Tumgik
#poeta crepuscolare
oubliettederien · 6 months
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“[…] Non c’è né duolo, né gioia, non c’è né odio, né amore; nulla! Non c’è che un colore: il grigio; e un tarlo: la noia. […]”
Il poeta che per sua natura fugge la noia, l'unico tarlo della vita, è alla continua ricerca di un'isola mentale nella quale approdare con le parole così da poter dimenticare la realtà della condizione di mortale. 
Leggi la poesia “Che vale?” di Marino Moretti cliccando qui:
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rideretremando · 2 years
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"UN CUORE CHE NON DORME. SU DUE POESIE D’AMORE DEL NOVECENTO ITALIANO (2018)
Chi volesse allestire un’antologia di belle poesie d’amore del nostro Novecento, magari per disporre di un bacino di citazioni a uso anche privato, non avrebbe la strada facile. Non, almeno, se pretendesse di trovarsi tra le mani un canzoniere che celebra l’eros nella sua pienezza – l’eros al tempo stesso eccezionale e quotidiano, inconfondibile e universale. Chi dispiega apertamente il suo canto amoroso, se si escludono l’ossessivo riduzionismo efebico di Sandro Penna e la meteoropatia emotiva della penniana Patrizia Cavalli? Ci sono, è vero, lirici suggestivamente terrestri e sensuali, perfino in senso linguistico, come Gatto, Betocchi e certo Caproni, non a caso cresciuti anche loro, accanto a Penna, sul rovescio del tessuto ermetico: ma finiscono quasi sempre per diventare o troppo domestici o troppo sfuggenti, ripiegando su una freschezza insieme patetica e pudica e partendo per la tangente del manierismo. Ci sono, ancora, poeti erotico-famigliari alla Sanguineti o alla Giudici, che non esitano a palpare i corpi e a immergerli nella vita di tutti i giorni: ma lo fanno esibendo preventivamente il falsetto, il passaporto di una vezzosa diplomazia crepuscolare; così come il primo Pagliarani e Massimo Ferretti schiacciano altri corpi sotto la loro musica avida e guascona. Quanto a Sereni, i suoi rossori di innamorato vengono subito puniti da una reticenza brusca che li lascia a galleggiare nel vuoto. La nostra lirica novecentesca, osservava Garboli mezzo secolo fa, è “altamente ‘omosessuale’ ”, nel senso di una estrema introversione del tema amoroso: in genere “s’ispira a presupposti assoluti, di a tu per tu con Dio, sdegnando le sparpagliate occasioni del ‘sentimento’, i suoi trasalimenti, i suoi brividi, le sue piccole e struggenti ferite. La poesia moderna è tutta ‘intellettuale’ (…) Respinge le situazioni da fumetto, il ‘lui e lei’. Il poeta contemporaneo” non si può immaginare “innamorato degli aspetti femminili della vita quali la gioia, la giovinezza, lo splendore della pelle, una bella mattinata piena di sole, le ore della felicità che è sempre rubata, sempre momentanea, sempre sul punto di essere uccisa”.
Del resto questa lirica non è che l’ultimo, stravolto capitolo di una storia poetica occidentale che può leggersi in chiave rougemontiana. È la storia che mantiene al centro l’“amore dell’amore”, Narciso e Tristano: quella tenuta a battesimo dai versi provenzali, stilnovisti e petrarcheschi in cui si sublima l’oggetto del desiderio fino a farlo sparire, secondo una metafisica che torna vestita di panni moderni nell’opera di un Montale. L’amore innalzato all’empireo, si sa, si specchia poi in basso nelle sue caricature popolari, nelle deformazioni carnevalesche che non fanno che sancirne la supremazia; così come le demoniache donne romantiche e baudelairiane, dietro il loro teschio di streghe, di bestie e di carogne, lasciano intravedere il volto etereo dell’angelo caduto.
Ciò che questo Occidente rimuove all’origine è la nudità dei classici: il loro tranquillo intreccio di cerimoniosità rituale e affetto scanzonato, l’umiltà con cui si volgono al desiderio e all’osceno (a ciò che c’è nell’eros di irrevocabile e tremendo, ossia di sacro) proprio mentre ne abbozzano con tratti lievi gli episodi più prosaici. I moderni hanno eletto questa nudità a mito irraggiungibile; e se a volte hanno creduto di vederla riapparire a lampi in qualche loro contemporaneo sfuggito alla morsa della Storia – e magari, per via omosessuale, sfuggito pure al “lui e lei” - l’hanno celebrata come fosse un miracolo. Perché la norma, al contrario, è appunto l’atteggiamento di chi ruota sempre intorno alle aporie dell’amore genialmente descritto da De Rougemont - di chi ne assalta, scalfisce o spernacchia l’idolo per poi tributargli un inevitabile omaggio, o addirittura per rendere ancora più impalpabile e onnipresente il suo fantasma. Questo fantasma, è vero, a un certo punto s’incarna anche al di fuori del mero rovesciamento burlesco: ma l’incarnazione viene allora appaltata al romanzo ‘medio’, o a quel cinema a cui subito, con pochi ritocchi, un tale romanzo si propone come sceneggiatura. Lì, nello specchio narrativo di una società ormai laicizzata, l’afflato idealizzante e romantico rivela il suo spirito volgarmente calcolatore, scende a patti con la routine trascinandosi tra letti precari, scene mélo e struggimenti dozzinali. La poesia invece, già arroccata in sé stessa per sfuggire alla lingua della tribù, ha sommato a questo arrocco formale la vaghezza difensiva con cui l’uomo moderno allude a una realtà che nonostante tutto continua a porglisi pavesianamente davanti come il banco di prova della vita: il “grande amore”, che per definizione “non si trova”. Così l’antico “né con te né senza di te” diventa una ipnosi da eterni adolescenti, un inseguimento della propria ombra, una leggenda che nutre sottotraccia ogni parola ipotecandola senza dichiararsi, e che carica ogni oggetto dell’aura amorosa dopo averla resa irriconoscibile.
Si dànno, ovviamente, le eccezioni. Una è vistosa proprio perché melodrammatica: nei “Nuovi versi alla Lina”, il verdiano e heiniano Saba del 1912 dialoga con la moglie che l’ha tradito, e nella sua temeraria impudicizia ci fa udire tutti del suo cuor gli affanni. Soffre, si lamenta, interroga, accusa, perdona, torna sui fatti senza capacitarsi dell’accaduto e del suo effetto emotivo. Siamo di fronte a un raro caso di poesia imperniata sulla passione coniugale - poesia insieme traumatica e casalinga, canzonettistica e dolorosa. Con sovrana semplicità, il poeta vi dichiara il suo stupore per ciò che può fare l’ossessione, la ferita narcissica inferta dalla gelosia: il mondo caldo e vivido delle sue passeggiate si svuota, e lo sguardo è obbligato a concentrarsi su un punto solo, una femmina qualunque, una cosa così comune e piccola che “una casa nello spazio, / un piroscafo è tanto più di lei”.
Ma se dovessi compilare quell’antologia, io la aprirei in un altro modo. La aprirei con due testi nei quali le domande su Amore e Morte che alonano la più tipica poesia d’Occidente dal Medioevo al Novecento riecheggiano nel nido buio della coppia; e lì, in una situazione d’intimità reale, non vagheggiata ma vissuta, vengono affrontate e approfondite, conservate e superate, o piuttosto scontate, tra tenerezze tremanti e pene solitarie. Parlo di due testi dove l’amore è assolutamente vero e al tempo stesso ‘impossibile’: “Vecchio e giovane” di Umberto Saba e “Canzonette mortali” di Giovanni Raboni. In entrambi i casi un uomo anziano, con gli occhi sbarrati nell’ombra, veglia su un corpo giovane disteso accanto a sé nel letto, e cerca di accettare l'incommensurabilità dei rispettivi destini biologici.
Ecco la poesia di Saba: “Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo / - gatto in vista selvatico - temeva / castighi a occulti pensieri. Ora due / cose nel cuore lasciano un'impronta / dolce: la donna che regola il passo / leggero al tuo la prima volta, e il bimbo / che, al fine tu lo salvi, fiducioso / mette la sua manina nella tua. // Giovinetto tiranno, occhi di cielo, / aperti sopra un abisso, pregava / lunga all'amico suo la ninna nanna. / La ninna nanna era una storia, quale / una rara commossa esperienza / filtrava alla sua ingorda adolescenza: / altro bene, altro male. ‘Adesso basta – / diceva a un tratto; - spegniamo, dormiamo.’ / E si voltava contro il muro. ‘T'amo – / dopo un silenzio aggiungeva - tu buono / sempre con me, col tuo bambino.’ E subito / sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio, / con gli occhi aperti, non dormiva più. // Oblioso, insensibile, parvenza / d'angelo ancora. Nella tua impazienza, / cuore, non accusarlo. Pensa: È solo; / ha un compito difficile; ha la vita / non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta, / se puoi, tua morte. O non pensarci più”.
Ed ecco la poesia di Raboni: “Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro / e solo del futuro, di nient’altro / ho qualche volta nostalgia / ricordo adesso con spavento / quando alle mie carezze smetterai di bagnarti, / quando dal mio piacere / sarai divisa e forse per bellezza / d’essere tanto amata o per dolcezza / d’avermi amato / farai finta lo stesso di godere. // Le volte che è con furia / che nel tuo ventre cerco la mia gioia / è perché, amore, so che più di tanto / non avrà tempo il tempo / di scorrere equamente per noi due / e che solo in un sogno o dalla corsa / del tempo buttandomi giù prima / posso fare che un giorno tu non voglia / da un altro amore credere l’amore. // Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno / dopo l’altro ti lascio, anima mia. / Per gelosia di vecchio, per paura / di perderti – o perché / avrò smesso di vivere, soltanto. / Però sto fermo, intanto, / come sta fermo un ramo / su cui sta fermo un passero, m’incanto… // Non questa volta, non ancora. / Quando ci scivoliamo dalle braccia / è solo per cercare un altro abbraccio, / quello del sonno, della calma – e c’è / come fosse per sempre / da pensare al riposo della spalla, / da aver riguardo per i tuoi capelli. // Meglio che tu non sappia / con che preghiere m’addormento, quali / parole borbottando / nel quarto muto della gola / per non farmi squartare un’altra volta / dall’avido sonno indovino. // Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura. / Ma io non sono il mio cuore, non ascolto / né do la sorte, so bene che mancarti, / non perderti, era l’ultima sventura. // Ti muovi nel sonno. Non girarti, / non vedermi vicino e senza luce! / Occhio per occhio, parola per parola, / sto ripassando la parte della vita. // Penso se avrò il coraggio / di tacere, sorridere, guardarti / che mi guardi morire. // Solo questo domando: esserti sempre, / per quanto tu mi sei cara, leggero. // Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce // 1982-1983”.
Il ragazzo ritratto da Saba torna nel secondo dopoguerra in diverse sue pagine - telemachie in forma di epigramma, scorciatoie, poesie carezzevoli e terribili – e viene di solito identificato con il figlio del libraio antiquario milanese presso cui il poeta abitò tra il ’45 e il ’48, quel Federico Almansi che pochi anni più tardi sarebbe sprofondato nella schizofrenia. “Vecchio e giovane” fu inserita nel fascicolo di liriche intitolato “Epigrafe” (1947-1948) e destinato a una pubblicazione postuma. È composta da tre strofe di otto, tredici e sei versi, in sostanza endecasillabi camuffati dalle saldature e dalle pause di un racconto che ora si avvolge a spirale e ora si rapprende in laconiche ellissi. Fin dall’incipit, l’ambiguità del contesto è come ignorata (e sottolineata) da un’affermazione perentoria: “Un vecchio amava un ragazzo”. Il poeta finge parodicamente la fiaba, recita una saggezza lineare e una limpidezza che invece nelle prime strofe è negata dai connettivi del discorso, dal ritratto del “giovinetto” e dal dialogo con il suo amico. I “castighi a occulti pensieri” e gli occhi “aperti sopra un abisso”, alternati alla esibita calma gnomica del narratore che tiene ai due capi il filo dell’esistenza, fanno davvero pensare a un turbamento psichico, a un esorcismo condotto sul bordo della follia. “Celeste” qui non è l’azzurra pupilla sabiana che tutto può contemplare e ospitare, ma un cielo che schiaccia e un vuoto che inghiotte. Il vecchio filtra una storia, l’adolescente ingordo l’assume come un farmaco e poi vuole addormentarsi in fretta. Così da un lato del letto inizia il “sonno inquieto”, dall’altro un’insonnia senza speranza. Dopo avere evocato le due prospettive che più frequentemente si fronteggiano nella sua opera, il punto di vista filiale e il punto di vista materno, il poeta prova a lenire il dolore di quella mancata empatia immedesimandosi nel compagno: se non sa restituire l’affetto è perché lotta con la propria angoscia di creatura incompiuta, ancora senza centro, e dunque fatalmente sorda ai bisogni di coloro che la accudiscono. Inutile accusarlo: è fisiologico che i ritmi non possano accordarsi. Non resta che smettere di pensarci, o ‘passare oltre’.
In questa poesia le sigle di stile alto lasciate cadere qua e là non dipendono più dal tono impettito, dalle sonorità goffe o rotonde di banda paesana che caratterizzano molte composizioni giovanili - anzi somigliano quasi a una sprezzatura, al gioco agrodolce di chi si concede il lirismo appunto perché i suoi rischi e le sue promesse non fanno più presa. I panneggi levigati e sontuosi, appena suggeriti a qualche svolta, non contraddicono la natura diafana e fantasmatica del testo. Ogni fanfara, bozzettistica o classicista, resta ormai alle spalle. Il risultato è una maestà calma e dolente, una trasparenza in cui non si dà scarto tra detto e cantato o tra sussurro e musica, fusi in un fraseggio di tenerezza straziata ma asciutta e lucidamente arida (la stessa tenerezza alla quale, giungendovi dall’opposta sponda di una depressione sia vitale sia stilistica, Sbarbaro era approdato intorno al ’30 nei “Versi a Dina”).
Anche il Raboni maturo si muove con un passo felpato di questo genere. È un passo che acquista nelle fasi di transizione della sua parabola poetica: prima, appunto, negli anni Ottanta delle “Canzonette”, luogo di sutura tra lo stile manzonian-brechtiano della penitente giovinezza lombarda e il manierismo delle forme chiuse; poi, alla fine, in “Barlumi di storia”, dove dalle forme chiuse ritorna a uscire ‘verso la prosa’ (ma affiora già nel metricista “Quare tristis”, non appena taglia a metà il sonetto come in “Svegliami, ti prego, succede ancora…”). Anche nelle sue strofe “mortali” la diversa biologia dei corpi stesi nell’alcova è il punto di partenza scelto per evocare i topoi di amore e morte, presenza e assenza, realtà e irrealtà; anche qui il rapporto è vissuto come un’iniziazione sempre esposta al fallimento, destinata a essere giocoforza interrotta; e anche qui l’ansia si attenua solo attraverso una resa simile a un cupio dissolvi. Se Luigi Baldacci giudicava “Vecchio e giovane” la poesia più “marmorea e straziata” del Novecento, a proposito di “Canzonette mortali”, dopo avere opportunamente citato i classici e in particolare Catullo, Paolo Maccari ha ripreso un’espressione utilizzata altrove da Raboni, e pure vicina all’ossimoro, parlando di un testo “obiettivamente straziante”.
“Canzonette” è costruita a imbuto, per strofe di lunghezza decrescente - da dieci versi a uno - secondo una formula mutuata a quanto pare dalla sinfonia 45 di Haydn nota come “Sinfonia degli addii”. La prima strofa s’impernia su un motivo tipicamente raboniano: in quelle “spoglie del futuro” il tempo assume l’aspetto di una pellicola già proiettata, da riavvolgere e far scorrere avanti e indietro con agio funerario (si veda, in “Barlumi di storia”, il riepilogo di “Si farà una gran fatica, qualcuno…”). Tutto è già compiuto e ci sta davanti in una spossata, paradossale eternità barocca. I versi descrivono un moto lento di onde che si allungano e si contraggono, qua limpide e là torbide o schiumose. Le abbreviazioni coincidono spesso con smorzature gravi come pesi sul cuore, in cui la voce sembra strozzata o soffocata. A poco a poco il discorso si assesta intorno alla misura di un endecasillabo che fa da chiusa provvisoria, icastica, per poi riaprirsi subito su un’incertezza allarmata; e dopo trasalimenti, nenie, attese a respiro trattenuto e constatazioni lapidarie, la serie non si chiude con un sigillo ma con una sospensione, un ‘piano’ da stretta che si allenta. ‘Vista’ così alla moviola, la consunzione può ancora confondersi con la stasi, con un indefinito protrarsi di quell’equilibrio squilibrato: nessuno sa quanto durerà il misto di angoscia e incanto.
La lentezza cerimoniale, l’iniziazione religiosa all’eros e alla morte del Raboni d’inizio anni Ottanta si gioca qui tra l’‘amen’ di chi sente di poter accettare qualunque cosa perché ha incontrato il proprio destino (“mancarti, / non perderti, era l’ultima sventura”) e l’allarme che ispira ineluttabilmente il possesso, la consapevolezza della futura perdita (“Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura”). Se in altre liriche coeve il poeta sgrana le immagini di un teatrino pornografico con leggerezza tenera e devota, qui scioglie il “godere” nel tema della consegna a una sorte di dissoluzione fisica; ma l’accettazione di questa sorte è poi incrinata da commoventi, atroci soprassalti vitalistici - dalla fame di futuro di chi, ormai sulla soglia dell’aldilà, tenta di riafferrare un impossibile accordo della giovinezza e può farlo solo “ripassando la parte” tra una pausa e l’altra, perché il suo stato normale di uomo quasi vecchio è un torpore che se assecondato lo porterebbe lontanissimo dal ritmo a cui batte il cuore della compagna.
“Fare l’amore e morire sono una cosa sola”, diceva Truffaut del cinema “decisamente più sessuale che sensuale” di Alfred Hitchcock, così proustianamente amato da Raboni: e lo si potrebbe ripetere davanti a entrambe le poesie. Ma in chiusura vorrei ricordare un altro regista, che ha girato un film dove la quotidianità condivisa dell’amore appare altrettanto fatale e precaria. È il Chaplin di “Luci della ribalta”. Alla sua uscita, nel 1952, se ne occupò tempestivamente proprio Garboli, che al tema era con tutta evidenza sensibilissimo se trent’anni dopo decise di scrivere anche delle “Canzonette”, opera di un autore per il resto molto distante da lui. In un pezzo pubblicato di recente nella “Gioia della partita”, il ventenne studioso di Dante si concede un’incursione nel campo del grande schermo dialogando con il commento che al film ha dedicato Carlo Muscetta, rappresentante di quel marxismo postbellico verso cui Garboli mantiene sempre un affetto aprioristico pur mentre batte per suo conto tutt’altre strade. Nel descrivere la storia di Calvero e Terry, il giovane critico parla dello “stato di provvisorietà in cui viene a trovarsi un amore per altro verso tanto permanente, tanto terribilmente serio e affondato nelle radici della vita che tollera di paragonarsi solo all’aria stessa in cui unicamente è dato di vivere”. “Come torni in dramma, in amore, in strazio sopportato tanta voglia di vita, che non ha sfogo e non può averlo, una volta ricalati i personaggi dalla favola in realtà e nella storia che loro è data, mediocre fuori, grande e ricca e varia dentro, diversa e uguale a tutte, come tante: questo è ‘Limelight’”, afferma nella pagina centrale del suo pezzo. “Ed è questo, precisamente, il solo modo in cui l’umano incontro di due vite diverse, Calvero e Terry, può divenire, farsi storia e una sola storia; pur non avendo, di una storia d’amore, che l’ansia d’essere tale e il saper d’esserlo e il non esserlo invece, di fatto: così che continuamente si mescola alla favola la realtà e si affaccia nella felicità la disperazione, indissolubile l’una dall’altra; perché ciò che è accaduto in mezzo a quelle due vite scova il modo d’essere una medesima cosa fra loro proprio e appunto perché comune a due vite, a due storie diverse. La vitalità, l’istinto divengono l’amore che salda persona a persona ma l’amore onde si vincolano le vite di Calvero e di Terry suscita davvero un patema indicibile, proprio una sorta di chiuso finimondo se per forza di cose tanto più brucia ogni limite quanto più gli fanno tormentosa prigione i naturalistici limiti della giovinezza e della vecchiaia, i quali infine sbiadiscono e si dissolvono come tali ma riaffiorano nuovamente come i confini stessi del tempo, della realtà in cui ciascuno dei due personaggi si cala, della storicità insomma propria di Calvero, di Terry”.
Verso la fine di questo formidabile saggio, stilisticamente ancora ingorgato, troppo abbondante e tortuoso, ma già molto garboliano nell’andatura avvolgente e nel sapore, il critico si sofferma sul punto di vista della ballerina – cioè del ‘corpo giovane’ che Saba e Raboni guardano dall’esterno – in un passo che vale la pena riportare quasi per intero: “Tanto grande è la dimensione del suo amore che sembra davvero possa tutto, anche restituire la virilità a un vecchio e il talento a chi l’ha esaurito (…): ed è un’illusione, poiché più grande diviene l’amore in Terry più acuto si fa in Calvero e in Terry lo strazio che la vita non lo conceda. Così s’alternano la felicità e la disperazione in una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata; e chi rifletta al gusto romantico delle passioni sempre un po’ esagitate può comprendere perché in ‘Limelight’ l’amore si raffiguri in modo da non sembrare neppure più tale, un’altra cosa, tanto è vicino all’elemento inqualificabile che spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro. Come si muova in grazia, in angoscia, in modi consueti alle storie d’amore, solitudini e improvvise felicità, come s’ammanti il desiderio l’uno dell’altra dell’esser clown Calvero, dell’esser ballerina Terry (ché ognuno simbolizza ingenuamente per suo conto), è la levità della favola, in cui la storia pare che sia sempre lì lì per sfumare; e in fondo a quella visiva trasparenza s’asciuga invece uno spasimo atroce; si dispera e invecchia e intristisce la vita di Calvero e si abbarbica l’amore di lui e di Terry tenace, con la protervia della dolcezza e per il fascino che proviene dalla vita di chi si ama, di chi si è; e si dibatte in voglia impotente, scoppia in patetiche ostinazioni, spoglio del superfluo, in un miscuglio nuovo di sofferenza e di gioia e di solitudine e di dedizione assoluta e dentro cui si vive senza aver fede in altro, perché questo solo c’è e resta, l’amore e la vita che fanno una cosa sola: quel fluido impenetrabile che sembra abbia consistenza mentre passa negli occhi di Calvero e di Terry il giorno che si ritrovano, per caso, a un caffè. Tutto si ferma intorno, si fanno grandi i loro visi accostandosi e in quell’intimità si atteggia una consapevolezza estrema, come si concentrasse in quel momento l’arco in cui la vita si compie tutta; essendo interna alla sua bellezza la sua irrimediabilità (…) C’è in ‘Limelight’ una sorta di naturalismo estremo e quell’umanesimo integrale di cui parla Muscetta e sopra tutto un ateismo quasi sfacciato e una disperazione lucida, che annulla e dà, ricrea, e tutto questo espresso in realtà dura, in pura favola, senza esterni soccorsi di consolazione. Si pensa al viso staccato e solitario di Calvero prima e dopo l’ultima pantomima; vi traspare la commozione come la luce in una pietra limpida, fredda; dice che la vita è immensa, varia, magnifica, perché limitata, terribile, breve, chiusa e angustiata da limiti netti, senza nient’altro all’infuori di sé”.
“Una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata”: eppure non una voglia romanticamente esagitata e teatralmente esagerata, ma naturale come ciò che “spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro”; non un ostacolo rougemontianamente ‘fittizio’, ma invalicabile, oggettivo. E ancora: in uno stile prosciugato, trasparente, il resoconto di una felicità, di una fiaba che ha come rovescio la reale assenza di consolazione, la “disperazione lucida” che dà e toglie con un gesto solo la consistenza a quell’amore. Così, anche in Saba e in Raboni, concretezza e impossibilità sono come due lati di un unico foglio, due espansioni della stessa radice: la contraddizione senza vie d’uscita di un rapporto che nasce alla tangenza di due linee vitali destinate a divaricarsi davanti alla morte. Esiste nel Novecento italiano un’altra grande poesia d’amore, che allo squilibrio di una relazione vissuta, non ‘romantica’, dà la forma più biologicamente estrema, pur sospendendola nel limbo della parodia stilnovista: è l’“Ultima preghiera” di Giorgio Caproni – ma non sono ‘preghiere’ anche “Vecchio e giovane” e le “Canzonette”? – dove i punti di vista tipici della lirica sabiana acquistano un significato letterale: la fidanzata coincide con la madre rimasta giovane accanto a un figlio vecchio.
Squilibrio dei destini, si è detto; ma nella nostra ipotetica antologia dovrebbe trovare un posto d’onore anche la più bella lirica dedicata a un genere differente di squilibrio, quello delle forze. Il potere ‘politico’, la dialettica del servo e del padrone, l’oggettivazione sadica dell’altro penetrano infatti fin dentro le stanze più private: e Noventa, nei versi “A un’ebrea” scritti mentre si annunciava all’orizzonte la Shoah, esprime tutto lo strazio di chi sa di non poter redimere la propria sopraffazione, né attingere una giusta parità, ma solo distogliere vergognosamente lo sguardo: “Gh'è nei to grandi - Oci de ebrea / Come una luse - Che me consuma; / No' ti-ssì bèla - Ma nei to oci / Mi me vergogno - De aver vardà. // Par ogni vizio - Mio ti-me doni / Tuta la grazia - Del to bon cuor, / A le me vogie - Tì ti-rispondi, / Come le vogie - Mie fusse amor. // Sistu 'na serva - No' altro o pur / Xé de una santa - 'Sta devozion? / Mi me credevo - Un òmo libero / E sento nascer - In mi el paron”…
Amare senza scoprirsi né padroni né servi: forse a volte sembra possibile solo là dove incombono ‘gli addii’, là dove tutto è vissuto al colmo di una intimità traboccante, trepida, sconvolta, e al tempo stesso tutto è guardato come già morto. L’amore nella sua pienezza non si dà, pare, senza lo sfondo di due solitudini, senza la minaccia, senza rivelarsi “sempre sul punto di essere ucciso”. La differenza è tra una poesia che rimuove questa realtà nei suoi castelli simbolico-allegorici, e una poesia che con la naturalezza perentoria degli ‘artisti da vecchi’ affronta la consumazione dell’amore sotto un cielo d’ansia."
Matteo Marchesini
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claudiotrezzani · 8 months
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Quanta coscienza hanno le piante? E quanta ne rimane in loro propaggini distaccatesi al suolo?
Certo, il quesito è parametaforico, ruotando attorno alla qualità vegetale della vita.
E i coltelli, e le spatole, ne hanno, di coscienza?
Qui dal parametaforico s'approda al metaforico, la cosa è funzionale a quanto m'accingo esplicitare.
Perché questo articolo verte sui colori involontari.
Sì, i Colori Involontari.
Sanno foglie e coltelli di cosa son vestiti?
San di servire le ragioni dell'Arte, loro?
Di certo lo sanno Bill Karrow e Dan Katz.
Bill mirabilmente giostra con il tono freddo delle cromie.
Ed è scultore, per come il suo sguardo accarezza il seducente sviluppo di nervature, margini, stomi, lamine.
Ed è poeta, per come la sua emozione si volge al crepuscolare stato degli elementi, prima della loro dissoluzione.
Dan muta i coltelli in pesci, se vogliamo indulgere alla pareidolia.
Tropicali pesci, con quei lussureggianti toni.
Soprattutto, il canto di Dan è elevato, per come sublimemente coglie pulsante vita ove altri vedrebbero solo abbandono.
Grazie Bill, grazie Dan.
Siete stati sommozzatori, recando tesori quando siete emersi in superficie.
Già, emersi.
Perché così è la Fotografia, quando è Alta:
far emergere lirici accenti che i più altrimenti ignorerebbero.
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Claudio Trezzani
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elmas-66 · 10 months
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Il poeta Fabio Petrilli presenta il libro Profumo di liquirizia di Pietro Edoardo Mallegni, di Elisa Mascia
Poeti e poesie Foto cortesia di Pietro Edoardo Mallegni Prefazione Profumo di Liquirizia “Profumo di liquirizia” di Pietro Edoardo Mallegni è un libro dall’atmosfera crepuscolare è quasi sempre una descrizione di quotidianità ed esperienza individuale venata di malinconia. I versi sono liberi , il tono lirico e le descrizioni fortemente sensoriali. Pietro cerca solamente tranquilli angoli…
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micro961 · 2 years
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Sergio Borsato - “Liberi e Forti”
La title track del nuovo album
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La narrazione di una commedia umana, troppo spesso sottovalutata nel suo vero desiderio di pace e prosperità. Sull’orizzonte crepuscolare del dramma collettivo che il mondo sta vivendo, si chiude il capitolo di un percorso che ha coinvolto Borsato negli ultimi due anni, conoscendo narratori e sognatori, che hanno raccontato le loro difficoltà, le loro paure e il loro sgomento. Sono operai, contadini, intellettuali, studenti, donne, e uomini, consapevoli dei troppi errori che la nostra specie continua compulsivamente a fare, che si stanno riunendo sotto l’egida di una sola e insostituibile parola: Pace.
 “Per me è importante scrivere quello che nel mio percorso ho vissuto e visto, con la speranza che, magari, qualcuno si prenda la briga di leggere e ascoltare non una, ma ben due, tre volte. E spero anche di affidare queste mie parole, questi pensieri in fila, disordinatamente costanti, a chi ha sogni che bruciano da svegli” Sergio Borsato
 Sergio Borsato nasce in Svizzera nel 1962. Figlio di immigrati veneti, trascorre la sua infanzia in parte con i nonni paterni, a Cartigliano - un ridente paesino della campagna veneta alle porte di Bassano del Grappa situato sulle sponde del fiume Brenta - e in una piccola cittadina svizzera vicino a Zurigo.
A 6 anni inizia a suonare l'armonica a bocca e a 10 il padre gli regala la prima chitarra, una sei corde spesso a cinque... Pink Floyd, Eagles, America, Crosby e gli italiani De Andrè, Bubola, De Gregori, Guccini, Bertoli, Vasco lo accompagnano. Inizia a scrivere la prime canzoni nel 1978, all'età di 16 anni. A 18 anni inizia a frequentare circoli filologici locali e, a Bassano del Grappa, conosce e frequenta il poeta scomparso Gino Pistorello con il quale inizia un interscambio di idee linguistiche e culturali. Prende coscienza che il Veneto è una lingua di trasferimento e di appartenenza e inizia a scrivere le prime canzoni in coiné Veneta. Collabora con vari gruppi musicali locali e nel 1986-87 si avvicina a gruppi che perseguono finalità autonomiste ed indipendentiste ed è in questo ambiente che nascono le prime idee musicali. Borsato riesce comunque a destare l'attenzione degli addetti ai lavori. Nel 1999 inizia il suo primo tour musicale che lo porta in 15 città, pubblicando in seguito l'album "live tour 1999". Nel 2001 con la nuova casa di produzione musicale indipendente Daigo Music Italia srl dà vita al primo grande progetto discografico "La strada bianca". La scelta dei musicisti ricade su nomi di maggior prestigio nazionale ed internazionale quali Andrea Braido alle chitarre (Vasco Rossi, Eros Ramazzotti, Mina, Celentano, etc), Massimo Varini, alle chitarre (Nek, Laura Pausini, etc), Davide Ragazzoni alla batteria (Branduardi), Stefano Olivato al basso (Patty Pravo), oltre ad una serie di musicisti molto bravi tra i quali Marco Fanton (chitarre) e Alessandro Chiarelli (violino). Nel 2003 Sony Music Italia, ascoltato l'album, avvicina l'artista e decide di distribuirlo in tutta Italia e all'estero con un contratto in esclusiva: Germania, Svizzera, Francia, Stati Uniti, etc. L'album, che desta molto interesse anche da parte della stampa internazionale, viene recensito tra l'altro su America Oggi, il piú importante quotidiano americano dedicato agli italiani all'estero, oltre che su varie testate nazionali. Rai 2, nel settembre 2004, lo vuole come ospite al Follia Rotolante Tour, nella tappa di Lido degli Estensi. Il primo singolo dell'album "La strada bianca" viene programmato da numerose emittenti radiofoniche italiane. Nel 2008 è fra gli autori “Freedom” programma di Rai 2 interamente dedicato alla musica, in onda in seconda serata (a mezzanotte e quaranta). Nel 2022, dopo circa 15 anni di pausa, Borsato ritorna con un nuovo singolo, “La bambina di Kiev”, mentre il 2023 è iniziato con la pubblicazione di “BIRKENAU - Unter dem blau” e di “liberi e forti” title track del nuovo album la cui pubblicazione è prevista il 17 marzo.
  Etichetta: Multiforce
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Website: www.sergioborsato.com
 l’altoparlante - comunicazione musicale
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manualedistruzione · 5 years
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Meriggiare pallido e assorto / Spesso il mal di vivere ho incontrato
Eugenio Montale
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Lo sai che ispiri sesso violento??
Buongiorno ispirato anonimo.
Ed io che, sapendomi timido tenentino sabaudo, crepuscolare poeta, pindarico matematico, pensavo di ispirare soprattutto lunghe chiacchierate sui profondi ed appassionanti minimi dettagli dell'esistere...ed invece...
Non sono certo però di sapere cosa sia, o cosa tu intenda, per sesso violento: muscolarità e travolgente passione nell'amplesso, o schiaffoni, calci negli stinchi ed oggetti contundenti contro i denti? Perché, ti confesso, non provo ugual gradimento per i due contesti...
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abatelunare · 3 years
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Un autore da riscoprire: Marino Moretti
La scuola, l’ho sostenuto in più occasioni, passa sotto silenzio parecchie cose non si capisce bene in base a quali criteri. Di alcuni autori evidenzia quel che vuole lei, tralasciando tutto il resto. Vi faccio uno dei tanti esempi. Al liceo, conoscevo Marino Moretti come poeta crepuscolare. Aveva scritto un libretto di versi intitolato Poesie scritte col lapis. E io quello mi ricordavo. Ignoravo fosse anche un prosatore più che prolifico: la sua produzione prevedeva infatti saggi, racconti e romanzi. Durante l’università ho cominciato a trovare le sue opere. E mi sono appassionato a questo scrittore le cui storie possiedono l’ironia e la tristezza che ritroviamo anche nei poeti crepuscolari. Moretti vi aggiunge però un pizzico di crudeltà. I suoi personaggi subiscono come una sorta di rivelazione. Scoprono d’improvviso la menzogna nella quale sono vissuti fino a quel momento, rimanendone sconvolti. La loro vita non sarà più la stessa. Io debbo confessarlo. Da un lato, il retrogusto amarognolo della sua narrativa mi lascia un po’ così. Dall’altro non mi dispiace affatto.
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barbaraincucina · 5 years
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PIADINA: COMFORT FOOD ALL’ITALIANA
By Gianfranco Allari, Maestro d'Arte e di Cucina
https://www.gianfrancoallari.com/
La storia della Piadina Romagnola o Piada Romagnola ha origini antichissime e racconta la tradizione della gente della Romagna. Si tratta di un cibo semplice che, nel corso dei secoli, ha identificato e unificato la terra di Romagna sotto un unico emblema passando da simbolo della vita rustica e campagnola a prodotto di largo consumo. Il termine piada è stato ufficializzato per merito di Giovanni Pascoli il quale italianizzò la parola romagnola ‘piè’ in questo termine. In un suo famoso poemetto il poeta tesse un elogio della piadina, alimento antico quasi quanto l’uomo, e la definisce il pane nazionale dei Romagnoli creando un binomio indissolubile tra Piadina e Romagna. Le sue origini, però, partono da molto più lontano. Già al tempo degli Etruschi, nelle zone dell’odierna Romagna, sono state rinvenute tracce dell’utilizzo di un sostituto del pane fatto con farina grezza, cerali e di forma circolare. Le prime tracce letterarie sono state rinvenute dallo stesso Pascoli all’interno dell’Eneide di Virgilio all’interno del VII canto quando il poeta romano utilizza, per la prima volta, il costrutto exiguam orbem. Durante l’epoca romana si hanno numerose testimonianze dell’uso di sostitutivi del pane, realizzati con cerali grezzi e accompagnati, come ai giorni nostri, con dei formaggi. La tradizione della Piadina è proseguita lungo i secoli, ritrovando un suo sviluppo nel Medioevo, quando gli abitanti della Romagna cominciarono a utilizzarla con i cereali poveri per non incorrere nella tassazione che subiva il grano – e quindi il pane – da parte dei proprietari terrieri. Nel 1913 Maria Pascoli preparava la piadina al fratello poeta mentre, sul periodico Il Plaustro, Antonio Sassi poteva definire le tradizionali e gustose schiacciate dei Romagnoli. Anche il poeta crepuscolare Moretti ne diede la propria versione poetica: “La piada era la piada: era pane. / Stacciava ella ritmicamente sul tagliere candido” all’interno di una delle sue numerose poesie dedicate alla Romagna. Nel secondo dopoguerra, la Piadina Romagnola si diffonderà sia nelle campagne che nelle città, e non sarà più considerata un surrogato del pane ma una golosa alternativa. A partire dagli anni Settanta alle piadine casalinghe si accompagneranno quelle di produzione artigianale, create dai chioschi che iniziano ad aprire sul lungomare e nei primi laboratori.
Per celebrare questo delizioso comfort food all’italiana ho deciso di suggerirvi le mie ricette per la realizzazione di quattro differenti impasti da farcire a piacere o seguendo i miei suggerimenti!
(Ingredienti per circa 4 piadine)
PIADINA CLASSICA ROMAGNOLA
500 g di farina 0 125 g di latte 125 g di acqua 60 g di strutto 10 g di sale 10 g di lievito chimico
Con la farina formare una fontana sul tagliere, mettere al centro lo strutto, il sale, l’acqua con il lievito sciolto e il latte. Impastare per almeno una decina di minuti fino ad ottenere un impasto consistente e liscio, coprire e fare riposare per almeno 30 minuti. Riprendere l’impasto e dividerlo in quattro o cinque pezzi, formare delle bocce e farle riposare ancora per una decina di minuti. Stenderle l’impasto con il mattarello ad uno spessore di circa 3 mm, infine cuocere le piadine sull’apposito testo di pietra o in un tegame antiaderente caldo fino a cottura desiderata rigirandole.
PIADINA CLASSICA CON SQUACQUERONE, POMODORINI SALTATI E RUCOLA
4 piadine classiche già precotte 200 g di squacquerone 30 pomodorini datterini 100 g di rucola 2 cucchiai di olive Olio extra vergine d’oliva Sale e pepe 2 cucchiai di pesto alla genovese
Lavare i pomodorini poi dividerli in due o quattro spicchi, rosolarli velocemente in padella con olio, sale e pepe, al termine unire le olive e farli raffreddare. Spalmare le piadine con lo squacquerone, condire con un poco di pesto poi unire la rucola spezzetta e completare con i pomodorini, piegare in due e riscaldare per un minuto per lato.
PIADINA CLASSICA CON ZUCCA E GORGONZOLA
4 piadine classiche già precotte 300 g di zucca tagliata a fette 200 g di gorgonzola 100 g di valeriana 1 cucchiaio di noci tritate 1 rametto di salvia e rosmarino Olio extra vergine d’oliva Sale e pepe
Sistemare la zucca su di una teglia con carta forno, pennellarla con olio, insaporirla consale e pepe e profumarla con salvia e rosmarino, cuocerla in forno a 180° per 20 minuti circa. Spalmare le piadine con il gorgonzola, cospargere con un trito di noci, poi farcire con la zucca e la valeriana, piegare in due e riscaldare un minuto per lato.
IL CONSIGLIO DEL MAESTRO Se avete problemi di intolleranza al lattosio potete sostituire il latte con pari quantità di acqua. È importante rispettare i tempi di riposo in modo che l’impasto si riesca a stendere con facilità. Se avete l’esigenza di prepararne diverse, potete cuocerle non completamente e al momento di servirle farcirle e terminare la cottura.
PIADINA ALL’OLIO D’OLIVA
500 g di farina tipo 2 230 g di acqua 50 g di olio extra vergine d’oliva 10 g di sale 1 pizzico di bicarbonato
Con la farina formare una fontana sul tagliere, mettere al centro il resto degli ingredienti ed impastare per almeno una decina di minuti fino ad ottenere un impasto consistente e liscio, coprire e fare riposare per almeno 30 minuti. Riprendere l’impasto e dividerlo in 4 parti e formare delle palline, disporle sul tagliere e farle riposare ancora per una decina di minuti coperte con un canovaccio. Riprendere l’impasto e stenderlo con il mattarello ad uno spessore di circa 3 mm. Cuocere le piadine sull’apposito testo di pietra o in un tegame antiaderente ben caldo fino a cottura desiderata rigirandola.
PIADINA ALL’OLIO CON SCAROLA, OLIVE E MOZZARELLA
4 piadine all’olio d’oliva già precotte 1 basco di scarola 2 cucchiai di olive 1 cucchiaio di capperi 2 mozzarelle fiordilatte 4 falde di pomodori secchi Sale
Tagliare le mozzarelle a fette e farle asciugare su carta da cucina. Tagliare la scarola grossolanamente dopo averla ben lavata, in una padella insaporire pochissimo olio con uno spicchio di aglio, eliminarlo, quindi unire la scarola e brasarla a fiamma vivace mescolando con un cucchiaio, dopo qualche minuto aggiungere le olive, i capperi e infine i pomodori tagliati a filetti, mescolare il tutto e correggere se serve di sale. Sistemare la mozzarella sulle piadine, farcirle con la scarola, ben scolata dal liquido di cottura, piegare in due e cuocere ancora un minuto per lato in modo che il formaggio inizi a fondersi.
IL CONSIGLIO DEL MAESTRO Piadina vegana o per chi vuole un prodotto più leggero, il ripieno ricorda la torta di scarola della cucina campana, se non amate troppo la sua nota amara potete sbollentarla in acqua salata per un paio di minuti, poi passarla in acqua e ghiaccio e una volta ben scolata procedere come da ricetta. Una buona alternativa sono gli spinaci o un misto di erbe di campo.
PIADINA INTEGRALE
500 g di farina integrale 250 g di acqua 60 g di strutto 8 g di sale 8 g di lievito chimico
Con la farina formare una fontana sul tagliere, mettere al centro lo strutto, il sale, l’acqua e il lievito, impastare il tutto per almeno una decina di minuti fino ad ottenere un impasto consistente e liscio, coprire e fare riposare per almeno 30 minuti. Riprendere l’impasto e dividerlo in quattro parti, formare delle palline, disporle sul tagliere coperte con un canovaccio e farle riposare ancora per almeno una decina di minuti. Riprendere l’impasto e stenderlo con il mattarello ad uno spessore di circa 3 mm, cuocere le piadine sull’apposito testo di pietra o in un tegame antiaderente ben caldo fino a cottura desiderata rigirandole con una pinza.
PIADINA INTEGRALE CON SALAME E PEPERONI AL BALSAMICO
4 piadine integrali precotte 16 fette di salame ungherese 2 peperoni rosso 1 cipolla piccola rossa Grana a lamelle Aceto balsamico di Modena Olio extra vergine d’oliva Sale e pepe
Lavare i peperoni, dividerli in due, eliminare tutti i semi e i filamenti bianchi poi tagliarli a listarelle. Rosolare in padella con un filo di olio la cipolla tagliata a julienne, dopo qualche minuto unire i peperoni, e continuare la cottura a fiamma vivace e mescolando con un cucchiaio, se le verdure tendono ad asciugarsi troppo unire un poco di acqua. A cottura quasi ultimata insaporire con sale e pepe, sfumare con l’aceto balsamico e una volta evaporato togliere dal fuoco. Farcire le piadine con i peperoni ben scolati, il salame e il grana a lamelle, piegare in due e completare la cottura.
IL CONSIGLIO DEL MAESTRO La farina integrale dono un gusto rustico e antico che ho voluto abbinare ad un ripieno importante come i peperoni al balsamico e al salame ungherese. Mi raccomando di lasciare riposare bene l’impasto tra una lavorazione e l’altra. Se volete piadine più piccole dividete l’impasto in 6 parti anziché 4 come indicato nella ricetta.
PIADINA SFOGLIATA
500 g di impasto di piadina classica 100 g circa di ottimo strutto Farina Dividere l’impasto in 4 parti, formare una pallina e stenderla con il mattarello, sul tagliere infarinato, il più sottile possibile, spalmarla con lo strutto, poi arrotolarla formando un cilindro lungo e stretto. Arrotolare ancora su se stesso il cilindro formando una chiocciola, coprire con un canovaccio e fare riposare per un’ora, procedere allo stesso modo con il resto dell’impasto. Infarinare il tagliere e stendere le piadine sfogliate ad uno spessore di pochi mm e cuocerle un paio di minuti per lato.
PIADINA SFOGLIATA CON SPECK, RADICCHIO ALLA GRIGLIA E STRACCHINO
4 piadine sfogliate già precotte 2 baschi di radicchio rosso 12 fette di speck 150 g di stracchino Olio extra vergine d’oliva Sale e pepe
Dividere il radicchio, dopo averlo lavato e asciugato, in spicchi, ungerli con olio e passarli sulla griglia ben calda, infine insaporirli con sale e pepe. Spalmare le piadine con lo stracchino poi farcirle con il radicchio e lo speck, piegarle in due e cuocerle ancora un minuto per lato, poi servire.
IL CONSIGLIO DEL MAESTRO Vi consiglio assolutamente di provarla, è un pochino più laboriosa, ma il lavoro viene ripagato da una consistenza che si scioglie in bocca, se volte potete aggiungere delle erbe aromatiche come rosmarino e timo allo strutto per una nota aromatica ancora più interessante.
Fonte: https://www.gianfrancoallari.com/category/racconti-di-cucina/
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pangeanews · 5 years
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“Io rispondo: Cucù!”. Marino Moretti 40. In tre per ricordare il poeta che nessuno ricorda: il poeta, la fata, il saltimbanco
“Erano gli occhi di un uomo tormentato e terribilmente intelligente”: il mio incontro con Marino Moretti
È stato per qualche anno il mio vicino di casa a Cesenatico sul porto canale. Quasi porta con porta. Alcune volte, specialmente in primavera, vedevo che la sorella o la donna di servizio lo accompagnavano per una breve passeggiata. Un attimo e spariva dopo avere guardato le barche e, forse, pensato a suo padre. Ogni tanto arrivava da Milano, credo dalla Mondadori, una grossa automobile con autista che lo prelevava portandolo ad incontrare scrittori e poeti che arrivavano da ogni parte del mondo. Credo che fosse una specie di ambasciatore della casa editrice. Era senza dubbio un autore importante, molto più importante di quanto si credesse nel mio insopportabile paese di nascita. Negli ultimi anni, quasi alla stessa ora, verso le 14, entrava in casa Moretti il medico di famiglia, il dott. Lelli Mami, che è stato anche il mio medico e questo, credo, è stato per anni l’unico punto in comune tra il grande Marino e l’imbecille superficiale che ero. All’improvviso è cambiato qualcosa. Con Ferruccio Benzoni e qualche altra figura marginale che non voglio nominare, ho fondato la rivista Sul Porto. Risparmio la sua storia, non ne posso più di raccontarla. Sul Porto mi ha cambiato la vita, ma adesso basta. Comunque, a Marino era giunta la voce della rivista e ci ha voluto incontrare. Un pomeriggio ci ha ricevuto a casa e ho potuto guardarlo per la prima volta negli occhi rimanendone profondamente impressionato. Erano gli occhi di un uomo tormentato e estremamente intelligente. Ti guardava e sembrava farti i raggi X, forse ti leggeva dentro e credo che, alla fine dell’incontro, sapesse di me più cose di quante ne conoscessi io a quel tempo. Io non sapevo niente. Non lo avevo nemmeno letto. Ripeto: imbecille, superficiale, e aggiungo: ignorante.
Dell’incontro ricordo con divertimento la risposta che diede alla mia domanda da guascone: “Lei Marino ha fatto la prima Guerra Mondiale?”. E lui: “No, non mi hanno preso, ero troppo vecchio”. Nel 1915 era già vecchio. Cos’era allora quel giorno in cui ci ha offerto una bibita alla menta? Era un poeta di ormai novant’anni che scriveva Le Poverazze e Diario senza le date, due libri straordinari che ancora leggo scoprendo ogni volta cose nuove che mi lasciano come basito. Non è facile che accada, sempre più di rado. Ultimamente, in maggio, credo, ho recitato due sue poesie per la trasmissione radiofonica Fahrenheit su Radio Rai 3, durante una visita alla casa di Marino guidati dalla direttrice Manuela Ricci e ne vado orgoglioso. Mentre leggevo ero emozionato e in soggezione come un ragazzino. Bella cosa anche questa… Adesso sono 40 anni che è morto e sono 40 anni anche della mia vita senza sentire la presenza del mio vicino di casa e respirare in qualche modo l’aria che respirava. Sono convinto che siano le persone che ci abitano a fare le città e i paesi spargendo nell’aria e intorno la loro grande energia. Spariti Moretti e Benzoni, Cesenatico si è come spenta e raggomitolata in se stessa. Anch’io.
Stefano Simoncelli
*
Moretti vecchio è più giovane di tanti poeti giovanilisti di oggi. È sano tatuarsi sulla lingua questo distico: “Sono contento. Sono/ però sempre in agguato”.
Durò troppo – e fu memorabile. Due criteri altrimenti ad esigenza di genio – durezza, memorabilità – hanno spinto nel falò dell’oblio Marino Moretti. Chi lo legge più, oggi, Marino Moretti? Certo, la Casa Moretti di Cesenatico – terra avita di MM – fa quel che deve fare una istituzione culturale: un ciclo di incontri, una mostra di documenti, un po’ di teatro (vedete tutto qui). Gli accademici, insomma, fanno il loro gioco. Ma, brutalmente, un poeta muore quando non stampano più le poesie e devi andarlo a stanare in biblioteca, tra sguardi liquidi d’interogativi. E Moretti, troppo memorabile – “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena” resta uno dei versi più celebri del canone italico – ha scritto troppo, fu uno dei grandi autori Mondadori, ora è relegato in un ‘Meridiano’ pieno di tarli – In verso e in prosa, classe 1979, tombale, per la cura di Geno Pampaloni. Neppure lo straccetto di un ‘Oscar’, una pubblicazione qualunque, entri in libreria e oggi di Marino Moretti c’è il nulla, perché? Eppure, fino all’altro ieri, fino a sbattere il muso contro la lapide, di Moretti s’elogiava tutto, anche la narrativa, non vertiginosa – fatta salva La vedova Fioravanti, da cui Antonio Calenda estrasse uno sceneggiato per la tivù – “Moretti possiede il dono più ambito per un narratore, quello dell’inventiva. Solo Pirandello, in questi decenni, gli sta a pari per copia e originalità di spunti”, scriveva, con troppa enfasi, Francesco Casnati. Ora, per esercizio di gioia più che di giustizia, metto in fila ciò che mi sembra buono di MM.
*Le parole di Carlo Bo, che definiscono il carattere ‘alieno’ di MM: “il ribelle e anarchicheggiante Moretti… finiva per suggerire una linea alternativa alla poesia più famosa e celebrata dei grandi del Novecento”.
*Il fatto che Moretti chiude con la poesia un secolo fa. Nel 1919 raccoglie per Treves le sue Poesie. Torna alla poesia, con rinnovata furia, cinquant’anni dopo: nel 1969 con L’ultima estate, poi, soprattutto, con Le poverazze e Diario senza le date, tutti pubblicati da Mondadori. I libri più belli, in cui non c’è niente da perdere, il detto del sopravvissuto. “La sua invenzione poetica è tutta proiettata a battere con lo scalpello, a respingere la parte morta della vita, il convenzionale, l’insincero, l’inessenziale. Dice di no ai letterati e ai potenti, a chi gli offre la laurea e a chi lo invita alla firma di un manifesto… si vanta dei propri insuccessi; quando fanno l’appello, si fa dare assente” (Pampaloni).
*Questo stare di spalle, nella cella, cercando la parola che fa rumore, senza presa retorica, nell’isolamento dei beati. “Moretti ebbe un’esistenza solitaria, integralmente vissuta come proiezione letteraria, fra esaltazione e vittimismo, e assunse lo pseudonimo Aliosha, tratto dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij” (Marino Biondi). Altri avrebbero scelto Ivan, il campione nichilista, oppure ‘Mitja’, l’uomo moderno crudo al patire e all’amare. Il candore chiede coraggio moltiplicato.
*Ha risolto il passato in un refolo di carta, l’ironia gli ha fatto scoprire che il viso del futuro, in verità, è ustionato, quasi un vuoto, un buco nell’osso.
*Nella vecchiaia, la continua, estenuata analisi di sé e dei propri specchi e delle proprie proteiformi e vipere immagini. Con una lingua che cerca, senza sotterfugi sperimentali, l’aguzzo bianco della parola, che non si sa se è bramito o musica, se è poesia o natura, verbo o fruscio d’albero. “Io sono come un goloso/ che s’imponga un digiuno/ per essere qualcuno”; “Quello che sono ignoro e dovrai pure/ ignorarlo anche tu”; “Io non son come gli altri e mi dispiace”; “Dell’erotismo io non so quasi niente/… ma il sesso, dico, fiore della carne,/ è innocente,/ è innocente”; “Vecchio libidinoso, non c’è nulla/ di più moderno della tua vecchiezza”; “Eccomi illeso e senza disinganni./ Così ho finito: ora dimenticatemi”. Le rivelazioni accadono come filastrocche, cose durissime vengono dette come zucchero filato. Moretti riduce il labirinto lirico in un sentiero – pur pieno di mostri, di sfingi.
*Devo dire. Mi piace questa definizione di Giorgio Bárberi Squarotti, che parla del lavoro di Moretti come di “obbedienza assoluta” a “ciò che è piccolo”, come di “scandalo del troppo basso”. Lo scandalo non è nello scandalistico o nello scandaglio nel fango – che è già opzione retorica. È questa povertà, la dizione spoglia, il mendicare una nudità ulteriore. “L’opera in versi di Marino Moretti… è l’esempio più intrepido e strenuo della riduzione del discorso poetico al grado zero della semplicità più scoperta, più determinatamente ricercata, più calcolata nel respingere ai margini ogni tentazione espressiva, ogni allegoria, ogni dottrina, ogni richiamo anche remoto e indiretto alla tradizione o a modelli alti. Moretti proprio nulla deve a d’Annunzio e neppure al conterraneo Pascoli… È davvero l’esempio di un’obbedienza assoluta, perfino eroica, al canone della rappresentazione di ciò che è piccolo, modesto, provinciale, depresso… La poesia abdica totalmente a se stessa in Moretti… è lo scandalo del troppo basso, davvero agli antipodi rispetto al sublime pascoliano e dannunziano, e anche all’ironia di Gozzano”. Questa abdicazione senza agnizione mi affascina.
*Un distico che vale per ogni poeta, come l’apice di una disciplina. “Sono contento. Sono/ però sempre in agguato”. Moretti, plurivecchio, quarant’anni dopo, mi suona molto più giovane di troppi poeti che la reiterata gioventù ha reso stantii, conformi, esangui.
Davide Brullo
*
Sole, sfortunate, sfibrate, in convento, né giovani né belle: repertorio delle donne di Moretti (con amarcord dal liceo di Fidenza). Attenti, però: i poeti sono gazze ladre, non offrono la verità, la rubano!
Quando studiavo alle superiori la poesia crepuscolare immaginavo giovani poeti, un po’ disadattati, tristi ed emaciati, ammalati di vita e di innocenza. Oggi dai media sarebbero definiti nerds, probabilmente più simili ai miei compagni del liceo classico Gabriele D’Annunzio, che ai contemporanei Fabrizio Corona o Fedez. Il liceo classico Gabriele d’Annunzio aveva solo due sezioni e queste erano frequentate soprattutto da ragazze. Quei pochi maschi presenti, si distinguevano per un perenne accenno di baffo, per il fisico o troppo gracile o troppo pronunciato. Insomma nessuno di loro poteva vantare all’epoca un fascino da sciupafemmine come i loro coetanei degli istituti tecnici. Ancora più dello scientifico il Gabriele D’Annunzio era la scuola frequentata dai figli dell’upper class di Fidenza, una cittadina famosa per essere stata bombardata quasi completamente durante la Seconda guerra mondiale. Da quella tragica esperienza, però era rimasto immune il Duomo del XII secolo e, solo durante gli anni Novanta, quando noi liceali dovevamo scegliere tra una laurea in Giurisprudenza a Parma o a Lettere a Bologna, l’amministrazione scopriva che quella chiesa sorgeva lungo la via Francigena, itinerario noto nel medioevo e ora fortuna per il turismo locale.
Se cresci in una città come Fidenza, dove gli abitanti si sentono comunità, dove tutto resta uguale e i giovani hanno il pub come alternativa alla noia, è naturale che molti di noi siano po’ crepuscolari, sospesi tra i non detti, il vorrei ma non posso. Indecisi tra l’arrendersi ad una condizione bigotta e conservatrice, ma comoda e il salto nel vuoto di una grande città. Così, i miei amici, ancorati alle tradizioni e alla famiglia, hanno deciso per le lunghe estati presso la piscina Guatelli, le umide feste paesane con tanto di retorica terzomondista e le scuole private cattoliche per i figli (perché l’equosolidale va bene solo se preso a piccole dosi come il caffè del Nicaragua). Insomma, hanno abbracciato quelle buone cose di pessimo gusto, incapaci di scelte rivoluzionarie e coraggiose, preferendo a Che Guevara il circolo privato di tennis. Noi, invece, figli di un dio minore, devoti a Guccini e Ligabue, siamo rimasti schiacciati tra sogni di gloria e una realtà politica che diventava sempre più deludente e autoreferenziale. Eppure “Noi credevamo”: credevamo nei Progressisti, nell’Ulivo e nell’impegno delle manifestazioni; abbiamo cercato di cambiare il mondo senza immaginare che il mondo invece avrebbe cambiato noi. Sarà per questo senso di impotenza che mi è restato incollato addosso, che amo particolarmente i poeti crepuscolari. Ho conosciuto tanti Guido Gozzano, Sergio Corazzini e Marino Moretti, gente dalla testa piena di sogni. Ovvero i Totò Merumeni della porta accanto con cui si discuteva di politica seduti sulle panchine della piazza Garibaldi. Nel 1910 sulle pagine del quotidiano La Stampa, il critico Giuseppe Antonio Borgese, presenta Guido Gozzano, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves e Marino Moretti, come poeti crepuscolari. Artisti che non hanno nulla da dire e nulla da fare, ma se siamo ancora qui a insegnarli nelle nostre classi forse qualcosa di buono hanno detto. In particolare trovo intrigante Marino Moretti per la sua discreta ambiguità.  Ha uno strano destino, cosa non di poco conto per chi come me legge i segni e interroga gli astri: nasce il 18 luglio 1885 e muore il 6 luglio 1979 a Cesenatico. La coincidenza di nascere e morire nel pieno dell’estate mi è sempre sembrato un affronto, una presa in giro da parte del destino. Inoltre nelle antologie per le scuole superiori viene spesso solo nominato come esponente della corrente crepuscolare, nonostante si caratterizzi per una sua profonda originalità. Malinconico, ma anche ironico e irriverente verso un mondo in bilico tra nostalgia e desiderio, in alcuni versi mostra una gran voglia di trasgressione. Un forte desiderio di vita. Altro che “animula” o “disperato pellegrino”.  In particolare mi riferisco all’assoluta modernità di Moretti in Ti ribelli (dalla raccolta Poesie scritte col lapis) i cui versi raccontano di abbracci sensuali e ricerca di emozioni d’alcova, più vagheggiate che realizzate.
Ti ribelli? Ti ribelli? Ma come? Non sai che sei La mia schiava e ch’io potrei afferarti pei capeli? Io son colui che ha la bava Qui qui tra labbra e gengiva e tu sei ben remissiva e tu sei ben la mia schiava.
Come suonano strani questi versi, soprattutto se penso ad un poeta che rifiuta l’orizzonte carnale dannunziano! Quanto contrastano con la domestica pigrizia pascoliana, in cui mamma e sorella sono le uniche donne degne di amore. La poesia, però, ha il brutto vizio di celare più che di rivelare. E chi afferma che sia specchio del cuore, forse non sa che, chi scrive versi, è come una gazza ladra: non offre, bensì ruba la verità. Chissà quale verità celava Moretti quando in Più vecchia di me, raccontava del suo amore adolescenziale per una signorina di dieci anni più anziana. Questa donnina, ormai rassegnata ad un’esistenza grigia, dopo la morte del fidanzato per pleurite e privata delle gioie del talamo, diventa una tentazione per questo timido poeta “giuro che sei la prima… la prima donna che…”. Ovviamente l’ellissi del verso finale non lascia dubbi sull’intenzione…
Quando racconta l’universo femminile, Moretti spesso si riferisce a figure di donne incontrate nella sua infanzia. Ha ben presente la figura materna, le suorine del collegio, la maestra di piano e la signora Lalla. Quadretti di donne di provincia, un po’ dimesse e perdute nei loro ricordi. Un posto privilegiato nel suo cuore è riservato alla sorella, presso la quale si reca in visita a Cesena.  Nella poesia A Cesena, è ormai una donna sposata e solo apparentemente felice. A Moretti, infatti, sono sufficienti pochi gesti di lei, il tono più alto di voce, le parole che le escono dalla bocca veloci come il vento, per capire che in fondo quella non è altro che una serenità ostentata.
In realtà sembra che nelle poesie di Marino Moretti non ci sia posto per la felicità delle donne: sono sole, alcune in ristrettezze economiche, altre rintanate in convento oppure come nella Figlia unica la figliola viene descritta impietosamente arcigna, beghina, poco avvenente, costretta suo malgrado a sottostare al controllo di mammà (nonostante dentro di lei arda il desiderio per un uomo). Per Moretti l’amore, quello sensuale, resta out. Resta un miraggio lontano, un desiderio inespresso come in Diva. Un capriccio di lei smorzato nel rifiuto di lui. Un malizioso tentativo di seduzione da parte di una ragazzina fin troppo sveglia verso il giovane poeta, giocato con l’offerta di una sigaretta al posto della mela, che ovviamente Moretti non può e non vuole cogliere.
Mi chiedo, infatti, se la risposta del perché Marino Moretti abbia raccontato in modo così impietoso il suo universo femminile fatto di figlie al capezzale della madre, di donne né giovani né belle, prive di grazia, di signorine quarantenni in perenne attesa di un cavaliere, non sia da cercare nei versi dedicati all’amico Poggiolini. L’amico dal mite sguardo di fanciulla.
Ilaria Cerioli
***
Io sono come un albero sempre verde, mai nudo. Io mai fui nudo e crudo, mai mi màculo o àltero. Per quanto ho gusto e fiato dono, sprono, perdono. Sono contento. Sono Però sempre in agguato.
*
Dall’A alla Zeta
Chi ti contende il nome di poeta? Chi ti vuol tutto ormai risolto in prosa? Che cosa sei, che cosa, se nell’arte minore che ti agghiaccia quello che sai lo sai dall’A alla Zeta, e di ciò il cruccio ti si vede in faccia insieme ai segni delle tue rancure?
Io rispondo: Cucù! Quello ch’io sono ignoro e dovrai pure ignorarlo anche tu.
*
L’altro me stesso
L’altro me stesso guarda il suo giardino, guarda le cose intorno, sorride a queste cose, al verde, al giorno, a tutto come quando era bambino. E qui sente che il tempo s’è fermato, che s’è come staccato da tutto il resto e la morte è lontana, e che ogni attesa è vana, se non esiste più ora e stagione, ma soltanto quel bosso e quel giardino.
Perch’io son quel bambino con la sua sfida nella mia prigione.
*
Io non mi dolgo di non inventare la mia modernità, ché il moderno e l’eterno non mi prendono alla gola, e il mio dramma non è questo. E che sia più modesto non lo sorprende anche perché lo sa. C’è un altro in me ch’altre più cose sa.
Marino Moretti
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petedirty77 · 3 years
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Sto già sognando la poesia e la magia crepuscolare dell autunno e l l'oscurità amica di Halloween ,Bradbury è il sommo Poeta e narratore di entrambe le cose anzi le supera le trascende e le sublima in un un'indimenticabile inno alla vita dove anche le ombre diventano luci abbaglianti di intensità poetica e mirabile prosa immaginifica in questo romanzo,tra i miei preferiti suo che rileggo spesso . https://www.instagram.com/p/CR6OLBoF5xL/?utm_medium=tumblr
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oubliettederien · 6 months
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Il giovane poeta Guido Gozzano, dopo aver scoperto le liriche di Giovanni Pascoli, si allontanò dalla tipica celebrazione dannunziana per cercare conforto nell'intimo.
“A festoni la grigia parietaria
Come una bimba gracile s’affaccia
Ai muri della casa centenaria. […]”
Leggi la poesia intitolata “Pasqua” cliccando qui:
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maurojmanzo · 5 years
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Sono trascorsi 40 anni dalla morte del crepuscolare Marino Moretti, il poeta che non aveva “nulla da dire”. E per ricordarlo a Cesenatico c’è un luogo suggestivo e intimo che merita d’essere visitato: la Casa museo "Marino Moretti". Su Artwave vi lascio qualche consiglio.
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Libri| I giorni ed i versi, di Franco Melissano
di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
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bananartista · 8 years
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gardanotizie · 4 years
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È noto che Gabriele d’Annunzio per tutta la vita si circondò di molti e bellissimi cani dei quali gradiva la compagnia (levrieri, alani, ecc.).
Ci sono pure numerosi aneddoti che raccontano dell’amicizia del Comandante anche con altri svariati animali…
E nel 1935 il poeta scrisse una poesia, una specie di epitaffio, dedicato proprio ai suoi cani (“Qui giacciono i miei cani”) che sono sepolti in un angolo degli ambienti del Vittoriale.
Le parole di questo scritto presentano una visione lugubre della vita e, con ricercate parole, l’autore individua – come è stato commentato – in un fatale e macabro destino (simile a quello dei cani) anche la conclusione della vita umana poiché, quando la morte sopraggiunge, cancella nell’uomo il sussistere dei pensieri e delle passioni.
Concetti e poetica di complicata allegorica interpretazione.
In sostanza i versi sono da considerare come una visione crepuscolare della esistenza del poeta stesso (che vive ormai con una vitalità decadente) il quale ne fa quasi un testamento spirituale.
Tuttavia, lasciate le ermetiche rime ed i tristi presagi, Gabriele d’Annunzio rivive del 1937 una nuova e brillante esibizione di mondanità dovuta proprio alla sua accesa passione per i cani.
Ed è l’Annuario Bresciano di quell’anno che pubblica in aprile un articolo (sotto descritto) dedicato proprio alla esposizione gardonese titolando: “Il grande successo della mostra canina” di Gardone Riviera, sotto gli auspici del Comandante Gabriele d’Annunzio.
“La seconda mostra canina di Gardone Riviera – scrive il giornale – ha offerto un’altra prova della maturità organizzativa raggiunta in ogni campo dagli uomini che vivono nel paese più dinamico e più mondano del Garda.
Svoltasi sotto il Patronato del Comandante Gabriele d’Annunzio – il quale volle offrire ai vincitori premi cospicui consistenti in magnifiche scatole tempestate di rubini e cesellate da Renato Brozzo – la II^ Mostra Canina gardonese ha visto la partecipazione di ben 350 esemplari ammirati da oltre seimila persone che dall’alba al tramonto hanno stazionato nel recinto del Casino.
La interessante rassegna ebbe quale scenario fantastico il Benaco di Dante, ed a palcoscenico il verde parco del Kursaal Casino.
Il sole imperante nella gran volta azzurra ha completato l’armoniosa bellezza del quadro offerto – in questa giornata dedicata ai “fedeli amici dell’uomo”- la quale ha segnato un successo veramente grande.
E S.E il Prefetto Gr. Uff. Edoardo Salerno, che con le principali Autorità della provincia ha presenziato alla cerimonia di inaugurazione, ha incitato a ripetere la bella manifestazione”
L’articolo si conclude infine con l’auspicio che i bravi organizzatori della mostra canina si dedichino da subito alla terza edizione della rassegna prevista per il 1938 nell’elegante centro turistico gardesano.
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1937: Mostra canina a Gardone Riviera È noto che Gabriele d'Annunzio per tutta la vita si circondò di molti e bellissimi cani dei quali gradiva la compagnia (levrieri, alani, ecc.).
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