche Becky Ivy.
Già, chissà che fine ha fatto, pure questa. Spero che almeno lei non sia finita in chissà quale giro pur di sopravvivere.
Ricordo ancora le volte in cui noi ragazzi giocavamo a pallone, nella piazzetta, e lei si fermava dietro al muretto con il mento poggiato sui palmi, a fissarmi: puntava i suoi occhi neri sempre e solo su di me.
Continuo a sentirmeli addosso, certe volte.
Peccato che nessuno dei due si sia mai fatto avanti.
Forse è meglio accendere la quarta, mi sa che qui ne abbiamo ancora per le…
Eccola! Quasi non ci speravo più.
Bene, adesso prendo la mira e...e cosa? Cosa devo fare adesso?
Dannazione! Merda, merda!
Non posso farlo, non posso sparare a…
Ma che cazzo sto dicendo? Non posso rifiutarmi di sparare! Devo portare a termine il lavoro per riscuotere il pagamento, altrimenti tanti saluti!
E poi, se mi tirassi indietro, loro chiamerebbero qualcuno per uccidere me. La mia punizione…
Si è fermata proprio davanti a me, è un'occasione d'oro! Devo sparare adesso, prima che ricominci a camminare.
Ecco, ci sono: calibrare, puntare e...calibrare, puntare e…
Cazzo, perchè mi tremano le mani?
Non mi era mai successo.
Perchè sto esitando proprio in quest'occasione?
Perchè lei non rientra in nessuna di quelle descrizioni, diamine! Come potrebbe? Sembra così...innocente. Se le sparassi diventerei davvero come uno di quei mostri della Germania nazista.
O lo sono già diventato?
NO!
Basta con tutte queste paranoie! Devo ucciderla, che sia sbagliato o meno.
O chiudi gli occhi per sempre o sei disposto a tutto pur di accumulare anni, nessuna via di mezzo.
E io ho già scelto da tempo. Dunque è meglio che queste mani la smettano di tremare e che facciano il loro dovere, come hanno sempre fatto.
Alla fine è sempre la stessa storia e oggi non c'è nulla di diverso.
Magari lei diventerà una trafficante, trufferà della gente, picchierà i propri figli, ne abuserà o lo farà con i figli di qualcun altro, magari anche lei sparerà in testa a qualcuno, un giorno.
Non potrò mai essere sicuro di queste cose, ma so con certezza che mi piacciono troppo gli hotel di lusso e le sigarette.
Fanculo!
E sparò alla bambina.
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Trento, in piazza Duomo la marcia “I bambini hanno il diritto di vivere in Pace”
Trento, in piazza Duomo la marcia “I bambini hanno il diritto di vivere in Pace”. Trento. Si è svolta ieri pomeriggio, a partire dalle 14, la marcia I bambini hanno il diritto di vivere in Pace, che ha visto sfilare alcune classi delle scuole dell’infanzia, degli istituti comprensivi e del Centro Moda Canossa, dall’aiuola della Pace in piazza Fiera a piazza Duomo, dove ad accoglierle c’erano il sindaco Franco Ianeselli e la vicesindaca e assessora alla cultura e alle politiche giovanili Elisabetta Bozzarelli. Sul palco, il maestro Joel ha ricordato l’importanza di celebrare ancora oggi, a distanza di 34 anni, un documento così significativo come la Convenzione sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, rivolgendosi direttamente ai bambini affinché continuino ad essere protagonisti di questa giornata anche una volta diventati adulti, tutelando a loro volta il benessere delle nuove generazioni. Anche il primo cittadino ha posto l’accento al futuro, raccontando ai presenti un dialogo avvenuto con il dottor Dino Pedrotti, decano della pediatria trentina: «Ogni volta che incontro il dottor Pedrotti, che potremmo chiamare il “nonno della città”, mi chiede qual è l'unità di misura che utilizzo come sindaco per costruire la città, proponendomi di utilizzare i bambini come parametro. Adottare il loro punto di vista, mi dice, ci permetterebbe di costruire cose molto migliori di quelle che facciamo noi adulti. Ed è riflettendo sulle sue parole che desidero rivolgere un pensiero ai tutti quei bambini che oggi nel mondo, per esempio in Israele, Palestina e Ucraina, non hanno la possibilità di vivere il Natale con un albero così bello come quello che possiamo ammirare noi in questa piazza. È importante ricordarlo, perché, davvero, ogni bambino, ovunque, merita la pace». Hanno partecipato anche il dirigente del servizio Attività educative per l'infanzia della Provincia Autonoma di Trento, Livio Degasperi, che ha espresso l’impegno delle istituzioni scolastiche per far vivere agli studenti sentimenti di pace a scuola e nelle loro vite, e la dirigente dell’Istituto comprensivo Trento 5, Paola Pasqualin, che ha sottolineato il ruolo che ogni individuo ricopre nella difesa della pace. Sul palco, anche alcuni bambini, che hanno pronunciato le loro riflessioni e tirato il dado della pace, e gli studenti del Centro Moda Canossa, che hanno invece condiviso il progetto del braccialetto della felicità, un accessorio pensato per ispirare ogni giorno le persone che lo indossano a vivere in un mondo di pace. Per diffondere maggiormente l’idea, è stato realizzato anche un video tutorial che spiega come realizzare il proprio braccialetto. I braccialetti sono poi stati distribuiti ai bambini presenti in piazza. L’incontro è stato anche l’occasione per rilanciare a bambini e adulti la proposta “Time Out quotidiano per la Pace”, un momento di silenzio svolto quotidianamente alle ore 12 per riflettere sui temi legati alla pace e per rivolgere un pensiero positivo alle persone con cui condividiamo il nostro percorso. L’evento si è concluso con la lettura di una fiaba da parte dello scrittore Mauro Neri, che ha raccontato una storia di Pertica, figlio del campanaro del Duomo di Trento, e con un momento di balli di gruppo condotti da Vincenzo Barba, che ha coinvolto i partecipanti sulle note di una polka trentina.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Amori, lettura e scrittura in estate al lago
Estate al lago Amori, lettura e scrittura in estate al lago, un articolo che analizza il romanzo Estate al lago di Alberto Vigevani, con un estratto di alcune pagine del testo. Attorno agli anni '90 avevo trovato allegato ad una rivista, in omaggio, il libro Estate al lago di Alberto Vigevani e benché non fossi un grande amante dei romanzi, visto che non potevo andare in vacanza e poiché in gioventù avevo trascorso spesso delle giornate estive sul lago di Garda, benché in questo caso si trattasse del lago di Como, memore di qualche rifermento ai Promessi Sposi del Manzoni, decisi di leggerlo. Il lago in ogni caso ha comunque un fascino particolare, e come dicevo anch'io ho trascorso in questi ambienti un bel po' di giornate, prima con mia mamma che mi accompagnava per andare a pescare attorno ai 12-13 anni, nelle acque di Salò, Maderno, Desenzano, poi con i miei amici negli anni turbolenti della mia adolescenza, principalmente a Toscolano Maderno, Manerba, Padenghe, e poi ancora sul Lago d'Idro, e infine ancora con mia mamma alle terme di Sirmione. Ora a distanza di più di trent'anni da quel periodo e a ben 66 anni dalla pubblicazione del libro avvenuta nel 1958, ho deciso di dedicargli questo articolo, anche perché, visto che siamo in estate e la gente in genere legge sempre meno, mi sento di affermare che leggere "Un'estate al lago" di Alberto Vigevani è come concedersi una vacanza letteraria, ricca di emozioni, riflessioni e bellezza. Direi per prima cosa che consigliare questo romanzo, snello ma succulento, significa suggerire un viaggio emozionante nella nostalgia e nella bellezza del passato. Ed ora vi elencherò diversi punti per cercare di convincere qualcuno a non perdere questa occasione letteraria. 1) Vigevani è un maestro nel creare atmosfere che trasportano il lettore direttamente nelle calde estati italiane, tra paesaggi lacustri incantevoli e la quiete della natura. 2) I protagonisti del romanzo sono descritti con una profondità psicologica che permette al lettore di immedesimarsi nelle loro vite e nei loro sentimenti. Le loro storie e interazioni sono il cuore pulsante del libro. 3) La prosa di Vigevani è elegante e poetica, rendendo la lettura un'esperienza estetica oltre che narrativa. La sua capacità di descrivere i dettagli con delicatezza e precisione arricchisce ogni pagina. 4) Il romanzo esplora temi come l'amore, la memoria, la perdita e la ricerca di sé, offrendo spunti di riflessione che risuonano profondamente con i lettori di ogni età. 5) Ambientato negli anni '30, "Un'estate al lago" offre un affascinante spaccato di un'epoca passata. Vigevani riesce a catturare l'essenza del tempo e del luogo, permettendo al lettore di vivere un pezzo di storia italiana attraverso gli occhi dei suoi personaggi. 6) Il libro è pervaso da una dolce nostalgia, che invita il lettore a riflettere sulla propria infanzia e sui ricordi estivi. Questa introspezione rende la lettura profondamente personale e toccante. 7) "Un'estate al lago" è stato accolto favorevolmente dalla critica, che ne ha lodato la qualità narrativa e la profondità emotiva. È un'opera apprezzata sia dai lettori che dagli esperti letterari. 8) La descrizione dei paesaggi, delle giornate estive, e delle piccole gioie quotidiane crea un'esperienza immersiva che consente al lettore di "vivere" l'estate al lago insieme ai personaggi.
Alberto Vigevani Alberto Vigevani (1918-1999) è stato uno scrittore, poeta ed editore italiano. Nato a Milano, si distinse per la sua produzione letteraria caratterizzata da una prosa elegante e malinconica. Oltre a numerosi romanzi e racconti, Vigevani pubblicò poesie e si dedicò all'editoria, fondando la casa editrice Il Polifilo, specializzata in libri d'arte e di alta qualità tipografica. Le sue opere riflettono spesso la nostalgia per un mondo perduto e la complessità delle relazioni umane. Vigevani è ricordato come una figura importante nel panorama culturale italiano del XX secolo. Oltre a Estate al lago ha pubblicato Un’educazione borghese; La casa perduta; L'abbandono; La breve passeggiata. Ha ottenuto, tra altri, il Premio Bagutta. Estate al lago. L'estate era stata diversa da quelle passate: le ultime vacanze dell'infanzia. Era maturata per Giacomo una nuova età: dalla suggestione dei sensi alle delicate immagini del suo amore puerile. Tutto si poteva dire in silenzio e tutto si scioglieva in contemplazione. Come ha scritto Geno Pampaloni nell'introduzione al testo, la verità del libro è in questo attimo di sospensione vitale, in questo (doloroso e insieme corroborante) diritto al segreto di fronte alla violenza della realtà. E, la sua, una sospensione magica, illusa e labile com'è proprio dell’adolescenza. Ma non è solo sua: è anche l’illusione ansiosa del silenzio e della contemplazione, quella lieve vertigine fatta di insicurezza, di angoscia e di nostalgia che caratterizzò la cultura europea tra le due guerre al cospetto delle dittature e nell’imminenza della tragedia. Pampaloni spiega molto bene la natura del romanzo e tutti i suoi risvolti, come si evince da queste sue riflessioni. " Intendiamoci. La qualità poetica del racconto del Vigevani attinge a una cultura riflessa. Tutto è già alle sue spalle. «Tutto è accaduto», come dice un titolo di Corrado Alvaro, che sentì come pochi altri scrittori, con intelligenza amara, la transizione esistenziale propria del nostro tempo. Non per nulla Alberto Vigevani è libraio antiquario, ed è editore di testi preziosi e dimenticati della più raffinata tradizione, quasi che la sua vocazione di uomo sia dedicata al recupero, all’assaporamento di valori non mercificabili, alla fedeltà della memoria. Dietro di lui scrittore si staglia la grande ombra di Proust, il fascino della grande borghesia colta, intenta a cogliere l’ultima essenza di un mondo stremato dai suoi stessi valori... Perciò, contrariamente allo schema usuale, per cui l'adolescente passa dalla innocenza alla torbida scoperta del sesso, egli supera abbastanza rapidamente l’accensione sensuale, e sublima la sua ricchezza affettiva in un amore impossibile per la bionda e gentile madre del suo compagno di giuochi. Ma ecco che qui racconto d’amore e storia di un’educazione sentimentale si saldano.
Lago di Como in estate Che cosa rivela a Giacomo l’incontro con la giovane donna e il suo figliolo malato e ardente? 1. La forza della passione, così profonda e coinvolgente da risultare rasserenante anche se dolorosa; 2. L’« armonia e tenerezza» che unisce madre e figlio in un legame meraviglioso, compatto, inscindibile; 3. L'ambiguità della figura materna, ove si mescolano la dolcezza sensuale e il tepore protettivo, oscuro modello e | presagio di un’ambiguità esistenziale che accompagna l’intera vita; 4. La gioia pura e malinconica della bellezza, che invita al silenzio e alla contemplazione; 5. Gli rivela infine la possibilità stessa della rivelazione dell’io profondo, vertiginosa «come se si trovasse sull’orlo della propria vita ». Tutto questo lo prepara all’intuizione finale: «com'era complesso l’amore; non solo desiderio d’armonia, di bellezza, ma anche aspirazione a non esistere più, ad annientarsi. E ancora: vi era qualcosa di crudele, d’irrimediabile, qualcosa che non si sarebbe nemmeno potuto confessare, anche se lo avesse veramente compreso ». Questo è, mi pare, il tratto originale del personaggio (e del libro): la perdita dell’innocenza, momento fatale di ogni adolescenza, si trasforma, come in dissolvenza, nella consapevolezza della complessità dell'amore, con tutto ciò che di ambiguo, di doloroso, ma anche di certo e, in qualche senso, di supremo, tale consapevolezza porta con sé. Mentre si chiudono, tra le prime piogge e i colori spenti dell'autunno, le «ultime vacanze dell’infanzia », l'educazione sentimentale di Giacomo può dirsi compiuta, ma nel senso che il velo d’ombra di un’incompiutezza infinita si proietta a occupare ogni possibile futuro. Il crepuscolo di adolescenza, la lacerazione tra innocenza e maturità, che egli ha vissuto nell’estate al lago, è destinata a durare per sempre. Ma si capisce che, avviandosi ignaro verso i tempi della violenza e della devastazione che si affacceranno alla storia, egli entrerà nella vita non sotto il segno della conquista ma sotto il segno della poesia." Ma ora lasciamo lo spazio ad alcune pagine del libro. I primi giorni di vacanza seguirono rapidi, come una febbre che accalori le guance e svanisca lasciando una stanchezza, un senso di sonnolenza, e ancora fame di nuova stanchezza e di sonno. I cugini erano arrivati: l’Elisa, gentile e non bella, dal corpo pesante, la fronte a bauletto sporgente sopra gli occhi; Aldo, che aveva l’età di Stefano e dipingeva all’acquarello; Mario, un ragazzo calmo, maggiore di Giacomo di due anni. Stavano sempre insieme: nuotavano, andavano in barca, a volte salivano sulla strada di Porlezza, dov'era una valle segnata da un fiumiciattolo incassato, il Senagra. Altre partivano per Cadenabbia o, dalla parte opposta, per Acquaseria e Gravedona, in bicicletta, con la merenda al sacco, e dopo aver fatto il bagno si riposavano sui prati. Formavano una compagnia allegra, con altri giovani che s'erano aggiunti: la bruna che Stefano aveva conosciuto al Lido, Elsa, figlia del padrone dell’albergo Victoria, e il fratello, un giovane basso, il tuffatore migliore della spiaggia, che anche fuori portava una calottina rossa sui capelli impomatati. Poi le due ragazze Lanfranchi, già da Milano amiche dei cugini: la maggiore slanciata, con occhi verdi luminosi; la minore, grassottella e addormentata, con gli stessi occhi, ma sbiaditi e gonfi, che le davano l’espressione attonita di un pesce... Giacomo aveva scoperto per conto suo che l’Elsa non era tutta muscoli, ma d’una bellezza così piena e persuasiva che se ne sentiva attirato. Tuttavia la sua inclinazione non andava oltre il piacere degli occhi e quel senso di vergogna che lo istupidiva se gli capitava di rimanere solo con lei. La presenza di Clara, d’altra parte, riusciva a rendere leggera l’aria che li avvolgeva, nulla in essa s’incideva con troppa asprezza, appena vi si accennavano le amicizie ancora incerte. L’Elisa e la minore delle Lanfranchi divennero inseparabili, Mario stava insieme con Giacomo che era il più giovane ma non stonava in mezzo agli altri, in quei primi giorni in cui tutto scaturiva con spontaneità, come se per le vacanze fossero tornati ragazzi anche i grandi. Forse non badavano alla differenza di età, o lo ammettevano perché li faceva ridere con uscite in cui, incitato dal desiderio di farsi notare, caricava il suo senso dell'umorismo di una capacità d’invenzione che si smentiva di rado. Le zitelle che aveva spaventato in bicicletta erano divenute dei personaggi, così Antonio, il custode, di cui rifaceva la voce e imitava i discorsi farciti d’interiezioni, di proverbi detti a sproposito. Ma forse erano gli altri, a completare o ad accrescere il ridicolo dei suoi accostamenti, delle trovate che gli nascevano spontanee dal troppo parlare, quando si eccitava: la verità era che avevano voglia di ridere, di sentirsi disinvolti e spensierati prima d’addentrarsi nel terreno sfuggente e sconosciuto delle nuove amicizie.
Cartina del lago di Como Finirono anche quei giorni d’attesa: Stefano ora lo respingeva, se gli andava vicino mentre aveva al braccio l’Elsa; rispondeva a monosillabi. Durante le gite Giacomo e Mario restavano indietro. Prima, avevano tutti riso delle sue immagini, si era sentito ammirato dalle ragazze, invidiato da Mario, in brevi momenti di esaltazione che lasciavano adesso il posto a un risentimento. Supponeva d’essere condannato a portare i calzoni corti in eterno, come un segno d'’inferiorità. Tra loro due e i grandi duravano lunghi silenzi, le parole di Giacomo cadevano senza che nessuno le raccogliesse, e a un tratto s'’accorgevano che i giovani camminavano avanti, sulla mulattiera lungo il monte, o rimanevano solo loro sulla spiaggia, mentre gli altri se n'erano andati in barca senza chiamarli. Li ritrovavano poi che ballavano nella sala a pianterreno della villa o all’albergo Victoria... Presto arrivò luglio. Negli alberghi si davano i primi balli: la stagione vera sarebbe venuta a settembre. Clara si metteva in abito lungo e veniva a farsi ammirare prima di uscire. Stefano vestiva lo smoking e Giacomo gli faceva compagnia mentre si preparava in bagno e annodava la cravatta davanti allo specchio. Forte e giovane, le sopracciglia folte, gli occhi vellutati e scuri uguali a quelli del padre, pareva lontano come mai, e proprio nel momento in cui gli offriva maggiore confidenza. Delle feste parlavano a tavola, il giorno dopo. Gli rimanevano nella mente episodi e nomi di persone, uditi nei discorsi dei fratelli, con il prestigio delle cose inaccessibili. Se la festa era a Menaggio, andava con le domestiche a vedere l’entrata dai cancelli. L’Emilia gli metteva una mano sulla spalla; diceva: «Ti piacerebbe vestirti da sera, ballare anche tu? »... A metà d’agosto il padre tornò per fermarsi una settimana. Giacomo quasi non s’accorgeva di lui. Gli era toccato ancora deluderlo: non aveva mai adoperato gli attrezzi e aveva fatto pochi progressi nello studio. Si sentiva in colpa, guardandolo: come provasse il sentimento che il padre fosse, senza sospettarlo, esposto a subire le conseguenze di ciò che a un tratto poteva insorgere nel suo animo. Gli appariva incapace di difendersi, nell’abito di tela un po’ ottocentesco, con la camicia di seta cruda aperta sul collo e il leggero copricapo di panama che sbiancavano ancor più la sua carnagione cittadina. Del resto non stavano mai insieme: usciva con la madre a visitare parenti o conoscenti che poi venivano a prendere il tè in giardino. A Giacomo sembrava che tra loro due qualcosa fosse già cambiato. Forse temeva per il suo segreto, quando gli occhi del padre si posavano sopra di lui, schiariti da un’ironia dolce e penetrante che avrebbe voluto sfuggire. Eppure, durante il giorno, tra Giacomo e l’Emilia tutto si svolgeva come prima, di nuovo non c'era che la carezza più ardita, le poche sere, ormai, che andavano a passeggio insieme. Spesso lei voleva uscire con l’Elvira, dicendo che si recavano al cinema, dove lui non poteva seguirla. Incontrandolo, sorrideva sempre, lo sfiorava col fianco come per scherzo, forse per vedergli in faccia il turbamento che non riusciva a nascondere. Era come fosse per abbandonarsi a piangere, e non potesse trovare comprensione se non in lei che già mostrava di evitarlo. Ma la notte, prima di addormentarsi, era diverso: come un appuntamento, ogni volta si ripeteva il lungo istante in cui, col respiro disordinato, il capo fitto nel guanciale, brancolava sopra un’immagine di lei oscura e avvincente. Se la raffigurava nuda, nella sua ricchezza segreta, lambita dal buio, le spalle e il petto candidi in luce, il ventre affondato in una macchia. Confusa e incerta ossessione, come confuse e incerte le reminiscenze, il negativo del nudo tra le rocce finte, i corpi femminili alla spiaggia, ogni nutrimento anonimo e frammentario della sua fantasia. A sfiorare quella immagine con una carezza, qualcosa entro di lui si rompeva in una breve liberazione che lo lasciava intontito e vergognoso. Infine una sera, appena partito il padre, che tutti erano usciti - l’Elvira aveva voluto andare al cinema da sola -, udì il passo dell'Emilia nella stanza che occupava all’ultimo piano, sopra la sua. Giacomo aveva già un poco dormito e quei passi gl’illuminarono d’improvviso la figura di lei, i suoi gesti mentre andava spogliandosi. Gli pulsavano le tempie; senz’accorgersene si trovò fuori della porta. Salì le scale nell’oscurità, cercando di non far rumore. Si sentiva un ladro, temeva che qualcuno potesse sorprenderlo. Una striscia di luce bagnava il pianerottolo, da sotto la porta. Non udiva nemmeno più il passo della donna. S’appoggiò alla maniglia, la porta cedette. Dalla finestra ovale entrava la luna e illuminava il letto. Il suo volto era quasi al buio: pareva ancora più pallido. Vide che i suoi occhi lo fissavano. « Giacomo », disse a bassa voce, « sei tu? ». Siccome non si muoveva, rigido contro la porta, il cuore che gli batteva di furia, lei riprese, con una voce alterata che sembrò una carezza: «Vieni qua». Andò verso il letto in punta di piedi. Si muoveva in quella luce quasi irreale come in una delle apparizioni che venivano a sorprenderlo la notte, quando non riusciva a dormire. Lei gli prese i polsi, l’attirò a sé. Piegando le ginocchia contro la sponda del letto, premette la guancia sulla spalla nuda. Il suo profumo lo confondeva. Dietro la testa di lei, sopra il candore del guanciale colpito dalla luce, i capelli sciolti addensavano un bosco oscuro e segreto da cui si staccava il suo volto smorto, senza più quel sorriso che sempre lo pungeva, sulle labbra adesso aride e schiuse. Gli occhi, scintillanti, sembravano vetri in cui la luce acquistasse profondità.
Grand Hotel Victoria Liberò le mani per cercarle il seno: annaspavano contro la tela un po’ ruvida della camicia. Fu lei a offrirglielo, scostando la spalla, e gli sembrò che bruciasse; poi quel fuoco gli entrò nella pelle. Lo palpava intero senza sapere dove indugiare. Si riempiva le mani della ricchezza che lei gli aveva ‘nascosto, e non cedeva alla carezza ripetuta ma la chiamava ancora, rinnovandogli come uno spasimo. Era entro un sentiero buio che lo faceva trasalire, e morbido, in cui ritrovava pungente l’odore dei capelli che gli coprivano le guance, la fronte. Un alito resinoso di terra e di donna che pareva quello del suo sangue. «Giacomo », aveva detto, due, tre volte, irosamente, gli era sembrato, muovendo il petto per svincolarsi. Ma s’avvinghiava a lei come se dovesse spremere, succhiare tutto il profumo e il calore che emanava. Poi gli si abbandonò, ansimante. Gli aveva cercato la bocca, la mano, ma appena raggiunte si era scossa, l’aveva allontanato con violenza, accendendo la piccola lampada sul tavolino. Era rimasto in fondo al letto. La fissava, nella debole luce elettrica, i capelli e la camicia in disordine, il volto quasi cattivo, mutato, con le labbra tremanti e tumide. La sua bellezza pareva a un tratto non più lontana, ossessiva, ma come rozza e affranta. Il torpore lo avvolgeva, allontanando ogni cosa nel tempo: si sentiva quasi spettatore di quel suo risveglio. Vide il seno scomparire nello scollo e gli parve una macchia, un fiore raggrinzito, la punta violacea che esitò un istante sull’orlo della camicia. Contrastando con la pelle chiara del petto somigliava a un oggetto immaginato nel sogno, che alla luce reale stupisca. Anche i suoi occhi erano diversi: lo sfuggivano come fosse lei, ora, a provare vergogna e a temere il suo riso. Gli pareva anche un'illusione il sussurro, quasi un gemito, che aveva colto sulle sue labbra. Si era seduta e aveva preso il pettine. Mentre ravviava i capelli si tolse la forcina dalle labbra e disse, a bassa voce: «Ti voglio bene, però sei un bambino ». Parole così fragili gli avevano fatto l’effetto che le avesse pensate, più che dette. Non capiva perché tornava ora un bambino, quando per un lungo momento era stata lei a soffrire sotto il suo abbraccio, e le sue labbra avevano perduto ogni voglia di sorriso. Read the full article
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fondamentalismo e (norma) lità
Secondo attentato islamico a Charlie Hebdò: nessuno ha sfilato in pompa magna, poca risonanza, sembra che ci si stia abituando. Sul problema della libertà e della laicità ripropongo questo articolo.
“Trucidando la redazione di Charlie Hebdo il terrorismo islamico ha inteso colpire il principio fondante dell’intera modernità: la libertà di espressione. E senza libertà di offesa, fino al sacrilegio, saranno i devoti e i fanatici a decidere sulla libertà di critica”. Nel giorno in cui a Parigi inizia il processo per la strage che nel gennaio 2015 uccise 12 redattori del settimanale satirico, riproponiamo questo intervento del direttore di MicroMega che apriva il numero monografico della rivista dedicato a Charlie Hebdo e alla libertà d'espressione. di Paolo Flores d’Arcais, da MicroMega 1/2015 La strage della redazione di Charlie Hebdo segna una svolta d’epoca. Il terrorismo fin qui aveva colpito edifici o simboli o gruppi politici e religiosi, o indiscriminatamente la «popolazione», cioè cittadini inermi (a migliaia, come l’11 settembre). L’assassinio di una dozzina di persone a rue Nicolas Appert 10 costituisce però il primo atto di terrore contro un principio fondante dell’intera modernità, anzi il suo principio istitutivo, la libertà d’espressione. Per questo una strage che conta infinitamente meno vittime di altre ha – giustamente e per fortuna – provocato la manifestazione popolare più grande che la Francia abbia conosciuto dai tempi della Liberazione, e la sua eco ha percorso il mondo. Ecco perché su questa strage, le reazioni che ha prodotto, gli effetti storici che sprigionerà (ma con inizio immediato), diventerà necessario esercitare una capacità di analisi inedita, che affronti dalle fondamenta cosa può e deve voler dire laicità, quale democrazia ciò implichi, e le condizioni materiali di entrambe, e le strategie di un’integrazione degli immigrati nella cittadinanza, e le condizioni stesse di esistenza o meno di tale identità repubblicana, il cui tratto è la sovranità, l’eguale sovranità dei cittadini, oggi palesemente introvabile. Su questi temi MicroMega si impegnerà, con la sua vocazione di sinistra eretica, illuminista, materialista, fin dal prossimo numero, e più che mai ne farà il filo rosso del suo lavoro di analisi e proposta. Quello che segue è intanto e solo un modesto e improvvisato zibaldone di riflessioni disorganiche ed eterogenee. *** «Je suis Charlie». Quanti i sinceri e quanti gli ipocriti? La parola d’ordine campeggia ovunque già qualche ora dopo la strage, ma quanti hanno diritto a fregiarsene e quanti sono gli abusivi, gli opportunisti, i sepolcri imbiancati? Non si pretende che chi indossa la scritta condivida tutte le vignette, al limite anche nessuna, ma se la sua azione pubblica e il suo vissuto personale non fanno prevalere il diritto alla pubblicazione dell’empietà su ogni altra considerazione, il loro «Je suis Charlie» è menzogna retorica. Perché quella di Charlie Hebdo è empietà, irrisione del Sacro in ogni paludamento e travestimento: religione, politica, buoni sentimenti e infine buon gusto. *** Libertini sessuomani, estremisti di sinistra, atei, anarchici-e-comunisti, e infine irresponsabili, come recitava cristallinamente e orgogliosamente il sottotitolo del settimanale. Eppure si ponevano dei limiti, eccome. Ruppero con Siné, che pure era un grandissimo come collega e come amico, ritenendo che fosse scivolato dall’antiebraismo all’antisemitismo, che avesse cioè oltrepassato il confine, il limes (il limite invalicabile!), che separa l’empietà dal razzismo. E non mi risulta che abbiano mai oltraggiato i valori della Resistenza, di quell’antifascismo che in Francia (ma in Europa!) ha ri-fondato, un secolo e mezzo dopo la rivoluzione della «liberté, égalité, fraternité», l’identità della «République». Quei limiti non erano, e non sono, contraddittori con la vocazione dissacrante, che come si vede non porta affatto al nichilismo, come lamenta la geremiade d’establishment, perché possiede – eccome – valori. Quei limiti – ma solo quelli! – sono lo strumento della libertà dissacrante e illimitata con cui gli «estremisti irresponsabili» appena assassinati avevano caratterizzato le loro vite, riempito le pagine di Charlie e nutrito le nostre libertà. *** A caldo, di Charlie Hebdo hanno fatto il ditirambo governanti reazionari e giornalisti d’establishment, despoti e finte sinistre, papi e leghe arabe, con tassi di ipocrisia diversi e che non proviamo neppure a misurare. Meglio così, hanno dovuto tutti allinearsi a difesa del diritto alle «enormità» di Charlie. Mentre avevano ancora la matita in mano li hanno solo attaccati, mal sopportati, diffamati. L’elogio che obtorto collo devono farne oggi è perciò la vignetta e l’editoriale che Wolinski e Charb avrebbero potuto scrivere sull’ipocrisia del potere. Non dimentichiamolo 1. *** Charlie è ateo, come ricorda il nuovo direttore, Gérard Biard (lo aveva già fatto su MicroMega 5/2013). Perché allora essere sacrilegi e blasfemi, se l’oggetto dell’irrisione non esiste? Una domanda che circola molto, ma la cui stravaganza è perfino più grande della sua (ampia) diffusione. Il sacrilegio non si rivolge a Dio, che non esiste, ma alla superstizione di chi vi crede. Che è presentissima. E che anzi è egemone, benché indirettamente, in tanti ambienti e tanti cuori che si ritengono laici. Il sacrilegio si rivolge all’oppressione che Dio ha esercitato, e ancora esercita, benché non esista, alla devastazione di intelligenze e sensibilità che ha prodotto, alle frustrazioni e infelicità che ha generato e genera. Il sacrilegio è anche generoso, perché lo praticano persone anche non più colpite e non più frustrate dai misfatti di Dio: per syn-pathos con chi ne è invece ancora vittima. *** La strage è stata fatta in nome di Dio, il dio monoteista, creatore e onnipotente, il Dio di Maometto, Allah il Clemente e Misericordioso (sono i primi due dei suoi novantanove nomi). L’islam dunque, ma quello fondamentalista e terrorista, si è detto. L’altro islam è una vittima, si sottolinea. Senza dubbio. A un patto: che questo altro islam parli in modo forte, chiaro, senza contorsionismi semantici, e con adamantina coerenza di comportamenti. Non basta perciò che condanni come mostruosa la strage di rue Nicolas Appert 10 (ci mancherebbe!). È ineludibile che riconosca la legittimità e la normalità democratica di quanto Charlie praticava in modo esemplare per intransigenza: il diritto di criticare tanto i fanti che i santi, fino alla Madonna, al Profeta e a Dio stesso nelle sue multiformi confessioni concorrenziali. Anche, e verrebbe da dire soprattutto, quando tale critica è vissuta dal credente come un’offesa alla propria fede. Questo esige la libertà democratica, poiché tale diritto svanisce se dei suoi limiti diviene arbitro e padrone il fedele. *** Sacrosanto il principio, ma meglio non applicarlo, anche i princìpi bisogna saperli usare cum grano salis, se creano sfracelli mettiamo la sordina, rinunciamo alla soddisfazione della coerenza, grande a parole ma tragica nei fatti. Etica della responsabilità contro etica della convinzione, insomma. Ma è davvero così ragionevole questo «realismo»? La migliore difesa, contro la volontà omicida che vuole punire i blasfemi, consiste nella circostanza che essi siano talmente tanti da rendere il sacrilegio banale, e dunque non più «eroica» – agli occhi dei propri correligionari e del proprio narcisismo – l’azione omicida di chi punisce in nome di Dio. Ma anzi palesemente vile e – ancor peggio per questi «ego» indigenti che hanno bisogno di essere surriscaldati – insignificante. Sono persone «a rota» di senso, cercano una trascendenza violenta che li consacri eroi/martiri, ma se l’irrisione blasfema e sacrilega diventa ordinaria quanto dare del «con» o etichettare di «connerie», anche l’azione per punire chi tali banalità pronuncia perderà ogni «aura» e non varrà più la candela. Se invece la profanazione resta socialmente sconveniente o addirittura tabù (come negli Usa), i pochi saranno un bersaglio e diventeranno sempre meno, perché cittadinanza non può implicare eroismo, non c’è bisogno di scomodare Brecht, e infine il terrorismo avrà vinto anche rinunciando a esercitarsi. Il terrorismo trionfa quando può fare a meno della violenza, quando la sola minaccia basta a terrorizzare, a ottenere lo stesso risultato (così le mafie). *** «L’ipocrisia è un omaggio che il vizio paga alla virtù». La fila dei potenti che per breve tratto hanno sfilato nella gigantesca manifestazione parigina di «Je suis Charlie» costituiva un monumento rochefoucauldiano che più quintessenziale non si può. Un terzo di loro governa praticando attivamente la persecuzione contro giornalisti, scrittori, blogger e ogni altra forma di dissenso dalle verità di regime. Gli altri difendono la libertà di espressione secondo alchimie di circostanza, ma che vivano il volterriano «disapprovo quanto dici ma difenderò alla morte il tuo diritto di dirlo» (che non è di Voltaire, ma una sintesi della sua biografa Evelyn Beatrice Hall) in quella schiera solennemente compunta non si è mai visto. Eppure, non condividendo le idee di Charlie Hebdo e quasi sempre detestandole, hanno dovuto assoggettarsi almeno per un giorno alla impegnativa identità repubblicana di «Je suis Charlie». Tradirla (lo faranno, state certi: più o meno, ma lo faranno, e anche in fretta) sarà d’ora in avanti un poco più difficile: l’ipocrisia dovrà pagare un prezzo più alto. *** La sagra dell’ossimoro (senza poesia) continua. Dopo l’ateo devoto Giuliano Ferrara abbiamo ora il liberal papista Eugenio Scalfari, che nella consueta omelia domenicale su Repubblica (18 gennaio) a proposito del «pugno» cui Bergoglio istiga contro chi insolentisce «la mamma» scrive: «Il pugno dovrebbe essere — credo io — una norma che vieti e punisca chi si prende gioco delle religioni». Alleluja! *** Se i governi non garantiscono i laici nel loro diritto alla critica, anche quando risulti offensiva ai credenti di ogni risma, non pochi (i meno accurati nell’esercitare ogni giorno discernimento illuminista) finiranno per ascoltare sirene antislamiche (visto che generalmente a punire con la morte i blasfemi sono credenti islamici): anche tanti fedeli «moderati» del Profeta ripetono il ritornello che «non si deve offendere ciò che è sacro», dunque li vivo come potenziale minaccia (e in effetti lo sono, perché la tiritera funziona da brodo di coltura). Ma come possono i governi garantire che il diritto alla critica, anche se risulti offensiva per chi la subisce, non metta chi la pronuncia in pericolo (dovrebbe essere l’abc della sicurezza, il primo dovere di un governo)? Con tutte le politiche di integrazione, welfare, scuola eccetera, che qui non si possono articolare, ma parallelamente e instancabilmente condannando senza se e senza ma l’idea corriva di libertà religiosamente castrata che papa Francesco sta rendendo egemone con i suoi modi da compagnone accattivante. *** Assordante silenzio su una circostanza clamorosa: per volontà delle famiglie (sostenute da gran parte delle comunità ebraiche di Francia) il funerale delle vittime del supermercato kosher di Parigi si è svolto a Gerusalemme. Uno schiaffo esplicito alla République, una dissociazione plateale dalla gigantesca manifestazione che ne ha incarnato lo spirito. Inutile nascondersi che lo schiaffo colpisce tanto la Nation quanto la Laïcité, che in Francia fanno ancora (per fortuna) corpo unico. Perché il silenzio o comunque la sordina? Per paura di passare per antisemiti? La colpa del governo nel non aver garantito la sicurezza dei suoi cittadini, anche quando notoriamente obiettivi potenziali del terrorismo islamico (perché atei bestemmiatori come Charlie o ebrei praticanti come chi osserva le prescrizioni della kasherut), è clamorosa e imperdonabile, ma svolgere i funerali a Gerusalemme è un gesto di «exit» che suona dissociazione dalla comune cittadinanza repubblicana, e pratica teorizzazione che quella ebraica è l’identità che viene prima, sentita come la veramente propria. In questo modo («exit»), però, si regala la titolarità della République al governo, anziché rivendicarla in critica – esplicita o implicita – dell’establishment, come avvenuto con la gigantesca manifestazione di domenica 11 gennaio. *** Identità, identità: tutti la cercano, tutti la vogliono, tutti la idolatrano. «Non abbiamo difeso abbastanza la nostra identità e i nostri valori» è la giaculatoria d’ordinanza delle destre che ormai ha saturato anche quella che un tempo si chiamava «sinistra». Dopo la strage degli atei libertin-libertari di rue Nicolas Appert 10 (alquanto estranei al «gregge» cristiano), la frase ha berciato da ogni schermo italiano soprattutto attraverso il dilagare catodico-botulinico dell’onorevole Santanchè. A cui nessuno ha posto l’altolà minimo della decenza: nostra e nostri, di chi? A parte l’uso dello stesso idioma italiano (praticato comunque assai diversamente) l’onorevole Santanchè e il sottoscritto, ad esempio, non hanno nulla, ma proprio nulla, ma nulla-di-nulla in comune. Né valori né identità. E così ho la ragionevolezza di presumere per la gran parte dei cittadini dello stivale. Non la Patria, che per chi sia davvero cittadino italiano vuol dire, da circa settant’anni, essere-insieme attraverso la comune Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista (per questo è festa nazionale il 25 aprile, giorno per il quale il messaggio del Clnai «Aldo dice 26x1» ha dato l’ordine dell’insurrezione generale). Non la giustizia, che per essere tale deve essere garantista/giustizialista (si scelga pure la prospettiva che si preferisce) esattamente nella stessa misura tanto per il più diseredato dei cittadini quanto per il più grufolante di ori e privilegi (Cucchi come Berlusconi o viceversa, insomma: d’accordo, onorevole Giovanardi?). Non le radici europee, che se parliamo di Europa democratica vengono messe a dimora con eresia e scienza, con Galileo e Spinoza, e attecchiscono con i Lumi, insomma con tutto ciò che la Chiesa mise all’indice, in ceppi, sul rogo, e i rabbini fulminarono di µrj (cherem, l’anatema ebraico: «escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo»). E mi fermo qui: per carità cristiana (secondo la quale «difficilmente un ricco entrerà nel Regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello…», Matteo 19, 23-4). *** Dany Cohn-Bendit ha detto che «erano il top della satira francese. […] Charlie Hebdo in un anno ha ricevuto dodici denunce per vilipendio del papa e di Gesù, e solo una da parte degli islamisti radicali. Il loro motto era: siamo radicali e facciamo caricature di tutti. […] Il direttore Charb, ammirevole. Avevano uno spirito di contestazione libertario, che non si fermava di fronte a nulla». Sacrosanto. Pochi anni fa, però, quando altre vignette di Charlie Hebdo avevano scatenato manifestazioni violente di fanatismo islamico, era stato ancor più tranchant: «Charlie? Moi, je les trouve cons! Il sont maso, surtout. Ils doivent aimer se faire mal, ce la manière dont ils font l’amour, je crois aussi» 2. Errare umano, perseverare diabolico, lo sappiamo tutti, ottimo quindi che Cohn-Bendit non abbia perseverato nelle sue presuntuose conneries del 2012. Tuttavia quando si migliora attraverso un revirement di 180 gradi, quasi una conversione, è opportuno spiegarsi (anche con se stesso), perché se è solo sull’onda dell’emozione un’emozione successiva e opposta potrà far tornare ai vecchi giudizi «diabolici». L’aberrazione del 2012 nasceva infatti da categorie assai diffuse in certa sinistra, che scambia riformismo con comunitarismo e per nemesi della storia ripropone lo staliniano «il ne faut pas désespérer Billancourt» nel politically correct del «non bisogna offendere l’islamico umiliato-e-offeso», anche a costo di opprimere la libertà di critica. Pregiudizi che vanno perciò riconosciuti, tematizzati, sradicati, altrimenti continueranno a lavorare come attive sinapsi di una «sinistra» in deriva oscurantista. *** All’uso dei kalashnikov si sono addestrati in Siria o altri campi di Is o al-Qa‘ida. Ma il desiderio di andare in quei campi per prepararsi al terrorismo dei martiri lo hanno maturato nella società civile, nella politica, nelle istituzioni delle democrazie occidentali, di cui spessissimo sono cittadini a tutti gli effetti. Qualche imbecille cui non basta neppure il fascismo dei Le Pen (post, soft, quello che volete: in filigrana sempre il fascismo si legge, per chi ha occhi per vedere) ne trarrà la conclusione che quella cittadinanza non andava data (magari è di terza o quarta generazione!). Al contrario, invece: poiché sono cresciuti nella nostra lingua, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, con la nostra televisione, sarà meno imbecille se ci domanderemo seriamente quali contraddizioni, quali inadempienze, quali tare vi siano nei nostri quartieri, nella nostra scuola, nelle nostre televisioni. Quali e quante promesse non mantenute e menzogne sempre più sfacciate impregnino le nostre «democrazie», dove la sovranità di-tutti-e-di-ciascuno ormai non è neppure belletto ma quotidiano cachinno con cui l’establishment del kombinat politico-finanziario-corruttivo ci sberleffa e oltraggia. «Democrazia» sempre più tra virgolette, terra desolata saturata di frustrazioni, pronta per il cortocircuito con una fede da Dio degli eserciti, che offra senso, e grandioso, a esistenze altrimenti nientificate. Eppure abbiamo promesso eguale diritto al perseguimento della felicità. Se pensiamo che sia retorica abbiamo sbagliato i conti. Quello che si mette nel patto fondativo verrà prima o poi chiesto in riscossione, con più spietatezza della libbra di carne dello Shylock di Shakespeare. È la democrazia, bellezza. Dunque si tratterà di mettersi all’opera per realizzarla. Ma poiché già la sovranità eguale, e tanto più con l’eguale diritto al perseguimento della felicità, non può darsi che come approssimazione, tale approssimazione dovrà essere asintotica, un impegno costante, infaticabile: ogni défaillance sarà un regalo a ogni fanatismo, che lievita sulla nostra incoerenza. *** Ebraismo, cristianesimo, islamismo non stanno sullo stesso piano rispetto alla modernità e alla democrazia. Sia chiaro, il jihad c’è già tutto nel Libro ebraico (Jahve Zebaoth, Dio degli eserciti), e quanto al cristianesimo fanno fede le crociate. L’odio per la democrazia di cui trasuda il Sillabo (1869, l’epoca dell’unità d’Italia) è ancora più che diffidenza in Pio XII 1944, radiomessaggio di Natale (la democrazia è «sana» solo se «fondata sugl’immutabili princìpi della legge naturale e delle verità rivelate», insomma se teocraticamente cattolica!). Resta il fatto che ebraismo e cristianesimo, per le persecuzioni il primo e obtorto collo (anzi obtortissimo) il secondo, siano dovuti venire progressivamente a patti con lo stratificarsi di libertà (plurali) che ha visto maturare la democrazia nell’orizzonte della modernità: dal disincanto della sinergia di eresia e scienza e dalla formula di Grozio «etsi Deus non daretur» con cui l’Europa evita l’incombente harakiri delle guerre di religione. L’islam no. O almeno, ma fin qui certamente, non ancora. Che possa avvenire non si può escludere per via ontologica, per loro natura le religioni possono evolvere in tutto e nel contrario di tutto, mentre i rispettivi teologi dimostreranno come si tratti solo di continuità, e del resto il Corano è sincretismo di ebraismo orecchiato e di cristianesimo in una versione condannata per eresia (ma all’epoca di Maometto uno dei tanti e conflittuali cristianesimi). Oggi però l’islam riformato e secolarizzato è pressoché introvabile, nasconderselo è colpevole cecità. Peggio: è la consapevole ipocrisia degli establishment occidentali a cui interessa in primo luogo che con gli interlocutori islamici in comune vi sia la suprema religione di Mammona, il Dio denaro che presiede al petrolio e alla Borsa. Ecco perché non hanno mai appoggiato nessun conato di islamismo riformato. *** Di che cosa sono nemici i terroristi islamici? E dunque chi esattamente sono? Dell’apostasia, della bestemmia, di chi viola la shari‘a, ma altrettanto di ogni islamismo diverso dal proprio (sunniti vs sciiti eccetera). Spesso tali criteri si sovrappongono più o meno parzialmente, comunque nemici e identità danno luogo a una varietà di configurazioni. Che rende ridicola la categoria «moderati/estremisti» in cui si ostina la pigrizia dei media occidentali di establishment. In Arabia Saudita la shari‘a viene praticata alla lettera e con coreografia mostruosa, ma all’Occidente del potere va benissimo così. In realtà il terrorismo islamico è strumento di lotta tra gruppi islamici per l’egemonia sull’intero mondo islamico, e l’Europa è diventato un campo di battaglia sempre meno periferico di questa guerra d’egemonia, che ha il suo epicentro nell’espansione territoriale del califfato. *** La compatibilità dell’islam con la democrazia si gioca sul terreno dell’accettazione (che oggi è rifiuto) della secolarizzazione, cioè della separazione tra religione e politica. Con una conseguenza e un paradosso. La conseguenza: la democrazia non si riduce al voto di maggioranza, tanto è vero che ci può essere una «democrazia» islamica con elezioni perfettamente democratiche ma dentro l’endiadi Costituzione/ Corano. Di più: ci sono state vittorie elettorali della teocrazia annullate «manu militari», in Algeria e altrove. La sovranità democratica non è la regola della maggioranza, che ne costituisce la tecnica essenziale ma non l’essenza, la sovranità democratica è, prima ancora, rispetto dei princìpi che rendono effettivo «una testa, un voto», e che sono assai più esigenti, sotto il profilo egualitario e libertario, di quanto non pensi la vulgata liberaldemocratica. Il paradosso: la condizione fondamentale perché l’islam sia compatibile con la democrazia, la secolarizzazione, è quanto pezzi importanti di establishment occidentale hanno combattuto e ancora combattono, utilizzando a piene mani la «volontà di Dio» (il Dio cristiano) nelle loro campagne elettorali, rifiutando di esiliare Dio (ogni Dio) dalla sfera pubblica. Inventandosi una «laicità positiva» che castra la laicità, che fa acqua sul versante sia della logica sia della politica. Acqua, ma ora succube del sangue. *** Negli Usa puoi proclamare il tuo nazismo ai quattro venti, finché non passi all’azione sei intoccabile. Insomma, fino a che non metti su il tuo forno crematorio privato e la tua doccia a gas in cui ammazzare cittadini «semiti» (secondo il tuo criterio razziale, magari sono atei da generazioni) puoi predicare i meriti del Mein Kampf e del Führerprinzip. In compenso, la satira antireligiosa è considerata talmente intollerabile che l’intero mondo dei media neppure si pone il problema se darvi spazio o meno, la censura a priori (tranne eccezioni di nicchia). Eppure per combattere il nazismo sono morti milioni dei «loro ragazzi», dalla spiagge della Normandia a quelle di Anzio e della Sicilia (oltre che migliaia di donne e uomini della Resistenza). Contano meno della suscettibilità di Dio, evidentemente. *** Di identità abbiamo bisogno per vivere. Praticamente come l’aria e il pane. Delle due l’una, perciò: o la democrazia consente a ciascuno di noi di vivere come identità propria la condizione della cittadinanza, esistenzialmente appagante e comunque più significativa di ogni altra appartenenza, o ciascuno cercherà identità vicarie, dalla curva sud alla guerra santa in nome del Profeta. Tanto più verranno inseguite, e più radicali, quanto più grande è lo scarto tra promessa e realtà. Perché ciascuno possa vivere la cittadinanza come la propria identità è indispensabile che essere cittadino significhi esercitare effettiva sovranità con gli altri perché eguale agli altri. Se ne vedono indizi, che vadano oltre il simulacro, nelle democrazie realmente esistenti? Ogni agire politico che non operi per l’eguale sovranità, oggi introvabile, porta già con la semplice omissione il suo vaso alla Samo delle appartenenze, che minano la comune Res Publica. *** Se si ammette che Dio possa avere dimora nello spazio pubblico, come «argomento» per statuire le leggi, non si può poi pretendere che sia il Dio che piace a noi: vale qualsiasi Dio, qualsiasi sia la Sua Parola. Solo l’esilio di Dio dalla scena pubblica è la premessa (necessaria ma non sufficiente) perché le leggi nascano da un dia-logos di argomenti anziché dal «perché sì» di narcisismo tossico che si nasconde dietro ogni «volontà di Dio». *** Lo spazio pubblico è lo spazio dei cittadini, di coloro che argomentano a partire da elementi comuni: i fatti accertati, la logica, i valori costituzionali della democrazia repubblicana che fondano il comune essere-insieme come cittadini. Il di più viene dal demonio: se nello spazio pubblico è legittima la parola di Dio, non sarà più spazio di civile dia-logos ma arena di ordalia, scontro tra «argomenti» di fedi dove il più forte si assicura il «giudizio di Dio». Logica incompatibile con democrazia e cittadinanza. Solo se Dio (cioè chiunque pretenda di parlare in Suo nome e riferirne Legge e Volontà) viene tenuto fuori dallo spazio pubblico, custodito nel privato delle coscienze, la democrazia è al riparo dalla tentazione di virare a ordalia. Ma il culto di ogni religione per essere libero deve essere pubblico. Come fare dunque che un culto pubblico non interferisca con lo spazio pubblico, dell’agorà deliberativa, tale solo se affidato esclusivamente all’argomentazione, ad esclusione quindi di ogni «volere di Dio»? Solo se il rifiuto dell’interferenza politica di qualsiasi «legge di Dio (massime in bocca a un «clero») assume l’automatismo del tabù, diventa una «seconda natura», almeno come per antropofagia e incesto. Il prete, l’imam, il rabbino, dicano pure al fedele cosa deve e non deve fare per guadagnarsi la vita eterna, ma mai pretendano che tale prescrizione possa imporsi erga omnes attraverso quel braccio secolare che è la legge. Mai. Anzi, nel proibire al fedele il peccato mortale gli rammentino che il diritto al peccato deve essere rispettato negli altri, che non mirano alla vita eterna o la ritengono raggiungibile diversamente. Se questo sembra un «giogo» troppo pesante non ci si meravigli poi se qualche fedele cristiano considererà l’esecuzione di un peccatore mortale gesto veniale (o addirittura di giustizia) rispetto al «genocidio del nostro tempo» (così Ratzinger e Wojtyła) cui partecipa il medico abortista. E qualche fedele musulmano altrettanto doveroso mandare all’inferno anzitempo chi insulta il Profeta. *** Nella capitale della Cecenia un milione di cittadini islamici manifestano contro le vignette di Charlie Hebdo e pretendono che i governi occidentali mettano al bando il sacrilegio. In molti altri paesi islamici non si arriva al milione, ma le dimostrazoni di massa si moltiplicano. Del resto era avvenuta la stessa cosa nel 2006, sempre a causa di vignette (e le democrazie con la memoria corta sono già per questo di fibra debole). Non tutti i credenti in Allah sono fanatici, ça va sans dire, ma nelle banlieues di Francia, nelle periferie italiane, tra le minoranze di origine turca in Germania, nelle comunità islamiche inglesi (dove tribunali di shari‘a applicano il relativo diritto familiare con la benedizione del vescovo di Westminster), liberalmente parlando, le cose vanno davvero molto meglio? Sono gli insegnanti dei beurs e i sociologi sul campo a dire che strati assai cospicui di giovani francesi di origine magrebina, che si erano costruiti un’identità «etnica» come reazione all’emarginazione sociale, trovando magari nel rap la loro «religione», sono in calorosa sintonia emotiva con la pretesa clericale di ostracismo al sacrilegio: postmoderni sempre più sensibili agli imam premoderni. Che si tratti, in Europa, in Cecenia, nel mondo arabo, di masse di «umiliati e offesi» della cui povertà, emarginazione, sofferenza, gli establishment occidentali (e i cittadini che li hanno legittimati, ovviamente) portano colpa, dovrebbe essere motivo di rivolta democratica contro questi establishment, non di acquiescenza, neppure la più soft, verso la teorizzazione (con cui gli establishment al dunque vanno a nozze) che il bando all’offesa del Profeta sia il doveroso risarcimento simbolico per le umiliazioni sociali loro inflitte. La povertà, l’ingiustizia sociale, l’oppressione, vanno combattute socialmente, non raddoppiate con nuove oppressioni clericali contro la libertà di critica (di empietà), alibi per continuare a calpestare socialmente i diseredati. Eppure c’è tanta «sinistra», magari «più a sinistra», che non ci arriva. *** La libertà empia, la libertà senza autocensure, era diventata un principio di nicchia, ora la più grande manifestazione in Francia dai tempi della Liberazione, e i potenti della terra costretti per ipocrisia a parteciparvi, la ricollocano al centro della vita pubblica democratica.
La macchina mostruosa del terrorismo (mostruosa anche perché ormai metastatizzante), che aveva colpito le due torri, ha considerato Charlie Hebdo l’emblema del Satana occidentale, dei valori occidentali, delle libertà, rendendogli inconsapevolmente il più grande, anche se mostruoso, omaggio. I troppi cittadini che affatturati dalle ipocrisie mediatiche d’establishment stanno via via prendendo le distanze dal «Je suis Charlie» non si rendono conto che stanno addentrandosi nelle sabbie mobili della «servitù volontaria».
***
Chi dice che in fondo erano solo vignette, e anzi inguardabili, ed effettivamente lurida blasfemia, si illude se pensa che per critiche meno «indecenti» il fanatismo si addolcirà in tolleranza. Fanatismo che purtroppo da anni è ideologicamente condiviso (non nel suo agire violento, beninteso!) da organizzazioni per i diritti umani accreditate in ambito internazionale. Come Gherush92, che ha seriamente chiesto, durante conferenze mondiali contro il razzismo, la messa al bando delle cantiche dantesche dedicate a Maometto, agli omosessuali (omofobia!) e ai versi in cui padre Dante usa il termine «giudeo». Mentre minacce contro l’affresco di San Petronio a Bologna, che illustra le pene dantesche per Maometto, erano già venute anni fa (si sono rifatte vive in questi giorni). Anni fa, del resto, la Deutsche Oper Berlin soppresse la produzione dell’opera mozartiana Idomeneo perché, nella versione riadattata e messa in scena dal regista Hans Neuenfels, una scena mostrava le teste decapitate del profeta Maometto, di Gesù, di Budda e del dio greco Poseidone. Mentre l’Europa democratica ha già dimenticato l’assassinio di Theo van Gogh da parte di un «giustiziere dell’islam» che ha trovato blasfemo il suo cortometraggio Sottomissione. Anni fa, del resto, la Deutsche Oper Berlin soppresse la produzione dell’opera mozartiana Idomeneo perché, nella versione riadattata e messa in scena dal regista Hans Neuenfels, una scena mostrava le teste decapitate del profeta Maometto, di Gesù, di Budda e del dio greco Poseidone. Mentre l’Europa democratica ha già dimenticato l’assassinio di Theo van Gogh da parte di un «giustiziere dell’islam» che ha trovato blasfemo il suo cortometraggio Sottomissione.
La lista del passato sarebbe lunga, oltre che vergognosa. Ora la Oxford University Press (non è omonimia, si tratta proprio dell’università nata oltre un millennio fa, quella di Wyclif, Guglielmo di Occam, Bacone, Swift, Hobbes, Wilde, Shelley) ha deciso di proibire nei suoi cataloghi qualsiasi libro che menzioni il maiale e la carne di maiale. «Vade retro Peppa Pig!» allora e tanto per cominciare. Progresso occidentale. *** Gli ateniesi per empietà condannarono a morte Socrate, ma nelle Rane di Aristofane Eracle e Dioniso (v. 236: «da tempo il mio deretano è in sudore e presto curvandosi dirà…»: è la cosa più lieve!), due tra le massime divinità greche, si scambiano empietà e oscenità, sghignazzano sull’Ade, sui Misteri e su ogni aspetto del Sacro. Della morte di Socrate i suoi concittadini dovettero pentirsi presto, della libertà di blasfemia mai. Potremmo passare a Rabelais. E ad altri grandi. Questa è l’identità occidentale. *** La libertà deve essere eguale, altrimenti è privilegio. La libertà di ciascuno ha il limes – confine invalicabile – nell’eguale libertà dell’altro. Assoluta è solo la libertà di fronte alla quale gli altri sono sudditi. La libertà eguale non può dunque, per sua natura, essere illimitata. Ma quali sono i limiti della libertà eguale? Poiché al di qua di tali limiti, ogni limitazione sarebbe vulnus inguaribile alla libertà stessa. Il razzismo nega alla radice l’eguale dignità degli appartenenti al genere Homo sapiens, perché rende addirittura impossibile argomentare qualsiasi libertà. I fascismi sono i regimi recentissimi che, in coerenza assoluta con la loro ideologia, hanno fatto strame di tutte le libertà democratiche (a differenza dei comunismi che tali libertà hanno negato contraddicendo quanto proclamato). L’esaltazione del razzismo e dei fascismi non può dunque far parte della libertà d’espressione 3. *** Dice papa Francesco, ormai – ahimè – l’unico leader globale occidentale: «Non si può provocare, non si può insultare, non si può prendere in giro la fede degli altri». Facciamo bene attenzione, perché questo è l’argomento che sta diventando egemonico nelle democrazie, malgrado (e contro) i milioni di francesi che hanno sfilato gridando: «Je suis Charlie». E che le mette a repentaglio.
Se la libertà di ciascuno deve fermarsi dove comincia l’eguale libertà dell’altro, non può essere consentita la libertà di offendere ciò che per qualcuno è sacro. Libertà di critica sì, libertà di offesa no. Sembra un sillogismo, ma è una fallacia, una conclusione abusiva che nega la logica, oltre che la libertà.
Per cominciare: chi decide cosa sia critica e cosa sia offesa? Wojtyła e Ratzinger hanno tuonato in ogni enciclica che l’illuminismo, con la pretesa di rendere l’uomo autos nomos (legislatore di se stesso, anziché ricevere la legge da Dio), è la causa e la radice dei totalitarismi del secolo scorso, poiché ha aperto la strada alla pretesa smisurata della sovranità (senza la quale la democrazia non è neppure pensabile, però!) e dunque al baratro del nichilismo di cui nazismo e stalinismo saranno il prodotto. «Dal frutto conoscerete l’albero…» eccetera. Cosa c’è di più insultante per ciascuno di noi? Cosa c’è di più fanatico che imputare lager e gulag a Voltaire e Hume? Cosa c’è di più oltraggioso per la democrazia? *** Non basta. Molti credenti immaginano che gli atei, privi di fede, siano spiritualmente meno ricchi. Se non lo pensassero, del resto, non prenderebbero sul serio la fede, che è il dono incommensurabile, poiché ne va della salvezza eterna. Noi atei siamo esistenzialmente menomati, poiché incapaci di attingere il trascendente (anche di questo nelle encicliche si trova traccia). Potrei sentirmi offeso di essere considerato un minorato spirituale, esattamente come un credente può sentirsi offeso della mia fermissima convinzione che ogni religione sia superstizione: la presenza reale, corpo e sangue, di un profeta ebreo giustiziato sotto l’imperatore Tiberio, in pochi grammi di impasto di acqua e farina, è stravaganza – offensiva per la ragione – più allucinante che credere a oroscopi, congiunzioni astrali e fattucchiere. E storicamente assai più pericolosa, come secoli di crociate, roghi e notti di san Bartolomeo ci ricordano. ***
Se il criterio dell’offesa diventa il paradigma della libertà, a decidere sarà la suscettibilità. Ma la tua libertà trova un limite nella mia eguale libertà, non nella mia suscettibilità, per definizione soggettiva e presso ciascuno diversa. Io sono libero di irridere la tua fede, perché con il mio scherno non ti impedisco affatto di praticarla, e tu resti libero di irridere le mie convinzioni, ma non puoi impedirmi di praticarle, benché la tua sensibilità le viva come offensive: libertà simmetrica.
Diversamente, non solo ogni credente diventa titolare di un diritto di censura, ma a decidere dei limiti della libertà sarebbero alla fine i fondamentalismi di ogni confessione. Non è un paradosso. Si ragioni freddamente: una volta accettato il divieto dell’offesa per ciò che è vissuto come sacro, tanto maggiore sarà la suscettibilità del credente e tanto più ampia la sfera delle espressioni che per lui costituiscono non solo offesa ma addirittura sacrilegio. Maggiore la suscettibilità (che è massima nel fanatismo!) e maggiore il diritto a far tacere gli altri, questo il risultato della logica che nelle parole di papa Francesco sembra così ragionevole di ecumenica tolleranza. Più grave ancora: il criterio della suscettibilità, inerente alla categoria della «offesa», crea un meccanismo sociale che incoraggia la surenchère: più sono intollerante più ho titolo a far tacere, dunque vengo premiato in termini di potere se faccio lievitare il mio cruccio per la critica (naturale in ciascuno) dapprima in risentimento, poi in rabbia e infine in fanatismo, dando libera stura (anziché civile repressione) alla pulsione di onnipotenza che si annida in ciascuno di noi. Non basta: se è giusto censurare ciò che offende ogni religione, a fare legge saranno l’ipersuscettibilità degli ebrei, dei cristiani, dei musulmani, ma anche ogni idiosincrasia dei testimoni di Geova, dei mormoni, di quanti adorano il Grande Manitù (tra i nativi americani c’è un bel ritorno alle radici), dei fedeli al Verbo di Scientology, e molto altro ancora. Tutto ciò che ognuna di queste fedi (comprese le loro varianti più integraliste, ovviamente) trova molesto diventa legittimo oggetto di anatema e ostracismo. Cosa resta della libertà di critica dopo questo bel rogo di libertà «offensive»? Ogni pretesa di Verità ha diritto di mettere il bavaglio a ciò che vive come ingiuria. Ma per centinaia di milioni di uomini furono sacri Stalin e Mao, e la «supremazia bianca» è dogma di fede del Ku Klux Klan: guai a chi li critica! La logica del «non si può offendere» è spietata, non consente un «on, off» secondo i propri comodi. *** Per le religioni non è provocazione solo la satira, può esserlo anche una legge democratica. Tale per centinaia di milioni di islamici quella francese sul velo, tale per milioni di cristiani quelle che in gran parte dell’Occidente consentono alla donna di abortire. Negli Usa ci sono stati (e prevedibilmente ci saranno ancora) omicidi di medici e infermieri che avevano garantito il rispetto della legge. Cristiani fanatici? Comunque cristiani, che si sentivano mortalmente offesi da quelle leggi. Ma non erano fanatici, bensì sommi pontefici, Joseph Ratzinger e san Giovanni Paolo, che hanno bollato l’aborto come «il genocidio dei nostri giorni», e dunque come SS postmoderne medici e infermieri che lo praticano, se le parole hanno un senso (e le parole di un papa sono macigni). Francesco non ha solo sposato il divieto di prendere in giro ogni fede. Ha esemplificato che «se un grande amico dice una parolaccia contro mia mamma, gli spetta un pugno, è normale». Normale tra bulli e teppisti, o nel machismo d’antan. Ma il pugno di Francesco diventa kalashnikov nel fanatico islamico, come è stato revolver nel cristiano antiabortista. Se a decidere sul diritto di critica è la suscettibilità alla critica, la stessa suscettibilità ha diritto a decidere la pena.Questa logica oscurantista mette in mano alla benevolenza del fanatico se il bestemmiatore della fede meriti un pugno, i mille colpi di frusta con cui nell’ignavia dell’Occidente l’islam moderato (sic!) dell’Arabia Saudita sta torturando a rate settimanali Raif Badawi, o la raffica di pallottole. Escalation di una medesima logica, che ha sentenziato: i blasfemi se la cercano. En passant, Francesco: e l’altra guancia?***Una volta vissuta l’esperienza tragica dei fascismi, che hanno annientato le libertà, sarebbe assurdo, ai limiti del masochismo, che altre generazioni debbano rischiare nuovamente di «sortir de la paille les fusils, la mitraille» per riconquistarle nel sangue e nella sofferenza. Tenendo ben fermo che l’antisemitismo è razzismo, ma l’antiebraismo riguarda una religione (benché il nazismo abbia voluto farne l’amalgama) e l’antisionismo una politica.Non si tratta, dunque, del «pas de liberté pour les ennemis de la liberté», poiché la praxis di Saint-Just ha dimostrato il pericolo che si occulta nell’accattivante frase. Si tratta del diritto/dovere dell’Europa di non dimenticare i morti e i calpestati che i fascismi (non «i nemici della libertà» in astratto) hanno coerentemente e strutturalmente prodotto a milioni, e impedire il brodo di coltura che può farne rinascere il virus. Con leggi ad hoc, e/o con un più efficace e onnipervasivo tabù morale e sociale: starà alle varie democrazie deciderlo. Quanto al resto c’è il codice penale che sanziona l’istigazione a delinquere, dunque all’omicidio (e massime al terrorismo), o la diffamazione, che deve essere però personale, non può riguardare idee e fedi.Senza perifrasi, allora: la Repubblica laica e la «laicità» di Francesco sono incompatibili, e soprattutto tertium non datur. Tra l’illuminismo di massa di «Je suis Charlie» e la libertà papale di «je suis chaque religion», l’Europa deve scegliere. Aut, aut. Questa Kulturkampf è già in mezzo a noi.***Se l’Europa non sceglie la strada libertaria, e non l’accompagna con l’impegno instancabile per l’eguaglianza sociale, si illude di potersi salvare dal fanatismo, perché ne avrà legittimato l’alambicco e alimentato la fucina.L’eguale libertà deve esserlo anche materialmente, socialmente. Ma questo è l’altro capitolo dello stesso discorso – che troppi preferiscono ignorare.
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