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"Il tuo sorriso" di Pablo Neruda: Un inno all’amore che illumina la vita. Recensione di Alessandria today
Una poesia dedicata alla forza e alla bellezza del sorriso dell’amata, capace di dare senso e luce alla vita.
Una poesia dedicata alla forza e alla bellezza del sorriso dell’amata, capace di dare senso e luce alla vita. Nella poesia “Il tuo sorriso”, Pablo Neruda esprime, con il suo tipico linguaggio lirico e ricco di immagini, la potenza dell’amore e la centralità del sorriso dell’amata nella sua vita. Il poeta cileno ci trasporta in un mondo di emozioni semplici ma profonde, dove il sorriso diventa il…
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Anna Maria Maiolino
“Fortunatamente per mezzo dell’arte possiamo sovvertire repressioni e conflitti. Sovvertire nel senso di porre rimedio alle repressioni cercando di realizzare un’arte anticonformista e di intervento politico, e perciò rivoluzionaria, che renda possibile recuperare ciò che il nostro spirito ha di fondamentale: la dignità. Grazie all’arte ho potuto consegnare un posto nel mondo ai miei sentimenti.”
Anna Maria Maiolino è l’artista brasiliana di origine italiana insignita del Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia del 2024, insieme a Nil Yalter.
Nel corso della sua lunga carriera si è cimentata con ogni mezzo espressivo: pittura, incisione, scultura, poesia, fotografia, video e performance.
Sin dagli anni Sessanta, si ispira alla quotidianità femminile per opporre uno sbarramento all’egemonia maschile e a temi come la fame, la povertà, l’ingiustizia. Il suo percorso artistico è un viaggio verso la riappropriazione di un posto nel mondo.
È nata il 20 maggio 1942 a Scalea, in Italia, per poi emigrare con la famiglia a Caracas, nel 1954, ai tempi il Venezuela pagava il biglietto del viaggio in nave alle persone che migravano dall’Italia. Sin da piccola, disegnare aveva rappresentato, per lei, un rifugio e un conforto a una realtà estranea, aiutandola ad allontanare i ricordi di un’infanzia difficile, trascorsa durante gli anni più duri della guerra. Ha studiato alla Escuela de Artes Visuales Cristóbal Rojas fino al loro trasferimento a Rio de Janeiro, nel 1960, dove ha frequentato la Escola Nacional de Belas Artes. Aveva diciotto anni quando ha esposto per la prima volta, al XXI Salón Oficial de Arte Venezolano.
Dal 1967 è stata coinvolta nel movimento della Nova Figuração, che metteva in primo piano la partecipazione attiva del pubblico fruitore e un impegno e una posizione sui problemi politici, sociali ed etici.
Ha partecipato alla mostra Nova Objetividade Brasileira, al Museo d’Arte Moderna e le sue opere sono diventate un manifesto della resistenza al regime, così come delle crescenti disuguaglianze sociali del paese.
In quegli anni ha cominciato a occuparsi di disuguaglianze di genere sul duplice versante corporale e intimistico-spirituale.
I suoi dipinti e incisioni degli anni Sessanta sono piuttosto radicali, combinano l’immaginario pop con il repertorio tipico della Nova Figuração, concentrandosi su personaggi e narrazioni politiche, oltre che su riferimenti personali, corporei e familiari.
Si è sperimentata con tecniche appartenenti alla cultura popolare come i cordels, xilografie accompagnate da brevi poesie o filastrocche d’intrattenimento, come strumento di denuncia sociale.
Questo tipo di rappresentazioni erano ispirate dal Manifesto Antropofago di Oswald de Andrade in cui, l’immagine dell’indigeno cannibale, riportata nei resoconti dei colonizzatori, veniva utilizzata per contrapporre alla cultura europea un’identità completamente diversa, antagonistica, quasi spaventosa, che potesse liberare definitivamente il Brasile da secoli di sudditanza politica e culturale. Una contrapposizione alla politica del regime, sempre più repressiva e autoritaria, un’arte popolare, kitsch e associata spesso al “cattivo gusto”. In questo clima politico e culturale piuttosto intricato, ha dato vita a opere come Anna e Glu Glu Glu, entrambe del 1967.
Nel 1968 si è trasferita a New York grazie a una borsa di studio al The Pratt Graphics Center dove ha avuto modo di praticare la tecnica di incisione su metallo, acquaforte, allargando i propri orizzonti artistici.
In questi anni scrivere poesie è stata la sua modalità espressiva primaria e al suo ritorno in Brasile, alla fine del 1971, ha iniziato a creare disegni e composizioni basate su di esse (“Mapas Mentais”, 1971-74; “Book Objects”, 1971-76; “Drawing Objects”, 1971-76).
L’interazione performativa tra gli oggetti d’arte e il pubblico sono il nodo centrale del suo lavoro.
Anche il suo primo film realizzato nel 1973, In-Out (Antropofagia), dimostra lo stretto legame con il pensiero antropofagico. Nel video l’inquadratura è fissa sulla bocca dei personaggi ed è talmente stretta che a malapena sono visibili il naso e il mento. Un uomo e una donna che tentano di parlare, senza riuscirci: dalle loro bocche spalancate e in continuo movimento non esce alcun suono, talvolta sono bloccati, prima da una striscia di nastro adesivo nero, poi da un uovo e da sempre più numerosi fili di tessuto.
L’impossibilità di esprimersi è un’aperta denuncia della censura in atto nel Brasile di quegli anni. L’assenza di parole e la loro sostituzione con un respiro affannato fanno riferimento al sofoco (soffocamento), con cui ci si riferiva agli anni più duri della repressione della dittatura militare. Un oggetto che compare per la prima volta proprio in In-Out (Antropofagia) e che diventerà fondamentale nell’iconografia di Anna Maria Maiolino è l’uovo.
Nel 1981 ha messo in scena Entrevidas, in cui decine di uova sono sparse sul pavimento e sfidano l’artista a percorrere lo spazio come fosse un campo minato, tenendo conto della fragilità e della precarietà dell’uovo, simbolo della vita stessa.
Una delle sue opere più celebri è Por un fio del 1976 dove l‘artista è seduta tra sua madre e sua figlia nell’atto di tenere in bocca segmenti di corda, come a voler enfatizzare i legami familiari. Il suo linguaggio ci parla di un legame, profondamente femminile, ed estremamente fiero e coraggioso nell’affrontare i divieti e le violenze maschili.
Nel 1989 ha iniziato a lavorare con l’argilla per la serie Modeled Earth, con una nuova attenzione per l’espressione gestuale e sensoriale, un rituale che richiama una radice profonda, un tassello della sua identità. Ha poi sperimentato con cemento e gesso, realizzando grandi sculture murali.
Il lavoro manuale, il rapporto con la terra, i materiali elementari in sculture e rilievi, continuano ancora a oggi a far parte della sua attività creativa. Un’azione ripetitiva e banale che si fa pratica artistica.
La carta, più di una superficie su cui disegnare, è diventata materia e corpo, la serie Indicios è, infatti, composta da disegni realizzati su carta con ago e filo, con l’intento di denunciare la meccanicità di gesti quotidiani appartenenti alla sfera domestica femminile come cucire.
Un momento di svolta nella sua carriera artistica è stata la partecipazione all’esposizione Inside the Visible a Boston, nel 1996, composta da trenta artiste fra cui Louise Bourgeois, Mona Hatoum, Carol Rama, Charlotte Salomon, Cecilia Vicuña, per citarne qualcuna. Sulla copertina del catalogo c’era un’immagine della sua performance Entrevidas, che l’ha fatta conoscere a un più ampio pubblico.
Per la prima volta alla Biennale Arte di Venezia, nel 2024, Anna Maria Maiolino ha esposto una nuova opera di grandi dimensioni che prosegue e sviluppa la serie delle sue sculture e installazioni in argilla. Un lavoro che indaga i rapporti umani, le difficoltà comunicative e di espressione, percorrendo il labile confine tra fisicità e sfera intima e spirituale.
Oggi vive e lavora a San Paolo, in Brasile. Ha esposto nei principali musei di arte moderna e contemporanea del mondo.
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Misuro ogni Dolore che incontro Con Occhi acuti, che indagano - Mi chiedo se pesa come il Mio - O ha una taglia più Leggera - Mi chiedo se l'abbiano portato a lungo - O sia appena iniziato - Non saprei dire la Data del Mio - Sembra così vecchia una pena - Mi chiedo se fa male al vivere - E se sono obbligati ad andare avanti - E se - potendo scegliere una via - Non preferirebbero - morire - Mi accorgo che Alcuni - a lungo pazienti - A un certo punto, ritrovano il sorriso - A somiglianza di un Lume Che abbia così poco Olio - Mi chiedo se quando si siano accumulati Anni - Qualche Migliaio - sul Male - Che li ferì Precocemente - un tale scorrere Potrebbe dar loro qualche Balsamo - Oppure continuerebbero dolenti ancora Attraverso Secoli di Resistenza - Addestrati a una Pena più grande - In Antitesi con l'Amore - Gli Afflitti - sono tanti - mi dicono - C'è una varietà di Cause - La morte - è solo una - e viene solo una volta - E si limita a inchiodare gli Occhi - C'è il Dolore della Mancanza - e il Dolore del Freddo - Una varietà chiamata "Disperazione" - C'è l'Esilio dagli Occhi natii - All'interno dell'Aria Natia - E sebbene non possa indovinarne il genere - In modo corretto - tuttavia per me Un penetrante Conforto offre L'attraversamento del Calvario - Notare la foggia - delle Croci - E come sono di solito portate - Sempre affascinata dal presumere Che Qualcuna - sia come la mia -
Emily Dickinson, Tr. Giuseppe Ierolli, poesie - J561 (1862) / F550 (1863)
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Come della letteratura anteriore era idolo il Petrarca, della odierna è il Leopardi. Il Petrarca, tranne le poche poesie politiche e di vario genere, cantò un solo dolore, l'amoroso; il Leopardi cantò tutte le forme del dolore umano. Il dolore dell'uno è consolato dalla fede religiosa, comune a' suoi tempi; il dolore dell'altro sdegna come puerile questo conforto; onde il lutto e la costernazione che attrista il suo carme è più vario, più profondo, più universale del petrarchesco e più rispondente alle condizioni della psiche moderna. Inoltre, l'arte di coprir l'arte e la trasparenza del pensiero è maggiore nel Recanatese che nell'Aretino il quale, da un sentimento sempre identico dovendo cavare sempre nuovi motivi poetici, dà non di rado nello studiato e nel monotono e fa dell'arte artifizio. Onde non è meraviglia se il Leopardi regna oggi sul trono dove una volta sedeva il Petrarca, e il culto suo va crescendo sempre più fervoroso e universale. L'uomo moderno ama il canto leopardiano come interprete fedele del proprio dolore, e il Leopardi come un amico sublime col quale in tutto sente e consente. Ben doveva dunque esser contrassegnato da una ricca reflorescenza di studi leopardiani l'anno centenario dalla sua nascita.
I molti scritti già pubblicati su questa materia ci facevano ancora desiderare un libro che studiasse di proposito quel sentimento che fu il suo sospiro perpetuo, l'amore, e ci fornisse accurata notizia delle donne che gli apparsero via via nel corso della sua misera vita e diedero palpiti al suo cuore, armonie a' suoi canti. Questo doveva fare una signora colta e gentile, e questo fece la signora Emma Boghen Conigliani, scrittrice già lodata per altri pregevoli lavori tra i quali mi piace ricordare le Rose di macchia, gli Appunti storico-critici sulla Divina Comedia e gli Studi letterarii. Il libro ha titolo La donna nella vita e nelle opere di G. Leopardi, (un elegante volumetto di pag. 404, edito testè dal Barbera). La chiara autrice ha quivi raccolto non solo quante notizie erano state finora pubblicate intorno alle donne legate al Leopardi di parentela o a lui care d'amicizia o d'amore, ma eziandio quelle non poche né poco importanti che ancora si desideravano; e noi dobbiamo saper grado alle sue indefesse e felici indagini se finalmente ci è dato rivedere vestite di nuova e più viva luce le imagini di Antonietta Tommasini, della Carniani-Malvezzi, di Marianna Brighenti, di madama Padovani, di Paolina Ranieri e d'altre.
Dei ritratti, preposti alle biografie delle donne leopardiane, altri erano già comparsi nel numero unico del foglio A GIACOMO LEOPARDI XV GIUGNO MDCCCLXXXVII (Lapi, Città di Castello) altri nello studio psico-antropologico del Patrizi, altri finalmente nell'articolo del Mariotti I ritratti di G. Leopardi (Nuova Antologia, 16 gennaio 1898); ma qui la Boghen-Conigliani, coi già noti, ci esibisce per la prima volta quelli finora sconosciuti della Tommasini, della Brighenti e della Ranieri. Il ritratto del poeta impresso nel frontispizio dell'opera, tra i diversi che se ne hanno, è forse il più vero. Tra le tante peregrine notizie onde è ricco il libro, attraggono particolarmente la nostra attenzione quelle relative a madama Padovani, una delle fiamme o, per dir meglio, uno dei desiderii amorosi, presto spento, del poeta a Bologna. Il sottoscritto (che di necessità qui si registra) l'aveva già rivelata al pubblico in un suo recente lavoro, additando in lei quella che Giacomo scrivendo al Papadopoli diceva strega piena di grazia e di bellezza, ed esponendo tutto ciò che può sapersi intorno ai suoi rapporti col poeta. Ma delle notizie riferentisi particolarmente all'esser suo non avendo io saputo dare quante io e il pubblico ne avrebbe desiderato, la signora Boghen-Conigliani ha sopperito abbondevolmente al mio difetto. La seducente donna era dunque una tal Rosa Simonazzi modenese maritata in Luigi Padovani, ispettore della civica illuminazione a Modena, e da lui per tempo separata. "Bella, di un brio indiavolato, leggera, avida di piaceri e di lusso , sentendo lodare la sua voce e la sua dispozione alla musica, tolte a pretesto le condizioni economiche disagiate e la speranza di fortuna, volle andarsene nel 1826 a Bologna per studiarvi il canto. Là prese pensione in casa del vecchio tenore Vincenzo Aliprandi dove pure alloggiava il Leopardi. Di statura alta e di forme scultorie, riusciva attraente soprattutto pei grandi occhi vivacissimi, scintillanti di brio, di spensierata allegrezza, di malizia birichina, di mordacità". Cantò a Torino, a Milano ma con poca fortuna; passò all'estero, ma ne ritornò povera come prima. Forse, penso io, era una di quelle donne per le quali il teatro non è altro che un richiamo di lucrose avventure. Un vecchio professore il quale la conobbe personalmente, afferma che già carica d'anni e di malanni era tuttavia sempre bellissima e allegra, tanto da far immaginare quale splendida creatura avesse dovuto essere in gioventù; ed asserisce d'averla sentita ricordare Giacomo Leopardi e vantarsi d'averlo molto ben conosciuto, con tali parole da lasciar comprendere chiaramente che ella era stata amata dal poeta; e questo è pure narrato da una vecchia parente de la Padovani.
Ma se nella copia e nella novità della materia biografica noi ammiriamo la ricercatrice accurata e fortunata, nei sentimenti, nei giudizi e nel modo di esporli noi vi troviamo , e con tanto maggior gradimento, la donna. Quella delicata gentilezza tutta femminea che spira come aura profumata in tutto il suo libro, quel garbo onde tempera fatti e giudizi che suonerebbero troppo aspri ad orecchio di spirituale persona, quel discorso tutto signorile famigliarità acquistano all'autrice con la lode anche la simpatia del lettore.
Ed ora qualche breve osservazione. Alle biografie di sette donne leopardiane tien dietro e chiude il libro un capitolo avente per titolo La donna nella vita e nelle opere di G. Leopardi, dove si studia il sentimento amoroso del poeta ne suoi scritti, e si parla di altre donne leopardiane di cui l'autrice, forse per manco di sufficienti notizie, non aveva ancora dato una biografia speciale. Anche quest'ultimo capo, che comprende quasi la quarta parte dell'opera è, come tutto il resto assai ben fatto e interessante; ma non era meglio collocarlo a principio e anzi che escluderne le donne di cui si fa la biografia a parte, accogliervi di queste solo le notizie sufficienti e necessarie a farci conoscere i rapporti avuti e i sentimenti nutriti dal poeta verso la donna considerata nella madre, nella sorella, nella parente, nell'amica e nell'amata, e rimetterne ad una seconda parte la compiuta biografia? Se ben m'appongo, l'opera, così ripartita, avrebbe guadagnato di retto organamento e di ordine lucido. Il difetto forse si spiega dalla difficoltà in cui l'autrice si trovava di rifondere in un sol tutto i non pochi scritti già pubblicati sparsamente sotto forma di articoli in parecchi giornali.
Per venire a qualche particolare, non credo giusti i dubbi dell'autrice sulle cause del viaggio del Leopardi e del Ranieri a Roma l'inverno tra il 1831 e '32, quando noi consi- deriamo più fatti cioè: la passione tremenda di Giacomo per la bella dama fiorentina da cui senza dolore acerbissimo non poteva al- lontanarsi; l'amor furibondo che trascinava il Ranieri dietro la celebre attrice Pelzet recitante a Roma; l'amicizia o, meglio, l'amore ardente da innamorato che in quei primi tempi avvinceva il poeta al bello, biondo, gentile, lusinghiero, Ranieri (come lettere ancora inedite presto chiariranno); la cura gelosa di costui nel voler sempre seco l'immortale amico suo, noi non dobbiamo più esitare a concludere e ritenere per fermo che il poeta per compiacere l'amico fece violenza al proprio cuore e partì seco per Roma sottoponendosi per lui ad accerbissimo esilio e al dissesto delle sue povere finanze. Io credo colla Boghen-Conigliani che quando Giacomo scriveva al fratello di lungo romanzo, di dolore e di lagrime come circostanze necessarie alla narrazione del suo viaggio di Roma parlasse di sè non del Sodale (comechè questi si vagliasse in romanzi e lagrime non minori), ma questo non solo non esclude ch'egli siasi mosso da Firenze per compiacere l'amico suo, ma anzi lo spiega e conferma. L'egregia scrittrice non vede chiara la ragione del raffreddamento del poeta verso la contessa Teresa Carniani-Malvezzi, e la cerca in un'arrischiata e male accolta dichiarazione amorosa, quando la lettera del Leopardi rife- rita dalla stessa autrice, ce la rivela lumino- samente là dove dice: "Contessa mia, l'ultima volta ch'ebbi il piacere di vedervi, voi mi diceste così chiaramente che la mia conversazione da solo a sola vi annoiava, che non mi lasciaste luogo a nessun pretesto per ardire di continuarvi la frequenza delle mie visite". Fu dunque la soverchia assiduità, ripresa così severamente dalla contessa la cagione dell'intiepidito affetto. Altre imperfezioni potrei notare, da taluni giudizi avrei motivo di dissentire, ma queste ad ogni modo, come le dianzi osservate sarebbero mende così lievi che poco o nulla tolgono al valore di quest'opera veramente bella e interessante. La quale, contribuendo alla letteratura leopardiana nuova e larga copia di materia storica, rimarrà certamente tra le più importanti pubblicazioni del primo centenario del sommo poeta e avrà la fortuna che merita un lavoro maturamente pensato e felicemente eseguito.
Franco RIDELLA
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Lividi d'angoscia 🌻
è una raccolta di poesie che racconta il disturbo borderline di personalità dal punto di vista di chi lo vive, ogni giorno, sulla sua pelle. È un viaggio emotivo tra angoscia e insoddisfazione, vuoto e sbalzi d’umore, amori travagliati e gesti estremi, rabbia e allucinazioni, per sfiorare con i sensi la sofferenza della mente. Questo percorso è strutturato in nove capitoli, ognuno dei quali corrisponde a un sintomo del disturbo borderline, e si conclude con una poesia dedicata alla rinascita interiore, un traguardo difficile da raggiungere ma sempre possibile, perché le difficoltà non definiscono il nostro essere, sono solo sfaccettature.
La raccolta nasce con l’unico scopo di dar voce al dolore viscerale che risiede nell’animo, troppo spesso ignorato o svilito, per sensibilizzare il lettore sul tema delle malattie mentali, considerate ancora come la condanna del diverso, un segreto da nascondere sotto alla più grande vergogna. Ogni poesia rappresenta un urlo infiammato che squarcia l’oscurità, è la voglia di essere ascoltati e accettati per come siamo, il bisogno di far conoscere quel mondo abitato da demoni, senza paura o vergogna.
Forse qualcuno leggendo si rispecchierà nei versi e troverà conforto, un rifugio sicuro dove sentirsi meno solo.
#in tutte le librerie#campi magnetici edizioni#lividi d'angoscia#poesia#disturbo borderline#borderline personality disorder#bpd
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“Se il mondo reale diventa uno scenario infernale, replicarlo in prosa è ridondante”. Joyce Carol Oates, la quarantena e il gatto
In questo articolo in forma di confessione, pubblicato sul “TLS” come “My therapy animal and me”, Joyce Carol Oates, grande scrittrice americana – La Nave di Teseo ha appena pubblicato “Ho fatto la spia”; è edita da il Saggiatore, Mondadori, Bompiani –, raduna tre temi, impedendosi – fortuna nostra – di ricadere nell’ennesimo ‘diario in quarantena’, pratica che ha dimostrato, in Italia, per lo meno, che troppi scrittori sono incapaci di interpretare e sentire la ‘realtà’. In superficie la Oates parla di animali ‘da compagnia’ o ‘da terapia’. Il pezzo, quindi, è una variante sul tema topico: i gatti e gli scrittori, che annovera firme nobili (da T.S. Eliot a William Burroughs, da Lewis Carroll a Poe, Bulgakov e la formidabile gatta di Tanizaki). Soprattutto, la Oates ci dice che il contagio, la pestilenza, appesta la creatività: lo scenario distopico e fantastico è lecito finché c’è una realtà ‘normale’ da cui evadere. Quando si vive nell’anormalità, nel pericolo, lo scrittore deve stare lì, tra silenzio e imprevisto. Il rischio, altrimenti, è il patetico. Di più, la scrittrice gioca il paradosso. Se siamo degli animali ‘sociali’, per cui il nostro io è il riflesso di ciò che gli altri pensano di noi, da soli chi siamo?, forse non siamo, esistiamo davvero? Questo – la nostra inesistenza, la dipendenza da chi e da che cosa – è un enigma degno di romanzo. Che un libro, in questa ondivaga incertezza, sia una zattera va da sé.
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Auden disse: “Vivete alla giornata”. In una realtà claustrofobica come questa non ci resta che vivere alla giornata. Perché è davvero difficile contemplare un futuro! La mia vita, in genere così prevedibile, definita e (per lo più) piacevole, adesso è instabile, mi sembra di essere su delle montagne russe impazzite. Non sono in grado di lavorare, neanche di trovare la concentrazione per prepararmi al lavoro, mi ritrovo in balia di incessanti email, messaggi e telefonate; “ultime notizie” che non portano quasi mai un barlume di speranza, ma solo crescente paura, 76000 morti per coronavirus negli Stati Uniti, e in continuo aumento.
E in tutto ciò, non c’è niente di minimamente romanzato, non c’è nessuna allegoria o metafora (regni dell’essere in cui gli scrittori si sentono più a proprio agio); niente di tutto questo potrebbe essere seccamente sintetizzato in “rivelazioni” o “epifanie”. Gli scrittori sono condannati a immaginare di poter carpire il senso anche dalle più terribili circostanze e che spetti a loro esprimerlo.
Invocando distopie e scenari infernali, i narratori hanno ampiamente dato per scontato la relativa normalità del “mondo reale”; se il mondo reale diventa uno scenario infernale, replicarlo in prosa è ridondante. Ci sarà anche una cupa soddisfazione nel profetizzare il vigente disfacimento della democrazia liberale negli Stati Uniti, ma si tratta senz’altro di una soddisfazione amara – la tendenza è pensare che l’aver immaginato un disastro possa bastare. È in dubbio il destino non solo dei prossimi progetti creativi, ma anche quello del possibile pubblico.
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In mezzo a tutte queste distrazioni, ecco il mio “animale da terapia” Zanche che fa le fusa, sinuosa, mi si struscia contro le gambe e salta, con pesantezza e un grugnito ansante, sul mio grembo. (Ho scritto “animale da terapia” per gioco, Zanche non fa parte di questa categoria, ma di recente, nel periodo di lockdown, sembra stia qualificandosi per questo ruolo). Mi colpisce il fatto che il Felis catus sia straordinariamente portato all’autoisolamento, e, quando sterilizzato e nutrito bene, sia più che lieto di starsene in solitudine, mentre l’Homo sapiens è ovviamente mal equipaggiato a stare solo, persino nelle condizioni migliori. Non stupisce che attualmente negli Stati Uniti, stando ai dati, ci siano 500.000 cani di servizio e 200.000 animali di “supporto emotivo” legalmente registrati presso le autorità sanitarie. A cui va sommata una vasta schiera composta da un numero indefinito di “animali da terapia” non ufficiali, come Zanche, una splendida gatta Maine Coon bianca e nera che ho adottato l’anno scorso dal canile. Infatti tra i nevrastenici, molto probabilmente in rapido aumento in quarantena, le fusa sono diventate il “rumore bianco” associato al conforto, a rimpiazzare persino la commiserazione umana. (Il paradosso è che le fusa non sarebbero naturali per i gatti, ma una tattica messa a punto dai loro antenati selvatici per sedurre, disarmare e addomesticare l’Homo sapiens, l’unico altro mammifero a poter essere soggiogato a loro vantaggio).
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Incapace di rimanere seduta da una parte per più di qualche minuto, guardo indietro con sconcertata nostalgia a quando, non troppo tempo fa, riuscivo a perdermi felicemente nel lavoro per dieci, dodici ore al giorno. Ora invece, vengo presa d’assalto da versi casuali di prosa profetica o da poesie che vagano nel cervello come matasse di alghe, mentre cammino avanti e indietro per la casa a ogni ora del giorno e della notte, perché il tempo si è sciolto, come in un quadro di Dalí e la vita è diventata una sequenza di frasi sconnesse senza interruzione né principio – “Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene in pace, in una camera” (Pascal, Pensieri #139). “Niente che sia d’oro resta” (Robert Frost). Henry David Thoreau, che ammiro sin dall’adolescenza, adesso mi sibila superbo, arrogante: “Volevo vivere profondamente, succhiare tutto il midollo della vita, volevo vivere da gagliardo spartano, per sbaragliare ciò che vita non era, falciare ampio e raso terra e riporre la vita lì, in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici”.
Che ingenuità! Nell’isolamento forzato è legittimo chiedersi perché mai qualcuno dovrebbe desiderare di ridurre la ricchezza e la varietà della vita “ai suoi termini più semplici”, un lusso che ci si può permettere solo se c’è un mondo stabile da ripudiare. (Sappiamo che a Walden Pond, Thoreau viveva a due passi dalla propria famiglia amorevole, a Concord, e che andava da loro ogni volta che si sentiva solo, voleva un piatto caldo o dei panni puliti).
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L’uomo non è un animale molto razionale, ma è di certo un animale sociale. Apprendiamo i segnali sociali dai nostri simili umani: sorrisi, bronci, lamenti, risate. Persino il silenzio, quando siamo tra gli altri ha un significato che non può avere quando siamo soli. Come osservò William James, ogni individuo ha tanti sé sociali quante sono le persone che lo conoscono e interagiscono con lui: viceversa, se i nostri “sé sociali” non vengono costantemente stabiliti dalle interazioni con gli altri, noi esistiamo? A metà marzo, quando il mondo esterno è diventato una piastra di Petri brulicante di contagiati e il numero di decessi cresceva di ora in ora, il New Jersey ha stabilito che la popolazione dovesse rimanere a casa, prescrivendo il nostro fondamentale estraniamento dagli altri, per fare fronte alla possibilità (probabilità!) di infettarci l’un l’altro. Spettatori disorientati, siamo stati catapultati dallo stupore a un intorpidito orrore. Un’aura di irrealtà strisciava tra le nostre vite, portandoci a dubitare della nostra stessa identità; e se invece di entità durevoli le nostre, da sempre, non fossero altro che costrutti sociali? Siamo “reali” in tale estraniamento? È come se i nostri stessi corpi siano sul punto di fondersi in ectoplasma, come in quelle assurde, ma perturbanti “fotografie spiritiche” dei primi anni del ventesimo secolo.
Perché, dopotutto, cos’è l’identità, e cos’è la sanità, quando da troppo tempo siamo soli, nascondendoci da una dirompente, ma invisibile forma non vitale chiamata virus? E qual è il tono giusto da usare in un clima di terribili sofferenze?
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C’è il tono da videolezione che si acquisisce per necessità se si è insegnanti e la scuola chiude da un giorno all’altro, costringendo ogni forma di istruzione online. Forma scomoda, all’inizio, socialmente inadeguata, ma poco a poco navigabile e persino, in assenza di altri rimedi, piacevole. (Il tradizionale insegnamento face-to-face è già datato). C’è il tono richiesto dalla società: quando chi è sconfortato, cosa frequente in questi giorni, può facilmente sentirsi offeso se altri usano un tono “leggero”; quando chi cerca di reagire con un tono “leggero” alla propria demoralizzazione, rischia di offendere qualcun altro. Perché mai come in un periodo di crisi collettiva è chiaro che le condizioni di ognuno sono del tutto relative: c’è chi sta (colpevolmente) meglio di chi ha sofferto per vere disgrazie, oltre all’inconveniente della quarantena, mentre c’è chi sta (anche) peggio di chi è recluso con amorevoli compagni umani. Sapremo di essere tornati a qualcosa di simile alla normalità quando, invece di far di tutto per avere i nostri animali da terapia addosso a farci le fusa, con un gesto distratto li cacceremo dalla tastiera del computer, mentre cerchiamo di scrivere – “Zanche, vai via!”.
Intanto, nell’attesa di questa liberazione, continua a rincuorarci il contatto con un corpo caldo che fa le fusa e impasta con le zampe, ci consola l’aver accanto un altro essere vivente con cui parlare, anche se a senso unico. E per noi insonni, con la crisi che non fa che peggiorare il problema, c’è anche la profonda consolazione della lettura, preferibilmente con un animale da compagnia che sonnecchia al nostro fianco.
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Un’amata categoria di libri, il libro sul comodino, in genere letto sporadicamente, finito raramente, e se anche finito, riposto con riluttanza sullo scaffale, è la lettura ideale durante la quarantena. Sul mio ingombro tavolo di fianco al letto, ho molti libri del genere, molti dei quali lì da anni. Tra cui Weatherland: Writers and artists under English skies di Alexadra Harris, uno splendidamente eccentrico compendio di prosa e opere d’arte sul tempo atmosferico, attraverso i secoli. Troviamo cieli, nuvole, paesaggi, “stati d’animo” nelle opere di Shakespeare, Milton, Spenser, degli autori romantici, delle sorelle Brontë, di Virgininia Woolf, John Constable, William Turner, John Everett Millais, Ted Hughes: “Negli anni a venire, che potrebbero essere gli ultimi con un clima inglese, la nostra esperienza sarà determinata dalla memoria e dall’associazione, dalle cose che abbiamo letto e osservato, dai posti in cui siamo stati o che abbiamo immaginato”. Similmente, The Making of Poetry: Coleridge, the Wordsworths and their year of marvels di Adam Nicolson, è una cronaca delle giornate dei giovani poeti attraverso gli idilliaci paesaggi inglesi che attraversavano durante le loro passeggiate insieme, gli itinerari ripercorsi a più di duecento anni di distanza dall’intrepido autore. Poi ho il massiccio A Little Book on Form: An exploration into the formal imagination of poetry e l’ancor più pesante The Poem di Don Paterson, insieme al meraviglioso forziere che è The Work of the Dead: A cultural history of mortal remains; ci si potrebbe impiegare anni per scrutare attentamente le più di seicento pagine tempestate di preziosi dettagli.
*
Non c’è notte insonne priva di speranza, infestata dalla paura per il futuro che non possa essere salvata, trasfigurata, accendendo l’abat-jour e aprendo un libro.
Joyce Carol Oates
*La traduzione è di Valentina Gambino
L'articolo “Se il mondo reale diventa uno scenario infernale, replicarlo in prosa è ridondante”. Joyce Carol Oates, la quarantena e il gatto proviene da Pangea.
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Se mai un giorno...
Ecco, se un giorno volessi cercare il mio uomo ideale, o, meglio, se un giorno un uomo volesse diventare il mio uomo ideale, direi che dopo tante, si fa per dire, esperienze e una, invece, lunga serie di meditazioni, posso stilare una serie di punti in ordine sparso ma tutti, a loro modo, importanti. Ovviamente questa non è una lista della spesa né, tanto meno, un’ordinazione su Amazon, ma un esercizio totalmente teorico in qualcosa di assolutamente inesistente come le mie relazioni sentimentali. Quindi vediamo:
Non deve dire “vado a nanna” o “faccio la pappa” e non deve mai nemmeno lontanamente utilizzare simili termini nemmeno si occupasse di un asilo nido. Io mangio e dormo, lui mangia e dorme e perfino i bambini mangiano e dormono. Anche a mia figlia ho insegnato “mangia e dormi”. Che senso ha usare altri termini per di più leziosi e sdolcinati e francamente stupidi? E non parliamo di pupù...
non deve aspettarsi che metta tacchi e vestiti femminili a meno che non sia disposto ad uscire in giacca e cravatta e scarpe nere lucide. Può vivere in tuta e ciabatte o in jeans e maglietta ma se vuole che sia sexy deve fare altrettanto. O trovarmi sexy in ciabatte e maglioncione di lana
deve eccitarmi. Non aspettare che io lo ecciti e poi mi ecciti da sola come dire, di rimbalzo. Faccia qualcosa, non so cosa ma almeno ci provi
non deve usare vezzeggiativi e soprattutto evitare i termini piccola o bimba o cucciola o bambina. Soprattutto bimba. Ho un problema aperto con bimba e comunque non sono una bimba
Mi piacerebbe andare in vacanza purché non in campeggio o in camper. Non è che non mi piace viaggiare. E’ che ho paura di farlo. I posti nuovi mi terrorizzano, soprattutto posti come gli aeroporti, le dogane, gli ingressi in genere. Ho bisogno che mi accompagni e soprattutto che si occupi dell’organizzazione. Se devo trovarmi io a prenotare, telefonare, ordinare, spiegare al cameriere, chiedere informazioni, chiedere il conto, allora sto a casa. Cucino, apparecchio, sparecchio, lavo i piatti, stiro, faccio le pulizie, faccio la spesa e me ne sto a casa. Se vuole portarmi fuori che organizzi. Altrimenti a casa.
non deve stare sempre con me. Si faccia una vita, frequenti persone, vada al cinema, esca con gli amici. Può avere anche una donna, anche più di una donna ma non deve starmi addosso. Mi piace passare del tempo da sola, mi piace vedere le mie serie preferite da sola, i miei film da sola, ascoltare la mia musica da sola. Quando stiamo insieme facciamo qualcosa insieme che piaccia ad entrambi. Per il resto ognuno per sé. Spazio, please
Non amo le sorprese, soprattutto se si tratta di posti dove andare per i quali non mi sono preparata adeguatamente. Non amo i regali, mi mettono in difficoltà perché non ho mai idee su come ricambiare. Mi fanno sentire in imbarazzo e in debito e preferisco farne che riceverne. Basta il pensiero, per il resto evitiamo
deve telefonare al posto mio. Io odio telefonare, odio prenotare, odio andare alle visite, i controlli, gli uffici. So che è una rottura di balle per la maggior parte delle persone ma tant’è. In compenso non mi ricordo un anniversario nemmeno a pagarlo e non voglio regali quindi compenso, no?
deve assicurarmi che non mi farà restare come un vegetale, che mi aiuterà a morire quando sarà il momento, prima di perdere la dignità e prima di soffrire più del necessario. Non si fanno soffrire i cani o i gatti. Si prenda la responsabilità di non far soffrire me. Io farò altrettanto, anche se è improbabile che ci arrivi
se mai capitasse che io prenda coraggio e confidenza fino al punto di leggergli le mie poesie, non rida. Voglio critiche costruttive o un bel silenzio. E magari un abbraccio.
Russo. Lo fa un sacco di gente. Può farlo anche lui. Se do fastidio, che mi svegli, io farò altrettanto ma niente scene del tipo: “io non russo! casomai tu russi!” per carità
mi piace dormire abbracciata. O da sola. Vie di mezzo non sono contemplate
ho una famiglia ingombrante. Ci tengo. Mi piacciono le feste comandate, Natale, Pasqua, ferragosto. Mi piace passarle con la mia famiglia caciarosa. Non vuole partecipare? bene, ci vediamo dopo. Ma io non vado via. E non mi piace il “possiamo festeggiare quando ci pare. possiamo fare capodanno quando vogliamo” Le feste sono le feste, non è necessario festeggiarle ma se lo si fa, i giorni devono essere quelli. E comunque niente regali e niente anniversari continua a valere
deve guidare bene. E deve piacergli guidare. Io non guido ma mi fido, sono un buon navigatore e mi occupo delle provviste e di ogni genere di conforto ma non mi deve rompere perché non ho la patente. Altrimenti c’è l’autobus, o il treno. O un’altra
mi piace discutere. Sono polemica e adoro i duelli intellettuali. Ma niente violenza, niente aggressioni verbali, niente urli. E niente insulti o aggressioni personali. Sono fragile, insicura e mi ferisco facilmente. Argomentazioni logiche ad oltranza, iperboli e umorismo.
soffro d’insonnia. La notte sono fantasiosa e chiacchierona. Faccio ragionamenti astrusi, voli pindarici, invento storie, filosofeggio. La mattina nessuna conversazione fino ad almeno un’ora dopo il risveglio.
non deve farmi fretta. Sono puntuale. Ho un buon senso del tempo ma se mi alita sul collo divento nevrotica. Non reggo gli ansiosi quindi meglio non lo sia. Ma nemmeno un ritardatario cronico.
ho freddo. Ho sempre costantemente freddo tranne quando muoio di caldo. Sopporto il freddo ma non il caldo quindi niente storie “mi dà fastidio l’aria condizionata, non sopporto il ventilatore” Se fuori ci sono più di 28°, dentro si aspetti una tempesta artica. E io col maglione
si deve prendere cura di me perché sono imbranata, pasticciona e spaventata. Deve controllare che mangi e prenda le medicine e che non precipiti nella depressione. Io so curare da un’influenza a un braccio rotto. Sono un’infermiera attenta e faccio un ottimo brodo di pollo. Ma non vado al pronto soccorso nemmeno se mi ci si trascina per le orecchie. Mi ci deve portare e anche trattenere a forza. Ah, dopo tre giorni di malattia lo abbatto. Abbatterei anche me, potendo, dopo tre giorni di malattia...
sarebbe carino se mi amasse ma forse va anche meglio una buona amicizia purché garantita nel tempo e senza sorprese.
Bon, il perché sono single è spiegato
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Poesie di Antonella Iacoponi
Nel crudo e nel blu
Infinite bare accatastate, portate lontano dall’esercito, macigni che Sisifo ha depositato con successo sul mio cuore: ecco il ricordo più vivido, indelebile,… mentre il tempo si dilata, con un sorriso freddo, amaro ventaglio di interstizi e pieghe, ha il sapore del pesce crudo, non gli importa di me, mi osserva con indifferenza, dondolandosi avanti e indietro sui talloni, ma io so aspettare: dovrà comunque scorrere, poiché è inesorabile; allora splenderanno giorni lucenti, tutti nuovi, forgiati nel blu del mare, nel sole di Marina di Pisa.
Loro sono il titolo, loro sono la poesia
Portano nel buio un raggio di sole, recano conforto ove la speranza veste in nero, le loro mani sono bacchette che cercano di farsi magiche, lo vorrebbero tanto con la scienza, lo diventano sicuramente con l’amore, quello inesauribile, incontenibile che hanno nel cuore, la loro vera essenza, una energia rinnovabile, pura, incontaminata. Loro è la voce che attendono i pazienti, già a casa, e poi in quei letti di ospedale, in cui giacciono soli, senza il conforto di un familiare, di un amico; loro divengono i familiari, gli amici, loro divengono tutto. La loro voce sussurra, nelle molteplici lingue del mondo: - Coraggio, sono qui per te! -, è solo un bisbiglio, ma si rivela così potente! È un messaggio che risuona come calda eco, nell’universo, e che profuma di affetto, di dedizione, di cura verso gli altri; il messaggio vola in alto, su ali di sangue e fatica… Dal cielo cade una lacrima. Sopra le stelle si apre un sorriso. Grazie a tutti i medici.
Il buio
Il buio danzava con me, nelle notti fredde, silenziose, mi avvolgeva sempre più intensamente, tra implacabili spire, non ero in grado di respingerlo, sebbene provassi a combatterlo,… quanto ho tentato! Lottavo contorcendomi nel letto, ora scalciando con i piedi, ora stringendomi nelle coperte, che tiravo fin sopra la testa, ma egli, ostinato, inesorabile, non mi lasciava scampo: quale mostro maligno, si nutriva delle mie paure, per crescere ulteriormente, e divenire sempre più denso, oserei dire viscoso, putrida gelatina che si appiccicava alle dita; il buio aumentava ancora, sino a farsi intollerabilmente opprimente, soffocante, masso enorme che Sisifo aveva depositato con successo sul mio petto,… palloncino gonfiato oltremisura dal vento, fino ad essere sul punto di esplodere, come il mio cuore. Adesso tu sei di nuovo QUA, e, appena ti ha scorto arrivare, il buio è fuggito lontano, divenendo soltanto un amaro ricordo; tu sei QUA e niente altro ha importanza. Ora il sole splende persino la notte! é il sole del cuore, un sole che in ogni istante sussurra: - Ti voglio bene.
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eh già stanotte dopo tantissimi anni che non lo faccio ho deciso di riprendere a scrivere, infondo ho sempre amato scrivere, poesie, frasi, alle volte ho sempre avuto anche quelle piccole capate che mi dicevano "vai scrivilo un libro perché no, non devi mica pubblicarlo ma puoi tenerlo per te, e poi magari un giorno rileggerlo come se fosse un diario di bordo dove racconti tutte le tue giornate" però questa cosa non mi è mai riuscita, non sono mai riuscito a portarla infondo perché c'era sempre qualcosa o qualcuno che mi distruggesse i sogni, e tutt'oggi purtroppo questo qualcuno è qui con me, e si tratta di mio padre che è un padre meraviglioso non mi fa mancare nulla e si preoccupa sempre di ciò che è il mio bene, ma a volte non si rende conto che fa solamente il mio male, ma io resto in silenzio e gli do retta guai a contraddirlo, ricordi quando partii per la basilicata i tanti tormenti come faremo, come resiteremo e poi sono tornato perché tra parentesi mi hanno scartato perché "non sei un ballerino" beh questo mio stesso padre che tende a volere solo il mio bene cosa fece, preso in mano la situazione, mamma sicuramente gli spiegò tutta la situazione, durante il suo ritorno a casa da lavoro mi registrò una cosa una registrazione meravigliosa che ancora ora dopo averla riascoltata mi ha portato con le lacrime al coraggio di scrivere questa diceva "non ti preoccupare a papà sono tutte persone che pensano solo ai soldi, se non stai bene li dimmelo che a costo di farmi altri 370 km vengo a prenderti ma fatti forza e dai sempre il meglio per quello che ami fare" ed io al sentire quella registrazione alle 4:30 del mattino che finii, tra un singhiozzo e l'altro piansi tutta la notte mio padre non mi aveva mai detto delle cose del genere fu il giorno più bello della mia vita un giorno che non dimenticherò mai, sono più soddisfatto di quelle sue parole che di tutte le borse di studio prese a Firenze..
ma purtroppo se nasci tondo non muori quadrato, e nei giorni in cui è qui non sa dire altro che "ti hanno cacciato da due parti, non sapevi ballare, perché non ti ritiri e ti trovi qualcosa da fare" a volte quando dico alla mia maestra di essere l'ultima ruota del carro mi dice "hai cominciato tardi ancora non hai trovato la tua disciplina richiede tempo e fatica non abbatterti, quando danzi fallo senza i tuoi mille pensieri dentro, liberati" ma io non posso, non posso perché mi manca qualcosa ovvero mio padre avrei bisogno di lui, lui c'è ma è come se non ci fosse realmente mi basterebbe che più spesso come quella notte mi dicesse "vai fai vedere chi sei, dai il meglio di te e non lasciarti abbattere da nessuno" non dico sempre, ma ogni tanto, che ad una borsa di studio non pensasse ai soldi che ci vogliono per partecipare ma tanto al sudore ed alla grinta che ci ho messo per ottenerla, ma purtroppo non tutti i desideri si avverano..
oggi nella mia vita posso vantare una persona che non è un altro padre ma la mia ragazza, sì la mia ragazza riesce a combinare tanti ruoli ed essere tutto quello di cui ho bisogno nel momento in cui ne ho bisogno non si può definire una fidanzata si potrebbe più che altro definire quella parte di me che mi è sempre mancata ed allora quando tutto e buio è lei ad accendere quella piccola luce in fondo al tunnel che pian piano riesce ad illuminarlo ed addobbarlo a cambiare tutto in un attimo, è lei che quando si sveglia mi fa sentire il suo primo pensiero, magari non lo sono ma è la sua migliore amica ma che mi importa infondo lei mi fa sentire tale ed io ne ho bisogno e per la fiducia che nutro nei suoi confronti so che tutte le sue dimostrazioni sono più che reali perché sin da quando la conosco ha saputo costruire basi forti al nostro rapporto il punto è che lei e la mia forza è il mio vivere le sue parole sono di un conforto straordinario tende a metterti sempre sul suo gradino più alto e quando nella danza ho problemi è la prima che è disposta ad ascoltarmi, a calmarmi se qualcosa è andato storto a proteggermi da me stesso, si proteggermi da me stesso ma non per autolesionismo o cosa ma per tenere il mio morale su al punto giusto per non farlo finire sotto terra; nella mia vita ho ricevuto moltissime delusioni che non mi sarei mai aspettato per le persone che credevo che fossero ma purtroppo di determinate cose ne vieni a capo solamente grazie al tempo che ti permette di aprire gli occhi e conoscere la realtà dei fatti, e la realtà in cui stai vivendo;
tornando alla persona che persona non è perché si può definire Donna con la D veramente maiuscola in tutto e per tutto, è fantastica davvero prima di lei non conoscevo l'esistenza di molte emozioni o forse non così forti, non conoscevo ancora l'amore sul viso di una ragazza prima di lei non avevo mai visto arrossire una ragazza per un gesto, per una parola o addirittura portarmi a calare lo sguardo perché non riesco a tenere i miei occhi fermi nei suoi, non perché nei miei pensieri c'è dell'altro ma perché lei ha quel qualcosa lì dentro che so che come può rendermi e lo sta facendo benissimo l'uomo più felice del mondo così puoi benissimamente uccidermi e farmi fuori con un solo sguardo, non sono intimorito da lei io la amo con tutta l'anima al contrario sono innamoratissimo e preso da lei in un modo assurdo, fuori di donne ce ne sono tante a volte mi dicono anche di più belle ma per me è lei la più bella i miei occhi non riescono a vedere altra bellezza se non in lei, un panorama non mi stimola se non c'è lei, e se non c'è per amare il panorama me la immagino li accanto al panorama stesso, amerei scattarle fotografie mentre è distratta anche se già lo faccio perché è proprio mentre è persa nel suo essere che è spettacolare perché ha una semplicità che ormai non va più di moda per le ragazze di oggi, ma che lei porta con eleganza e sensualità assurda è diversa da tutte le altre ma non perché sia la mia ragazza assolutamente, è diversa perché è semplice ed allo stesso tempo folle, e timida ma allo stesso tempo una pazza per non parlarvi di quando scoppia a ridere, giuro può essere il giorno più grigio e scuro dell'anno riesci a trasformare una giornata di tempesta in una giornata indescrivibile a prescindere se per tempesta si intenda una metafora all'interno della coppia oppure una vera e propria tempesta meteorologica, vi parlo di una persona mozzafiato di un qualcosa di meraviglioso che forse non credete esista ed invece si posso assicurarlo ce l'ho al mio fianco stretta forte e al sicuro da braccia di sconosciuti e da persone che da lei non meriterebbero nemmeno un capello portatole via dal vento, e soave quando parla, quando si muove non credo di essermi mai innamorato così tanto in vita mia, ma lei è tutto quello che ho, e spero presto di poter ringraziare i genitori per avermi fatto un regalo tanto grande, ma credo che come sia orgoglioso io a tal punto di una persona così, lo sono anche i genitori che hanno una figlia speciale.
voglio ringraziarti solo di tutti i sacrifici, le uscite anche solo per mezz'ora disturbando i tuoi ma solo per vedermi prima di una partenza, per un bacio e mezz'ora insieme, dei tuoi pensieri che non mancano mai che mi lasciano sempre un briciolo di sapienza in più anche se sei più piccola e spero di lasciarne anch'io a te, dirti grazie per tutte le volte che ti sei svegliata durante la notte e non hai esitato a chiamarmi tenendo fede alla promessa e delle notti passate a pensare a tutto quello che avevi per calmarlo e poi rimetterci a letto, ti ringrazio per avermi dato forza e coraggio nella cosa che amo di più la danza appoggiandomi sempre in ogni mia scelta pronta ad affrontarla con me per il resto posso dirti solo grazie perché le cose che fai e continui a fare per me sono tantissime e spero di riuscire ad essere il meglio per te per non farti mancare mai quel rossore sul viso e quella splendida mezza luna che ti compare sulle labbra ad ogni mia cazzata, grazie di tutto amore mio, eri la parte fondamentale di me che mi mancava, grazie davvero, ti amo con tutto me stesso.
·tuo Luigi🌙🌹·
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Antonius Block: Dammi ancora del tempo. Morte: Tutti lo vorrebbero, ma non concedo tregua. Antonius Block: Tu giochi a scacchi, non è vero? Morte: Come lo sai? Antonius Block: Lo so. L'ho visto nei quadri, lo dicono le leggende. Morte: Si, anche questo è vero. Come è vero che non ho mai perduto un gioco. Antonius Block: Forse anche la Morte puo' commettere un errore. Jof: Tu l'hai già fatta la colazione eh?! Il guaio è che io non riesco a mangiare l'erba. Perché non me lo insegni?! Sarebbe molto comodo di questi tempi, visto che la gente qui non ama troppo l'arte. Jof: Lo sapevo che non mi avresti creduto! Eppure è la verità che ti ho detto!!! Ma non la verità che dico tutti i giorni, un'altra verità capisci?! Più vera! Jof: Non sarebbe meglio recitare qualcosa di più allegro?! La gente si diverte di più e ci divertiamo anche noi! Jonas Skat: Quanto sei stupido. Non lo sai che è scoppiata una orrenda pestilenza e che i preti s'avvantaggiano delle morti improvvise e dei pentimenti dell'ultim'ora? Jof: E io allora, che parte farò? Jonas Skat: Tu sei un gran babbeo e quindi farai la parte dell'anima! Jöns: Che cosa dipingi? Albertus: La danza della morte. Jöns: E quella è la morte? Albertus: Si, che prima o dopo danza con tutti. Jöns: Che argomento triste hai scelto. Albertus: Voglio ricordare alla gente che tutti quanti dobbiamo morire. Jöns: Non servirà a rallegrarla. Albertus: E chi ha detto che ho intenzione di rallegrare la gente. Che guardino e piangano. Jöns: Invece di guardare, chiuderanno gli occhi. Albertus: E io ti dico che li apriranno. Un teschio, spesso interessa molto di più di una donna nuda. Jöns: Se li spaventi però... Albertus: Li fai pensare. Jöns: E se pensano... Albertus: Si spaventano ancora di più. Jöns: E corrono a buttarsi in braccio ai preti. Albertus: Faccio vedere come stanno le cose, poi che ognuno decida. Antonius Block: Ma perché? Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, preghiere sussurrate, incomprensibili miracoli. Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Antonius Block: Io vorrei sapere. Senza fede, senza ipotesi. Voglio la certezza. Voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il Suo volto nascosto e voglio che mi parli! Morte: Il Suo silenzio non ti parla? Antonius Block: Lo chiamo e lo invoco e se Egli non risponde io penso che non esiste. Morte: Forse è così, forse non esiste. Antonius Block: Ma allora la vita, non è che un vuoto senza fine. Nessuno puo' vivere sapendo di dover morire un giorno, come credendo del nulla senza speranza. Morte: Molta gente non pensa né alla morte, né alla vanità delle cose. Antonius Block: Ma verrà il giorno in cui si troveranno all'estremo limite della vita. Morte: Si, sull'orlo dell'abisso. Antonius Block: Lo so. Lo so ciò che dovrebbero fare. Dovrebbero intagliare nella loro paura una immagine alla quale dare poi, il nome di "Dio". Jöns: Sai, secondo me questa Crociata l'ha inventata uno che poi se n'è rimasto pacifico a casa. Jöns: Addio fanciulla. Avrei potuto violentarti, ma è un genere di amore che non mi va. Troppo faticoso, tutto sommato. Plog: Scusate, nessuno di voi signori ha visto mia moglie? Jof: Perché, si è perduta? Plog: Pare che sia fuggita. Jof: Come, scappata? Plog: Si, con un attore. Jof: Con un attore? Se ha avuto tanto cattivo gusto è meglio che la lasci andare. Plog: Forse hai ragione, ma naturalmente il mio primo pensiero è stato di picchiarla a morte. Jof: Anche questo è giusto. Ucciderla insomma, se capisco bene. Plog: E ucciderà anche quello schifoso buffone. Jof: Chi? L'attore? Plog: Sicuro! Quello con cui è scappata! Jof: E perché mai? Plog: Ma dì un po', non capisci mai? Jof: Oooh l'attore! Capisco! Certo, faresti benissimo! Ce ne sono tanti di attori che anche se uno di loro non ha fatto niente, dovresti ucciderlo soltanto perché è un attore! Mia: Potrebbe anche diventare un cavaliere! Antonius Block: Non sarebbe un mestiere ugualmente divertente. Mia: Infatti non avete l'aria lieta. Antonius Block: Infatti. Mia: Siete stanco? Antonius Block: Si. Mia: Perché? Antonius Block: Ho un compagno molto sgradevole. Mia: Volete dire il vostro scudiero? Antonius Block: No, no, non lui. Mia: E allora chi? Antonius Block: Me stesso. Mia: Oh si, capisco. Antonius Block: Davvero capite? Mia: Si. So come accadono queste cose e spesso mi domando, perché la gente appena ne ha la possibilità, si tormenta. Che ragione c'è? Mia: La gente non ama troppo, chi ha tante fantasie per la testa! Mia: Tutti i giorni sono uguali no? E non c'è niente di strano in questo. Certo, l'estate è migliore dell'inverno perché d'estate non si ha freddo. Ma la primavera è la stagione migliore! Antonius Block: Molte cose turbano gli animi. Mia: Comunque è meglio affrontarle in due. Voi non avete nessuno con cui vivere? Antonius Block: L'avevo una volta. Mia: E ora che sta facendo? Antonius Block: Non lo so. Mia: Che aria seria avete assunto. Era la vostra fidanzata? Antonius Block: Eravamo appena sposati e la nostra vita era un gioco che sembrava senza fine. Io scrivevo poesie sui suoi occhi, sul suo naso, sulle sue deliziose piccole orecchie. Al mattino andavamo a caccia assieme e alla sera ballavamo e la casa era piena di gioia. La fede è una pena così dolorosa. E' come amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra mai, per quanto lo si invochi. Antonius Block: Porterò con me questo ricordo, delicatamente. Come se fosse una coppa di latte appena munto, che non si vuol versare. E sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere. Jöns: Purtroppo si è infelici con le donne e si è infelici senza. E quindi la cosa migliore sarebbe di ucciderle appena incomincia l'infelicità. Jöns: E il tuo sarebbe amore? Lascia che ti dica, povero amore tenero e credulone, che l'amore è fatto sostanzialmente di lussuria più lussuria, di inganni più inganni, di menzogne, sotterfugi e scempiaggini. Plog: Comunque fa male lo stesso. Jöns: Ah beh, naturalmente. L'amore è una faccenda molto dolorosa e alle volte sembra di doverne morire. Ma poi invece passa. Plog: No, il mio è di quello che non passa... Jöns: Tutte storie, tutte storie. E' estremamente raro che uno stupido come te, muoia d'amore. Se tutto è imperfetto in questo imperfetto mondo, l'amore invece è perfetto nella sua assoluta e squisita imperfezione. Plog: Tu sei un uomo felice, perché sai parlare molto bene e poi credi in tutto quello che pensi e dici. Jöns: E chi ti dice che ci credo! Mi piace dar consigli, ecco. E vuoi sapere perché? Perché sono una persona istruita. Jöns: Mi fanno venire in mente quelle scimmie, tanto simili all'uomo, da essere stupide come lui. Morte: Perché non la smetti di fare domande? Antonius Block: No, non la smetterò. Morte: Tanto nessuno ti risponde. Jöns: Che cosa vede? Questo vorrei sapere! Antonius Block: Ormai non vede più. Jöns: Non avete risposto alla mia domanda!!! Chi veglia su di lei? Gli Angeli o Dio o Satana oppure... oppure il nulla? Il nulla, ve lo dico io. Antonius Block: No, no, non puo' essere! Jöns: Guardate i suoi occhi. La sua torpida coscienza si sta accorgendo del nulla. Del nulla che ormai la sommerge. Antonius Block: No! Jöns: E noi siamo qui incapaci di fare qualcosa, perché vediamo ciò che vede lei e il nostro terrore è uguale al suo! E nessuno la aiuta. Antonius Block: Tu ci svelerai i tuoi segreti? Morte: Io non ho alcun segreto da svelare. Antonius Block: Allora non sai niente? Morte: Non mi serve, sapere.
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& ginny, sept 18 biblioteca di raven ❝ Mi piacciono tanto le tue lettere. ❞
( ... )
“Mi fa piacere sentirtelo dire, ma non sono lettere che ho scritto io personalmente” disse Alex, distogliendo lo sguardo dal libro che aveva recuperato da una mensola della biblioteca, volgendolo verso Ginny che sedeva a un tavolo dal suo. Il silenzio in quel posto era sacro, non si avvertiva nemmeno una nube di polvere cadere sulle pagine, sulle mensole e sulle sedie, né il legno umido e antico scricchiolare sotto ai tavoli sgombri e alle panche vacanti, le scarpe calpestare il parquet e il lettore più fedele e quieto respirare. Si sentivano soltanto quei due, la prima che parlottava a voce bassa e con tono servizievole, e il secondo, più casinista, che sospirava o sghignazzava sonoramente a seconda di ciò che leggeva. “Sono lettere di Paul Celan, dillo a lui che ti piacciono- peccato sia morto.” si umettò un dito e passò alla pagina successiva. “Trovato nulla di interessante in quella sezione?”
Ginny R. Océane Lagarce
La biblioteca, il profumo della carta stampata e quell'odore inconfondibile di pagine e pagine che sarebbero rimaste impresse nella mente dei più fortunati. Esisteva un luogo più intimo di quello? Ginny s'era sempre sentita a casa tra quegli scaffali, era il suo luogo sicuro assieme al lago e il fatto che sentisse il bisogno di recarsi più volte al giorno in quel luogo la diceva lunga sul suo umore. Intenta a cercare qualche libro per la ricerca che stava effettuando, non mancava di notare i dettagli, come le lettere che stava leggendo Alexander. Era affascinata dall'altrui scelta letteraria, ma nel silenzio di quel giorno, solamente i due giovani si udivano. Una scrollata di spalle fu la risposta della veggente, la quale osservò con attenzione il giovane. « Beh, sono anche quarant'anni che è morto... » ❝ Ci diciamo cose oscure, ci amiamo l’un l’altra come papavero e memoria, dormiamo come vino nelle conchiglie, come il mare nel raggio sanguigno della luna. … È tempo che la pietra accetti di fiorire, che l’affanno faccia battere un cuore. È tempo che sia tempo. È tempo. ❞ Era seduta ad un tavolo di distanza poco prima, s'alzò per andare vicino al giovane e leggere così quell'oscurità che traspariva da quelle stesse frasi. Era impossibile non vedere le similitudini che in qualche modo facevano parte del suo passato. La veggente si ritrovò poi a scuotere il capo, lo sguardo perso verso quegli scaffali che potevano essere interpretate come le mura che lei stessa innalzava. « Dubito di trovare qualcosa di più interessante... Come sei arrivato a Paul Celan? »
Alex Maxwell
Alex amava la lettura in modo quasi viscerale. Non passava giorno in cui non passasse dalla Biblioteca della città prima di mettere piede dentro casa, sul mobile accanto al letto teneva sempre una montagna di libri, il suo bed & breakfast era ben rifornito e metteva a disposizione d’ogni cliente, dal più piccino al più anziano, una vasta stanza con le pareti adibite a libreria. In particolar modo trovava conforto nelle poesie, aveva una conoscenza invidiabile di ogni poeta mai esistito, la prosa era il suo pane quotidiano. “Al contrario di come potrei apparire, leggo molto.” Fu la sua risposta a Ginny. La poesia citata dalla ragazzina Alexandre la conosceva a memoria. “L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici. Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare: lui ritorna nel guscio. Nello specchio è domenica, nel sogno si dorme, la bocca fa profezia.” Dal modo scomposto in cui era seduto passò a stare in piedi davanti all’amica, facendo cadere un altro libro sul tavolo della biblioteca e causando, in quel modo, un gran tonfo che alzò un po’ di polvere e fece voltare alcune facce nella loro direzione. Alex non vi badò poi molto; continuò a discutere di Paul Celan con Gin. “Mi piace il modo in cui parla della morte e della vita, il suo ripetersi come unica condizione perché irrompa il non ancora. Oh – cosa abbiamo qui?” trascinò una sedia accanto a quella dell’altra e curiosò nelle sue letture. “Cos’è che stai leggendo... mh?”
Ginny R. Océane Lagarce
Leggere era un qualcosa che era diventato insito nell'animo della veggente, fin da quando aveva imparato a farlo all'età di sei anni. Aveva capito fin da subito che la conoscenza era potere, assieme a quel controllo che ultimamente sembrava essere perso. Diversi erano i pensieri che attraversavano la mente di Ginny, ma in quel preciso istante, era il sorriso di chi era divertito ad avere il predominio. Era intrigata dalla scelta letteraria dell'amico, nonché dal suo essere così introspettivo quando l'occasione si presentava come in quel momento. Aveva letto poesie e prose di così tanti autori che avrebbe potuto tenere un convegno sull'argomento della vita e della morte, ma ciò che Ginny cercava, il più delle volte, era il confronto. « Una scelta decisamente interessante la tua... Nonostante non ti facessi così classico. Non so, mi immaginavo altri tipi di letture che potessero tenerti incollato e non un poeta rumeno. » Replicò con quella sua verve che cozzava quasi con quell'aspetto così ricercato ed elegante che ormai era la sua firma. Non si poteva dire che la giovane non fosse fuori dagli schemi, ma quando Alex lasciò cadere il tomo alzando letteralmente tutta la polvere presente all'interno ella biblioteca, Ginny non riuscì a trattenersi dall'alzare gli occhi al cielo. Osservò poi i vari libri che aveva davanti a sé ed in quel momento non riuscì a credere di aver scelto autori decisamente più scontati. Aveva ripreso il suo posto, contornata da libri di ricerche che avrebbero fatto addormentare chiunque. « In realtà è molto più interessante ciò che stai leggendo tu... Sto annegando nelle tradizioni e nelle leggende popolari per una ricerca su come questi possano influenzare le vite dei cittadini del luogo. Credo che abbia vinto a questo giro... »
Alex Maxwell
“Non esserne sorpresa, quando sono fatto leggo anche roba porno. Profonda, ma porno.” Si sentì dire, ricevendo un paio di occhiatacce da persone che, sfortunatamente per loro, lo avevano sentito – e lo avrebbe sentito anche l’anziana donna che sedeva a un paio di tavoli dal loro, se loro questa non si fosse spostata al primo rumore molesto di Alex. Ginny invece non sembrava annoiata o seccata dalla sua presenza, questo ai suoi occhi la rendeva più simpatica rispetto a... tutti quei musi lunghi che se ne stavano in catartico silenzio. La polvere che aveva alzato sbattendo il suo libro sul tavolo gli provocò uno starnuto, ma nonostante quel fragoroso 𝗲𝗰𝗰𝗶̀, Alex riuscì a sentire la risposta dell’amica. E la trovò alquanto noiosa. “Ti sei chiusa in questo ben di Dio per una ricerca su te stessa?” Domandò, corrugando la fronte confuso e battendo un ritmo inventato, continuo, con le dita su un libro polveroso. Prima di quella rivelazione deludente era convinto che Ginny stesse dedicandosi a una lettura più interessante e meno tediosa rispetto a quella che, al contrario, aveva scelto. “Dovresti leggere Dostoevskij o Dumas, o addirittura Agata Christie se proprio ti attrae la lettura noiosa e insipida, non—” si interruppe e gesticolò con la mano, indicando dapprima lei, il suo volto, la sua lunga chioma bionda e le pagine del libro aperto anche al proprio sguardo. “... Questo. Mi stai facendo venire voglia di ubriacarmi come un maledetto poeta annoiato e triste.”
Ginny R. Océane Lagarce
Un ghigno cominciò a sorgere sulle labbra della bionda. Era impossibile non farlo dopo aver appreso quella strana confessione da parte del ragazzo, e di fatto non la stupì nemmeno più di tanto. Aveva sempre visto Alex come un ragazzo fuori dagli schemi, con un suo modo di essere che lo rendevano accattivante agli occhi del genere femminile ma non solo. Ella si ritrovò così a scuotere il capo seppur in modo quasi impercettibile ma non poteva dare tutti i torti al veggente. S'era chiusa lì dentro per una ricerca, ma non era finalizzata a se stessa come aveva pensato il Maxwell, bensì a qualcosa di più grande. « Credimi, la voglia di ubriacarmi è venuta anche a me leggendo tutta questa roba. » Confessò la veggente chiudendo il tomo impolverato che aveva di fronte a sé. Lo spinse un po' più distante da sé, come se in quel momento fosse perfino troppo e dovesse dedicarsi a qualcosa di più frivolo. « Per quanto possa essere interessante, mi sembra di avere la testa che mi scoppia, e tu... Beh, sei la versione di Bukowski dei giorni nostri. Devo aspettarmi qualche raccolta anche da parte tua? O sei più simile a Leopardi con il suo pessimismo cosmico? Per la cronaca, preferirei di gran lunga il primo... Mi era più simpatico. Comunque, non era una ricerca su me stessa, ma per un articolo che avrei dovuto scrivere ma le idee sono precipitate. »
Alex Maxwell
“Fino a ieri la polvere non mi stava sulle palle”, disse, rovistando in una tasca del suo cappotto in cerca di un qualcosa – qualsiasi cosa – per il naso – coprendolo avrebbe evitato di disturbare ulteriormente chiunque con quei starnuti continui – ma non vi trovò niente di interessante e utile, nemmeno ascoltò le parole di Ginny e venne quindi meno alla spiegazione che lei gli stava fornendo circa la sua decisione di mettersi a studiare creaturine stupide. “Hm?” prima ancora che potesse chiederle di ripetersi, l’aula della biblioteca si riempì di un altro suo starnuto. Allora Alex spostò la piccola torre di libri dal loro tavolo e decise di chiudere, in un moto di stizza, anche quello di Ginny. “Ho sentito bene – vuoi ubriacarti e paragonarmi a Bukowski?” dovette ammettere a se stesso che l’idea di andarsene da lì, chiudendosi in qualche locanda della loro cittadina in compagnia dell’amica, ubriacandosi come un otre, lo attirava e parecchio. Sollevò con fare curioso un sopracciglio e guardò Ginny. “Propongo di andare a farci una pinta o due.” Le disse, alzandosi in piedi e tendendo una mano per invitarla ad accettare – e a fare lo stesso: abbandonare il silenzio atavico della biblioteca per un momento di trascinante e folle ebbrezza condivisa. “Ma non devi paragonarmi a Bukowski. In me c’è molta più poesia.”
Ginny R. Océane Lagarce
Sembrava che le parole della veggente fossero state pronunciate al vento, volate via con una folata tra uno stranuto e l'altro. Non poté dunque non comparire un'espressione sorpresa e al contempo perplessa mentre osservava i movimenti dell'amico che in quattro e quattr'otto le chiudeva anche il suo libro. Sembrava che Alex fosse stizzito dalle sue parole, perfino indispettito da quel paragone che la Lagarce aveva menzionato. Non trovava nulla di male nel paragonarlo a Bukowski, non era sfuggito a Ginny la sua replica piccata. « Hai lei idee chiare, mh? » Commentò questa volta Ginny con un leggero sorriso sardonico sulle labbra. Gettò la spugna nel studiare quella roba noiosa che sarebbe stata ancora lì il giorno dopo e anche quello dopo ancora. Per quel giorno poteva semplicemente lasciarsi andare ad una serata di svago. Radunò tutta la sua roba, infilò i libri nella sua borsa e dopo essersi ravvivata i capelli, lanciò un'occhiata maliziosa ad Alex. « Il primo giro lo offri tu. »
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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Vagabondaggio, Hermann Hesse
TEMPO PIOVOSO
Il diavolo ha sputato nella minestra. Niente è al proprio posto, niente risuona. Niente rallegra e riscalda. Tutto è desolato, triste, sporco. Tutte le corde sono stonate. Tutti i colori falsati. Io so perché è così. Non si tratta del vino che ho bevuto ieri, e neppure si trattaa del tempo piovoso. Diavoli sono venuti ed hanno reso stridente in me ogni corda. La paura è tornata, paura da sogni infantili, da favole, da destini di scolaretti. La paura, l'essere circondato dall'irrevocabile, la malinconia, il disgusto. Che sapote inspido ha il mondo! Come è terribile che domani ci si debba di nuovo alzare, di nuovo mangiare, di nuovo vivere! Perché mai si vive? Perché si è così stupidamente bonari? Perché non si giace più a lungo nel lago?
A ciò non vi è rimedio. Non puoi essere vagabondo e artista e contemporaneamente anche borghese e uomo sano e decoroso. Ti vuoi ubriacare, allora tienti anche il mal di testa! Se dici sì alla luce del sole e alle fantasie leggiadre, devi dire di sì anche alla sporcizia e al disgusto. Tutto questo è in te, oro e fango, bramosia e pena, riso infantile e paura della morte. Dì a tutto sì, non sottrarti a niente, non tentare di eludere niente. Non sei un borghese, non sei neanche un Greco, tu non sei armonioso e signore di te stesso, sei un uccello nella tempesta. Lascia che la tempesta infuri! Lasciati portare! Quanto hai mentito! Migliaia di volte, anche nelle tue poesie e nei tuoi libri, hai giuocato a fare il saggio, l'armonioso, il felice, l'illuminato.
Così hanno recitato la parte gli eroi in guerra, al momento dell'attacco, mentre le viscere sussultavano. Signore Iddio, che povera scimmia, che spadaccino allo specchio è l'uomo, specialmente l'artista, specialmente il poeta, specialmente io!
Mi farò arrostire dei pesci e berrò il vino nostrano da spessi bicchieri, per di più fumerò i lunghi sigari, e sputerò nel camino, penserò a mia madre e cercherò di spremere una goccia di dolcezza dalla mia tristezza angosciosa. Poi giacerò nel cattivo letto accostato alla parete sottile, udrò vento e pioggia, combatterò con i battiti del cuore, desidererò la morte, aborriò la morte, invocherò Dio. Sino a che tutto non sia passato, sino a che la disperazione non si fiacchi, sino a che non mi culli qualcosa come sonno e conforto.
Era così quando avevo vent'anni, è così oggi, sarà così sino alla fine. Sempre tornerò a pagare con giorni simili la mia bella, diletta vita. Sempre torneranno questi giorni e notti, la paura, il disgusto, la disperazione. E comunque io vivrò e continuerò ad amare la vita. Come impedono misere e artefatte le nuvole sui monti! Come si rifrange falsa e stridula la luce insulsa sul lago! Come è sciocco e sconsolato tutto ciò che mi viene alla mente!
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Frank Turner - No Man’s Land
Ma io l'ho sostenuto quando vacillava
Quando la terra e la fede traballavano
E le parole sulla mia tomba diranno
"Io ti ho creduto, William Blake"
(da: I Believed You, William Blake)
1. Jinny Bingham's Ghost
Lo spettro di Jinny Bingham
Se stai andando a Camden Town non dimenticarti di fare un brindisi
Alla santa patrona di trovatelli e randagi, allo spettro di Jinny Bingham
Un tempo era una ragazza dal volto candido, veniva da Kentish Town
I suoi erano venditori itineranti, Jinny Bingham era il suo nome
Con suo marito Gypsy George gestiva a Camden una locanda di strada
Ma poi lui fu appeso per il collo al Tyburn Tree per aver rubato delle pecore
Le si spezzò il cuore a perdere la persona che amava quand'era poco più che una bambina
Così un uomo di nome Derby chiese la mano di Jinny dolce e mite
Era un bevitore, non un pensatore, faceva piangere la moglie tutti i giorni
Finché una mattina d'inverno a Camden, Derby scomparve nel nulla
Se stai andando a Camden Town non dimenticarti di fare un brindisi
Alla santa patrona di trovatelli e randagi, allo spettro di Jinny Bingham
Si era guadagnata una reputazione sulle aspre strade di Camden
Se ti intrattenevi con la Bingham tenevi poco alla tua virilità
Ma nonostante questo quel taccagno di Pitcher fu il terzo uomo a baciarle le labbra
Finché una sera le aprirono il forno e trovarono lui completamente carbonizzato
La processarono per l'omicidio, pensavano di averla finalmente incastrata
Ma persino alla morte dell'uomo successivo Jinny riuscì a evitare il cappio
Era uno che fuggiva dalla giustizia, lo accolse da lei per amore
Ma lui la picchiò una volta di troppo e il veleno lo tolse di mezzo
Se stai andando a Camden Town non dimenticarti di fare un brindisi
Alla santa patrona di trovatelli e randagi, allo spettro di Jinny Bingham
Alla gente del posto non piaceva, le dicevano una serie di falsità
Dicevano che era una donna malvagia, una fattucchiera conclamata
Giuravano che fosse diventata ricca sulle lapidi dei suoi mariti
Reprobi e virtuosi, tutti sapevano che era una strega
Ma il motivo per cui la odiavano in realtà era molto semplice
Offriva gentilezza ai reietti, accoglieva chi ne aveva bisogno
I criminali e i giocatori, le meretrici e le puttane
Tutti sapevano che Jinny offriva un rifugio nella sua locanda
Nessun giudizio per chi era giudicato, e non esisteva peccato troppo grande
Il giorno che morì giurarono di aver visto il diavolo al suo fianco
La folla sfondò la porta di casa sua e la prelevò dalla sua sedia
La locanda è ancora in piedi, ora si chiama The Underworld
E offre ancora un rifugio a tutti i ragazzi e le ragazze che soffrono
E allora andiamo a Camden Town, gente, e facciamo un brindisi
Alla santa patrona di trovatelli e randagi, allo spettro di Jinny Bingham
2. Sister Rosetta
Sister Rosetta
Sister Rosetta, madrina del rock 'n roll
La prima vera sorella del soul
Tutta la nostra musica viene da lei
Ha portato il ritmo dall'oscurità alla luce
Ha portato una buona parola alla notte per salvare tutti noi peccatori
Rosetta alzava lo sguardo quando suonava
Sapeva che di cose strane ne succedono ogni giorno
E che il momento d'oro dei ragazzi bianchi alla fine sarebbe passato
Ma il suo modo di suonare sarebbe rimasto
New York City, era il 1938
La radio non vedeva l'ora che arrivasse Rosetta
Successo istantaneo
E i piccoli Elvis, Chuck e Johnny a casa la sentivano sul grammofono
E non se la sarebbero dimenticata
Rosetta alzava lo sguardo quando suonava
Sapeva che di cose strane ne succedono ogni giorno
E che il momento d'oro dei ragazzi bianchi alla fine sarebbe passato
Ma il suo modo di suonare sarebbe rimasto
Rosetta è nella Hall of Fame
Non lasciate che sia dimenticata in una chiesa dell'Arkansas
Ricordate quando insegnò al Cotton Club la gloria del Signore
Non lasciate che sia dimenticata: Rosetta merita di meglio
Ricordate quando insegnò a una nazione dal binario di un treno in Inghilterra nel 1964
Sister Rosetta ha visto svanire le luci dei riflettori
Ha visto trascorrere gli ultimi dei suoi giorni in un sobborgo di Philly
Giù al fiume, sentiva ancora la musica nell'aria
Sopra la sua testa e da ogni parte
Su un treno che portava alla gloria
Rosetta alzava lo sguardo quando suonava
Sapeva che di cose strane ne succedono ogni giorno
E che il momento d'oro dei ragazzi bianchi alla fine sarebbe passato
Ma il suo modo di suonare sarebbe rimasto
Rosetta alzava lo sguardo quando suonava
Sapeva che di cose strane ne succedono ogni giorno
E che il momento d'oro dei ragazzi bianchi alla fine sarebbe passato
Ma il suo modo di suonare sarebbe rimasto
Rosetta è nella Hall of Fame
Rosetta è nella Hall of Fame
Rosetta è nella Hall of Fame
3. I Believed You, William Blake
Io ti ho creduto, William Blake
Avete visto mio marito?
Lo riconoscereste se l'aveste visto
È conosciuto in giro per la vecchia Londra
Quasi tutti pensano che sia matto
Mio marito parla con gli angeli
E con degli spiriti che riesce a vedere
Passa il tempo con il divino
Ma non tanto con me
Ma io l'ho sostenuto quando vacillava
Quando la terra e la fede traballavano
E le parole sulla mia tomba diranno
"Io ti ho creduto, William Blake"
Abbiamo tirato a vivere nell'ombra
Disseminata di compatimento e di disprezzo
I grandi e i sapienti non sono mai stati in grado di riconoscere un profeta nato
Con la poesia e le incisioni lui ha presentato il paradiso
Ha rivelato loro una Gerusalemme che quelli non volevano riconoscere
Ma io l'ho sostenuto quando vacillava
Quando la terra e la fede traballavano
E le parole sulla mia tomba diranno
"Io ti ho creduto, William Blake"
Mr William Blake, c'è una promessa che devi fare
William caro, se hai ragione sulla vita dall'altra parte, sul paradiso
Allora mi devi promettere che non mi abbandonerai
Quando abbandonerai questo mondo che non ha creduto
Dai conforto alla tua moglie
Lei ha dedicato a te la sua unica e sola vita certa
Non mi abbandonare nella tomba
Io ti ho creduto, William Blake
Sarò con te, dannato o salvato
Non mi abbandonare nella tomba
Io ti ho creduto, William Blake
4. Nica
Nica
Calmati, Nica
Non c'è bisogno che aspetti il dottore fuori dallo Stanhope
Charlie Parker sul divano nel tuo appartamento si è svegliato
E starà benone appena gli passa
E ti raggiungerà in prima fila al Five Spot verso mezzanotte
Prepara la Bentley, e portati la Bibbia scavata con il whisky
52nd Street, nessuna telefonata dagli sbirri o dai tuoi familiari ti può raggiungere
Tutti ti conoscono lì, sei famosa tu e la tua pelliccia con Thelonious
Il sommo sacerdote e la baronessa
Tutti i gatti dicevano che eri una farfalla
Ma non è esattamente così
Pannonica è una falena che prende vita nel pieno della notte
È capace di volare al tuo tavolo
È capace di bisbigliarti un segreto nell'orecchio
"C'è un solo consiglio che devi sentire
Ognuno di noi ha una e una sola vita"
Sù, calmati, Nica
Non c'è più bisogno che vai fino a Baltimore
La cabaret card è lì che aspetta insieme alla posta del mattino
Le tue missioni caritatevoli per i musicisti non sono state inutili
I non-anni* sono finiti
Sei per sempre nera, marrone, beige, la baronessa del bebop
Tutti i gatti dicevano che eri una farfalla
Ma non è esattamente così
Pannonica è una falena che prende vita nel pieno della notte
È capace di volare al tuo tavolo
È capace di bisbigliarti un segreto nell'orecchio
"C'è un solo consiglio che devi sentire
Ognuno di noi ha una e una sola vita"
Nica la sua l'ha passata volando
Era più libera dei francesi
Diceva sempre: "Tu ascolta la musica, mio caro
E getta il cuore oltre l'ostacolo
E il resto verrà da sé"
* Thelonious Monk si riferiva agli anni in cui non era stato produttivo come ai suoi "unyears".
5. A Perfect Wife
Una moglie perfetta
Ho sposato Charlie quando avevo 16 anni
Ma non lo amavo e lui non amava me
Frank era tenero, mi mandava le poesie
Ma non era come alla TV
Vedova solitaria, non sapevo dove andare
Per un certo tempo mi sono stabilita sulla costa della Florida
Rick e Arlie ci hanno dovuto lasciare
Per raggiungere gli altri fantasmi della mia famiglia
E oh, oh, oh, non sono stata una moglie perfetta
Sono un cuore solitario che cerca il vero amore della vita
Sam era un uomo severo, cattivo di natura
Diceva che le donne non hanno bisogno delle riviste rosa
Ma gliel'ho fatta vedere io con quell'ultimo caffè
E adesso di me facciano pure quello che vogliono
Oh, oh, oh, non sono stata una moglie perfetta
Sono un cuore solitario che cerca il vero amore della vita
State tranquilli, non vi preoccupate, qui mi troverò bene
Sono ancora sicura che troverò la persona perfetta
E ho la coscienza a posto
Non l'ho fatto per i soldi, a dir la verità ero annoiata
Non mi scrive più nessuno
Le sigarette e le mura della prigione mi terranno compagnia finché non mi chiamerà il Signore
E lo sa il Signore che oh, oh, oh, non sono stata una moglie perfetta
Sono un cuore solitario che cerca il vero amore della vita
Oh, oh, oh, non sono stata una moglie perfetta
Sono un cuore solitario che cerca il vero amore della vita
State tranquilli, non vi preoccupate, qui mi troverò bene
6. Silent Key
Tasto Silenzioso
Il 28 gennaio 1986 Christa McAuliffe guardò con orrore gli O-ring che cedevano
E morì, e morì, e morì
Per i successivi angoscianti due minuti e quarantacinque lunghi secondi
Gridò la verità in una radio rotta:
“Sono viva, sono viva, sono viva”
Fu un po’ una sorpresa scoprire che mentre lei perdeva tutto
Il mondo si rivelava in una trasmissione talmente vera che lei comprese tutto
Siamo ancora vivi
A quattromila miglia nautiche a volo di corvo
Una radio amatoriale artigianale nella soffitta di una villetta nell’Hampshire
Prese vita, prese vita, prese vita
E dunque il radiooperatore amatoriale di quattro anni divenne così
L’unica persona a sentire l’ultimo disperato comunicato di Christa
“Siamo vivi, siamo vivi, siamo vivi”
Fu un po’ una sorpresa scoprire, anche se non capiva tutto
Il mondo che si rivelava in una trasmissione talmente vera che lui comprese tutto
Siamo ancora vivi, siamo ancora vivi
“L’oscurità lassù mi ha abbindolata come un amore non ricambiato
E invece tutto ciò che mi serve sta quaggiù nel mare azzurro e profondo
L’oscurità lassù mi ha abbindolata come un amore non ricambiato
E invece tutto ciò che mi serve sta quaggiù nel mare azzurro e profondo
L’oscurità lassù mi ha abbindolata come un amore non ricambiato
E invece tutto ciò che mi serve sta quaggiù nel mare azzurro e profondo”
A quattro anni ho sentito la verità dalla mia radio
Dunque ora osservo un momento di silenzio per il mio Tasto Silenzioso
7. Eye of the Day
Occhio del Giorno
Mi hanno chiamata Margaretha il giorno che sono nata
Il giorno che sono morta i soldati mi hanno chiamata H21
Nei circhi e nei palazzi, cento nomi ho portato
Da La Belle de l'Epoque a L'occhio del ciclone
Ma per chiunque dovesse chiedere, ho preso il nome dal sole
Facevo l'insegnante da giovane, ma sono fuggita di casa
Verso le Indie Orientali con il loro caldo, caldissimo sole
Per sposare un uomo che non conoscevo
Mi chiamava Lady MacLeod
Ma i tempi non permettevano mie rimostranze
Quando il vizio della bottiglia lo affossava
E allora ho trovato la pace nella danza
Mi hanno dato della turista quando ho cominciato a danzare
Della dilettante e della cortigiana quando sono arrivata in Francia
Sui palchi, nei salons, ho tenuto a freno la lingua
Nessun uomo mi ha mai posseduta né qualcuno mi ha mai conosciuta
E per chiunque dovesse chiedere, ho preso il nome dal sole
Della loro guerra non mi è mai importato molto
Avevo già visto uomini combattere
Già visto il marciume del loro spirito di corpo
Non avrei più danzato per loro
Sono venuti a portarmi via dall'Hotel Champs Elysées
Ho detto ai soldati che non avevo nulla da dichiarare
Tanto non mi avrebbero comunque ascoltata
Erano morti troppi uomini, e qualcuno doveva pagare
Hanno fissato una data per la mia morte
Ma mentre mi trovavo su quel campo di morte, rifiutando la benda per gli occhi
Guardando in faccia i soldati e l'odio del mondo
Ho sentito il calore del sole della Malesia e ho sorriso per tutti loro
Pensavano di aver avuto la meglio su di me
Ma nessuno di loro avrebbe saputo dire come mi chiamassi
Appena prima di entrare nell'oscurità, ho sussurrato il mio vero nome
Io sono Mata Hari, occhio del giorno
Nelle celle nessuno è venuto a reclamare il mio corpo
Per chiunque dovesse chiedere, ho preso il nome dal sole
Per chiunque dovesse chiedere, ho preso il nome dal sole
8. The Death of Dora Hand
La morte di Dora Hand
Dora Hand era una cantante di operetta a New York
Nata in una famiglia benestante di Boston, e formata a Parigi
Abbigliata di nero era una bellezza classica, ma di debole costituzione
Si avventurò nel West per respirare l'aria fresca delle Pianure
Finì per stabilirsi a Dodge City, una cittadina di allevatori, brutta e arida
Nascose il suo passato, si fece chiamare Fanny Keenan
Si esibiva come cantante di vaudeville al Lady Gay e all'Alhambra
I cowboy la adoravano e in breve divenne famosa
Cantate una canzone per Dora Hand, ragazzi
Ha portato un po' di bellezza in questa terra brulla e desolata
Levatevi il cappello per Dora Hand, ragazzi, sia che siate dannati o salvati
Con la gente di Dodge lei era un angelo
La chiamavano Dama di Carità di giorno, e Regina delle Fate di sera
Guadagnava un bel po' di soldi, per cui ne dava molti a chi ne aveva bisogno
Gran bella voce, ma soprattutto sapeva cosa era giusto e cosa sbagliato
E l'adorabile Dora fece invaghire il sindaco, il famoso James Dog Kelley
Come molti altri uomini prima di lui, lo sentirono dire
"Quella Dora è una creatura meravigliosa
Fa venire agli uomini una strana nostalgia, sogni di cose più belle e giorni migliori"
Cantate una canzone per Dora Hand, ragazzi
Ha portato un po' di bellezza in questa terra brulla e desolata
Sognate un sogno di una terra promessa, di Dora Hand, ragazzi
Ma il giovane Spike Kenedy venne dal Texas tuonando come un nuvolone da temporale
Vociava e faceva il puttaniere e si imbottiva di whiskey più di un'intera folla di iettatori
Una sera vide Dora che cantava all'Alhambra e cercò di rubarle un bacio
Dog Kelley si infuriò e lo stese a terra con un solo scatto del suo polso del Kansas
Ebbene, a Spike salì una gran rabbia, era assetato di sangue, sembrava il figlio del demonio
Montò a cavallo con il revolver carico e andò alla baracca dove si riposava sempre il sindaco
Sparò alla cieca, ma non colpì il suo bersaglio quando il proiettile attraversò la parete
Kelley non era a letto – lì distesa al posto suo, Dora Hand fu uccisa
I marshal misero sù una banda e raggiunsero il giovane Spike Kenedy
Suo padre lo tirò fuori di galera con i soldi anche se lui aveva confessato
Tutta Dodge City pianse per Dora, tutti i bar chiusero mentre la seppellirono
Quattrocento cowboy la scortarono alla tomba
Cantate una canzone con la banda del funerale, ragazzi
Non ne vedremo più una come lei in questa terra brulla e desolata
Salutatela che va nella Terra di Nessuno, ragazzi
Dora Hand, la nostra Dora Hand
9. The Graveyard of the Outcast Dead
Il cimitero delle morte emarginate
Hanno seppellito il mio corpo a Natale
Nel terreno vicino alla sponda sud del fiume
Mi sono uccisa di lavoro, fino all'ultimo respiro
Devo ringraziare i vescovi di Winchester
Le chiavi del bordello erano in mano alla chiesa
Accendevano loro la luce rossa alla finestra
Mentre io solleticavo i denari nelle tasche dei clienti
Il Vescovo si arricchiva durante la notte
Ma non sono marcita in tutti questi anni passati al buio
Per il mio amato ho conservato puro il mio cuore
E viene a trovarmi nel cimitero, il cimitero dove mi hanno messa a riposare
Pianta un fiore bianco sotto il freddo delle stelle sulla tomba della morta dimenticata
I Vescovi sono fuggiti verso nuovi pascoli
Mentre la mia tomba veniva ricoperta dalle erbacce
Nessun loculo, solo qualche nontiscordardimé per le donne marchiate come impure
Del terreno incolto se n'è appropriata la città
L'hanno riempito di palazzine fatiscenti
Perché il posto dove ci hanno lasciate non è mai stato consacrato
E hanno scavato e costruito sopra le nostre ossa
Ma ogni dicembre, col ghiaccio sulle dita
Il mio amato ritorna, perché si ricorda ancora
Di venire a trovarmi nel cimitero, il cimitero dove mi hanno messa a riposare
Pianta un fiore bianco sotto il freddo delle stelle sulla tomba della morta dimenticata
Il sole tramonta e se ne vanno le ultime persone
È la città di Londra alla Vigilia di Natale
Il mio amato continua a vagare misero e miserevole
Perché non trova la donna che aveva promesso di vedere
Il sole sorge sul terreno gelato
È la mattina di Natale nella città di Londra
Lui giace sulla mia tomba con la testa appoggiata
Sentendo le campane della chiesa capisce che sono morta
Londra, non piangere per i tuoi innamorati
Alza i calici per la gloria di noi morte
Perché sotto le strade di Southwark siamo sopravvissute ai preti
E la città si è innalzata sui nostri letti
Anche se non ci siamo più, Londra, non dimenticare
Di venire a trovarci a Natale nel cimitero dove ci hanno messe a riposare
Piantate un fiore bianco per le emarginate sulle tombe delle morte dimenticate
Venite a trovarci a Natale nel cimitero dove ci hanno messe a riposare
Piantate un fiore bianco per le emarginate sulle tombe delle morte dimenticate
Nel cimitero delle morte emarginate
10. The Lioness
La Leonessa
Dicevano che erano tempi duri per gli uomini onesti
Ma a lei non fregava nulla perché non era una di loro
Non intendo dire che abbia mai detto una bugia
Ma l'hanno fatta crescere nell'harem dicendole di stare zitta
Non ha più intenzione di nascondere la sua faccia
Non ha più intenzione di sapere qual è il suo posto
Costretta a sposarsi da giovane e messa da parte
Huda ha sempre brillato, non era una che si nascondeva
Ha imparato da sola le lingue e la poesia
Ha imparato da sola a parlare per rendersi libera
Ammirate le sue opere, uomini potenti*
Ha aperto l'harem, non lo possono più richiudere
Ha superato un precipizio e si è lasciata cadere in libertà
È scesa dal treno ed è entrata nella storia
Non ha più intenzione di nascondere la sua faccia
Non ha più intenzione di sapere qual è il suo posto
Non ha più intenzione di nascondere la sua faccia
Non ha più intenzione di sapere qual è il suo posto
Huda Sha'arawi era il nome della Leonessa
Un cuore ben nutrito, gli occhi infuocati
Un volto scoperto che mostrava gli ostacoli che aveva superato
Huda è la Leonessa, non si farà addomesticare
Non ha più intenzione di nascondere la sua faccia
Non ha più intenzione di sapere qual è il suo posto
Non ha più intenzione di nascondere la sua faccia
Non ha più intenzione di sapere qual è il suo posto
Tutti dovrebbero conoscere il suo nome
La Leonessa non si farà addomesticare
Tutti dovrebbero conoscere il suo nome
La Leonessa non si farà addomesticare
* Citazione dal sonetto Ozymandias di Percy Bysshe Shelley.
11. The Hymn of Kassiani
L'inno di Kassiani
Ho sentito che mi chiamano la donna dai molti peccati
Mi hanno fatto portare la mirra alla sepoltura
E di fianco alla tomba ho cominciato a cantare
Povera me, voi tutti peccatori
Sono la signora di una notte senza luna
L'oscurità per me è la mia estasi
Ma per i miei peccati sono lungi dal pentirmi
Mi hanno trascinata via dalla biblioteca
Gettata dinanzi all'aspra luce del concorso di bellezza
Dove ho detto al re che ero migliore di lui
E così mi sono guadagnata l'avversione di Teofilo
E Teo pensa che io lo ami ancora
Ma io lo conosco, e non ne sa proprio nulla
Mi chiamano Kassiani: la donna che ha rifiutato il re
Orbene l'imperatore ha fatto distruggere le icone
Le immagini e le parole ritenute divine
Ma nella pace della mia cella io le ho ridipinte tutte
E il nome con cui le ho firmate era il mio
Mi hanno flagellata con la frusta per la mia impudenza
Le mie lacrime erano una fontana di acqua salata
Ma non mi sono riconosciuta sconfitta
Nel mio cuore afflitto scorre sangue blu bizantino ribelle
E Teo pensa che io lo ami ancora
Ma io lo conosco, e non ne sa proprio nulla
Non spregiatemi come una serva
Consideratemi la donna che ha rifiutato il re
Sì, mi sono nascosta dal suo sguardo quando lui è venuto in visita
Ma badate di non ritenermi spaventata o mansueta
Mi nauseava la sua ineffabile aria di superiorità
E non ho intenzione di baciare quei sacri piedi
Metterò i suoi passi in musica che sentiranno pagani e greci
Si prenderanno gioco del suo girovagare in paradiso al crepuscolo
E si ricorderanno di me: Kassiani, colei che odia il silenzio quando è ora di parlare
E Teo pensa che io lo ami ancora
Non conosce la moltitudine dei miei peccati
Canteranno la mia canzone anche dopo che Bisanzio non ci sarà più
La donna che ha rifiutato il re
Ho sentito tutti gli epiteti con cui mi hanno chiamata
Sono null'altro che pietre e dardi
Lasciate la gloria alla matrigna e al figlio
Io sono la donna che ha rifiutato il re
12. Rescue Annie
Rescue Annie
Hanno trovato il corpo nell'acqua
Galleggiava a faccia in giù nel fiume
La persona che l'ha trovata ha chiamato il dottore, o almeno così dicono
Nemmeno un graffio – non perdeva sangue
Sedici anni, è morta vergine
Delusa per amore, si è data la morte, o almeno così dicono
Salvate Annie dal fiume
Con ogni bacio che le viene dato dalle profondità
E noi la perdoniamo per essersi gettata
Dicono che il dottore l'avrebbe potuta salvare se fosse arrivato un pochino prima
Gli si è spezzato il cuore vedendo che non era riuscito a riconsegnarla al mondo
E anche se non ha potuto salvare Annie, ha deciso di raccontarne la storia
Ha utilizzato il suo volto per creare un corpo con cui insegnare al mondo
Salvate Annie dal fiume
Con ogni bacio che le viene dato dalle profondità
E noi la perdoniamo per essersi gettata
Nella penombra dei magazzini degli ospedali in giro per il mondo
Lei aspetta il bacio mancante che l'ha condannata al suo destino
Annie sprofonda nel fiume
Di quello che l'ha rifiutata ci si è dimenticati
Mentre lei viene celebrata da un milione di labbra
Salvate Annie dal fiume
Aiutatela a respirare, cercate di perdonarla
Premetele il petto, ricordatevi sempre che nel suo cuore noi troviamo un porto sicuro
E ogni anno, quando comincia l'estate, lui si trattiene giù vicino al fiume
Salvate Annie dal fiume
Da viva, le sue labbra solitarie non sono mai state amate
Da morta, accarezzate per sempre
Ci siamo gettati tutti
13. Rosemary Jane
Rosemary Jane
Rosemary Jane è la prima ad alzarsi dal letto
Tutte le mattine le stesse azioni, ma ci sono bocche che vanno sfamate
Con il denaro che riceve da un uomo che è come se fosse morto per sé stesso
E come se fosse morto anche per tutti gli altri
Io e le mie sorelle eravamo sempre troppo giovani
Per ricordarci di tenere a freno la lingua quando parlavano i grandi
Ma il silenzio è cominciato tanto tempo fa per Rosemary Jane, la dolce Rosemary Jane
È la Domenica della Mamma, e i titoloni dovrebbero dire
Che non abbiamo dimenticato quanto sei stata straordinaria
A farti carico tu di tutto quel dolore e metterlo da parte
Rosemary Jane
Quando penso alle cose che hai dovuto patire...
Eravamo giovani, eravamo incoscienti, testardi e insicuri
Tu ci hai guidati dolcemente sulla retta via, che ti amassimo o ti ignorassimo, Rosemary Jane
Lo so che ti ho fatto venire un capello bianco per ogni volta che ho fatto qualche stupidata
Ognuno di loro un monito argentato che i miei sbagli si accumulano
A ogni mio errore sciocco, a ogni scivolone tu non hai mai perso le speranze, Rosemary Jane
È la Domenica della Mamma, e i titoloni dovrebbero dire
Che non abbiamo dimenticato quanto sei stata straordinaria
A farti carico tu di tutto quel dolore e metterlo da parte
Rosemary Jane, dolce Rosemary Jane
Incerto sulla mia strada nella Terra di Nessun Uomo
Incerto su me stesso nella Terra di Nessun Uomo
Mai davvero solo nella Terra di Nessun Uomo
È la Domenica della Mamma, e i titoloni dovrebbero dire
Che non dimenticheremo mai quanto sei stata straordinaria
A farti carico tu di tutto quel dolore e metterlo da parte
Dolce Rosemary Jane, dolce Rosemary Jane
Rosemary Jane, Rosemary Jane
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Lividi d'angoscia 🌻
è una raccolta di poesie che racconta il disturbo borderline di personalità dal punto di vista di chi lo vive, ogni giorno, sulla sua pelle. È un viaggio emotivo tra angoscia e insoddisfazione, vuoto e sbalzi d’umore, amori travagliati e gesti estremi, rabbia e allucinazioni, per sfiorare con i sensi la sofferenza della mente. Questo percorso è strutturato in nove capitoli, ognuno dei quali corrisponde a un sintomo del disturbo borderline, e si conclude con una poesia dedicata alla rinascita interiore, un traguardo difficile da raggiungere ma sempre possibile, perché le difficoltà non definiscono il nostro essere, sono solo sfaccettature.
La raccolta nasce con l’unico scopo di dar voce al dolore viscerale che risiede nell’animo, troppo spesso ignorato o svilito, per sensibilizzare il lettore sul tema delle malattie mentali, considerate ancora come la condanna del diverso, un segreto da nascondere sotto alla più grande vergogna. Ogni poesia rappresenta un urlo infiammato che squarcia l’oscurità, è la voglia di essere ascoltati e accettati per come siamo, il bisogno di far conoscere quel mondo abitato da demoni, senza paura o vergogna. Forse qualcuno leggendo si rispecchierà nei versi e troverà conforto, un rifugio sicuro dove sentirsi meno solo.
#lividi d'angoscia#poesie#disturbo borderline#borderline personality disorder#bpd#borderline#living with borderline#dolore#sofferenza#salute mentale#malattie mentali
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Senzatetto, mezzo gangster, dandy, fratello in spirito di Rimbaud e seguace di Lanza del Vasto: ecco chi è stato Luc Dietrich. Oggi compie gli anni, pubblicatelo come si deve, please
Avevo sistemato sul letto i miei vestiti spazzolati e con le pieghe stirate, la mia camicia preferita e la cravatta di seta […].
Mi avvicinai allo specchio, per distendere sotto il rasoio la barba di un giorno che mi adombrava la guancia.
Ma rimasi immobile con la lama in sospeso, perché l’occhio, colpendo l’occhio in quello specchio, tornò indietro e si fece largo fin nella cavità interiore. E per la prima volta, in mezzo alla sua oscurità e al suo fruscio, scoprii una sala con un alto soffitto a volta nella cavità interiore: una cappella che non aveva mai visto la luce del giorno. E da che essa si aprì, dovetti indietreggiare a causa dell’odore che emanava. Il primo raggio di luce non vi discese dritto fino al suolo, ma tremò e si offuscò a metà strada, nell’aria densa. Le immondizie ingombravano l’altare, e vi regnavano le blatte e gli animali lividi che si nutrivano di marciume e i suoi flaccidi vegetali dalle spine di ferro.
Sotto la loro massa si sentiva però la nitidezza delle lastre di pietra, l’ossatura delle colonne e lo slancio delle arcate.
Deposi il mio rasoio senz’averlo usato.
Mi stupii d’aver levato ogni singolo giorno, con tanta minuzia e vigilanza, ogni singola macchia con la punta delle mie unghie, intonato il colore delle stoffe con cui mi vestivo, e messo a distanza dai miei sensi ogni polvere e odore, e di non essermi mai preso cura di quella cripta, né saputo che esistesse e che richiedesse delle cure.
Lasciai sul letto i miei vestiti già pronti, mi tenni addosso quelli che avevo e che mi sembravano fin troppo buoni.
***
“Va’ pure dove vuoi, cerca quel che ti piace, […] ma altro non troverai che dover sopportare qualcosa”, insegna l’Imitazione di Cristo, libro II, paragrafo 12, versetto 2.
“Per sopportare questa città voglio costruirmi un sorriso incrollabile. Porto in me questo grande amore”, recita un passo de L’apprendistato della città di Luc Dietrich.
Queste due sentenze sono l’architrave spirituale su si regge il romanzo autobiografico di questo misconosciuto autore francese, nonché grande fotografo in particolare della natura, di piante, fiori e foglie, finora mai tradotto in italiano ma più volte riedito nel suo paese e oggetto tra l’altro di una riscoperta da parte della stessa municipalità di Parigi, luogo (raggiunto in giovane età salutando Digione – dov’era nato nel 1913 da madre tossicomane) di un apprendistato, come recita il titolo, certo della città, ma da leggersi anche e se non altro per la chiara assonanza nella lingua originale, della vita.
Un romanzo che con Le Bonheur des tristes [La felicità dei tristi] (libro che fu candidato al premio Goncourt – in una metà anni Trenta piena di fermento) va a comporre un dittico di volume diseguale e ad aggiungersi alla lunga serie di odissee metropolitana della letteratura del Novecento, dai capolavori di Hamsun (La fame), Miller (Tropico del cancro), Céline (Morte a credito), Cendrars (Rapsodie gitane), ai racconti di Bukowski, definendo un naturalismo sui generis, anche “interiore” che aggiorna le esperienze di Zola (Il ventre di Parigi), Huysmans (In cammino) e Bloy (Il disperato).
Certo, pure in presenza di non poche affinità, il confronto con i grandi d’inizio secolo (Proust, Joyce, e quelli già citati), specie dal punto di vista formale, può vedere Dietrich soccombere, essendo un “romanziere maldestro ed eccessivo”, come ha scritto Lanza del Vasto, filosofo e pensatore religioso d’origine brindisina e nobile, che incontrò nel parc Monceau e che molto aiutò Luc (o meglio l’allora Raoul-Jacques), e per esempio spronandolo a rielaborare quest’opera, che gli metterà tra le mani un manoscritto d’amanuense.
*
La scrittura di Dietrich, certo a tratti rapsodica e a un tempo aspra, solo in parte influenzata dal clima avanguardista della Parigi letteraria di quegli anni, trova una coesione tra forma e senso che sbalordisce, e pure in periodo di scuole (su tutte quella surrealista), è corpo, anima e scrittura individuale, autonoma da ogni movimento e velleità “sperimentali” in senso stretto, e (questo è ciò che importa) privo di ogni complicazione, per non dire di volontà di rivoluzione, nel definire il proprio stile personale.
Tale stile è coerente col suo corpo (si dirà: i suoi stati corporei) e la sua anima (si dirà: i suoi stati d’animo), in un apprendistato della città e della vita che lo vede poveraccio senzatetto, trafficante-politicante mantenuto, mezzo gangster e mezzo seduttore (spesso pure di ragazzine), dandy mai totalmente disinvolto e noncurante, eterno vagabondo, vero fratello in spirito di Arthur Rimbaud e Joseph Roth, ed è l’esito dello sguardo di un uomo che tutto ha visto e udito, sofferto e riflettuto, disperato e sperato.
Quella di Dietrich è una sincerità ai limiti del masochismo, più prossima a quella del sonnambulismo dandy del Baudelaire dello spleen – in Histoire d’une amitié del Vasto parla letteralmente de “l’immunità e l’innocenza del sonnambulo” – e, via Quincey, di certe pagine de I paradisi artificiali, nonché di Drieu, o alla scrittura visionaria del Dostoevskij recluso nelle Memorie della casa dei morti, ed è da annoverare tra i grandi saggi, pazzi e santi laici, spesso pure martiri, di cui scrivono sia Miller, con riferimento a L’idiota dostoevskijano, che del Vasto, e tra i grandi autori di una confessione.
Con semplicità di sguardo (certo non di meditazione), Dietrich dice l’intimità anche umiliante e la vera condizione umana, senza ideologia ma con religiose (Dio e la Grazia esistono), da uomo-bambino, da bambino-uomo, vittima di un mondo i cui ingranaggi (non di metallo ma umani) tendono allo stritolamento di quel debole che dice di essere, lui che passò due anni in un asilo per bambini anormali, dopo la morte del padre, cui seguirà quella della madre, per tetano, a Parigi…
*
È il 1931 e Luc si è già trasferito a sua volta a Parigi, dove, caduto da un ponte in un folle gesto d’amore, fa un incontro capitale per la sua vita. È il medico e scrittore Luc Durtain, che lo cura, lo sprona e gli fa anche pubblicare una plaquette di poesie, Huttes à la lisière [Capanne sui margini]. Il futuro scrittore vive però da vagabondo, solitario e in povertà finché non incontra Rose, l’Arlette de L’apprendistato della città, alla quale si lega. In una fase di agio economico ma anche di tentativi di rottura da quella vita falsa, l’incontro con del Vasto, la cui povertà è per lui una rivelazione.
Il filosofo gli farà da guida tanto a Parigi quanto in un viaggio in Toscana e nella scoperta dell’arte di Piero della Francesca e di Paolo Uccello. E dall’arte pittorica e architettonica approda alla fotografia, cui si appassiona, immortalando i monumenti italiani così come le sue amate piante. È dall’alto dei suoi due metri che si china per fotografare i vegetali, cogliendo nella loro capacità di sofferenza uno specchio del proprio vissuto. Ma a metà anni Trenta, tornati a Parigi, del Vasto è insegnante e poi precettore a Versailles, mentre Dietrich, in miseria, lavora come lavapiatti.
Rose, cui Luc resterà legato per tutta la vita per le sue elargizioni, gli propone del denaro, che riceve invece da Denoël per Le Bonheur des tristes. Andrà in Alsazia, Olanda e Inghilterra per dei reportage fotografici in cui accosta immagini e parole, come in Terre [Terra], sempre per Denoël. Ma ogni volta che l’amico, sorta di figura paterna, è in viaggio, in un caso per un intero anno in India, Luc si ritrova solo, depresso, in ospedale. Non lavora e medita il suicidio, e poi si mette a vagare per la Francia e a Marsiglia conosce la contessa Lily Pastré, una ricchissima mecenate.
Sarà più volte ospite nel suo palazzo, che, venendosi a trovare in “zona libera”, durante la Guerra darà rifugio a musicisti, intellettuali e artisti. Tra di essi, René Daumal, l’autore de La grande bevuta, che morirà nel maggio del 1944 e la cui ultima foto sarà uno scatto dello stesso Dietrich. In quegli anni tenta per la prima volta di stabilirsi in un posto e di disciplinarsi secondo gli insegnamenti di Georges Gurdjieff, e lavora a un libro. È tuttavia più volte ricoverato per la sua salute cagionevole, l’ultima per una ferita rimediata sotto il bombardamento di Saint-Lô, in Normandia.
È il giugno del 1944 e sta lavorando a un progetto dedicato a malati di mente: come ricorda Patrice Delbourg ne Les Désemparés, vero e proprio catalogo di scrittori sventurati, Dietrich, “gioca al dottore, vestito di un camice bianco, distribuendo parole di conforto ai feriti”, quando d’improvviso dal cielo piove una nuova ondata di obici che va a straziare il villaggio della Manica e la vita del poeta; il piede sinistro resta ferito e gli s’infetterà: la setticemia gli arriverà al cervello.
Marco Settimini
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Intervista
Intervista con l’autrice
A proposito de Il Cammino della Fenice.
E ora passiamo a parlare dell’altra opera della serata, Il cammino della Fenice della giovanissima Diana Mars. Se l’autrice è d’accordo leggerei la sinossi: (la scrittrice fa un cenno affermativo con la testa).
“Pisa, 2200. il progresso tecnologico ha subito una battuta d’arresto. Qualcuno ha ancora voglia di sognare. Tre giovani universitari si ritrovano ogni mercoledì in un circolo letterario a discutere di arte e a scrivere poesie. Una sera un editore decide di sfidarli: dovranno scrivere un romanzo che ha come tema il mito della Fenice, il migliore riceverà in premio la pubblicazione dell’opera.
Il romanzo d’esordio della giovanissima Diana Mars è un viaggio nella memoria e nell’inconscio. Protagonista è un vecchio scrittore di successo che decide di raccontare una delle esperienze più incredibili della sua vita ovvero il tentativo non riuscito di scrivere un romanzo sulla Fenice.
La rievocazione del passato è il pretesto per aprire un varco verso un mondo suggestivo, sospeso, nel quale le coordinate spazio-temporali perdono consistenza e aprono all’ignoto.
Tra anime speciali che si impossessano dei corpi di persone comuni, tra sedute d’ipnosi regressiva e visioni improvvise che mischiano realtà, sogni e allucinazioni, IL cammino della Fenice si muove al confine del tangibile e smaschera la labilità dell’ordinario, la relatività delle nostre sensazioni e il mistero che alberga nell’intimo umano. C’è un filo che lega passato e presente, epoche storiche lontane e irraggiungibili: il viaggio di un’anima all’interno di corpi diversi, alla ricerca dell’amore e della purezza.”
Ci parli un po’ del libro: questo è il suo romanzo d’esordio, cosa l’ha spinta a gettarsi in questa avventura?
Io ho molte passioni, tra le quali la letteratura, soprattutto i fantasy. Perché Il cammino della Fenice è, prima di ogni altra cosa, un fantasy. Ammetto, ahimè, di essermi avvicinata alla letteratura un po’tardi, all’incirca verso i quattordici, quindici anni per sconfiggere la noia. E sono rimasta folgorata da come un libro potesse trasmettermi così tanto e trascinarmi in posti così vivi, nonostante fossero solo parole di carta stampata. Mi spiego? Rimasta affascinata da ciò cominciai a fare il giro delle librerie della mia città, sfogliando libri e leggendoli direttamente sul posto, a pezzi e bocconi, alle volte, perché non sempre mi potevo permettere di comprarli. Anche se sono sicura che ai miei avrebbe fatto molto più piacere sapere che spendevo i miei soldi in libri piuttosto che in sigarette, per fare un esempio.
Inoltre io adoro il profumo della carta stampata. E poi mi resi conto che leggere non mi bastava più. Perciò cominciai a buttare su carta qualche storiella che stava nascendo nella mente. Con tutte le sgrammaticature e strafalcioni del caso di ogni principiante, certo. Ma questo non mi scoraggiò. All’inizio scrivevo solo per me stessa e poi mano a mano che miglioravo, che crescevo, mi accorsi che me stessa non bastava più. Era come se scrivere mi desse una voce ed io, che allora stavo passando un brutto periodo, volevo essere ascoltata. Alle volte le mie amiche e professoresse del liceo leggevano quello che scrivevo e spesso mi facevano i complimenti o s’immergevano immediatamente nella lettura, come se la prima parola li avesse catturati immediatamente. E poi quando mi restituivano lo scritto mi dicevano: me ne fai leggere un altro?
Questo romanzo in particolare nasce dalla necessità di fare quel famoso salto. Sapete, dopo che avete raccolto tutte le forze e il coraggio per attuare un sogno? Quel salto lì.
Ma perché il tema della Fenice?
Anche se questo romanzo è un fantasy è diverso perché parla di un tema molto delicato quanto intricato, la reincarnazione. La quale si manifesta con la Fenice del titolo. La Fenice è un simbolo. Io parlo per simboli in questo libro, bisogna vedere se il messaggio arriva a destinazione. O se qualcuno riesce a decodificarlo. Inoltre ho scelto questo tema perché di leggende sulla Fenice non ce ne sono molte e quelle che conosciamo sono piuttosto ripetitive. Questa è la mia versione e, come il protagonista, ho voluto pormi una domanda: e se la fenice non fosse solo un uccello di fuoco? Se non fosse soltanto un simbolo? Cosa succederebbe se fosse in realtà, un’anima? Un’anima che si reincarna attraverso i secoli per guidare, unire e perseguire valori che si stanno perdendo. Ma non è solo questo. E’anche un modo per ricordare che chi ci ha lasciato non se ne è andato davvero. Che un giorno, magari in futuro, rincontreremo i nostri cari. Non importa l’aspetto fisico, o quanto ci metteremo, fatto sta che ci rincontreremo, e forse ci saluteremo e staremo di nuovo insieme. Ce ne accorgeremo perché ci sarà qualcosa che magari, come il protagonista del romanzo, ci farà dire: > oppure ci sembrerà di conoscerci da sempre. O magari di riconoscere luoghi che non abbiamo mai visto.
Al tempo stesso è anche un modo per dire che non sono d’accordo con le tesi supportate dall’immortalità dell’anima.
Ci spieghi.
D’accordo, ma dovrò fare un giro lungo prima di arrivare al nocciolo della questione. Questo libro affonda le radici in un tema in cui mi sono documentata a fondo. Secondo le filosofie antiche, orientali e le dottrine pagane, la reincarnazione è la trasmigrazione dell’anima da un corpo a un altro. Succede perché la Natura effettua un riciclo continuo e completo. Ma lo fa per raggiungere la perfezione, altrimenti non mi spiego la proporzione che possiamo trovare nel creato. La sua matematica, segreta perfezione. Le anime si reincarnano per perfezionarsi e incarnarsi nel Tutto per contribuire a questa perfezione. Ma l’anima non nasce perfetta. Cresce, sbaglia, impara delle lezioni. Ma poiché la Vita è una ruota che gira ti mette davanti delle situazioni ripetitive, una specie di loop, finché non si imparano delle determinate lezioni e si va avanti. Non sempre lo si capisce al volo perché nessuno ti spiega le regole del gioco. Se così fosse allora la vita si potrebbe vedere come un sogno intervallato da momenti di buio, incoscienza. Potrebbe persino essere la spiegazione alla confusione che alberga nella testa degli esseri umani, ma anche l’eccezionale maturità o immaturità, di certi individui.
Per la serie non si smette mai di imparare.
Esattamente. Ciò non penso abbia a che fare con le varie anomalie cerebrali riscontrate nella storia della medicina. E poi io sono una scrittrice, non una scienziata; non vorrei mettere troppa carne al fuoco. Cioè, un momento prima sei una persona, con determinate abitudini, pensieri e quando credi di averci capito qualcosa sei un’altra persona e devi ricominciare daccapo. Finché non sarai andato avanti e non ci sarà più bisogno di te. La sfida consiste nel ricordarselo nonostante l’amnesia di rinascita.
Certo, non diminuisce la paura della morte ma da già un grande conforto.
Però nel libro fa vedere che anche la reincarnazione, quasi al pari della morte, fa paura.
Non è che fa paura, è destabilizzante. È solo che il protagonista, Innocenzo, è scettico perché affrontare questi ricordi significa perdere le proprie certezze e trovarsi di fronte a qualcosa di molto più grande. Nel suo caso affrontare vecchi dolori e un antico rimpianto che non sapeva nemmeno di avere. È qualcosa che non si percepisce solo col corpo e i numeri non possono spiegarlo. Questo è il regno dell’incertezza. Cioè, puoi essere stato Martin Luther King, Napoleone, Stalin, o, nel caso del mio protagonista, un ex professore di simbologia, anche se tu ricordassi non puoi dirlo a nessuno, perché nessuno ti crederebbe.
Ma non è già troppo per una persona, con tutti i problemi che ha già nella vita?
Dipende dai punti di vista, io personalmente la vedrei più come una ricchezza. E poi anche se non si riuscisse a ricordare per un motivo o per un altro, siamo comunque tutti delle Fenici, perché tutti moriamo e rinasciamo ogni giorno.
La sua visione del futuro è molto cupa. Perché?
Perché la Fenice rappresenta anche quella parte di noi che non si arrende mai. È la nostra umanità. Quanto di migliore abbiamo. Ma con la crisi sembra che stiano facendo di tutto per farcelo dimenticare. E non mi sembra che stiamo facendo grandissimi progressi. Questo romanzo è anche una fotografia dell’incoerenza della società umana. Di come sembra che ci stiamo togliendo la nostra umanità con il mito della fama, il mito del denaro, il potere. Che spesso dimentichiamo che siamo esseri umani, da una parte. E dall’altra gli Analogici che rifiutano i mass media. Due estremi senza metà.
Il suo libro però non parla solo di questo. Anche dal punto di vista ecologico non siamo messi molto bene. Ci stiamo avvelenando, secondo lei.
Diciamo che la reincarnazione e la Fenice sono un pretesto per affrontare sotto una luce diversa determinati argomenti. In nome del profitto, per mantenere viva la società, stiamo dissipando le risorse naturali. E noi siamo un prodotto della Natura, per quanto ci modifichiamo, ci separiamo da essa, il fatto che torniamo implica anche il nostro auto avvelenarci con l’inquinamento. Tanto ci sono le nuove generazioni cui scaricare il problema, che se ne occupino loro, pensiamo. Invece no, perché dal momento che torniamo, il problema resta nostro e si aggrava sempre più.
Qual è il personaggio che le piace di più?
Non ce ne è uno in particolare.
Diciamo che ho voluto sperimentare qualcosa di diverso, dal momento che la storia è raccontata dal punto di vista di un uomo con i suoi pregi e i suoi difetti, che si avvicini il più possibile alla realtà senza cadere in stereotipi.
Dove possiamo trovare il suo libro?
Sul catalogo on line della casa editrice Giovane Holden e su Amazon.
Progetti per il futuro? Ci saranno nuove uscite?
Sicuramente continuerò a scrivere. Il cammino della Fenice non è l’unica storia che ho scritto, è solo la prima che ho deciso di pubblicare.
Sempre sullo stesso argomento?
No.
Qui di seguito presentiamo alcune parti tratte da alcuni capitoli del romanzo.
Tratto dal capitolo Il suono del castigo
Improvvisamente, così, dal niente, la mia emicrania peggiorò e il dolore dietro gli occhi si spostò negli occhi. Mi fecero male i bulbi oculari, sembrava che dovessero scoppiarmi. Sibilai di dolore, sigillandoli forte anche con le mani ma non successe niente. E il dolore scomparve di nuovo. Sospirai di sollievo. Decisi di dimenticare l’episodio e tornai ai miei appunti. Quando ebbi una vaga idea di come strutturare una bozza accesi il pc ultimo modello e vi scaricai la roba che avevo preso da Giancarlo. Mi fermai soltanto per cucinare, mangiare un toast e due mele essiccate accompagnati da un bicchiere d’aranciata, e pulire la cucina. Davide mi schernì bonario: “Non stare troppo appiccicato a quel computer, o un giorno lo accenderò e ti ci troverò dentro a mo’ di file da scaricare.” Ma in realtà sapeva quanto desiderassi che il mio hobby diventasse il mio lavoro.
Risi sarcastico e mi chiusi in camera mentre lui si spaparanzava sul divano.
La mia stanza non era molto grande, non aveva nemmeno le mensole. Però aveva una finestra che dava sull’Arno che ad ogni tramonto si tingeva dei suoi magnifici colori. Nei mesi caldi si potevano vedere i canoisti che vogavano, mentre in qualunque stagione vedevo i gabbiani e i cormorani nuotare o sorvolare le sue acque. A volte i miei amici del liceo mi chiedevano per quanto tempo avrei scritto, se mai sarei diventato uno scrittore. Allora non sapevo che rispondere, adesso lo so: scriverò finché voleranno i gabbiani. In questo senso l’Arno era la mia musa ispiratrice.
Invece se alzavo gli occhi incontravo ciò che restava del passato attraverso i palazzi del centro storico.
Ma quella sera era già tardi e non si vedeva più niente oltre i lampioni così mi staccai dalla finestra e ripresi a scrivere. Alla trecentesima lettera, dopo l’ennesima astrusa lettura di pessima qualità su ufo, possessioni, schizofrenia e compagnia bella, mi dissi ok, adesso lasciamo fare al caso. Chiusi gli occhi stanchi e affaticati e, dopo aver mulinato la mano a caso, la posai sul primo scritto che mi capitò e l’aprii. In seguito feci una copia digitale delle lettere e dei documenti e li caricai sul computer per sfogliarli in seguito. Negli istanti dopo aver preso questa decisione, ebbi un altro attacco d’emicrania e un’immagine mi esplose negli occhi: un paio di seducenti e luminosi occhi femminili contornati da lunghe ciglia ammiccò nel buio e la scena di fronte a me cambiò di colpo.
Mi trovavo in una discoteca. La folla somigliava ad un mare burrascoso e le cubiste sembravano delle naufraghe danzanti. Il Laser e luci varie illuminavano le onde oscillanti che lambivano le isole più o meno immobili dei divanetti.
Mi allontanai dal bancone dello tsunami umano con i cocktail per i miei amici. Il primo dei quali a vedermi fu Dom. Mi fece cenno di sbrigarmi e quando li raggiunsi mi strappò di mano quello centrale rischiando di far cadere gli altri due, già in precario equilibrio: “Ehi, fa attenzione!” Lo rimproverai divertito in contemporanea del suo: “Grazie, amico!”
E mi resi conto di avere una voce dai toni tenorili.
Eddy mi sfilò di mano anche il proprio, ridendo di gusto. Lo guardai ma non mi meravigliai del suo grasso che amava nascondere in tute da rappettaro. Credevano tutti che nascondesse una pistola, e anche noi lo pensammo, ma l’unica arma che avrebbe potuto estrarre da quei tasconi, erano le barrette energetiche. La cosa ancora più buffa era che portava i capelli nella stessa allegra pettinatura in voga tra i nazisti del ‘45. Ma lui non lo sapeva e noi non avemmo mai il coraggio di dirglielo. Bevvi il mio cocktail e lasciai che Eddy andasse a prendere il secondo giro.
La musica faceva talmente schifo che mi venne da vomitare. Già quella di adesso era tremenda ma quella di allora era pure peggio. Tuttavia decisi di non guastargli la serata e mi costrinsi a ondeggiare la testa a tempo e annegare le mie lamentele nei successivi cocktail alla frutta.
La visione evaporò e prima che me ne rendessi conto stavo già guardandone un’altra.
Ero uscito sulla terrazza per fumare e rinfrescarmi un po’ quando la vidi: Abigail. Era la ragazza più bella del college e tutti le sbavavamo dietro. In biblioteca e a lezione mi mettevo sempre vicino a lei. Eppure non avrei saputo dire quale fosse l’esatta natura dei miei sentimenti per lei.
Rimasi paralizzato sull’uscio con l’accendino acceso, la sigaretta pendente tra le labbra e la gente che mi passava accanto da ambo i lati come fossi l’isola spartitraffico, spintonandomi lievemente.
E lei era a pochi metri da me, infilata in un bell’abito nero che evidenziava le sue forme e il suo corpo atletico. Mi vide, mi sorrise e mi venne incontro: “Heath!”
“Ciao, Abigail.” La salutai impacciato, rianimandomi e accorgendomi dell’accendino spento. Lo riaccesi e riuscii finalmente a fumare.
Lei si chinò dai suoi tacchi e mi baciò sulle guance, lasciando che inalassi il suo profumo e dessi una sbirciata al suo generoso decollette. Poi si raddrizzò e mi sorrise, ignara dell’effetto che mi aveva fatto.
“Non ti facevo un festaiolo!” Esclamò tutta contenta.
Buttai fuori il primo tiro: “Ogni tanto piace uscire anche a me.” Sorrisi poi ne inspirai un altro che per sbaglio le espirai in faccia. Lei socchiuse gli occhi e fece un piccolo scatto indietro con la testa. Tossicchiò e si sventolò la mano di fronte al naso. Avvampai completamente e, in preda alla vergogna, borbottai qualche scusa. Ma lei non fece in tempo a rispondermi che un’amica ci raggiunse, la prese per un braccio, disse qualcosa che non capii e la trascinò via.
Abigail si girò un’ultima volta a salutarmi. “Alla prossima.” Le dissi di rimando ma lei era già stata inglobata nella folla. Volevo sprofondare.
Era sempre stato così con lei. Fin dalla prima volta che la vidi quando andammo a visitare i college. Era salita sul mio stesso pullman. E, sollevati gli occhi dal mio arcaico videogame, la vidi e rimasi incantato. Improvvisamente non mi fregava più nulla del videogame. Poi la rividi il mio primo giorno di college.
All’improvviso mi sentii cingere il collo con una presa di judo e un paio di nocche frizionarmi i capelli. Due voci mi risero nelle orecchie e riconobbi Dom ed Eddy. Mi liberai ancora spaventato e con la cute dolente: “Ehi, bello, che fai qui impalato?”
“E’ mezz’ora che sei qui fuori.” Aggiunse Eddy.
Strascicavano un poco le parole, ma erano ancora ben lontani dall’essere brilli.
“Davvero è passato così tanto tempo?” Domandai con ostentata nonchalance. E loro capirono subito: “Ah…Hai visto Abigail, non è così?”
E Dom rise: “Ecco perché sei rimasto qui tutto il tempo!” Ed Eddy mi si parò davanti, oscurandomi la faccia di Dom col suo faccione flaccido pieno di eccitazione: “Com’era vestita? E’ la strafiga delle foto che ci hai fatto vedere?” E cominciarono a cantare una filastrocca in voga tra i ragazzini delle medie di trent’anni fa. Sorprendentemente non me la presi, anzi mi unii allo sgraziato coro, poi, prendendoci vicendevolmente sottobraccio rientrammo nel forno. Il flash scomparve e mi ritrovai immerso nella penombra rischiarata dalla luce bianca tendente al giallo di una stella. Mi rialzai un po’ dolorante e mi guardai intorno mentre riprendevo confidenza con la realtà. Come diavolo ero finito sul pavimento? Poi notai la sedia ribaltata e capii. Mi massaggiai la testa e il lato sinistro del corpo sul quale ero atterrato. Mi ci volle un momento per riconoscere la mia stanza; ma che cosa mi era successo?
“Innocenzo? Stai bene?” Domandò Davide dall’altra parte della porta. Mi rialzai, indolenzito e mi sedetti sul letto. Sibilai tra i denti mentre il dolore cominciava a scemare via. “Innocenzo?” Lo sentii chiamare stavolta più preoccupato.
“Sto bene, non è niente.” Bofonchiai abbastanza forte perché mi udisse. Per quanto tempo ero rimasto svenuto? Mi spolverai i pantaloni e decisi che avevo lavorato troppo e che avevo bisogno di una pausa. Così uscii dalla stanza e mi diressi in cucina a bere un bicchier d’acqua e rassicurare Davide, il quale si fece da parte e mi seguì domandandomi: “Che è successo? Stavo per accendere la TV quando ho sentito il colpo e poi tu non rispondevi”.
Gli gettai un’occhiata e capii che doveva essere passato molto tempo, così mi scusai dicendo che mi ero appisolato ed ero caduto dalla sedia. Questo parve tranquillizzarlo, così mi lanciò un accidente e tornò in salotto, dal quale continuò a maledirmi per avergli fatto perdere l’inizio del programma.
Ridacchiai e bevvi un po’ d’acqua prima di tornare in camera. Però sembrava che l’incidente mi avesse tolto la voglia di rimettermi al lavoro, che temevo sarebbe potuto accadere di nuovo. Schioccai la lingua contro il palato mentre scuotevo il capo. Poi sbuffai, salvai la bozza, spensi il computer e raddrizzai la sedia. Mi cambiai e, una volta disteso sul letto, mi resi conto che gli occhi non mi facevano più male. Cosa cavolo mi era successo? Chi erano quelle persone? Erano un sogno? Non mi era mai successo di sognare ad occhi aperti, prima di quel giorno.
Ripensai ai nomi e ai visi semi sconosciuti. Dominic? Eddy? Abigail? Erano questi i nomi? Non ero sicuro al cento per cento ma chiunque fossero dovevano essere stati importanti per me. Ammesso e non concesso che fosse stato un sogno.
Tratto dal capitolo Lo studio delle meraviglie
Stando alla biografia su Wikipedia, Kaine aveva scritto anche due libri di poesie.
Il lunedì seguente l’incubo mi recai alla biblioteca del Dipartimento di lettere e li cercai.
Appena ne varcai la soglia automatizzata e fui investito dall’aria fresca del condizionatore, pensai che forse avevo sbagliato Dipartimento. Forse avrei dovuto cercarli in quelli di storia o di civiltà delle forme del sapere. Kaine era stato un professore universitario ed era molto famoso visto che le sue scoperte erano alla base dell’archeologia e del simbolismo moderni, sicuramente delle copie dei suoi scritti dovevano essere anche qui da qualche parte, no? Invece ebbi fortuna: appena lo dissi alla bibliotecaria lei controllò e dichiarò che c’erano ancora. Così mi accompagnò alla sezione dove erano riposte le ristampe del 2086. Erano un po’ ingiallite ed emanavano un odore più polveroso e muffito di quello che pensavo ma erano in buono stato. Una volta uscito mi spostai in un luogo più comodo, per la precisione al mio tavolo preferito del Totò. Il vento soffiava leggero, e mentre le foglie secche cadevano sul selciato, mi ero imbattuto ne La corte dei Miracoli. Stando alla critica di Cardini, un poeta del 2040 e maggiore critico di Kaine, il professore l’aveva scritta dopo una notte passata a divertirsi sulla spiaggia, ai tempi della sua giovinezza, forse il 2015 o il 2016. C’erano dozzine di monografie, articoli, saggi posteriori sulle sue opere, ma nessuna era attendibile come quelle del poeta.
Della vita privata del professor Kaine non si sapeva quasi niente, era un tipo molto riservato e criptico. Non aveva lasciato niente, nemmeno un’autobiografia, sebbene gliel’avessero proposto in tanti. Ciò che si sapeva di lui si poteva ipotizzare dalle sue poesie e molti avevano avallato numerose teorie, anche se quelle di Cardini erano le più famose. Ma appena finii di leggere la critica strinsi le labbra e scossi la testa pensando: In verità la scrisse in un momento molto diverso. Ma non ne ebbi la certezza delle mie conoscenze finché non lo pensai. Bevvi un sorso di wiskey che, quando raggiunse lo stomaco, il dolore agli occhi mi annunciò che presto avrei avuto le prove per smontare quella critica. Camminavo sulla sabbia della spiaggia, lasciando che si infilasse nelle scarpe di tela ogni volta che sollevavo il piede, con una bottiglia di cognac che avevo comprato questo stesso pomeriggio, con l’intenzione di scolarmela da solo sulla battigia.
Il cielo era coperto di nubi e le uniche, lontane luci che c’erano venivano dalle mie spalle.
E così dal niente, mentre giocavo a fare il poeta maledetto, mi tornò in mente la mia prima vera conversazione con Maya, i suoi occhi e la sua profezia. Che lei sapesse? Che stesse cercando di mettermi in guardia? Come faceva a saperlo? Non le avevo mai raccontato dei miei nonni.
Il fascio di luce del custode mi colpì dritto in faccia e cominciai a pensare ad una scusa ma una voce femminile esclamò “Heath” e dopo pochi secondi si accoccolò goffamente accanto a me sulla sabbia. E anche se i suoi capelli profumavano di un lieve sentore di essenza alle violette, avrei riconosciuto dovunque quegli occhi che scomparvero nel buio quando spense la torcia del suo telefono: “Maya”.
“Che ti è successo? Puzzi di cognac.” L’annusai a mia volta: “E tu di violette”. “Melissa.” Mi corresse intanto che gli occhi si riabituavano al buio. Sbuffai: “Melissa, quel che è”.
“Che cosa ti è successo?” Mi domandò apprensiva.
“Mio nonno se n’è andato”. Lei trasalì: “Mi dispiace”.
Anche senza guardarla riuscii sentire la sua sincerità, la sua compassione e la sua voglia di consolarmi. La sentii girarsi per abbracciarmi, ma scossi la testa come dire: “Non pensarci neanche.” Così si abbracciò le ginocchia e guardò il mare di fronte a noi e il cielo nuvoloso sopra le nostre teste. Sembrava che stesse aspettando che parlassi. Alla fine fu lei a rompere il pesante silenzio in cui eravamo precipitati: “Io…” Ma io la interruppi subito, sbottando, anzi no, aggredendola: “Chi te l’aveva detto che mio nonno sarebbe morto?”
Lei mi guardò contrita ma non spaventata: “Speravo di avvertirti…”
“Potevi essere un po’ più specifica allora!” Continuai e lei non riaprì più bocca. Feci un lungo respiro profondo per evitare di cominciare a prenderla a calci. Poi chiesi, sforzandomi di controllare l’ira: “Chi te l’ha detto?” E iniziai a concentrarmi sui miei respiri.
“Nessuno. L’ho Visto”.
E io lo sapevo, ma avevo deciso di ignorare il dolore e di lasciarmi assorbire dalla vita quotidiana.
Non gli avevo nemmeno detto addio, maledizione.
“Impossibile.” Ribattei, discrezione era la mia parola d’ordine. E lei se ne uscì con un sottilissimo: “No. È possibile”. “Se così fosse, allora saresti una veggente.” Ribattei sarcastico, ma non più irato. Si accese una sigaretta e io misi da parte la bottiglia. Alla luce del mozzicone riuscii a scorgere il suo profilo: “No, non sono questo, ma posso fare anche questo”.
“Vale a dire? Spiegati”. “Sarà perché sei ubriaco, però d’accordo. Voglio darti una mano”.
Una mano? Che genere di mano? Poi capii e, roteando gli occhi, cominciai ad armeggiare con i pantaloni, ma quando lei cominciò a parlare, mi fermai: “Sai, anch’io ho perso qualcuno molto tempo fa. Quindi so cosa si prova. Sono certa che tuo nonno ti amasse più della sua stessa vita. Chi ci lascia non lo fa per davvero, coloro che hai amato ritornano. Non lo dico per illuderti, ma perché sento il tuo dolore e anche il suo amore. Non so se lo senti anche tu ma se ci riesci puoi ritenerti fortunato. Perché il sentimento che ti lega a loro continua a esistere anche dopo e ti ricondurrà dai tuoi cari nella tua prossima vita. È proprio questo sentimento, questo legame che vi farà ritrovare. È proprio questo che ci riporta in vita. Non come vorremmo e nemmeno quando vorremmo, ma torniamo tutti e ci cerchiamo finché non ci saremo trovati. Dante aveva ragione, l’amore è davvero il motore che muove il Sole e le altre stelle. E lo faremo tutti. Io, tu, loro. Persino tuo nonno”. “E tu che ne sai?” “La Ruota del Tempo, o Ruota del Fato, se preferisci. Ora tu credi che ti stia schiacciando, ma non è così, il dolore è solo momentaneo e tuo nonno tornerà. Anche se non si ricorderà di te, un giorno ti fermerà per la strada e ti saluterà di nuovo.” Mi garantì con un sorriso che le incurvò velocemente le labbra. Si rendeva conto che non capivo quasi nulla di quello che diceva? Distolse nuovamente gli occhi dalle piccole onde che lambivano la spiaggia e disse: “Se smetti di piangere, proverò a far uscire la Luna, va bene?” Seppellì il mozzicone nella sabbia e buttò fuori l’ultima boccata di fumo. Guardai le nubi nere scettico. Poi spostai lo sguardo su di lei e bevvi un altro sorso di cognac. “Tu fidati di me.” Mormorò, come se mi avesse letto nel pensiero.
“Io mi fido, ma non credo tu possa farlo”. “E’ proprio qui che ti sbagli. Io non dovrei farlo.” Sussurrò, con una voce molto diversa, antica e remota, eppure giovane e armoniosa. Accorciò le distanze tra noi e mi coprì gli occhi con una mano. Quando la tolse tutto era diventato più luminoso, le nubi e la luce sembravano scomparse e c’erano più stelle di quante avessi mai viste in vita mia. Non sembrava neanche più la stessa spiaggia. Era un luogo completamente diverso. Non riuscii a trattenere lo stupore. Mi sembrò di vedere per la prima volta. Poi le stelle mi sembrarono sempre più vicine, erano talmente vicine da poterle toccare. Ed erano talmente belle che mi alzai in piedi e tesi le mani verso di loro. Vacillai ma non caddi perché qualcosa di luminoso alle mie spalle mi sostenne. Era come se qualcosa brillasse con me sulla battigia.
Mi girai e vidi Maya scintillare di un lieve chiarore turchino. Ma il chiarore non era esterno, bensì interno alla sua persona. Trasalii e mi scostai spaventato ma lei non se ne curò mentre il vento si trasformava in una melodia che avevo già sentito tantissimo tempo fa e dimenticato. Lei continuò a tenere gli occhi chiusi. Sembrava che stesse concentrandosi con tutta se stessa, quasi che stesse cadendo in una specie di trance. Poi il suo chiarore s’intensificò fino a diventare giallo dorato e la pervase tutta quanta, dalla testa ai piedi. Socchiusi gli occhi mentre mi domandavo se stavo sognando o se mi avessero messo qualcosa nel cognac. Ma non era possibile che me l’avessero corretto. Sentivo il suo calore dolce e corroborante sulla pelle. quando mi accorsi che anche la sabbia e le nubi erano vagamente illuminate dalla sua luce capii: “Non è un sogno”.
I suoi tratti divennero trasparenti come bolle di sapone, eppure non ne vedevo gli organi interni. I capelli divennero della stessa luminosa tonalità, si allungarono fin sotto i fianchi e si lisciarono.
Si alzò in piedi e anche il suo corpo crebbe fino a diventare più alto del mio. I suoi vestiti si fecero leggeri e quasi trasparenti come veli, offuscando un poco la luce del suo corpo nudo, ma era talmente sacra, trascendente e al tempo stesso autorevole e superba, che non ci feci caso. Sulla sua schiena spuntarono delle grandi ali piumate lunghe sei metri e una coda di pavone le fece da strascico sulla sabbia. Sulla sua fronte comparve un elaborato cerchietto d’oro bianco con una ametista incastonata al centro. Poi aprì i grandi occhi viola purpurei lasciandomi senza fiato per la loro magnificenza. Era come essere guardati da una creatura antica e remota. Arretrai spaventato e meravigliato e la guardai dare le spalle al mare, ricordandomi molto una sorta di Afrodite uscente dall’acqua. Qualunque cosa fosse non era umana. E tendeva una mano verso di me, le labbra dolcemente curvate in un sorriso speranzoso. Mi chiesi dove fossero finiti tutti, se qualcuno si fosse accorto di quello strano fenomeno, ma non accorse nessuno. Era come se la spiaggia si fosse svuotata di colpo. Mi fermai. Timoroso tesi una mano verso di lei, che incontrò le sue dita tese, calde e vere come le mie. E capii che non mi avrebbe mai fatto del male: “Non aver paura, non ti succederà niente.” Mi promise la creatura lucente con la voce melodiosa e armoniosa che le avevo sentito prima. Le credetti subito.
“Sei vera?” Le chiesi piano, affascinato. La bella bocca si aprì nuovamente e disse: “Sono più vera che mai.” Avanzò di un passo e la sua mano fresca mi carezzò la guancia come fossi un bambino piccolo.
“Non è un sogno.” Mormorai di nuovo, incantato.
“No”.
Poi mi abbracciò e la sua luce cancellò i miei sensi di colpa. Ricambiai la stretta con occhi colmi di
lacrime trattenute. Ma non erano più di solo dolore. Nel suo abbraccio mi sentii al sicuro come non mi ero mai sentito da nessun’altra parte. E ricambiai la stretta desiderando di sparirci, assorbito dalla sua magnifica, commovente essenza che scaldava, accendeva e rinvigoriva come una promessa. Portami con te, la supplicai mentalmente mentre il suo tocco alleviava il dolore di tutte le piccole ferite dell’anima accumulate in quei ventidue anni di vita. E mi sentii più forte, consolato e non più vergognoso di me stesso.
Si discostò continuando a tenermi abbracciato, e, insieme, guardammo il cielo. Mi parve di volare mentre il vento si alzava di colpo, intrecciandosi alla melodia, e saliva verso l’alto, spingendo via le nuvole rimanenti, rivelando altri astri brillanti, talmente splendidi che non riuscivo a trovare un paragone.
Mi scostai da lei, meravigliato. Era come se fossi volato fuori dell’atmosfera, eppure sentivo ancora la sabbia sotto i piedi e lo sciabordio del mare sotto la musica. Era come se avessi potuto vedere l’universo con gli occhi di Dio. Poi lei mi affiancò, mi mise una mano sulle spalle e mi indicò un punto dove vidi quelle che a prima vista mi parvero altre stelle. Ma erano diverse, si muovevano come uno stormo di uccelli. Ad un suo cenno lo stormo in formazione a V volò alto sopra di noi e discese a spirale dal cielo per avvicinarsi. Arretrai di un passo provando le stesse sensazioni che accompagnano un bacio. E quando tutte quelle lucine furono a pochi metri di distanza attorno a noi, capii che non erano uccelli, tantomeno stelle. Erano anime. Eteree, leggere come i veli che rivestivano la splendida creatura al mio fianco. Vorticavano attorno a noi come un lucente turbine di vento e poi tornavano su. Le osservai tutte mentre distinguevo vecchi, giovani, donne, bambini, tutti felici e ridenti. Tra di esse, una in particolare catturò la mia attenzione. Ma non capii perché finché non si avvicinò e incatenò i suoi occhi sorridenti ai miei. Il mio cuore batté un colpo più profondo mentre mio nonno, di nuovo felice, gioioso e libero di muoversi, mi salutava allegro con la mano. “Nonno.” Riuscii solo a dire, paralizzato dalla gioia, e la gola intasata di fiumi e fiumi di parole. Forse lui capì e si mise a ridere. E la sua risata che non sentivo da tanto tempo, al punto che pensai di averla dimenticata, mi commosse fino alle lacrime. Sorrisi. Lui girò due volte attorno a noi e capii dal suo sguardo che un giorno ci saremmo rincontrati. O nella prossima vita, o quando mi sarei librato in volo assieme a lui. E il mio addio diventò un muto grido d’arrivederci. Il cuore colmo di gioia.
Mi salutò di nuovo e salì al cielo con il resto delle altre anime. Le seguii con lo sguardo e la mano alzata in segno di saluto finché non ripresero il loro volo nello spazio. La mia mano fu raggiunta e intrecciata da quella della creatura lucente che aveva permesso quel miracolo e l’abbassò dolcemente. Mi volsi verso di lei e incontrai il suo sorriso commosso e umido di lacrime riflesse delle mie. E mi scoprii riconoscente, meravigliato e ammaliato da lei. Mi aveva fatto il più bel dono che avessi mai potuto desiderare. Però mi sentivo anche stanco. Molto stanco, come se avessi prosciugato tutte le mie energie. Lei mi sostenne ancora un po’ prima di aiutarmi a mettermi seduto sulla sabbia. Intanto che la contemplavo quasi senza vederla, si sporse verso di me e mi baciò la fronte: “Adesso dormi, amico mio”.
E lasciai che mi chiudesse con dolcezza le palpebre mentre la Luna splendente sembrava una dolce aureola bianca e argentata. Rimisi a fuoco la scena, sentendo quelle incredibili sensazioni dentro di me. E il confronto al ricordo, la realtà fu a dir poco deludente. Avrei voluto che quella realtà durasse per sempre. Ma ora che sapevo che era nei miei ricordi, che l’avevo già vissuta e che avrei potuto riviverla ogni volta che volevo, l’avrei fatto. Mi sarebbe bastato trovare quella melodia e concentrarmi su quel ricordo che sapevo già non essere parte di alcun film o romanzo. Sorrisi tra me e me, cancellando quelle lacrime che mi inumidivano gli occhi. Guardai il bicchiere col liquido ambrato e il libro che stavo leggendo. Poi finii di bere, risentendo dentro di me quel calore che avevo provato tempo fa. Dovetti farmi una discreta violenza per evitare di ordinarne un altro e un altro ancora. Sentivo il mio corpo, o meglio, la persona che a tratti prendeva il controllo del mio corpo, agognarne ancora e ancora.
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