#poesia sul contatto umano
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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Nebbia: Una poesia struggente del Prof. Lucio Zaniboni. L’alba delle emozioni perdute nella caligine del tempo. Recensione di Alessandria today
Un viaggio poetico nell’anima: "Nebbia" di Lucio Zaniboni
Un viaggio poetico nell’anima: “Nebbia” di Lucio Zaniboni La poesia Nebbia di Lucio Zaniboni, rinomato professore e poeta di Lecco, rappresenta un’intensa riflessione sul dolore, sulla perdita della memoria e sull’essenza dell’amore che resiste anche di fronte al decadimento della coscienza. L’autore dipinge con parole struggenti un quadro di vulnerabilità e speranza, immergendo il lettore in…
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valentina-lauricella · 1 year ago
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(Fonte: web)
Una mostra che sceglie la città natale di Giacomo Leopardi e un titolo ispirato a una conferenza di Italo Calvino per illuminare nuovi punti di contatto tra l’eterno bisogno umano di poesia e le capacità linguistiche e combinatorie delle intelligenze artificiali. L’idea che una macchina possa rimuovere l’essere umano dai “negozi della vita” e sostituirlo tanto nelle «cose materiali», quanto e soprattutto in quelle «spirituali», è anticipata da Leopardi nel 1824, in una delle Operette morali meno note ma più visionarie e futuribili, in cui il poeta recanatese immagina un’Accademia dei Sillografi – i sillografi erano, nell’antica Grecia, poeti di versi ironici e burleschi – che istituisce un bando di concorso per premiare le tre migliori invenzioni capaci di sostituire l’essere umano. Si lega invece all’ipotesi di una macchina letteraria il titolo scelto per la mostra, Cibernetica e Fantasmi: “dato che gli sviluppi della cibernetica vertono sulle macchine capaci di apprendere, di cambiare il proprio programma, di sviluppare la propria sensibilità e i propri bisogni, nulla ci vieta di pensare che a un certo punto la macchina letteraria senta l’insoddisfazione del proprio tradizionalismo e si metta a proporre nuovi modi d’intendere la scrittura, e a sconvolgere completamente i propri codici” (Cibernetica e fantasmi – Appunti sulla narrativa come processo combinatorio).
La mostra è stata anticipata dal concorso di poesia Cibernetica e Fantasmi: un concorso aperto a tutti, poeti e non, senza limiti di età e lingua, in cui si è potuta candidare una poesia scritta dall’IA, sull’IA o con l’IA.
CIBERNETICA E FANTASMI è una retrospettiva sullo stato dell’arte della poesia fatta dall’intelligenza artificiale, con l’intelligenza artificiale e sull’intelligenza artificiale, attraverso un percorso espositivo pensato per offrire ai visitatori una panoramica sulle possibili forme di interazione tra gli esseri umani e le macchine nei processi di creazione. Da opere prodotte autonomamente da IA in grado di leggere, grazie a sensori, il contesto fisico nel quale si trovano e riprodurlo in poesia, fino a versi scritti da esseri umani sul nostro rapporto con le macchine intelligenti, attraversando vari livelli intermedi di co-creazione tra le due autorialità. L’esposizione è ospitata nel museo di Villa Colloredo Mels, a Recanati, uno spazio in cui poesia, arte e intelligenza artificiale possono dialogare con i capolavori del Maestro rinascimentale Lorenzo Lotto e la sezione dedicata a Giacomo Leopardi.
Se già Calvino apriva alle possibilità creative della cibernetica, in un’epoca in cui l’essere umano iniziava a capire “come si smonta e come si rimonta la più complicata e la più imprevedibile di tutte le sue macchine: il linguaggio”, cosa succede quando il linguaggio smontato e rimontato dall’intelligenza artificiale incontra la scrittura poetica attraverso i suoi autori?
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pensierimbavagliati · 1 year ago
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Giornata NO.
La sveglia suona e spalanco gli occhi. Provengo da un sogno che non so spiegare, ma che mi lascia senza fiato. Ti ho sognata per l'ennesima volta, ma stavolta non c'erano accuse né rabbia nei nostri volti e nelle nostre parole. Sembrava che fossimo lì per riappacificarci. Mi sei venuta alle spalle, hai accostato la tua tempia alla mia; il tuo naso mi ha sfiorato dietro l'orecchio e hai preso un profondo respiro. Ho riconosciuto la morbidezza della tua pelle - e a posteriori fa paura come, dopo cinque anni, la mia memoria tattile ne conservi un così dettagliato ricordo -. Non mi hai baciata, ma sentivo il desiderio nei tuoi gesti. Il bisogno di avermi, di toccarmi, di spogliarmi e incastrare le tue cosce alle mie, come facevamo quando avevamo bisogno di sentirci un unico essere per ricomporci, per riportare insieme i nostri pezzi. Ho tenuto gli occhi chiusi, mi sono goduta quel contatto, poi mi sono girata e ho trovato il coraggio di guardarti negli occhi: eri come l'ultima volta in cui ci siamo viste. Coi tuoi occhi azzurri, i capelli corti, un sopracciglio alzato... Mi guardavi sempre così quando mi volevi, a metà tra il "è questo l'effetto che mi fai" e il "Non importa, spogliati: ho bisogno di averti".
Negli anni ti ho implorata di non guardarmi così. "Così come?" rispondevi, sbeffeggiandomi. "Come se volessi mangiarmi" era la mia risposta. Sempre quella, sempre la stessa, perché anche se il tempo andava avanti, anche se passavano gli anni, era così che mi facevi sentire. Piccola, vulnerabile, creta tra le tue mani. Ci sei sempre riuscita. Nel sogno di stanotte, ci riuscivi ancora una volta.
Poi il sogno è cambiato. Così, d'improvviso. Non eravamo più insieme: ero da sola, seduta sul pavimento del vecchio corridoio di casa di mia nonna, e guardavo un nostro video col sorriso sulle labbra. E' il presente, ho due figli, sono pronta a sposarmi, eppure guardo quelle immagini con nostalgia. Sento mia madre sbuffare arrabbiata, mentre mi passa vicino e raggiunge la cucina: nel sogno so che ce l'ha con me, che non capisce perché mi ostino a rivangare ricordi e persone che non rivivrò mai più. Ed è esattamente quello che mi dice quando la raggiungo.
"Che senso ha? Perché non cancelli questi video? Hai fatto una scelta!".
E nel sogno rispondo qualcosa di aberrante. Sputo fuori una frase che ho sempre tentato di non tramutare in pensiero concreto, che ho cercato di nascondere perfino al mio inconscio.
"Io non riesco a provare sentimenti per gli uomini! Ho fatto una scelta facile e questo mi ha portato ad avere una vita semplice, a realizzare il sogno di avere dei figli, ma quando si parla di sentimenti la mia mente e il mio cuore volano altrove!".
Ed è lì che mi sveglio. Con questa frase ancora incastrata nelle orecchie, l'immagine di me che gesticolo furiosa, e l'allarme della sveglia ad accompagnare un momento così catartico.
E' la verità? Questo pensiero... questa consapevolezza... è tutto vero?
Io non riesco a crederci, X. Io amo mio marito. Gli devo tantissimo, gli devo la vita, mi ha salvata quando tu mi hai lasciato la mano per sotterrarmi sotto i tuoi tradimenti. Quando ti ho vista tenere il braccio ad un'altra che non ero io, quando vi ho guardato e non ci ho visto nessuna poesia, soltanto una rima sgraziata.
Amo come si prende cura di me, amo la sua sensibilità, la sua gentilezza, la sua dolcezza. Amo il fatto che sa rispettare i miei tempi, che mi capisce, che mi ascolta e sa comprendermi. E' pieno di difetti e quelli, lo ammetto, spesso mi ritrovo ad odiarli... ma è un essere umano come tanti, un essere umano come me, e non si può certo dire che io sia perfetta.
Eppure non capisco... C'è qualcosa. Un maledetto filo invisibile che a volte mi riporta a te, con un sogno, un ricordo, un odore, un momento. Mi chiedo se in quei momenti stai tirando l'altro capo. Mi chiedo se quando mi capita di sognarti anche tu, chissà dove, stai sognando me.
Ci siamo bloccate ovunque, cancellate ovunque. Non c'è un social dove riusciamo a sbirciarci: scelta mia prima che tua, poi anche tua.
A distanza di anni, su uno dei social più banali di tutti, in alto a destra compare un piccolo tondino con una minuscola foto. Riconosco il microscopico volto senza bisogno di cliccarci sopra, ma lo faccio lo stesso.
X ha visualizzato il tuo profilo
Era l'unico social scaricato dopo gli altri, l'unico dove non mi sia mai presa la briga di cercarti e in cui, conoscendoti, pensavo non ti saresti mai iscritta.
E invece eccoti lì, a spiarmi. Ho indugiato a lungo sul tuo nome. I pensieri nella mia mente si sono rincorsi: la devo ignorare, se clicco sul suo nome anche a lei arriverà la notifica che sono entrata nel suo profilo, sarà come guardarsi a vicenda, dirle chiaramente in faccia che come lei ha l'interesse di cercare me anche io, di contro, ho avuto quello di cercare lei.
Ma indovina? Ho cliccato sul tuo nome. Profilo privato. Niente video, solo 36 follower. In pieno stile X. Cosa ho concluso? Beh, ti ho semplicemente dato l'unica conferma che non avrei mai voluto darti. Che se quello era il tuo modo di dirmi che a volte ti capita di tirare quello schifosissimo filo, anche a me, a volte, capita di farlo.
Ora il niente. Il buio. E non ci sarà altro mai più, perché forse questa era l'unica spiaggia desolata su cui avevamo ancora la possibilità di incontrarci per un ultimo saluto. Per dirci che non ci siamo mai dimenticate.
Un tempo avrei detto: "ben ti sta, stai soffrendo perché hai finalmente capito di aver fatto una cazzata dietro l'altra, che non valeva la pena andare a cercare la felicità altrove solo perché stavamo passando un brutto periodo, che non era il caso di buttare sette anni nel cesso per un'ora di brezza fresca."
Avrei aggiunto con freddezza e una lama nel cuore: "hai capito di aver perso l'unica donna che ti avrebbe amato fino alla morte, perché è così che volevo amarti io. E anche oltre questo ostacolo, se lo spirito me l'avesse concesso."
Oggi invece, a un anno di distanza dai miei trent'anni, ti dico: "mi dispiace che sia andata come è andata. Mi dispiace, forse stavi solo cercando di scappare dall'infelicità di quei mesi e io, che ero stata tanto male, forse ho colto il tuo tradimento al balzo per rifarmi una vita, una vita più semplice, che mi avrebbe fruttato un futuro semplice e una vecchiaia semplice. Forse abbiamo entrambe sbagliato, chi più chi meno, ma c'era del tempo per tornare sui nostri passi e nessuno delle due ha trovato il coraggio di compierli."
Poi, tra i miei pensieri, senza dirlo ad alta voce per paura che possa annichilirmi, aggiungerei che ti amo ancora. Perché il primo amore è così: o te lo sposi, si dice, o te lo porti dentro per tutta la vita.
E io ti porterò dentro tutta la vita, X. Non mi sentirai mai più, non saprai mai più dove sono, cosa mi succede o che scelte ho compiuto in tua assenza. E' giusto così, è il risultato del tuo addio e del mio rincorrerti; del tuo successivo rincorrermi e del mio piantarti in asso per vendetta. E' il prodotto di tutto quel tempo passato a muovere le pedine sbagliate sulla scacchiera.
Oggi siamo entrambe troppo lontane, ma nei miei sogni ti incontro ancora e quando ti sogno mi capita di non volermi svegliare mai, perché è solo in quei sogni, al tuo fianco, sfiorando la tua pelle, che mi ritrovo. Che ritrovo la vera ME, quella che sono stata, autentica e viva, brillante come una stella, e che non sarò mai più.
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arocchi · 4 years ago
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Se siamo infelici è perché sprechiamo troppo tempo a cercare di essere migliori degli altri - THE VISION
Nella raccolta di poesie Foglie d’erba, pubblicata nel 1855, il poeta statunitense Walt Whitman scrive: “Credo ch’io potrei vivere tra gli animali,/ che sono così placidi e pieni di decoro/ […] Non stanno svegli al buio per piangere sopra i/ loro peccati […] Nessuno è insoddisfatto, nessuno ha la manìa / infausta di possedere cose/ nessuno si inginocchia innanzi all’altro”. Attento osservatore della realtà e della natura, Whitman in questa poesia elenca una serie di virtù degli animali, capaci di godere dei benefici della vita terrena senza perdersi dietro a desideri autodistruttivi e ambizioni che facilmente conducono all’infelicità. Non è un caso che questa stessa poesia venga posta in esergo a La conquista della felicità, saggio che il filosofo britannico Bertrand Russell scrisse e pubblicò nel 1930. Il testo si sofferma sullo stato di infelicità in cui le persone si ritrovano a vivere e sopravvivere e sulle numerose concause che ci impediscono di accedere a un benessere stabile e duraturo. Russell prefigurò lo stato di perenne tedio e insoddisfazione che avrebbe fagocitato l’uomo nei decenni a venire e che oggi, a quasi un secolo di distanza, suona come una profezia che si è compiuta. Il filosofo sosteneva infatti che l’essere umano fosse predisposto a infliggersi sofferenza e a sviluppare un intenso malcontento, che non originerebbe mai da un’evidente matrice esterna. A questo si intersecherebbe poi la tendenza a perdersi dietro bisogni vacui, finendo per alimentare vizi, dipendenze e sentimenti dannosi, che portano al conflitto con i propri simili. ��Nessun sistema ha probabilità di successo, fintanto che gli uomini sono così infelici da considerare lo sterminio reciproco meno orrendo della continua rassegnazione alla luce del giorno,” scrive Russell, e in effetti solo analizzando e trovando una soluzione a questo problema si sarebbe potuti riuscire a costruire una società solida e in grado di progredire in maniera positiva. Peccato però che da allora la situazione si sia invece esponenzialmente aggravata. Eppure non tutto è perduto e rileggere le sue parole può aiutarci a mettere a fuoco il senso della nostra esistenza. Come fattori nocivi all’uomo il filosofo riporta in particolare la tendenza alla competizione e il sentimento di invidia che scaturiscono dal non sentirsi mai all’altezza. Un individuo teso allo “sfoggio delle proprie qualità” si ritroverà facilmente solo, senza affetti, ignaro dei sentimenti profondi dei propri cari. La predisposizione alla competitività, alla prestazione professionale eccellente e alla lotta per il tanto agognato successo sono, oggi ancor più che un secolo fa, fonte dell’abbrutimento di molte persone. “La radice di questo male risiede nell’eccessiva importanza attribuita al buon esito della competizione con i propri simili quale fonte principale di felicità”. L’uomo è portato a inseguire in maniera frenetica successo e guadagni, in quanto strumenti di riconoscimento sociale. Russell lamentava già ai suoi tempi che la competizione, connessa al decadimento degli ideali civili, avesse invaso ogni settore della vita. In questo modo qualsiasi forma di svago – tra cui il filosofo annovera la lettura e la conversazione – finiva per essere percepita e vissuta come una gara con gli altri e quindi privata della gioia che poteva portare. Donne e uomini, spesso, non sembrano in grado di assaporare i piaceri della vita intellettuale senza lasciarsi fagocitare dalla competitività e ciò degenera fatalmente in comportamenti autodistruttivi che hanno come conseguenza stanchezza, assunzione di droghe ed esaurimento nervoso. Ridurre la vita stessa “a una questione di muscoli e volontà” è il primo passo per ritrovarsi di fronte a una società incapace di ammettere, accettare e desiderare una parte di svago in uno stile di vita equilibrato. Il progresso e i benefici della rivoluzione digitale permettono oggi, a chiunque disponga dei pochi mezzi necessari, di trasformare qualunque hobby o passione in un business – o almeno di provare a farlo. Chiunque può apparentemente ritagliarsi il proprio spazio sul web e sui vari social, condividendo abilità, inclinazioni e persino frammenti della propria vita privata, ma tutto questo, se da un lato costituisce una risorsa per chi ha bisogno di una vetrina facilmente accessibile, dall’altro ci priva di una porzione di vita da dedicare alle nostre passioni senza lasciarci divorare dalla competitività, dall’ansia da prestazione e dal bisogno di piacere e acquisire sempre più seguaci. Tutto sul web può diventare strumento di competizione e la corsa ai follower – che in grandi quantità possono effettivamente costituire possibilità di guadagno – lo dimostra. Il bisogno di approvazione surclassa la capacità di assaporare il proprio tempo libero: è il trionfo della performance sul godimento. Il vicino più prossimo della competitività è l’invidia. Russell la descrive come il sentimento umano più deprecabile, in quanto porta l’individuo a infliggere del male alla persona che l’ha suscitata e, al contempo, causa infelicità per chi ne è affetto. Piuttosto che godere di ciò che possiede, l’invidioso desidera infatti privare gli altri dei loro vantaggi, poiché la gioia e la soddisfazione altrui lo fanno sprofondare nel malcontento. L’invidia scaturisce in primo luogo dalla percezione delle disuguaglianze che, se non risponde a una chiara differenza di merito, viene percepita come un’ingiustizia. Se un tempo l’individuo invidiava soltanto i propri vicini (perché poco o nulla sapeva degli altri), oggi è portato a invidiare molte più persone, anche molto distanti dalla sua sfera esistenziale, perché è sempre più facile entrare in apparente contatto con la vita, alle abitudini e agli agi instagrammati e instagrammabili altrui, per forza di cose falsati. A proposito del legame tra insoddisfazione, invidia e odio per il prossimo, il filosofo scrive: “Il cuore umano, quale la civiltà moderna lo ha fatto, è più propenso all’odio che all’amicizia. Ed è propenso all’odio perché è insoddisfatto, perché nel profondo sente, forse anche inconsciamente, di aver perduto il senso della vita”. Un altro vizio denunciato da Russell è la paura della disapprovazione altrui, che si mescola all’incapacità di vivere serenamente senza omologarsi all’ambiente circostante. “Gli strappi alle convenzioni accendono d’indignazione le persone convenzionali”: per questo motivo, talvolta, il bisogno umano di uniformarsi per avvertire un senso di appartenenza e riconoscimento entra in conflitto con l’esigenza di esistere esprimendo la propria individualità, anche laddove appaia stravagante. A questo proposito, il filosofo invita a curarsi dell’opinione pubblica quel tanto che basta “per non morire di fame e non andare in prigione”. Secondo il filosofo, una società fatta di individui che non si inchinano alle convenzioni è di gran lunga più interessante di una in cui tutti agiscono secondo comportamenti stereotipati. E oggi, nell’era della globalizzazione e delle comunicazioni iperveloci, è ancora più necessario abbandonare la paura di ciò che è diverso da noi, che ci porta a riporre fiducia solo in coloro in cui possiamo facilmente riconoscerci. Sforzarsi di capire l’altro e condividere le proprie esperienze è sempre qualcosa che ci arricchisce. La tendenza a percepirsi come macchine da prestazione piuttosto che come soggetti, con bisogni e aspirazioni da ascoltare e assecondare, è poi sempre più tangibile a causa del progresso e dei suoi ritmi incessanti. Di conseguenza, è facile sviluppare un senso di inadeguatezza profondo e una percezione errata delle proprie capacità. Le prestazioni, inumane e irrealistiche, che il mondo richiede, portano a misurarsi in modo dannoso con gli altri e con le proprie fragilità, con uno sforzo che si rivela autodistruttivo, perché sovradimensionato. Tutto ciò ci fa precipitare in una spirale di ansia e di fatica emotiva che, scrive Russell, impedisce anche il riposo, poiché “più stanco è un uomo, più impossibile diventa per lui fermarsi”. Talvolta, la prestazione lavorativa è uno degli strumenti utili per fuggire alle inquietudini e alla paura del fallimento. Sembriamo incapaci di guardare alle nostre angosce con razionalità ed equilibrio – di modo che queste diventino familiari – e andiamo alla ricerca di continue distrazioni, che ci distolgono dalla risoluzione dei problemi che ci turbano. In questo modo prolifera l’abitudine a stordirsi con svaghi allettanti ma superficiali, che finiscono per affaticarci tanto quanto le ore di lavoro indefesso. Questo meccanismo ci mostra come gli esseri umani cerchino da tempo l’eccitamento per sfuggire al vuoto e alla noia fruttuosa. L’individuo che prova a “perdersi” in piaceri estremi e passioni violente, che lo stordiscono e lo astraggono dalla propria percezione del sé, si stima incapace di godere di una felicità duratura. Su questo punto, il filosofo britannico non mostra dubbi: l’uomo moderno fatica a divertirsi senza l’ausilio dell’alcool o di sostanze che alterino la sua percezione; e oltretutto, anche laddove riuscisse a ottenere il successo agognato, egli avrebbe i nervi così devastati da non riuscire a godere dei traguardi conquistati. Ma Russell parla anche del senso di colpa, spesso indotto in età infantile da figure genitoriali o educative eccessivamente repressive e moraliste. In un’etica razionale, dice il filosofo, dovrebbe essere considerato lodevole arrecare un piacere a sé, quando questo non lede l’incolumità e il benessere altrui. Ciononostante, siamo stati cresciuti per generazioni con la paura di peccare, cosa che ci ha portato a sviluppare comportamenti auto-castranti. Il senso di colpa induce a perdere il rispetto di sé e a stimarsi inferiori agli altri, per questo è bene sollecitare la parte cosciente a vigilare su quella incosciente che, spesso a causa di un’educazione sbagliata, ha imparato a infliggersi inutili sofferenze e repressioni. Ancora, nel saggio vengono messi a fuoco i danni che reca a ogni individuo la disposizione a ripiegarsi su di sé e sui propri problemi. Un essere umano sano e propositivo è infatti proiettato verso l’esterno: pur muovendo da un giusto interesse egoistico, esso è però capace di allargare lo sguardo verso ciò che lo circonda, riuscendo a percepire la propria piccolezza e la moderata rilevanza delle disgrazie individuali, al cospetto della sofferenza che permea il mondo intero. Chi non riesce a empatizzare con il dolore altrui e chi non è capace di immedesimarsi rischia di ingigantire oltremodo il valore della propria sofferenza e, così facendo, incide negativamente non solo sulla propria vita, ma su quella di tutti gli altri, calpestandone dignità ed esigenze. “La felicità fondamentale dipende più di qualunque cosa da ciò che si può chiamare un cordiale interesse per le persone e le cose”. A partire da un interesse genuino e da una sana apertura verso la realtà che ci circonda, possiamo provare a tirarci fuori dalla spirale di debolezze e comportamenti auto-sabotanti che ci minano. In conclusione, il filosofo aggiunge poi un argomento fondamentale alla sua tesi: poiché il male più difficile da sconfiggere è l’insoddisfazione, oggi diffusa in maniera endemica e pervasiva, sarebbe auspicabile che aumentasse il numero degli individui che godono di una felicità autentica. Sono questi, infatti, gli unici a non provare piacere nell’infliggere dolore agli altri e, di conseguenza, a non nuocere a sé stessi e al mondo. Finché continueremo a cercare l’appagamento attraverso il riconoscimento sociale, e finché ci percepiremo come macchine invece che come esseri umani, resteremo vittime delle richieste iperboliche della società. Una vita impiegata in una competizione contro gli altri, al fine di “dimostrare di essere i migliori”, induce inevitabilmente a uno stato di tensione che ci impedisce di provare autentica soddisfazione. Oggi in molti iniziano ad avvertire il bisogno di rallentare, per avere il tempo di ascoltarsi ma anche di spostare lo sguardo verso ciò che li circonda. Questo è l’unico modo per smettere di sabotarsi e, così, di ricominciare a godere dei proprio sani successi, quando arrivano.
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serafinomariastagno · 5 years ago
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Ritorno ad Atlantide
Di Serafino Maria Stagno
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A Medika la nostra stanza è un rettangolo bianco, con grandi finestre a guardare un vecchio muro di mattoni. Appeso in una nicchia c’è un planisfero consunto, rosicchiato dal tempo. La carta lisa, scolorita in alcuni punti, fa affiorare dagli oceani isole inesistenti. Là, in mezzo all’Atlantico, alcuni graffi arrotondati sembrano disegnare la forma di un arcipelago grandioso: osservo quella terra immaginaria, e non posso che pensare ad Atlantide, seppellita dalla acque e riemersa su quella carta. 
Forse, Atlantide è sotto i nostri piedi, intorno a noi, e sopra le nostre teste. Perchè Medika è come un continente a parte, staccato dal mondo, circondato da un mare di graffiti e colori, dentro e oltre Zagabria. Per il secondo anno consecutivo siamo qui: nel 2015 abbiamo portato il nostro spettacolo Kaninchen, e quest’anno proponiamo un progetto nuovo, avventuroso e tutto da sperimentare: una live performance ambientata tra le rovine, da realizzare con la gente del luogo, attraverso un workshop di 4 giorni. Tornare ad Atlantide, dopo un anno, significa per me riscoprire il sapore selvaggio di un luogo capace di essere utero, rampa di lancio e rifugio creativo. Tornare ad Atlantide significa ritrovare divani semoventi, luci rosse, porte di metallo, fiori sui tetti, saluti latini, frasi slave, vapore di zucchine in padella e fruscio di scarpe appese al cielo. E’ come se qui si proiettasse 24 ore su 24 il film di un rave party al rallentatore, dove la musica è fatta con il suono delle idee e le bottiglie di birra contengono petali. C’è un uomo dietro l’angolo, con scarpe antiche, che suona un clarinetto aspettando la luna, e il suo nome è Josip Viskovic, ma tutti lo chiamano “Whiskey”. E c’è un gigante circense, dalla barba rossa, che usa i fari delle automobili per illuminare gli spettacoli, e il suo nome è Domagoj Šoić, ma tutti lo chiamano “Kuga”. E poi c’è una donna, con un impermeabile di pelle, che crede nel nostro modo di fare teatro e che ci ha voluti qui, e il suo nome è Irena Curik ma tutti la chiamano, semplicemente, “Irena”. In parte umani, in parte pesci, e in parte uccelli, gli abitanti di Medika ci offrono ancora una volta le chiavi del loro regno, e ci guidano alla scoperta della “Zona”. Schegge di cemento, terra e vetri infranti. Nella “Zona” di Zagabria il cielo è una promessa distesa tra i vertici di un triangolo. Davanti alla ferrovia, ecco i detriti di una fabbrica di bilance, distrutta dal vento.   Di fianco un supermercato abbandonato, a pochi passi da un Mc Donald luccicante. E poco più in là un palazzo abitato dalla notte, con le finestre spalancate su un parcheggio. Il cammino per arrivare nella “Zona” è un sentiero che segue e attraversa i binari, costeggiando gli alberi secolari dell’orto botanico, mescolando le nostre ombre con i fili d’erba. Un uomo elegante attraversa la ferrovia con la sua valigetta, mentre una lucertola si infila nel buio di una ferita che taglia il muro. Camminiamo in fila indiana, spingendo un carrello da supermercato carico di bottiglie vuote, di plastica sgonfia, di impermeabili che sembrano ali ripiegate. Siamo bambini senza età e cercatori d’oro, e il nostro setaccio è un cuore che batte sul ferro. 
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Siamo donne e uomini, croati e italiani, slavi e latini. Occhi di nocciola ardente, di salvia marina e di cielo stropicciato. Per quattro giorni abbiamo camminato lungo quel binario, avanti e indietro, di mattina, di giorno e di notte, e per quattro giorni abbiamo vissuto abitando l’inabitabile. Portare il sogno dove restano le macerie. Portare l’azione dove il tempo è bloccato. Portare la vita dove abitano solo più echi. E portare il teatro oltre il teatro, calandolo nei luoghi dimenticati della città. Un teatro che è irruzione nel silenzio, grido e abbraccio, amore e coraggio. Perché ci vuole coraggio per decidere di lanciarci dentro un’avventura, senza conoscere prima gli altri compagni di viaggio. Perché ci vuole coraggio a ritrovarci nel ventre oscuro di un palazzo abbandonato, a correre su e giù per le scale, seguendo la luce vibrante di una candela. E perché ci vuole coraggio a danzare sui vetri che si infrangono. Eppure, senza quel coraggio, la poesia non avrebbe la potenza necessaria per vincere la forza di gravità, e gli angeli non salterebbero nell’abisso ad occhi chiusi. Sì, lo ammetto. Io penso che in quei giorni, in quegli istanti, noi tutti siamo stati molto simili agli angeli. Leggeri, quasi senza peso, e capaci di attraversare i muri del silenzio, i muri della rovina, i muri del tempo, per vivere la magia di una sfida artistica, profondamente connessa con l’idea di rinascita.
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Creare una live performance corale, costruita su un percorso itinerante che tocca tre luoghi diversi, assemblando le qualità espressive di persone che non si conoscono e adattando il progetto alle innumerevoli problematiche logistiche che possono emergere in contesti estremi, è una sfida artistica ambiziosa. Ma pensare di realizzare tutto questo in soli 4 giorni, e avendo tra i partecipanti due persone alla loro prima esperienza teatrale, è qualcosa che sconfina, apparentemente, nella follia. Per riuscire in una simile impresa non vi può essere metodo, né scienza esatta, né pianificazione attendibile. E’ allora necessario essere capaci di ascoltare: noi stessi e i luoghi che incontriamo. Ed è fondamentale pensare e agire in modo plastico, senza perdere la direzione, ma di volta in volta essendo pronti a inventare percorsi alternativi, un attimo prima impensabili. Da questo punto di vista, “Angelus Novus” è una straordinaria vittoria della creatività, una dimostrazione di come sia possibile realizzare grandi imprese artistiche con un budget estremamente ridotto, ponendo il fattore umano come motore centrale di un progetto. In un’epoca come la nostra, nella quale la tecnologia è una sorta di divinità imprescindibile, e molte opere artistiche non sarebbero possibili senza apparecchiature tecnologicamente avanzate, noi abbiamo deciso di battere strade polverose. Illuminando per esempio la prima scena della performance utilizzando i fari di due automobili, o utilizzando un impianto audio auto-fabbricato, alimentato dalla presa-accendino del cruscotto, o spezzando le tenebre di un palazzo con una decina di faretti cinesi e alcune candele. Anche per queste ragioni, “Angelus Novus”, oltre che essere una performance teatrale, è innanzitutto una dichiarazione poetica. Poesia che nasce a contatto con la ruggine, e che riempie la bocca vuota delle finestre senza vetri, o le corsie desolate di un supermercato schiacciato dal fallimento. E così, poeticamente, noi abbiamo evocato gli operai, senza nome e senza volto, che lavorarono in quella fabbrica distrutta dal vento. Così siamo tornati a fare la spesa tra gli scaffali immaginari, mettendo in sacchetti senza fondo lattine di bibite bevute da altri. E così abbiamo evocato le voci, la quotidianità e i sogni di chi abitò in quel palazzo, prima che le tappezzerie si scollassero dalle pareti. C’è una donna che ancora si pettina, guardando da quella finestra. Ci sono due innamorati che ancora si baciano, dietro quelle tende invisibili. E c’è un musicista che ancora suona il suo clarinetto, mentre la notte dolce si prende i respiri di tutti, per farli evaporare alla luce dei lampioni. Il passato, forse, non è mai passato, ma continua a vivere nel presente, mentre la sua ombra disegna il futuro.
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“D’ora in poi, quando passerò davanti a queste rovine, io non vedrò più le rovine, ma la magia che voi avete lasciato”. Questa frase, detta da un uomo del pubblico al termine della performance, è potentemente rivelatrice. La città in cui viviamo, ciecamente presi dalla nostra vita, può nascondere infiniti volti. Le storie che furono non cessano mai di parlare. E la vita andata lascia sempre una scia, un fluttuare di falene che continua a far vibrare l’aria della notte.
Un primo ringraziamento è per Petra Kovačić, Helvetia Tomić, Mladen Papić and Esteban Puzzuoliche hanno dato il loro corpo e la loro anima durante il workshop e la performance, accettando di danzare, di camminare, di correre e di osare, imparando a conoscersi tra i vetri rotti e la polvere, o camminando lungo i binari del treno, o sperimentandosi nello spazio protetto del workshop. Un altro ringraziamento speciale va allo staff di Subscena /AKC Medika, che ha lavorato a stretto contatto con noi, mettendoci a disposizione lo spazio per lavorare, l’attrezzatura necessaria, il sostegno tecnico-logistico e l’alloggio, sempre credendo ciecamente in questo progetto. Difficile non pensare con dolcezza a quella stanza in cui abbiamo dormito, mangiato, scritto e scaricato fotografie, avendo come panorama un vecchio muro di mattoni. Difficile non ricordare, adesso, il labirinto di corridoi dove tutto può accadere, ad ogni ora del giorno, perché Medika è un’incubatrice che genera stupore, senza soste. E per finire, in qualità di attore, vorrei ringraziare Lucia Falco, regista e direttrice artistica di questo progetto, che ci ha fornito le chiavi per vivere il magico gioco della creazione, guidandoci sulle note di un waltzer lontano. Senza la sue mani, a tenere e a guidare le redini dei cavalli, questo viaggio non sarebbe stato possibile. Senza la sua visione, quelle rovine non avrebbero mai rivisto la luce. E senza la sua capacità di infondere poesia, i nostri gesti sarebbero rimasti vuoti, e la storia che abbiamo raccontato non sarebbe mai esistita.
(Foto di Stefano Pozzuoli)
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giotanner · 7 years ago
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Ho letto il post su Orgoglio e Pregiudizio. Posso commissionarti una mini oneshot? Ti mando i dindi via posta? Via piccione..? Sarebbe fantastica.. soprattutto scritta da te. Un bonifico..?
ma lol, ma tranky funky anon /poi ‘sta cosa dei soldi per fanfiction su una cosina così no, dai. Io solitamente mi faccio pagare per le fanart, ma per le fanfiction i dunno/ Ti faccio degli headcanon, vediamo un po’ come va con i cosi a punti.
Stiamo alla fine del millesettecento nella campagna romana e Fabrizio Mobrici fa parte di una famiglia cui madre mette pressione ai figli per maritarsi con qualche signorotto per bene che possa giovare all’economia della casa
Fabrizio è il fratello di mezzo e in realtà poco gli importa di sposarsi, tra l’altro in quel paese non trova nessuno che gli ispiri: dalla ragazzetta con le trecce alla suorina che deve prendere i voti il prossimo mese, ma da cui si è fatto fare una sega un paio di settimane prima
Vuole solo sentirsi LIBERO invece che sottostare alle leggi del “visto che non sei troppo agiato, allora devi sposarti non per amore, non per affinità, ma per convenienza”.
Fabrizio non è acculturato, ma è una persona che spicca per intelligenza e poesia: adora scrivere versi e adora cantarli. Canta parecchio in solitaria, ma alle volte lo fanno cantare alle feste di quartiere.
Ha i capelli racchiusi in un codino basso, ma tante ciocche gli escono fuori e ha la pelle abbronzata, da Calabrese, cosa che non è molto apprezzata dall’aristocrazia in villeggiatura che ogni estate si ferma nella campagna romana.
Ecco, parlando di aristocrazia in vacanza
UN GIORNO gira voce che dopo anni una villa che era stata chiusa per decesso del proprietario sarà di nuovo aperta e che la famiglia aristocratica che verrà ad abitarci per l’estate è davvero molto ricca con un unico erede maschio non maritato.
E parteciperà al ballo della sagra del paese.
…Madre di Fabrizio impazzisce di gioia.
Fabrizio sbuffa
Il padre acconsente a mandare la moglie e i figli alla sagra.
Ecco.
Come dire.
Fabrizio adora ballare e anche se è un sacco timido, le feste di paese le preferisce ai “carri carnevaleschi di certi balli aristocratici”
Presentano quindi gli ospiti d’onore:
la famiglia Gabbani con Francesco Gabbani libero e unico erede.
“Vi ringrazio di essere venuti.” e blabla Fabrizio sta a bere grappa barricata mentre una sua amica gli si avvicina.
Fabrizio: Quale dei pavoni ‘mbellettati è Francesco Gabbani? 
Fiorella: Quello a destra, accompagnato da sua sorella. 
Fabrizio: E la persona co’ quell'aria strana? 
Fiorella: È un suo amico, Ermal Meta. 
Fabrizio: Ha l'aria triste pora stella! 
Fiorella: Sarà pure triste, ma povero no de certo. 
Fabrizio: Perché? 
Fiorella: Ha diecimila sordi di rendita l'anno e ha possedimenti nel Regno di Napoli oltre che la metà delle terre Lombarde. 
Fabrizio: La metà triste? *(dialogo rivisitato di O&P ;);););) )
Madre di Fabrizio spinge la figlia a presentarsi e per non far brutta figura anche i figli maschi.
Fabrizio guarda prima Francesco, poi si concentra su Ermal
Carnagione bianca e sguardo neutro, quasi altezzoso.
Non gli piace (senti Fabbrì ne parliamo dopo eh?)
Ermal guarda prima la figlia di quella donna piuttosto intraprendente e a tratti volgare nel suo essere paesana, poi guarda il figlio alla sua sinistra
oH NO
Come avrebbero detto duecento anni fa “è incline il messere a farsi aprire a metà”
Poi gli sta antipatico perché lo fissa male
(In realtà Fabrizio sta cercando di studiarlo, ma siccome solitamente nessuno prima di Fabrizio si sarebbe mai permesso di analizzarlo, capirlo, troppo assoggettati al suo essere un ragazzetto ricco e solitario e di origini nobili, Ermal non riesce a comprendere. Invero ogni volta è Ermal ad esaminare gli altri, mai il contrario)
Si scambiano qualche formalità.
Ermal parla con Francesco e i due dialogano.
Poi Fabrizio lo prende in contropiede: “Non è che mordiamo la gente de’ lusso, noi”
“Come?”
“È da tutta la sera che mi guardate malissimo. Ma non è che se so’ ‘n po’ meno ricco de’ voi devo ave’ er vostro disgusto. I fiori so’ belli pure sotto ‘r marmo, semo persone.”
“Certo, io non-”
“Volete ballà?”
“Io non ballo.” Ermal si sente un pesce fuor d’acqua, in realtà è tutta timidezza e poco modo di esprimersi. E il contatto umano gli è estraneo per come gli è stato impartita l’educazione da suo padre
“Oh, lui non balla! Bene ‘Ermal -io non ballo- Meta’. Sappiate che le canzoni sono belle lo stesso, pure se il pubblico è deludente”.
E Fabrizio va sul palchetto e inizia a cantare.
Ermal implode.
O e vorrebbe cantare.
Vorrebbe ballare.
Ma non sa nessuna danza popolare e non sa nessuna sonata romana.
E c’è troppa differenza di classi fra loro.
Eppure come l’ha fatta facile Fabrizio, come gli ha parlato semplice quello. L’ha toccato su i capelli, l’ha approcciato mettendogli una mano sulla schiena.
Ermal vorrebbe davvero scoparselo. Ma non vuole trattarlo come una prostituta, come tanti nobili facevano con i ragazzi poveri.
Finisco qua.
Poi chissà se ci sarà la parte due, chissà, chissà.
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pangeanews · 6 years ago
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Leopardi è stato il filosofo più grande, altro che Nietzsche: dialogo leopardiano con Raoul Bruni
Origlio banalità. Chiunque sfiori lo Zibaldone di pensieri di Leopardi resta folgorato da quei pensieri salini, dall’intemperante sagacia di quegli appunti, che clamorosa ‘doccia fredda’, che messa in crisi di saltuari, saturi pregiudizi. Di fronte a questi pensieri, veridici non per verità – che è la verità? – ma per rischio – la sola verità è avventarsi – se ne risorge con la testa che rotea galassie: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male… non c’è altro bene che il non essere”. Leopardi non è ‘pessimista’ – comodo cingerlo nel tutù di un aggettivo – ma torchia ogni pensiero fino al limite possibile, coltiva la contraddizione, frantuma: “Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perché avendo più vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell’altre”. Leopardi è stato – con Nietzsche, con Dostoevskij – tra i filosofi inarrivabili, alieni all’accademismo, che hanno squarciato il velo dell’Ottocento portandoci nel millennio a venire. Ciò che oggi, tuttavia, è ovvio – fino a un certo lato, dacché Leopardi resta sempre il poeta dell’Infinito, sublime, ma disinnescato, la scuola fa di tutto per addomesticarne la potenza lavica – non lo era qualche decennio fa. Merito di Raoul Bruni, che insegna all’Università Cardinale Wyszyński di Varsavia, aver fatto riscoprire e ripubblicare – sia lode all’editore Aragno – due autori fondamentali nello studio del Leopardi poeta. Intanto, Giuseppe Rensi (1871-1941), filosofo, antifascista, autore dei Lineamenti di filosofia scettica e della Filosofia dell’assurdo, che già nel 1906, sul quotidiano svizzero ‘L’Azione’, scrive che “se Leopardi fosse stato unicamente filosofo e avesse dedicato la sua intelligenza all’elaborazione d’un sistema, il pensiero italiano avrebbe avuto, prima e meglio di quello germanico, Schopenhauer e Nietzsche armonizzati in una costruzione unica”. Bruni raccoglie i testi di Rensi Su Leopardi, a volte sorprendenti (La filosofia del diritto del Leopardi, ad esempio, dove si conclude che “solo la coazione, e non l’immaginario fatto che la volontà della legge sia anche la volontà dell’individuo, può riuscire a costituire la società”). D’altro canto, La filosofia di Leopardi di Adriano Tilgher (1887-1941), formidabile polemista – per Gobetti pubblicò Lo Spaccio del Bestione trionfante, il virale pamphlet contro Giovanni Gentile – elzevirista, saggista, è uno strumento da imporre ai prof, ai leopardofili, ai buoni lettori. Per temi – ‘Il Dovere’, ‘L’Amore’, ‘La Noia’, ‘La Teologia Negativa’, ‘Antistoricismo’… – infatti, Tilgher sviscera il pensiero di Leopardi, con rapacità retorica, è leggibilissimo e senza fronzoli accademici (“La noia è una passione. Anzi è la passione. La noia, si potrebbe dire parafrasando Leopardi, è la passione fondamentale della vita rimasta sola quando nessun’altra passione… occupa l’anima”). Due libri fondamentali sul pensatore fondamentale: troppo miele mi fa svanire, così, contatto Bruni. (d.b.)
Provo a fare una sintesi dei suoi lavori. Recupera l’opera di due misconosciuti – meglio, troppo poco noti – Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi, che approfondiscono un aspetto troppo poco noto di Leopardi, la potenza filosofica, per altro con genio lungimirante. Viene da dire: le piace indagare nelle oscurità, nel non convenzionale… è così?
Devo dire che mi ritrovo in questa formulazione. Sono sempre stato attratto dagli autori e dai pensatori eccentrici, confinati ai margini dei canoni accademici e scolastici; oppure, quando mi sono occupato di un grande classico come Leopardi, ho sempre cercato di approfondire versanti della sua opera ancora poco indagati. Credo che nell’ambito della cultura filosofica italiana del Novecento, specie della prima metà del secolo, ci sia ancora molto da scoprire. Giuseppe Rensi e Adriano Tilgher sono due casi esemplari: due autori semidimenticati, pressoché ignorati dai manuali di filosofia, che, invece, si leggono ancora oggi con straordinario interesse. Tanto per la limpidezza del loro stile (non contaminato dagli specialismi accademici), quanto per l’attualità e la pregnanza della loro riflessione filosofica. La loro precocissima attenzione per il Leopardi pensatore è, in questo senso, emblematica. Di solito quando si pensa alla filosofia di Leopardi si cita subito Emanuele Severino, il cui primo libro su Leopardi è del 1990, ma ci si dimentica che Rensi, fin dal 1906, riconobbe la grandezza filosofica di Leopardi, mettendolo sullo stesso piano di Schopenhauer e Nietzsche. Se, poi, si aggiunge che, nel primo Novecento, la cultura ufficiale di stampo idealistico negò all’opera di Leopardi ogni valore speculativo, la pionieristica interpretazione leopardiana di Rensi ci appare in tutta la sua luminosa originalità. Ancora meno noto di Rensi è Adriano Tilgher, di cui oggi sono disponibili pochissime opere (mi piace qui ricordare le sillogi Filosofi antichi e Filosofi moderni, pubblicate dalla raffinata casa editrice Atlantide per impulso di Simone Caltabellota). La filosofia di Leopardi di Tilgher, uscito 1940, ben sette anni prima del fortunatissimo saggio di Cesare Luporini Leopardi progressivo, è uno dei primi e dei migliori contributi organici pubblicati sul pensiero leopardiano. Chi si occupa del pensiero di Leopardi, ne può trarre ancora oggi spunti preziosi, e in ogni caso non può ignorarlo.
Che lettura ‘nuova’ danno Tilgher da una parte e Rensi dall’altra di Leopardi? E perché, poi – penso a Tilgher soprattutto – certe intuizioni, chiarificatrici, sull’opera di Leopardi non sono state prese in giusta considerazione?
Già il fatto che Rensi e Tilgher riconoscano a Leopardi un intrinseco valore filosofico rappresentò, come ricordavo, una notevole novità nel contesto culturale primo-novecentesco. La cultura idealistica non riconobbe valore filosofico a Leopardi perché considerava il suo pensiero troppo rapsodico, e dunque asistematico. Al contrario, Rensi vide nella frammentarietà dello Zibaldone un sintomo di modernità: per Rensi, Leopardi fu un grande frammentista, al pari di Nietzsche. Oggi il parallelismo Leopardi-Nietzsche è diventato quasi un luogo comune della critica, ma allora era assolutamente inedito. Un altro grande merito di Rensi risiede nel fatto che egli fu tra i primi a leggere Leopardi come filosofo politico, dedicando per esempio grande attenzione alle fondamentali riflessioni zibaldoniane sulla cosiddetta «società stretta» e sulle aporie del vivere sociale; infine occorre ricordare che Rensi definisce quella di Leopardi una «poesia di concetti», anticipando, per certi aspetti, la famosa formula del «pensiero poetante» che intitolava un importante saggio di Antonio Prete. Rispetto a Rensi (di cui condivide molti presupposti: i due, del resto, furono molto amici), Tilgher analizza l’opera leopardiana, e in particolare lo Zibaldone, in modo più organico, dedicando ai più importanti motivi della riflessione leopardiana (dal piacere alla noia, dalle illusioni alla compassione) altrettanti capitoli. Gli elementi di novità rinvenibili nella Filosofia di Leopardi sono molti: penso ad esempio al capitolo sul materialismo leopardiano, alla analisi del contrasto tra civiltà e barbarie, alle considerazioni sulla singolare “religiosità” leopardiana. Ma anche la tesi di Sergio Solmi che parlò a proposito dello Zibaldone di «pensiero in movimento» è, in certo modo, anticipata da Tilgher. Eppure, nonostante queste intuizioni, lo studio di Tilgher è stato a lungo sottovalutato dalla critica leopardiana. Le ragioni sono molteplici: innanzitutto durante gli anni in cui la linea critica di gran lunga dominante era quella di ascendenza marxista (ho già fatto riferimento al Leopardi progressivo Luporini) si vedevano con sospetto le pagine di Tilgher sull’antiprogressismo e l’antirazionalismo di Leopardi; e poi, più in generale, non si poteva perdonare a Tilgher (come del resto a Rensi) lo stile anti-accademico, poco rispettoso del bon-ton universitario.
Lo Zibaldone appare, sempre più, come il monolite filosofico più importante del pensiero italiano, con tutte le sue – modernissime – contraddizioni: è d’accordo? Verrebbe da dire che la filosofia, nello specifico italiano – penso, ovviamente, a Dante, Manzoni, Leopardi, ma anche a Montale, a Luzi – sia stimolo lirico. 
Sono sicuramente d’accordo. Lo Zibaldone (di cui è stata recentemente pubblicata anche una traduzione integrale in lingua inglese) ci appare sempre di più come il documento fondamentale del pensiero italiano moderno. D’altra parte, come sappiamo, Leopardi affidò il suo pensiero anche ai versi, e i Canti sono un esempio insuperato di “poesia pensante”. Se una possibile linea filosofica della tradizione poetica italiana si può far risalire già a Dante; è soprattutto da Leopardi in poi che la grande poesia italiana (in sintonia con la lirica europea post-romantica) sarà, quasi sempre, anche una poesia filosofica. Perché il valore filosofico di Leopardi venisse pienamente riconosciuto si è dovuto aspettare moltissimo tempo; e ho l’impressione che le venature filosofiche della grande poesia italiana del Novecento siano ancora scarsamente indagate. A questo proposito bisogna ricordare che Montale fu un attento lettore di Rensi, e tracce della lettura di Rensi si possono trovare anche nei suoi versi, a cominciare dagli Ossi di seppia (ai poeti citati aggiungerei almeno il nome di Caproni, anche lui lettore di Rensi). Insomma, credo che sul pensiero della poesia italiana del Novecento ci sia ancora molto da scrivere.
Qual è a suo avviso l’aspetto necessario, più cocente della ‘filosofia’ di Leopardi (posto che si possa dir così)? 
Difficile indicare un solo aspetto di un pensiero che, nello Zibaldone, tocca con ambizione enciclopedica una miriade di temi. Posso però dire che nessun autore moderno come Leopardi ci aiuta a comprendere il mondo contemporaneo in tutti i suoi aspetti. E credo che anche per comprendere il futuro che si sta preparando non si potrà prescindere da Leopardi.
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cartofolo · 7 years ago
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Doc, ho visto che lei ha consigliato dei libri di Cerchio firenze 77. io vorrei comprare il libro ‘conosci te stesso?’ pensa che possa darmi delle risposte e possa aiutarmi a capire chi sono? grazie se mi risponderà
Ne sono sicuro, Anon.E' un libro che personalmente mi ha chiarito a molti dubbi che altre filosofie e perfino la psicologia non erano riusciti a fare.
Ti riporto l'introduzione che Pietro Cimatti (un caro amico che ora non è più tra noi) ha fatto del libro "Conosci te stesso", edito dalle  Mediterranee nel 1980 e curato dallo stesso Cimatti, in quanto le sue parole presentano il libro, Roberto Setti e "le Voci" con i profondi valori che rappresentano al di là del tempo in cui sono state scritte, vissute e ascoltate. Nelle sue parole c'è poesia, rimpianto, ma anche la consapevolezza del dono prezioso che ci è stato dato in un tempo che, per assurdo, non abita in nessuno spazio cronologico.
Conosci te stesso?   Teoria e pratica dell'autoconoscenza e della liberazione.
Ecco, a sei anni della scomparsa fisica di Roberto, il cuore del Cerchio Firenze 77, un'altra raccolta di brani tratti dalle comunicazioni delle Voci che, attraverso il suo dono totale di se stesso, sono giunte nei lunghi anni di ininterrotto contatto e colloquio tra la Pura Coscienza e l'umana possibilità di coglierne quanto meno il suono, meraviglioso ad udirsi.
Il titolo interrogativo "Conosci te stesso?", e la particolare disposizione e rielaborazione dei brani che compongono questo manuale di una folgorante teoria e pratica dell'autoconoscenza e della liberazione - un Insegnamento che mai, prima di ora, era stato dato all'uomo - hanno forse bisogno di essere spiegati.
Chi può dire, sinceramente, di conoscere se stesso?, di esservisi consapevolmente applicato? E chi, altrettanto onestamente, può dire di essere stato appagato dai tanti metodi finora proposti dall'industria culturale su questo tema di fondo?, e chi sa che esso segna l'unico passaggio dall'uomo inconsapevole e smarrito all'uomo della consapevolezza e della serenità interiori?
Che cosa significa, ancor prima, "conoscere se stesso"? Vuol dire forse conoscere, dopo averla studiata come esterna a se stessi, la mappa delle funzioni biopsichiche il cui ordinato e coordinato svolgimento è preposto a una buona salute?, o forse conoscere, tabelle e statistiche alla mano, i modi di un corretto rapporto con i propri simili, esteriormente considerati, ovvero di un oculato inserimento nella propria società?
Certamente non sono ancora questi, fino dall'antichità sapienziale (quando Conosci te stesso era scolpito sul frontone di un tempio delle iniziazioni), il vero valore e il vero significato di quella espressione imperativa che, scrisse Giovenale, è discesa dal cielo - detto metaforicamente - e dal cielo seguita a venire, indicando infine che solo conoscendo se stesso l'uomo è veramente uomo, a somiglianza del dio che ha in sé, nel più profondo che è l'altissimo di lui stesso. E di questo dio interiore, celato ai più, e la cui conoscenza è liberazione, i tanti e mutevoli dèi fabbricati dai teologi, e adorabili all'esterno e nell'ignoranza di se stessi, sono, se non proprio la parodia, certamente l'illusione.
Forse ora possiamo meglio cogliere il senso di una indicazione costante delle Voci del Cerchio: non siamo venuti tra voi per costituire o avallare nuove religioni, nuovi rituali, nuovi alibi per l'evasione dalla vita, nuove abitudini e palliativi per i pigri ed i pavidi, ma anzi a distruggere intimamente tutto questo; non è più il tempo delle sette, delle filosofie o religioni precludenti, degli steccati divisori tra uomo e uomo, tra un gruppo e l'altro, tra il cuore e la mente dello stesso uomo, ma anzi è venuto il tempo di superare tutto questo, di andare oltre l'illusione in cui finora  l'umanità è vissuta e ha sofferto; e questo è possibile solo conoscendo la reale struttura e finalità del Macrocosmo e, conseguentemente, del microcosmo umano che lo rappresenta ed incarna sulla terra; insomma, solo conoscendo se stessi.
Tutto ha origine e fondamento da qui: conoscere se stessi.
Forse possiamo anche cogliere meglio il perché le Voci parlassero, polifonicamente ma secondo un Disegno unico e sapientemente coordinato, dall'intimo dell'uomo Roberto, dal più profondo che è l'altissimo - si è detto; e perché tanto Insegnamento indicaste in un'unica direzione, insieme amorosa e imperativa, valida per ogni uomo di ogni tempo: conosci te stesso!
Al limite, lo stimolo e l'indicazione costante, pressantemente insistita ai loro ascoltatori di ieri e di domani, è una teoria e pratica dell'autoconoscenza e della liberazione: che non si riassume in tecniche e modalità da imparare a memoria, obbedendo passivamente al maestro e istruttore, che non promette e cioè non inganna in quanto indica la via maestra ma, nel contempo, ricorda che ognuno deve da solo, con la sua sola volontà e le sue sole forze, percorrerla fino in fondo, con sincerità e perseveranza: e questa via maestra è Conosci te stesso; nient'altro!
Ora, scomparso Roberto, le Voci tacciono e il Messaggio sapiente che da lui sgorgò pare interrotto, sicché taluni che hanno partecipato al miracolo del Cerchio hanno poi potuto sentirsene acerbamente privati.
Ma è solo un gioco dell'apparenza: in realtà, l'incalzante polifonia delle Voci magistrali séguita a farsi udire, profonda e costante, ben oltre il Cerchio che esse stesse adunarono e guidarono, nell'intimo di ogni uomo vivente, dove il seme di una Nuova Conoscenza è stato interrato al tempo di Roberto. E di questo può accorgersene chiunque ascolti il nuovo respiro dell'umanità, senta il nuovo corso delle intenzioni e delle azioni umane, che sempre più scopertamente fluisce. Sicché ora possiamo dire: ecco, quel messaggio di Sapienza e di Amore che pareva detto per pochi "fortunati", entro l'ambito stretto di un cerchio di uditori, è diventato agevolmente l'implicita conoscenza e l'operante coscienza di tanti uomini di buona volontà, dovunque si trovino a vivere, che ne siano consapevoli o non, quali che siano le lingue e gli ambiti culturali del loro agire nel mondo. E questo non è che l'inizio di una primavera dello spirito - dalle Voci annunciata, e pareva una promessa; oggi visibilmente avviata, e pare ancora un miraggio!
Questo nuovo slancio condurrà l'uomo ancora più avanti sul suo sentiero di liberazione, cioè incontro al suo reale destino. La liberazione dell'uomo attraverso la conoscenza, la quale culmina e si corona con l'autoconoscenza: non è altro che questo, in sintesi, il Messaggio delle Voci.
Allora, che cosa è stato quel Cerchio che una felice esigenza editoriale, al momento di aprire l'Insegnamento maturato al chiuso di una "scuola" solo apparentemente privilegiata, si è autodefinito Cerchio Firenze 77, con ciò indicando sinteticamente una data, una città di avvio - la città natale di Roberto - e un gruppo di amici raccolti intorno al "fuoco" delle Voci, nella notte del mondo?
Ora meglio comprendiamo che il Cerchio è stato l'occasione necessaria, secondo un Disegno di inesplorabile vastità e profondità, affinché un Sapere destinato ai secoli dell'uomo, al cuore profondo dell'uomo, fosse seminato "in terra" e trovasse, in quel buio dei tempi, il terreno fertile e protetto perché il seme attecchisse indisturbato e, via via, crescesse fino a diventare il nuovo Albero della Conoscenza per tutta un'umanità in attesa, oltre ogni limitazione di spazio e di tempo, la quale umanità potrà nutrirsi del dono dei suoi frutti, e ristorarsi alla sua grande ombra, e stringersi intorno ad esso come ad un nuovo patto col divino interiore.
Allora, e di conseguenza, chi è stato Roberto, grazie al quale tutto ciò che il grande Disegno prevedeva si è realizzato?, senza il cui dono di se stesso niente si sarebbe potuto realizzare?
Dopo la sua scomparsa fisica molto si è detto e scritto di questo "uomo invisibile " - come doveva essere e come infatti è stato secondo quel Disegno impersonale che egli è venuto a compiere. Si è detto e scritto che è stato un grande medium - con un termine preso dallo spiritismo; e che è stato un uomo tranquillo, taciturno, equanime, mansueto, restio ad imporsi, reciso nel non attribuirsi la Potenza che per suo mezzo si manifestava e che lui per primo stupiva - con attributi che sembrano presi dall'agiografia dei mistici e dei "piccoli santi" d'altri tempi, quelli destinati alla postuma adorazione dei semplici di spirito, che non si pongono domande.
Non c'è dubbio che, nei modi dell'apparenza, Roberto fosse e apparisse anche questo, cioè un medium prodigioso per la fenomenologia che spontaneamente esprimeva, nonché una creatura "morta a se stessa", assennato e distaccato in quel mondo esagitato e delirante dello spiritismo, della cosiddetta parapsicologia, che lo rasentò e talvolta lo ferì ma al quale egli fu totalmente estraneo grazie alla sua "divina normalità" e alla sua superiore ironia.
Al di là di queste plausibili apparenze, si deve tuttavia dire che Roberto è stato - a volerlo proprio identificare - un Iniziatore, il perfetto strumento di quella Potenza, di quella Pura Coscienza che, indicando all'uomo di buona volontà il suo grande destino, non poteva analogamente che manifestarsi e rappresentarsi "in terra" mediante quell'uomo di buona volontà e dal grande destino - ma invisibile e impersonale come i maestri le cui Voci dissero, qualificandosi:
"Siamo solo una voce senza corpo, un'identità senza nome, una dottrina senza autorità, un messaggio scritto sulla sabbia di un deserto ventoso ".
A proposito di Roberto, presenza costante nel mio presente, vorrei concludere con un fatto riferito da Krishnamurti. Prima di cominciare a pensare con la sua testa - egli disse una volta - gli avevano inculcato e l'avevano convinto di essere il veicolo dell'Istruttore del Mondo; ma quando cominciò a pensare, volle scoprire che cosa si intendesse per Istruttore del Mondo, che cosa volesse dire, da parte Sua, prendere un veicolo, e che cosa mai significasse la Sua manifestazione in questo mondo. Così conclude Krishnamurti: "Di proposito sarò vago, poiché per quanto facile mi sarebbe precisare, non è mia intenzione farlo, visto che, quando si definisce una cosa, cerca di dare una interpretazione che nella mente degli altri prende una forma definita da cui sono legati e dalla quale dovranno poi liberarsi".
In modo analogo, per questo Insegnamento di liberazione e per colui che gli si è fatto libero e perfetto strumento, è meglio davvero non precisare, non definire oltre, proprio per non creare altri vincoli, altri feticci, altri santi, altre pastoie al libero pensare e sentire dell'uomo.
Oltretutto, il silenzio di Roberto è sacro.
Come ogni macchina lavora perché è stata costruita secondo i principi che regolano la fenomenologia del piano fisico così l'universo esiste perché si fonda su precise leggi. Queste leggi hanno la loro radice nel grande piano divino, poiché qui   la loro ragione di esistenza, ma si manifestano e vigono su ciascun piano, regolandone la vita. La conoscenza di tali leggi è visione del reale. Ignorarle non vuol dire che non esistano o che non abbiano i loro effetti. Si ignorano troppe cose ed è per questo che si soffre. Ignorare significa non sapere, ma si può non sapere proprio per non voler sapere, oltre che per non poterlo! Lo scopo di questo insegnamento è di farvi conoscere quelle leggi.
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justanother-fangirlsblog · 5 years ago
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Myst Intro
Mi viene difficile spiegare in modo esaustivo il perchè Myst e i suoi figli mi piacciano così tanto.
Ero abbastanza piccola e immatura la prima volta che ebbi contatto con questa saga. Non ricordo neanche il “come”, probabilmente fui attratta dalla parola “puzzle” contenuta nei tag del gioco stesso, visto che circa 10 anni fa (se non anche prima) io e mia madre scaricavamo infiniti GB di giochi dall’ormai defunto (?) Emule. In ogni caso, tutto iniziò un bel po’ di anni fa.
Una voce in inglese mi parla (e non capivo una sega di inglese all’epoca) e un libro cadeva dal cielo. Lo apro, e vedo delle immagini muoversi. Che fai, non le tocchi? Le toccai. In un baleno si apre davanti a me questo mondo, senza una parola, senza un aiuto, sono in terra straniera da sola. Cominciai a cliccare un po’ lì, un po là, alza questa leva, abbassa quell’altra. Insomma, per farla breve, tra due cervelli messi insieme, non ne ricavammo molto. Né io né mia madre riuscivamo bene a seguire il filo del discorso, e ammetto a malincuore che qualche puzzle presente sull’isola lo risolvemmo soltanto grazie all’aiuto di guide esterne.
Oggi, a 25 anni e con una conoscenza molto buona della lingua inglese, posso dire che il 90% dei puzzle non risolti all’epoca non erano stati compresi a causa della barriera linguistica. Poco male, perchè le sensazioni trasmesse da quel gioco sono comunque permeate attraverso lo schermo e si sono incastonate per sempre sotto la mia pelle.
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Isola di Myst, la Libreria
Ero alle mie primissime esperienze con le avventure grafiche, anzi, non credo di averne vissute altre al di fuori della saga; poi i miei occhi da bambina si emozionavano un po’ per tutto, ogni minima cosa mi entusiasmava e mi sorprendeva, cosa che, purtroppo, non accade più da anni.
Mettere in moto il cervello mi è sempre piaciuto, ogni problema per me è una sfida personale da risolvere, e se non riesco a venirne a capo, è un fallimento. Quindi vivere Myst è stato un po’ come entrare in un negozio di caramelle. A conti fatti direi anche che i puzzle non erano neanche così difficili, leggendo i diari di Atrus viene tutto a galla in maniera abbastanza immediata (anche se l’enigma degli ingranaggi per accedere a Mechanical era bastardo nel ‘97 e bastardo rimane), ma purtroppo la piccola me non ne era cosciente.
Ed è in quei diari che io ho trovato il vaso di Pandora, ho scoperchiato un intero, nuovo universo. Se il primo viaggio a Myst è stato meraviglioso, il secondo (compiuto a Luglio 2020) è stato come aprire per la prima volta gli occhi dopo un lungo sonno. Bellissimo. E’ stato come bere acqua dopo giorni di sete, come assaggiare per la prima volta un frutto buonissimo.
Nonostante tutti i primi diari di Atrus siano semplici diari di bordo, cronache delle sue prima avanscoperte nelle sue Ere, riuscivo a sentire che stavo sempre più avvicinandomi “fisicamente” a quel mondo; quel magico libro che mi ha condotta in un universo diverso dal mio si andava man mano concretizzando. Stavo facendo parte anche io di quelle avventure, ero davvero nella Libreria a meravigliarmi di come questo uomo sconosciuto avesse creato vita, morte, nuovi orizzonti semplicemente scrivendo. E’ qui il punto. Capite? Come Atrus ha creato nuovi universi grazie al potere della scrittura, così accade quotidianamente anche nel “vero” universo. Quello che viviamo tutti noi. Leggiamo libri, vediamo film, giochiamo ai videogiochi, e parte tutto da un piccolo embrione, un piccolo schizzo, due parole buttate giù su un fazzoletto di un ristorante.
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Selenitic
Quanto può essere potente la scrittura? Mi piace pensare che sia talmente potente da creare la vita, come accade in Myst. Nella nostra testa, i nostri “viaggi mentali” sono reali tanto quanto lo siamo noi. L’immaginazione è un’arma potentissima se usata per nobili scopi, quale anche il semplice intrattenimento che, per quanto semplice, è la nostra unica fuga.
Senza cadere troppo nel filosofico, torniamo a Myst. Chi ha imparato l’Arte (della scrittura) è capace, grazie a carta e inchiostro appositi, di scrivere un’Era, ovvero un universo parallelo, gestita da delle regole arbitrarie decise dallo scrittore. Non mi soffermerò sugli aspetti religiosi della questione, ma preferirei parlare di come si scriva un’Era.
Equilibrio è la parola base: nessuna Era può definirsi stabile se nella sua creazione non sia stato inserito l’equilibrio. Che sia tra i vari elementi che la compongono, che sia nella stessa scelta di parole da parte dello scrittore, le contraddizioni vanno eliminate e ogni singola unità che compone questo mondo deve coesistere con le altre.
Credo sia questo l’elemento che più mi affascina dell’Arte: non c’è spazio per gli errori.
In Myst, assistiamo alle “lezioni” di Atrus che, dopo aver dato luce a due bambini sulla stessa isola di Myst, decise di crescerli nel migliore dei modi, portandoli con sè durante le esplorazioni delle sue creazioni. Sull’isola, Atrus ha sperimentato parecchio con la scrittura, riuscendo più o meno bene. I suoi due figli, visitando con lui questi nuovi mondi, hanno sviluppato un’ingordigia sempre più crudele, fino al punto di prosciugare completamente ogni Era visitata di ogni bene, fino al punto di distruggere persino loro stessi, con le loro stesse mani.
Quale metafora più indicata per descrivere alla perfezione l’essere umano? In mano nostra, il Bello e il Nuovo non sono destinati a durare, l’unica domanda importante è: “come posso sfruttare questa nuova risorsa?”. Che il Karma abbia pagato i due ragazzi con la loro stessa moneta è indubbio, ma non posso fare a meno di pensare a quando la mia razza dovrà pagare il suo debito con la sua “era”, la Terra.
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Channelwood
Alleggeriamoci.
La figura e il personaggio di Atrus si sono riservati un piccolo ma importante spazio nel mio cuore, già la prima volta che feci conoscenza con lui. Un uomo affascinante, incredibilmente buono, puro di cuore e con una mente dai limiti inesistenti. Dal primo momento in cui l’uomo vedrà il nostro viso, una luce si accenderà nei suoi occhi: la sua decennale prigionia è finalmente finita, noi siamo la chiave per la sua libertà. Fermandoci alla fine di questo gioco, è impossibile comprendere a pieno quanto fondamentale sia il personaggio di Atrus in tutta la lore (ma di ciò ne parlerò in futuro).
Myst si conclude con Atrus che ci ringrazia, e ci permette di continuare ad esplorare le sue creazioni, aprendo un libro di collegamento davanti a noi.
Credo che l’assenza del 3D nel gioco sia stato un grande bene per la crescita del mio amore verso il prodotto stesso. Attori in carne ed ossa furono utilizzati per animare gli NPC, grazie all’uso di filmati perfettamente incastonati nel panorama dell’isola. Quindi adesso posso affermare che tanti anni fa io conobbi sì Atrus, ma anche Rand Miller (che con mia piacevole sorpresa scopro essere anche una delle due menti dietro all’enorme progetto). Una connessione ancora più profonda, un’empatia ancora più forte, quelle che sono riuscita a provare avendo di fronte a me un “vero” essere umano, e non un render.
Ho sempre avuto la capacità di empatizzare fortemente con i personaggi (fittizi e non) che si presentano lungo la mia strada. Tendo a creare connessioni per me profonde con praticamente qualsiasi persona mi colpisca in un determinato modo, che sia per il suo aspetto, per i suoi modi, per i suoi pensieri.
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Il finale buono
Immagino il mio cuore (in senso astratto) come un enorme palazzo, dove all’interno ci sono innumerevoli stanze, ognuna di esse dedicata a uno di questi personaggi. Atrus, con le sue lievi parole e i suoi modi gentili, si è presto riservato una di queste stanze, e mai l’ha abbandonata sin dal nostro primo incontro. C’è sicuramente stato qualcosa in lui che illuminò i miei occhi da adolescente alla scoperta del mondo, quella stessa cosa che continua ciclicamente a costringermi al ritorno sull’isola di Myst.
E’ un bisogno, una necessità che percepisco. Non posso stare troppo lontana da quel posto. Nonostante lo conosca a memoria, voglio tornare alla Libreria ed esplorare come se fosse la prima volta.
Ogni era è riuscita a lasciarmi qualcosa, nonostante abbia le mie preferenze. Ringrazio inoltre realMyst per avermi regalato i cicli giorno/notte. Grazie, è stata un’esperienza ancora migliore.
Channelwood è bellissima. La mia preferita. Non sono una grande fan dei luoghi marini, infatti la parte migliore dell’intera Era è il secondo piano. Tante costruzioni in legno legate agli altissimi alberi che popolano la zona collegate tra loro tramite ponti. Ora cado di sotto, o forse no. Che brividi! Una foresta sospesa, abitabile, riesco ad immaginare il profumo delle piante e dell’acqua alzato dal vento.
Stoneship è stata una degli esperimenti falliti di Atrus: cercò di scrivere una nave per inserirla nell’Era, finendo soltanto per incastrarla nel centro della stessa. Costante pioggia, tempeste e il faro come unica fonte di luce. Ho sempre avuto un debole per le tempeste.
Mechanical ospitava le stanze più inquietanti, destinate ai due figli di Atrus: ospitavano di tutto, tra strumenti di tortura e fiumi di alcol.
Selenitic è un deserto infinito, tranne per una piccola zona dove crescono alberi dalle foglie rosse. Un angolino delizioso. Tutti i puzzle dell’Era sono dominati da giochi di suono creati dal forte vento presente, che si insinua selvaggio nel paesaggio. Ed è qui che credo di aver provato per la prima volta un forte senso di frustrazione: il puzzle della navicella, irrisolvibile se prima non si è visitato Mechanical. Il forte odio che provai verso questo minigioco si è lentamente sedimentato e trasformato in amore, rendendolo poesia ai miei occhi o meglio, alle mie orecchie.
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Mechanical
L’intero puzzle era basato sul lasciarsi andare e seguire i suoni, fidarsi delle proprie orecchie e delle proprie capacità, che ci avrebbero infine tirato fuori da un altrimenti irrisolvibile labirinto.
Ed è così che ho anche imparato a lasciarmi coccolare da questa esperienza, a non viverla come una caccia al tesoro, una competizione, ma bensì come un viaggio: ho assaporato ogni piccolo dettaglio, mi son lasciata cullare dall’amore e la passione che Rand e Robyn Miller hanno voluto trasmettere nella loro creazione, passione che è arrivata a me attraverso gli anni e che attraverso gli anni mi ha formata, mi ha cresciuta e mi ha accompagnato nella mia crescita personale.
E’ anche grazie a Myst che ho capito cosa mi piace e cosa non mi piace, cosa e chi sono io e che cosa voglio, dalla vita e da me stessa. Come esattamente un videogioco sia stato capace di trasmettermi tanto non è chiaro neanche a me. Che sia stato il piacere della scoperta, che sia stato il mio facilmente infiammabile spirito da bambina, non so dirlo. Non sento neanche di aver spiegato a modo quanto profondo sia il mio amore per l’intero franchise, non credo di conoscere abbastanza vocaboli per raggiungere questo scopo.
Chiuderò con la speranza che questo post sia come un libro di collegamento: disposto a schiudere un intero universo solo a chi osa metterci una mano sopra.
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rifiutimentali · 5 years ago
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Vi racconto di quella volta che sono inciampata dentro un libro.
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Myst Intro
Mi viene difficile spiegare in modo esaustivo il perchè Myst e i suoi figli mi piacciano così tanto.
Ero abbastanza piccola e immatura la prima volta che ebbi contatto con questa saga. Non ricordo neanche il “come”, probabilmente fui attratta dalla parola “puzzle” contenuta nei tag del gioco stesso, visto che circa 10 anni fa (se non anche prima) io e mia madre scaricavamo infiniti GB di giochi dall’ormai defunto (?) Emule. In ogni caso, tutto iniziò un bel po’ di anni fa.
Una voce in inglese mi parla (e non capivo una sega di inglese all’epoca) e un libro cadeva dal cielo. Lo apro, e vedo delle immagini muoversi. Che fai, non le tocchi? Le toccai. In un baleno si apre davanti a me questo mondo, senza una parola, senza un aiuto, sono in terra straniera da sola. Cominciai a cliccare un po’ lì, un po là, alza questa leva, abbassa quell’altra. Insomma, per farla breve, tra due cervelli messi insieme, non ne ricavammo molto. Né io né mia madre riuscivamo bene a seguire il filo del discorso, e ammetto a malincuore che qualche puzzle presente sull’isola lo risolvemmo soltanto grazie all’aiuto di guide esterne.
Oggi, a 25 anni e con una conoscenza molto buona della lingua inglese, posso dire che il 90% dei puzzle non risolti all’epoca non erano stati compresi a causa della barriera linguistica. Poco male, perchè le sensazioni trasmesse da quel gioco sono comunque permeate attraverso lo schermo e si sono incastonate per sempre sotto la mia pelle. 
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Isola di Myst, la Libreria 
Ero alle mie primissime esperienze con le avventure grafiche, anzi, non credo di averne vissute altre al di fuori della saga; poi i miei occhi da bambina si emozionavano un po’ per tutto, ogni minima cosa mi entusiasmava e mi sorprendeva, cosa che, purtroppo, non accade più da anni.
Mettere in moto il cervello mi è sempre piaciuto, ogni problema per me è una sfida personale da risolvere, e se non riesco a venirne a capo, è un fallimento. Quindi vivere Myst è stato un po’ come entrare in un negozio di caramelle. A conti fatti direi anche che i puzzle non erano neanche così difficili, leggendo i diari di Atrus viene tutto a galla in maniera abbastanza immediata (anche se l’enigma degli ingranaggi per accedere a Mechanical era bastardo nel ‘97 e bastardo rimane), ma purtroppo la piccola me non ne era cosciente.
Ed è in quei diari che io ho trovato il vaso di Pandora, ho scoperchiato un intero, nuovo universo. Se il primo viaggio a Myst è stato meraviglioso, il secondo (compiuto a Luglio 2020) è stato come aprire per la prima volta gli occhi dopo un lungo sonno. Bellissimo. E’ stato come bere acqua dopo giorni di sete, come assaggiare per la prima volta un frutto buonissimo. 
Nonostante tutti i primi diari di Atrus siano semplici diari di bordo, cronache delle sue prima avanscoperte nelle sue Ere, riuscivo a sentire che stavo sempre più avvicinandomi “fisicamente” a quel mondo; quel magico libro che mi ha condotta in un universo diverso dal mio si andava man mano concretizzando. Stavo facendo parte anche io di quelle avventure, ero davvero nella Libreria a meravigliarmi di come questo uomo sconosciuto avesse creato vita, morte, nuovi orizzonti semplicemente scrivendo. E’ qui il punto. Capite? Come Atrus ha creato nuovi universi grazie al potere della scrittura, così accade quotidianamente anche nel “vero” universo. Quello che viviamo tutti noi. Leggiamo libri, vediamo film, giochiamo ai videogiochi, e parte tutto da un piccolo embrione, un piccolo schizzo, due parole buttate giù su un fazzoletto di un ristorante.
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Selenitic
Quanto può essere potente la scrittura? Mi piace pensare che sia talmente potente da creare la vita, come accade in Myst. Nella nostra testa, i nostri “viaggi mentali” sono reali tanto quanto lo siamo noi. L’immaginazione è un’arma potentissima se usata per nobili scopi, quale anche il semplice intrattenimento che, per quanto semplice, è la nostra unica fuga. 
Senza cadere troppo nel filosofico, torniamo a Myst. Chi ha imparato l’Arte (della scrittura) è capace, grazie a carta e inchiostro appositi, di scrivere un’Era, ovvero un universo parallelo, gestita da delle regole arbitrarie decise dallo scrittore. Non mi soffermerò sugli aspetti religiosi della questione, ma preferirei parlare di come si scriva un’Era.
Equilibrio è la parola base: nessuna Era può definirsi stabile se nella sua creazione non sia stato inserito l’equilibrio. Che sia tra i vari elementi che la compongono, che sia nella stessa scelta di parole da parte dello scrittore, le contraddizioni vanno eliminate e ogni singola unità che compone questo mondo deve coesistere con le altre. 
Credo sia questo l’elemento che più mi affascina dell’Arte: non c’è spazio per gli errori. 
In Myst, assistiamo alle “lezioni” di Atrus che, dopo aver dato luce a due bambini sulla stessa isola di Myst, decise di crescerli nel migliore dei modi, portandoli con sè durante le esplorazioni delle sue creazioni. Sull’isola, Atrus ha sperimentato parecchio con la scrittura, riuscendo più o meno bene. I suoi due figli, visitando con lui questi nuovi mondi, hanno sviluppato un’ingordigia sempre più crudele, fino al punto di prosciugare completamente ogni Era visitata di ogni bene, fino al punto di distruggere persino loro stessi, con le loro stesse mani.
Quale metafora più indicata per descrivere alla perfezione l’essere umano? In mano nostra, il Bello e il Nuovo non sono destinati a durare, l’unica domanda importante è: “come posso sfruttare questa nuova risorsa?”. Che il Karma abbia pagato i due ragazzi con la loro stessa moneta è indubbio, ma non posso fare a meno di pensare a quando la mia razza dovrà pagare il suo debito con la sua “era”, la Terra.
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Channelwood
Alleggeriamoci.
La figura e il personaggio di Atrus si sono riservati un piccolo ma importante spazio nel mio cuore, già la prima volta che feci conoscenza con lui. Un uomo affascinante, incredibilmente buono, puro di cuore e con una mente dai limiti inesistenti. Dal primo momento in cui l’uomo vedrà il nostro viso, una luce si accenderà nei suoi occhi: la sua decennale prigionia è finalmente finita, noi siamo la chiave per la sua libertà. Fermandoci alla fine di questo gioco, è impossibile comprendere a pieno quanto fondamentale sia il personaggio di Atrus in tutta la lore (ma di ciò ne parlerò in futuro).
Myst si conclude con Atrus che ci ringrazia, e ci permette di continuare ad esplorare le sue creazioni, aprendo un libro di collegamento davanti a noi.
Credo che l’assenza del 3D nel gioco sia stato un grande bene per la crescita del mio amore verso il prodotto stesso. Attori in carne ed ossa furono utilizzati per animare gli NPC, grazie all’uso di filmati perfettamente incastonati nel panorama dell’isola. Quindi adesso posso affermare che tanti anni fa io conobbi sì Atrus, ma anche Rand Miller (che con mia piacevole sorpresa scopro essere anche una delle due menti dietro all’enorme progetto). Una connessione ancora più profonda, un’empatia ancora più forte, quelle che sono riuscita a provare avendo di fronte a me un “vero” essere umano, e non un render. 
Ho sempre avuto la capacità di empatizzare fortemente con i personaggi (fittizi e non) che si presentano lungo la mia strada. Tendo a creare connessioni per me profonde con praticamente qualsiasi persona mi colpisca in un determinato modo, che sia per il suo aspetto, per i suoi modi, per i suoi pensieri.
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Il finale buono
Immagino il mio cuore (in senso astratto) come un enorme palazzo, dove all’interno ci sono innumerevoli stanze, ognuna di esse dedicata a uno di questi personaggi. Atrus, con le sue lievi parole e i suoi modi gentili, si è presto riservato una di queste stanze, e mai l’ha abbandonata sin dal nostro primo incontro. C’è sicuramente stato qualcosa in lui che illuminò i miei occhi da adolescente alla scoperta del mondo, quella stessa cosa che continua ciclicamente a costringermi al ritorno sull’isola di Myst.
E’ un bisogno, una necessità che percepisco. Non posso stare troppo lontana da quel posto. Nonostante lo conosca a memoria, voglio tornare alla Libreria ed esplorare come se fosse la prima volta. 
Ogni era è riuscita a lasciarmi qualcosa, nonostante abbia le mie preferenze. Ringrazio inoltre realMyst per avermi regalato i cicli giorno/notte. Grazie, è stata un’esperienza ancora migliore.
Channelwood è bellissima. La mia preferita. Non sono una grande fan dei luoghi marini, infatti la parte migliore dell’intera Era è il secondo piano. Tante costruzioni in legno legate agli altissimi alberi che popolano la zona collegate tra loro tramite ponti. Ora cado di sotto, o forse no. Che brividi! Una foresta sospesa, abitabile, riesco ad immaginare il profumo delle piante e dell’acqua alzato dal vento.
Stoneship è stata una degli esperimenti falliti di Atrus: cercò di scrivere una nave per inserirla nell’Era, finendo soltanto per incastrarla nel centro della stessa. Costante pioggia, tempeste e il faro come unica fonte di luce. Ho sempre avuto un debole per le tempeste.
Mechanical ospitava le stanze più inquietanti, destinate ai due figli di Atrus: ospitavano di tutto, tra strumenti di tortura e fiumi di alcol. 
Selenitic è un deserto infinito, tranne per una piccola zona dove crescono alberi dalle foglie rosse. Un angolino delizioso. Tutti i puzzle dell’Era sono dominati da giochi di suono creati dal forte vento presente, che si insinua selvaggio nel paesaggio. Ed è qui che credo di aver provato per la prima volta un forte senso di frustrazione: il puzzle della navicella, irrisolvibile se prima non si è visitato Mechanical. Il forte odio che provai verso questo minigioco si è lentamente sedimentato e trasformato in amore, rendendolo poesia ai miei occhi o meglio, alle mie orecchie. 
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Mechanical
L’intero puzzle era basato sul lasciarsi andare e seguire i suoni, fidarsi delle proprie orecchie e delle proprie capacità, che ci avrebbero infine tirato fuori da un altrimenti irrisolvibile labirinto. 
Ed è così che ho anche imparato a lasciarmi coccolare da questa esperienza, a non viverla come una caccia al tesoro, una competizione, ma bensì come un viaggio: ho assaporato ogni piccolo dettaglio, mi son lasciata cullare dall’amore e la passione che Rand e Robyn Miller hanno voluto trasmettere nella loro creazione, passione che è arrivata a me attraverso gli anni e che attraverso gli anni mi ha formata, mi ha cresciuta e mi ha accompagnato nella mia crescita personale.
E’ anche grazie a Myst che ho capito cosa mi piace e cosa non mi piace, cosa e chi sono io e che cosa voglio, dalla vita e da me stessa. Come esattamente un videogioco sia stato capace di trasmettermi tanto non è chiaro neanche a me. Che sia stato il piacere della scoperta, che sia stato il mio facilmente infiammabile spirito da bambina, non so dirlo. Non sento neanche di aver spiegato a modo quanto profondo sia il mio amore per l’intero franchise, non credo di conoscere abbastanza vocaboli per raggiungere questo scopo.
Chiuderò con la speranza che questo post sia come un libro di collegamento: disposto a schiudere un intero universo solo a chi osa metterci una mano sopra.
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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“Abbracciami” di Andrew Faber: Un Inno alla Forza degli Abbracci e alla Speranza. Recensione di Pier Carlo Lava
Andrew Faber ci guida alla scoperta del potere terapeutico degli abbracci per contrastare ansia, paura e tristezza
Andrew Faber ci guida alla scoperta del potere terapeutico degli abbracci per contrastare ansia, paura e tristezza In “Abbracciami”, Andrew Faber ci regala una poesia intensa e toccante che esplora il potere curativo di un gesto semplice ma profondo: l’abbraccio. Con versi delicati, Faber ci mostra come un abbraccio possa diventare uno scudo contro le ombre dell’ansia, della paura e della…
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fotopadova · 8 years ago
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Fotografia: l'io, il corpo e il reale
 --- di Nicola Bustreo
 - Intervista a Francesca Della Toffola:
 Francesca Della Toffola: who , what , when , where , why
 La passione per la fotografia nasce durante gli anni universitari a Venezia anche se un segnale di quella che sarebbe stata la “malattia” che non mi avrebbe più abbandonata c’è stato all’età di 12 anni: ordino per posta un libro di tecnica sull’acquarello e me ne arriva uno sulla fotografia (la scusa era che erano terminati)….con mia grande delusione subito naturalmente accantonato. Oggi lo conservo ancora.
Le lezioni di Italo Zannier stimolano la mia curiosità e così la magia della fotografia mi cattura in camera oscura, il mio primo ingranditore russo acquistato in un piccolo negozietto in Calle Sechera: le sperimentazioni e le riflessioni di Moholy Nagy, di Man Ray, di Luigi Veronesi mi affascinano.
E poi arriva lo studio sulla bellezza, sulla verità, “Sulla soglia dell’immagine. La fotografia di Wim Wenders” ,  sul cinema e l’esigenza della sequenza: non mi basta più una singola immagine, lavoro a dittici e trittici da subito.
Nel 2001 dopo un workshop sulla creatività con Franco Fontana a Massa Marittima, altro luogo importante per la mia crescita fotografica, nascono i DITTICI e la LINEA NERA, segno del tempo, impronta di sequenza spezzata. Proprio in Toscana incontrerò amici con cui condivido i miei pensieri e le mie fotografie ancora oggi.
E’ in quel momento che decido di dedicare e approfondire le mie ricerche sul colore, mettendo da parte il b/n.  Luigi Ghirri con “Niente di antico sotto il sole” e Francesca Woodman con i suoi autoritratti “mimetici” accompagnano le mie riflessioni.
 Poi Milano, l’Istituto Italiano di fotografia, lo still life, la moda, la professione.
 Nel 2004 ancora la Toscana, incontrerò lì Arno Rafael Minkkinen. Un incontro molto importante. Mi incoraggia a credere nel mio lavoro, nella mia forma di espressione.
La mia fotografia è riflessione su se stessi, è un continuo specchiarsi-spezzarsi. Quando ci si guarda allo specchio ci si vede sempre a metà (non vedi quello che c’è dentro), a volte solo pezzi confusi e rotti.Ogni volta con l’autoritratto si rinnova questa frattura di sé per poi ricomporsi nell’immagine finale.
Ho poi bisogno di racconto, di una breve sequenza, non mi basta più una singola immagine. Due, tre immagini mi aiutano ad esprimermi meglio. Nascono così le mie immagini come “fotomontaggi semplici” ispirati da un luogo e dai colori. 
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• La tua produzione fotografica è tanto particolare quanto introspettiva. Non solo ritratto ma anche autoritratto entrambi immersi in contesti dove la relazione con il corpo è fondamentale sul piano visivo e dell'emozione.  Qual’e’ la tua  filosofia ma soprattutto la filologia visiva ? 
Fotografia come poesia, espressione del mio sentire. Attraverso questa forma di linguaggio senza parole, fatto di colori e forme, di luci e ombre, di ricordi e sensazioni riesco a far emergere la parte più nascosta della mia persona: è come togliere il “velo di maya” (Schopenauer). Non tutto si riesce a spiegare, naturalmente, rimane sempre il mistero. Svelare non significa comprendere a pieno.
Io sono un essere umano che fa parte del mondo. Il corpo è l’unico strumento con il quale posso far sì che la mia parte interiore, invisibile, inafferrabile tocchi il mondo, la realtà, quello che mi sta intorno.
La fotografia, il corpo, l’autoritratto in particolare, permette il pieno contatto con il reale.
Corpo come sema-soma gabbia, prigione dell’anima da cui uscire, liberarsi e ancora corpo come peso-gravitas, un corpo pesante, ingombrante che non permette di comunicare.
Ecco il bisogno di togliere peso al corpo, ecco la necessità di mimetizzarsi con il mondo, con la natura.  Nella serie Stanze e Immaginarsi il corpo è vissuto come ingombro, in Pelle a pelle e Immobili evasioni il corpo si mimetizza sempre più, con Appesi all’attimo diviene pura ombra e luce, per approdare, infine, alla trasparenza, alla leggerezza di Accerchiati incanti. 
Sicuramente le immagini di Francesca Woodman hanno influenzato la mia fotografia: il suo modo di raccontare gli stati d’animo, la sua malinconia sono vivi ed emozionano. Anche la Body art è stato un argomento di mio interesse, pur non condividendo le ricerche più estreme: non cerco la sofferenza del corpo ma la leggerezza. Tra gli autori che mi affascinano: Bill  Brandt e i suoi corpi deformati e dilatati; Arno Rafael Minkkinen con il suo corpo duttile, nervoso, adattabile come la natura stessa e poi Jerry Uelsmann perché trasforma il corpo in un contenitore di racconti, di sogni.
Nelle mie fotografie il corpo è sempre inserito in un ambiente, è parte indispensabile della realtà che muta, che cambia come il corpo stesso. Fondamentale poi è il colore che riempie e svuota il corpo, così la mente, l’immaginazione può volare alta.
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• Entriamo ancora più nel particolare: la fotografia è il mezzo di diplomazia comunicativa, ma il corpo sembra intrapporsi tra la tua idea visiva e questo strumento. Uno spettatore che osserva le tue fotografie come deve intendere il “ tuo corpo fotografato”? 
Per diplomazia comunicativa intendi che ognuno ci legge ciò che vuole?
Credo che qualcuno riesca a leggerci la “mia idea visiva”, intendo la necessità di diventare un tutt’uno con le cose, di entrare nel mondo, di farci parte appieno. Certo posso capire che per altri non sia così immediato ma è un po’ quello che succede con la poesia, ci sono poesie che entrano nelle viscere anche se non si capiscono del tutto e altre magari molto conosciute che lasciano indifferenti. E’ una questione di empatia.
Il “mio corpo fotografato” è uno strumento che mi permette di comunicare in modo più diretto, più coinvolgente, più sincero anche (credo), perché non mi vedo e non posso “controllarlo” totalmente; il mio corpo si adatta alle cose, alle sensazioni, odori compresi di quella situazione che avviene lì, in quel solo momento. Ecco perché dico che istinto e casualità sono presenti nelle mie fotografie. Metto in scena me stessa come in un piccolo teatro personale e come a teatro possono succedere degli imprevisti…a volte meravigliosi come quando la mia gattina dal pelo bianco e nero si avvicina incuriosita mentre sto distesa sulla neve.
Faccio parte del mondo e ovviamente ascolto, amo, soffro di fronte alle storie, gli accadimenti della vita. Ecco quel teatro vorrei fosse letto come universale, vorrei che lo spettatore, di fronte alle mie immagini, non guardasse il mio corpo pensando che è il mio. Il mio corpo è solo un pretesto per raccontare la fragilità che ci accomuna.
Racconto “una storia”, la mia, ma potrebbe essere di chiunque.   
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• Per te può esistere il concetto di Fotografia Introspettiva?
 Credo si possa parlare sempre e comunque di fotografia introspettiva. Volendo leggere tra i pixel o gli alogenuri delle immagini c’è sempre l’autore dietro che sceglie quando scatta, che sceglie in base ai propri ideali, sensazioni, esigenze, necessità. Il fotografo è sempre coinvolto, con il pensiero, con il corpo, con il cuore, con la propria parte interiore, invisibile, che si fa visibile attraverso l’immagine.
In fondo la fotografia è latente in ognuno di noi, per rivelarsi ha bisogno dello scatto, dell’azione, del pensiero.
L’inconscio tecnologico proprio della fotografia si rivela in tutta la sua naturalezza. C’è una parte tecnica, propria del mezzo e una parte interiore, propria del fotografo che scatta in quel momento e non in un altro, che sceglie un soggetto e non un altro.
Se vuoi dire che la mia fotografia è introspettiva, certo né più né meno di qualsiasi fotografia.
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TFF 2014, Eddie Redmayne su La teoria del tutto: «Che onore incontrare Stephen Hawking»
Durante la conferenza stampa di preentazione del film, l’attore ha descritto diversi retroscena, dal primo incontro con l’astrofisico fino ai riferimenti con Doctor Who!
di Cristiano Bacci 25/11/2014
L’attore Eddie Redmayne è giunto oggi a Torino per presentare il suo ultimo film, La teoria del tutto (qui la nostra recensione) in cui interpreta il famoso astrofisico Stephen Hawking, di cui il regista James Marsh raconta la difficile lotta contro la terribile malattia che lo affligge, combattuta anche attraverso l’amore che lega l’uomo alla moglie Jane (Felicity Jones). Durante la conferenza stampa di presentazione del film, l’attore ha spiegato com’è stato per lui affrontare questo progetto e ci ha svelato molti retroscena della lavorazione.
Come si è preparato per la parte? Ha incontrato Hawking, ha letto i suoi libri? «Sì, ho letto Breve Storia del Tempo, anche se non posso dire di aver capito tutto, ho navigato su molti siti internet ma alla fine sono dovuto ricorrere al sito astronomyforkids.com per avere spiegazioni meglio comprensibili delle sue teorie. Anche io poi ho studiato a Cambridge e ho avuto modo di vederlo attorniato dai suoi studenti; lo venerano come se fosse una rockstar!»
Quando le hanno detto che avrebbe dovuto interpretare Stephen Hawking, ha avuto un po’ di paura?
«Il giorno dopo aver appreso di aver avuto il ruolo sono andato in una clinica specializzata nel trattamento della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) e una dottoressa, dopo avermi descritto la malattia nei minimi dettagli, mi ha messo in contatto con 30 pazienti e con le loro famiglie; sia per me che per Felicity (Jones, che interpreta Jane nel film n.d.r) infatti era molto importante capire, al di là della malattia in sé, quale fosse il costo a livello emotivo che una patologia di questo genere comporta e le sue conseguenze sulla vita familiare. Abbiamo visto poi molti documentari, tutti quelli disponibili in internet a riguardo, ma il passo più importante è stato conoscere personalmente Stephen, Jane e i loro figli; Stephen in particolare è dotato di un carisma e di una forza d’animo davvero notevoli, è stato un onore poterlo incontrare».
Che tipo lavoro ha sostenuto fisicamente? E’ vero che ha lavorato con una coreografa? «Non avendo girato il film in ordine cronologico è capitato\ che nello stesso giorno di riprese dovessimo girare scene che nel film coprono fasi temporali diverse e quindi stadi differenti dell’evoluzione della malattia; per me era fondamentale avere prima un’idea di tutto il decorso che Stephen ha subito. È stato però subito chiaro che nella vita di Stephen la malattia ha un ruolo secondario e inoltre la storia che abbiamo voluto raccontarvi non riguarda la malattia di Hawking ma è la storia di un rapporto umano tra due persone, una storia d’amore. Ho lavorato con Alexandra Reynolds, una balleria con la quale ho fatto un addestramento muscolare per capire quali muscoli dovessi usare per sostenere determinate posizioni, quindi ho imparato ad accorciare dei muscoli, ad attivarne alcuni che di solito non utilizziamo volontariamente e cosi’ via. Per quanto riguarda l’espressione facciale ho recuperato su internet tutto il materiale disponibile e in maniera forse non molto ortodossa mi sono messo di fronte allo specchio con il tablet a fianco per cercare di capire come isolare un determinato muscolo facciale e inibirne degli altri».
Il film non è soltanto una storia d’amore, ma una storia di amori, giusto? «Leggendo la sceneggiatura l’ho trovata davvero uno studio sull’amore, sulle differenti possibilità di amare che ognuno di noi ha nella vita. Non parlo soltanto nella distinzione tra l’amore giovanile e quello passionale, adulto, ma anche dell’amore per la materia che si studia, quindi quello per la fisica di Stephen o per la poesia di Jane, gli affetti familiari, ma anche i limiti dell’amore i fallimenti che questo sentimento comporta».  
Quale feedback ha ricevuto il film dalla famiglia di Hawking? «Jonathan, Stephen, Jane e i loro figli e sono stati davvero generosi nei nostri confronti; Felicity e io eravamo tesissimi per aver interpretato  persone non soltanto reali ma ancora in vita, ma tutti loro ci hanno dato tutto il massimo sostegno. Stephen ci ha addirittura permesso di utilizzare la voce proveniente dal suo sintetizzatore che è coperta da copyright; avevamo già realizzato una nostra versione approssimata ma questo dono meraviglioso ci ha consentito di avvicinarci ancora di più ad una rappresentazione credibile dei fatti».
Come si sentiva a dover interpretare un personaggio così pieno di contrasti, dover interpretare u uomo dal corpo inutilizzabile ma dotato di un cervello da genio? «Mi sono sentito estremamente fortunato: come dicevo prima sono stato in contatto con molte persone affette da questa patologia e loro la descrivono come una prigione le cui pareti si restringono sempre di più; ho dovuto girare in posizioni molto disagevoli ma io ogni sera avevo la fortuna di potermi alzare da quella sedia a rotelle e di tornare a casa, non posso neanche immaginare quale possa essere la realtà di tutto ciò».
Qual è la sua personale teoria del tutto? «Quando lavoro in teatro mi capita di stare in scena con la stessa pièce per diversi mesi e ogni sera sul palcoscenico cerco di migliorare sempre un’interpretazione che non sento mai essere completamente giusta, cerco di tendere verso la perfezione senza mai riuscirvi. Quindi per me la teoria del tutto è imparare ad apprezzare questo processo, questo tendere verso la perfezione tipico di tutti gli esseri umani, consapevoli però di non poter essere in grado di raggiungerla».
Il film è molto british, e in particolare ci sono diversi riferimenti a Doctor Who; come mai? «È tutto merito dello sceneggiatore: Doctor Who è un’istituzione britannica per definizione, è una serie che guardavo molto più da ragazzo di quanto non faccia adesso ma conosco Matt Smith e David Tennant ed è meravigliosa, lo sceneggiatore ha avuto un’idea geniale. Tra l’altro la scena in cui Stephen finge di imitare un Dalek è stata una delle più divertenti da girare!»
Programmi per il futuro? «Il  progetto che sto preparando adesso è un nuovo film diretto da Tom Hooper, con il quale ho giàlavorato per Les Miserables, si intitola The Danish Girl ed è la vera storia del primo uomo che si trasforma in una donna, un progetto molto interessante».
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painfulpresent · 5 years ago
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ORLO // SYLVIA PLATH IN “IL VIAGGIO SCIAMANICO”
La donna è a perfezione.
Il suo morto corpo
ha il sorriso del compimento,
un’illusione di greca necessità
scorre lungo i drappeggi
della sua toga,
i suoi nudi piedi sembrano dire:
Abbiamo tanto camminato, è finita.
Si sono rannicchiati i morti infanti
Ciascuno come un bianco serpente
a una delle due piccole
tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti
dentro il suo corpo come petali
di una rosa richiusa quando il giardino
s’intorpidisce e sanguinano odori
dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.
Niente di cui rattristarsi ha la luna
che guarda dal suo cappuccio d’osso.
A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.
05.02.1963, Sylvia Plath
(traduzione di Giovanni Giudici)
ORLO // SYLVIA PLATH IN “IL VIAGGIO SCIAMANICO” – PROF. CIRO SORRENTINO
La genialità di Sylvia Plath è tale da consentirle di utilizzare le parole come segni e rappresentazione degli ossimori della vita; ed è questa stessa genialità che sul piano stilistico si rappresenta in pensieri e forme mai definiti. E non potrebbe essere altrimenti, perché, della vita, Sylvia Plath percepisce i confini della vaghezza e dell’indefinibile, ne svela la fragilità, denunciandone l’impossibilità a determinarsi in modo assoluto. La sua è una scrittura dai toni accesi e innovativi, uno stile personalissimo, fatto di pause e slanci, di imperativi incisi che riflettono appieno la condizione dell’uomo come sospeso, tra indugi, inquietudini, aspirazioni. Il suo canto è espressione dell’essere, è grido dell’anima, e la scrittura è lo strumento per vincere la vuotaggine del silenzio, fissando sul foglio la provvisorietà della dimensione umana.
Espressioni-chiave caricano ogni verso di un forte valore simbolico, individuando il messaggio che, nella sua visione del mondo e della vita, scopre la volontà di trovare un luogo di quiete dove liberarsi dall’opprimente esistere. Quello di Sylvia Plath è un percorso poetico di sofferta conoscenza che la condurrà a scrivere una delle sue più “profetiche” poesie, Orlo. Emblematico l’inizio, “la donna è a perfezione”, un inciso che dichiara in maniera diretta la coscienza di aver raggiunto i confini dell’esperienza, sia sul piano intellettivo che su quello morale e sociale. È un esordio paradigmatico, perché contrappone la coscienza dell’io alla finitezza del mondo terreno e visibile: niente della realtà vissuta è eterno, la vita si lega ad un’esperienza di lacerazione continua, senza alcun fine.
Il nucleo fondante della lirica è dichiarato nello stesso titolo: Orlo, quasi fosse la meta definitiva della viaggiatrice, ormai giunta nel punto più distante dal mondo, laddove le è possibile osservare con “distacco” gli eventi e le azioni degli uomini. Si avverte una tensione estrema, perché Sylvia Plath è al capolinea, è sull’ Orlo che demarca il limite tra l’esistenza terrena dell’individuo e il misterioso altrove degli spazi imperscrutabili ed inaccessibili. Una poesia, Orlo, cadenzata su toni realistici e metafisici, drammatici, che convergono verso la rivelazione di una situazione oscura, la stessa che procura una vertigine spazio – tempo, dove un riverbero inesplicabile annulla ogni presunzione di vita. La condizione diventa maggiormente tragica quando quel riverbero gioca a rimpiattino, suscitando nell’animo percezioni e memorie d’una storia trascorsa:
“…i suoi piedi nudi sembrano dire: siamo arrivati fin qui, è finita.”
Perentorio come evento senza revoca, prorompe l’impeto angosciante di questi versi. Quello che si espande a dismisura e che si materializza è il cosciente dolore, la percezione di un vuoto che opprime e soffoca inesorabilmente, provocando un’irrevocabile torsione spaziale e temporale, un’esclusione dimensionale che precipita ogni fede  in un’assenza estrema:
“i bambini morti si sono acciambellati, ciascuno, bianco serpente, presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.”
Al cadere di ogni attesa, Sylvia Plath sceglie di spingersi contro ed oltre una realtà che si scopre vago e indistinto presente; e comprende in sé i ricordi, se ne fa custode “lei li ha raccolti di nuovo nel suo corpo come i petali di una rosa si chiudono quando il giardino s’irrigidisce e sanguinano i profumi dalle dolci gole profonde del fiore notturno.”
Impercorribile sarà la strada del “ritorno”, e, a darne sentenza sono i versi finali, che definitivamente obliano ogni aspettativa. Nella visione di Sylvia Plath, la vita terrena non è altro che un continuo e ordinario scivolare verso l’inesorabile fine, prova ne sia che “la luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso, non ha motivo di essere triste. È abituata a queste cose. I suoi neri crepitano e tirano.” Ma a ben guardare, la luna è specchio dell’anima di Sylvia Plath, la donna che vede lontano, oltre ogni reale contestualizzazione, la donna che percepisce colori e tinte di nuove e sconosciute geometrie dell’universo.
Avendo raggiunto l’ Orlo, Sylvia Plath “è a perfezione”, ha percorso un cammino tortuoso, fatto di salite e discese, realizzando infine lo scopo assoluto, quello di riconoscersi inimitabilmente nell’unicità della sua essenza. “Il suo morto corpo”, la sua consistenza corporea sta svaporando, è al limite del visibile, compiutezza della carne che si scioglie per tornare alla sua risibile nullità. Il corpo senz’anima “ha il sorriso del compimento”, un sorriso che non dipende da un atto volitivo, ma che fornisce una pietosa e trasparente immagine della materia corporea in disfacimento.
A sorridere veramente è l’entità assoluta e spirituale di Sylvia Plath, l’oracolo che svela “un’illusione di greca necessità” nel mondo degli uomini, in quella finzione di statua divenuta ormai macchinazione e raggiro. In questo passo divinatorio viene denunciata la mistificazione, quella che “scorre lungo i drappeggi della sua toga”, quasi liquefazione di una chimerica esistenza. Fragile, limitata, minima, la vita trascorre velocemente e si consuma nelle pieghe di una vana e fugace bellezza.
In questa tragica consapevolezza “i suoi nudi piedi sembrano dire: Abbiamo tanto camminato, è finita.”. Dunque il corpo, senza più trovarsi confusamente smarrito sui sentieri tortuosi ed impervi della finzione umana, si dispone al riposo definitivo, avendo esaurito la sua energia di radice che nutre l’anima. Occorre prestare attenzione all’inciso “è finita” per non incorrere nell’errore di credere che in questo canto acquistino peso e forza i toni della rassegnazione e del rimpianto.
L’apparente nostalgia è solo una constatazione che solo il tempo umano si è esaurito. Di fronte alla prossima fine, “Si sono rannicchiati i morti infanti”, l’energia vitale e la logica che la guida restano sospesi, in attesa che si compia il tutto. La vita e il pensiero si sono raggomitolati “ciascuno come un bianco serpente a una delle due piccole tazze del latte, ora vuote”, serpenti senza veleno, creature senza più peso che sfiorano appena la terra, null’altro lasciando che un fruscio.
L’io allo specchio, il contraddittorio “essere o non essere”, per effetto di forza centripeta, crolla su se stesso: nulla della realtà può colmare il dubbio amletico dell’essere che si ritrova sdoppiato. La figura del doppio, fa emergere tutto il dolore dell’essere che scorge l’infinito quando ancora si ritrova, in qualche modo, legato al corpo, il misero involucro che non impedisce a Sylvia Plath di stabilire un contatto con l’energia immensa, circolare, eterna dell’infinito.
È a questa vastità che Sylvia volge la sua attenzione, ad essa sente di appartenere e si distacca, con lucida chiaroveggenza, da ogni umano impedimento. Ecco perché osserva il suo corpo e la terra come da lontano; quegli impedimenti, così finiti e vani, “Lei li ha riavvolti dentro il suo corpo come petali di una rosa richiusa…”. Sylvia è quella “rosa”, è bellezza e amore, mirifica essenza che richiude il suo ventaglio di colori, come attendendo e riparando l’incompreso universo della sua conoscenza.
Sylvia Plath ha raggiunto l’ Orlo, la piena coscienza dell’esistenza, sa che “quando il giardino s’intorpidisce…” sulla terra (il suo corpo) non possono germogliare più i semi, sa che inevitabilmente la vita ha bisogno di altra terra per espandersi. È questo il luogo epifanico che consente a Sylvia di poter affermare “…e sanguinano odori dalle dolci, profonde gole del fiore della notte”: la perfezione che la contraddistingue, l’immensità, che in lei è esplosa, ha necessità d’essere trasposta dal piano terreno alla dimensione insondata del sovrumano.
Non è più tempo delle emozioni che pulsano dando vita alle passioni: altro e nuovo sangue fluisce e permea l’essere di Sylvia: sono incantevoli fragranze (le sue stesse fragranze) che echeggiano da lontano, chiamandola, perché le raggiunga “all’infinitesimo lume delle stelle”.
Quelle fragranze “sonore” giungono dai profondi ed inesplorati abissi, da quella insondabile vastità dove si aprono i “petali” delle immense stelle e delle “stringhe” infinitamente piccole. In questo scenario dell’imponderabile (per le menti comuni, non certo per Sylvia Plath), la Luna/Specchio/Sylvia rappresenta il ponte tra la terra e il Cosmo. E seppure la Luna sia simbolo dell’immaginifico, delle paure e dei sogni, resta ferma nella sua imperscrutabile distanza, mentre “…guarda dal suo cappuccio d’osso”, perché “A certe cose è ormai abituata.”.
La Luna, in quanto parte di un Orlo di “perfezione” superiore ed universale, rappresenta l’assoluto e la compiutezza, quella totalità di cui Sylvia Plath è espressione e natura. E da lassù guarda gli uomini che “crepitano”, e, rumoreggiando come foglie fruscianti, si spengono rapidamente come scie di luce precipitate dal cielo.
Sono bricioli e lampi di luce su cui “…si tendono le sue macchie nere.”, le ombre di un buio dilagante, il buio che confonde gli uomini così persi nelle fedi apparenti del labirintico e presunto ordine della realtà.
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italiaefriends · 6 years ago
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Il 29 Aprile è la festa di Santa Caterina da Siena, ( colei che convinse Papa Gregorio XI a tornare a Roma da Avignone) il 29 aprile 2019 è stata redatta la lettera Aperta a Papa Bergoglio per accusarlo apertamente del “delitto Canonico di eresia”. Abbiamo quindi un Papa Emerito e un Papa dichiarato apertamente eretico. Ma anche un trattato di pace firmato da Papa Francesco con l’Imam Sunnita Al-Azhar al Sharif ( di famiglia Sufi) che sta creando una catena di cause/effetto di divisioni mai viste all’interno della Chiesa. Il cattolicesimo più conservatore si sta alimentando nel Populismo dei rappresentanti delle destre di Polonia, Ungheria, Croazia e Italia. Non è facile comprendere, ancora meno non cadere nella banalità dello schieramento da una parte o dall’altra. Lo stato Vaticano resta uno Stato molto potente, crisi morali, politiche e monetarie hanno ripercussioni su tutto il mondo globale e ciò che sta accadendo è una delle più grave crisi mai viste. Conoscere per comprendere: Bergoglio: scisma cattolico e populismo europeo
di Elena Tempestini:
Nell’estate del 2016 un gruppo di studiosi ecclesiastici e laici scrissero una lettera privata a papa Francesco, dove venivano messi in rilievo alcuni errori considerati eresie. La pietra del-
lo scandalo, per la “fronda” conservatrice, è nell’Amoris laetitia. Nel settembre del 2017 vi fu una seconda lettera nella quale si chiedeva al papa una “correzione filiale”, forse volendo verificare se Francesco fosse realmente consapevole di enunciare eresie. Ma è con il terzo scritto redatto nella settimana di Pasqua del 2019 che si è presentata alla Chiesa una situazione storicamente insolita; una lettera aperta portante la data significativa del 29 aprile, festa di santa Caterina da Siena, colei che convinse papa Gregorio xi a cambiare idea e tornare a Roma da Avignone. Per mezzo di questo scritto, papa Francesco è accusato apertamente del delitto canonico di eresia, generando una delle peggiori crisi nella storia della Chiesa cattolica.
Quello che sta accadendo è completamente nuovo; in una società in continua espansione mediatica che è ben oltre l’essere “liquida”, in una società sempre più uniformata alla globalizzazione, stiamo cambiando il nostro modo di pensare e di percepire la realtà. Siamo sempre più fragili, sicuramente interconnessi con il mondo che si pone ai nostri occhi senza apparenti frontiere, immersi in un campo sterminato di informazioni contornate di futilità puramente materiali ma divenute indispensabili, un vortice inarrestabile fattosi ragione. Non mi per- metto di giudicare o giustificare, perché per quelli come me che sono nati dopo la metà degli anni Sessanta, tutto il nostro quotidiano è stato un vento di libertà di pensiero e di comportamento, praticamente una generazione all’apparenza molto fortunata che non ha dovuto fare bat- taglie o scelte drastiche come le generazioni precedenti che, uscendo da un dopoguerra, si conquistavano la quotidianità con la rivoluzione dei sessantottini. La nostra generazione si è potuta permettere di stare sulla riva del fiume a guardare fluire la vita. Ed è forse per questo motivo che siamo arrivati al massimo dell’entropia, lasciando che accadesse una decadenza della cultura e dello spirito che banalizzasse i pensieri, quel grado di massimo caos che Ratzinger descrisse nel 1990 con queste parole: «Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe: un luogo in cui si possano esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti i nostri limiti, dove si sperimenti quell’utopia che ci dovrà pur essere da qualche parte». Oggi abbiamo una Chiesa che apparentemente si è adeguata ai parametri del mondo odierno, correndo velocemente sul filo di una rete globale, ma con una scontentezza che rende il tutto una istituzione secolare, ma forse nulla di più. È la banalità del male che orizzontalmente e superficialmente si espande a macchia d’olio, l’istinto egoistico impulsivo che va a discapito del pensiero profon- do, il pensiero verticale che incontra il bene che è nell’essere umano. L’intero pensiero cristiano, che ha educato alla virtù e al governo di sé, evapora in una finta libertà manipolata dalla ragione-mondo, la stessa che sta inglobando le nostre vite svuotandole spiritualmente e riempiendole materialmente. I problemi sono una catena continua di cause/effetti e all’interno della Chiesa si è formata una grande divisione dopo che è stato firmato il trattato di pace redatto ad Abu Dhabi tra papa Francesco e il grande imam sunnita Al-Azhar al-Sharif, prove- niente da una famiglia sufi. È nell’insegnamento dei sufi che risiede tutto, nell’esempio fornito dal suo comportamento secondo il motto di base: «Nel mondo, ma non nel mondo», perché la religione non può essere utilizzata come politica, essa deve elevare, invece la politica corrompe, limita e divide. Il sufismo avvicina tutti gli uomini grazie alla tolleranza per ogni pensiero differente dal proprio, e fin dal xii secolo i sufisti hanno propagandato il motto: «libertà, uguaglianza, fratellanza», ciò che Rumi espresse dicendo: le vie sono diverse, la meta è unica, le controversie si appianano durante il cammino, dimentica il litigio. Quindi il sufi opera emblematicamente sul proprio io, per abbandonare il buio verso la luce; da pietra grezza diventa pietra le- vigata per divenire un uomo perfetto. Tutto ciò grazie all’etica e non alla morale. Francesco e l’imam; si ripresenta lo stesso scenario dopo ottocento anni da Francesco d’Assisi, colui che, come i sufi, accolse nel suo insegnamento anche i laici e, come i sufi e diversamente da una Chiesa molto rigorosa, cercò di espandere il movimento fra tutta la gente comune, cosa molto inusuale a quell’epoca. Nel trattato di Abu Dhabi è stato messo nero su bianco l’impegno per stabilire nelle
nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze. La condanna dell’estremismo a uso politico delle religioni, il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Riconoscere alla donna il diritto all’istruzione e al lavoro, con il conseguente abbattimento delle pratiche disumane che umiliano la dignità della donna e le impediscono di godere appieno dei propri diritti. Un documento di fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, esempio guida che porti le future generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, con la comprensione divina che rende fratelli tutti gli esseri umani, in quanto la civiltà dei consumi ci sta portando a uno stato fallimentare di degrado etico ed ecologico. Parole e pensieri che provengono da un tempo molto lontano, comprensione e accettazione di un patrimonio universale comune a tutti, ed è per questo che fin dal passato sono stati trovati numerosi punti di contatto tra sufismo e libera muratoria, già in Gialal al-Din dell’ordine dei Mevlevi, conosciuto nella metà del Duecento come Rumi, il fondatore dei dervisci rotanti. Rumi e san Francesco, entrambi, esortavano ad ascoltare con il cuore e non con la mente; Rumi e le sue parole in poesia:
“Là fuori
al di là delle idee di falso e giusto c’è un vasto campo:
come vorrei incontrarvi là. Quando colui che cerca raggiunge quel campo
si stende e si rilassa:
là non esiste credere o non credere”.
Ed ecco che il trattato di Abu Dhabi e le parole di papa Francesco creano nell’oggi o, forse a distanza di secoli, ripropongono un grande dilemma e un vero scisma; se l’accordo e la speranza è sottolineata nell’importanza delle religioni e nella costruzione di una pace mon- diale, e se il tutto è affermato nel nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, lacerati e divisi da sistemi di politiche di integralismo e azioni sconsiderate di manipolazione atte al guadagno e al potere senza limiti, come può una Chiesa che ha la pretesa di essere unica, cattolica e apostolica, una Chiesa che respinge nei suoi dogmi magisteriali qualsiasi relati- vizzazione che la trasformerebbe in una delle tante religioni accettare papa Francesco? E se fosse “costretta” ad applicare il Diritto Canonico a un papa vivente accusato di eresia, questo non lo porterebbe diret- tamente alla perdita dell’ufficio petrino? Firmando la dichiarazione che Dio vuole una pluralità religiosa, il papa ha sfidato sia la Fede che la Ragione; ha rifiutato il fatto che la cristianità è inseparabile dalla fede in Gesù Cristo, che è l’unico Signore. Questo nodo gordiano potrebbe anche non essere solo la percezione di una sentenza “religio- sa”, ma una fine trappola politica, come ci dimostrerebbe Benjamin Harnewell, presidente del Dignitatis Humanae Institute, il centro fortemente voluto e creato dal sovranista Steve Bannon, ex direttore esecutivo della campagna elettorale di Trump e fautore convinto che il populismo sia la vera razionalità da perseguire. Ed è in Italia, vici- no a Frosinone all’interno dell’abbazia benedettina di Trisulti, che si sta creando la scuola di populismo clericale nazionale che Jaroslaw Kaczynski ha realizzato in Polonia già dal 2017, combattendo ateismo e islamismo. Quindi il populismo che inneggia contro Bergoglio co- me traditore della fede, può essere a favore dei sovranisti conservatori europei? Oppure la crisi, oltre che morale e politica, è anche mone- taria, per lo scontro avvenuto nel 2017 tra papa Francesco e l’Ordine di Malta da lui commissariato per una discutibile gestione del gran maestro, il britannico Matthew Festing, spalleggiato dal cardinale conservatore Raymond Burke, che avrebbe dovuto vigilare e che in- vece avrebbero fagocitato le lotte intestine tra i cavalieri britannici e i cavalieri tedeschi, anche con la poco trasparente gestione dell’im- menso patrimonio dell’Ordine con fondi svizzeri. Uno scontro tra correnti progressiste a trazione tedesca, la stessa che si opponeva al conservatore Ratzinger ma che supporta in patria la Merkel, e che sta combattendo in modo violento i conservatori americani che hanno appoggiato Trump. Una lotta che sta facendo divenire la Chiesa una stampella per la politica mondialista, una Chiesa che non appartiene più a Gesù Cristo ma al papa di turno che la trasforma a seconda della propria immagine. Non posso comprendere i venti che spingeranno il vascello della Chiesa a tenere la rotta di questa navigazione del terzo millennio, sicuramente le parole della beata Anna Caterina Emmeri- ck nel 1820 mi risuonano più che profetiche: «Vidi anche il rapporto tra due papi, vidi quanto sarebbero state nefaste le conseguenze di questa falsa chiesa. L’ho veduta aumentare di dimensioni; eretici di ogni tipo venivano nella città di Roma. Il clero locale diventava tiepido e vidi una grande oscurità».
Elena Tempestini, scrittrice
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ultimavoce · 6 years ago
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Di questi tempi molte persone stanno perdendo il contatto con la natura e con la propria interiorità, elementi che sorprendentemente viaggiano di pari passo.
Matteo Giovinazzo viaggia in direzione ostinata e contraria. Matteo, conosciuto come aquilegia, è un artista che ha saputo riscattarsi dai brutti periodi della sua vita proprio ritrovando il profondo collegamento tra se stesso e l’arte, imitazione per eccellenza della natura che ci circonda. Appassionato di fotografia in particolare, ma anche di molti altri mezzi artistici di comunicazione, aquilegia si è fatto conoscere per i suoi bellissimi ritratti e le mai volgari fotografie di corpi nudi, femminili e maschili.
In ogni fotografia, in ogni dettaglio, in ogni piega del corpo che ritrae, aquilegia riesce a trasmettere bellezza ed eternità, catturando la semplicità dei momenti e rendendoli infiniti. Al fondo dell’intervista trovate alcuni dei suoi scatti più belli. (adsbygoogle = window.adsbygoogle || []).push({});
Ciao Matteo. Raccontaci un po’ chi è ‘aquilegia’ (senza maiuscola, come vuoi tu) e come nasce.
Matteo Giovinazzo
‘aquilegia’ nasce dall’esigenza di avere un nome d’arte che potesse staccarmi dalla realtà. Con il tempo, però, iniziai a sentirmi parte del mondo, e quindi anche a sentirmi nuovamente con il mio nome di nascita. Però ‘aquilegia’ è rimasto, anche perché molte persone mi conoscono per il mio alias e vengo anche chiamato così. Decisi di farlo diventare “mio” perché l’aquilegia è un fiore comunemente chiamato “amor nascosto” o “amor perfetto” (forse perfetto perché nascosto).
Questo perché dal punto di vista poetico mi innamoro delle persone, delle cose e della natura, e a volte non lo esterno e lo tengo per me stesso trasformandolo in arte; magari in qualche poesia, prosa, dipinto o, appunto, fotografia. In questo modo diventa un “amor nascosto” descritto ma non dichiarato, anche per delle persone che nel corso della mia vita ho incontrato ma non ho mai esternato per paura di rovinare i rapporti e perderle.
Dunque provando molto “amor nascosto” sentivo che l’aquilegia mi potesse rappresentare in qualche modo, e così per caso, scoprendola sfogliando le pagine di un libro di botanica, decisi di attribuirgli un significato personale e di farlo diventare il mio nome d’arte. Successivamente, aggiunsi anche il cognome ‘erianthe‘, che dal greco vuol dire amante dei fiori, diventando quindi aquilegia erianthe. Non studio botanica, però mi piacciono molto i fiori, sia vederli, che toccarli ed essiccarli per donargli vita eterna.
“aquilegia erianthe” senza maiuscole perché non esiste un qualcosa più in alto dell’altro, tutto è allo stesso livello nella mia vita. Sono io, matteo giovinazzo, principalmente un fotografo perché ultimamente dedico tutte le giornate a quel mondo, ma ogni tanto è anche un pittore, uno scrittore, un cantante , un chitarrista. A breve uscirà anche una mia canzone scritta con un mio amico musicista, ma per il momento non posso dire altro.
Dal suo canale YouTube:
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Quale ruolo gioca l’arte nella tua vita? Come la vivi, come la interpreti?
Credo nell’arte come unica certezza, perché è l’unico piedistallo fermo della mia vita. Quindi la cerco e la voglio sfogare anche in ogni suo campo. Per questo motivo, a volte, nel tempo libero, mi dedico anche alla pittura ad olio o ad acquarello, oppure alla china o al disegno tradizionale. Oppure scrivo, canzoni e poesie principalmente, perché sento la necessità di sfogarmi e di condividere quel che provo con le persone che mi stanno attorno.
Vedo molta arte anche nel corpo umano. Ecco perché ho scelto di lavorare anche sulla fotografia di nudo: dal mio punto di vista sia un corpo femminile e maschile sono ricchi d’arte. A volte vivo l’arte anche nelle cose più banali, la sento come una vibrazione, un’energia, ad esempio osservando un sole contro luce su un albero.  Dopo esser diventato fotografo la sento e vivo ancora di più, perché mi sembra di vivere in un costante film, anche negli scenari più semplici.
L’arte mi ha salvato da crisi personali e, soprattutto, è riuscita a farmi sbloccare con le persone, abbattendo quindi la timidezza di cui ero pieno. Questo perché condividendo i miei lavori ho scoperto nuove persone e trovato nuove amicizie lungo il mio breve cammino.
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Perché la scelta di soffermarti sul ritratto e, in particolare, sul nudo artistico? Cosa rende artistica una fotografia?
Il ritratto rappresenta la più umile e sincera connessione tra le persone. Prima di scattare un ritratto, cerco sempre di conoscere la persona che mi starà davanti. E’ molto importante instaurare in primis un rapporto interpersonale perché altrimenti nessuno sarà a suo agio, né il fotografo né tanto meno la persona che poserà.
Il fotografo penso quindi che debba essere una Persona con la “P” maiuscola, cercando di puntare più sull’umanità che al resto. Deve essere anche un ottimo oratore, perché se riesci a trasmettere la tua visione artistica alla persona che hai davanti, riesci a fargli vivere il momento, e quindi questo verrà trasmesso nel lavoro finale. E se tutto va come dovrebbe andare, il momento verrà trasmesso anche a terzi che, se dotati di una certa sensibilità, sentiranno la carica emotiva dietro a quello scatto.
Mi è capitato già alcune volte di ricevere complimenti e commenti da persone sconosciute. Mi descrivevano le emozioni che sentono guardando i miei lavori, emozioni che sentivo anch’io. Per questo credo che il sentimento possa essere trasmesso, tramite l’intenzione che si ha. L’intenzione appunto è la cosa più importante per raggiungere un obiettivo. L’intenzione rende viva l’arte nel tempo.
Hai dei progetti fotografici che stai portando avanti al momento? E progetti, invece, che speri di realizzare in futuro?
Al momento i progetti che sto portando avanti sono due. Il primo è Simmetrie Asimmetriche, che ha come tema principale le cicatrici causate da traumi fisici e di conseguenza anche emotivi. Si tratta di un argomento molto attuale: la società odierna colma di pregiudizi. Nel mio stesso settore si viene scartati se si hanno dei “difetti” sul proprio corpo vedendoli come “imperfezioni”. Eppure ognuno di noi possiede delle “imperfezioni”.
A livello di simmetria il lato destro non sarà mai identico al lato sinistro, anche se all’occhio umano superficialmente si è visti simmetrici. Ma sono proprio queste imperfezioni a renderci unici, diversi dagli altri. Per questo la asimmetria, data da una cicatrice, andrà a rafforzare ancora di più la nostra diversità. Con questo progetto vorrei poter aiutare chi ha difficoltà a superare il proprio trauma, la propria insicurezza. L’obiettivo è quello di allestire una mostra fotografica, che colleghi la foto della cicatrice con la sua storia sotto forma di didascalia.
Il secondo progetto riguarda le Ninfe. Si tratta di un progetto molto più artistico rispetto al primo, che vedrà la presenza di numerosi scatti di nudo, in quanto spesso le ninfe venivano raffigurate senza veli. Per ora sono è stato fatto un primo capitolo sulle ninfe d’acqua dolce, le Naiadi. Ora sto sviluppando la seconda parte sulle ninfe dei boschi, quelle che vivono negli alberi, le Amadriadi.
Ecco alcuni tra gli scatti più belli di aquilegia. Altre fotografie potete trovarle sul suo profilo Instagram, sulla sua pagina Facebook e sul suo portfolio di Vogue.
Ritratto
Simmetrie Asimmetriche
Naiadi
Simmetrie Asimmetriche
Ilaria Genovese
In ogni fotografia, in ogni dettaglio, in ogni piega del corpo che ritrae, #aquilegia riesce a trasmettere bellezza ed eternità, catturando la semplicità dei momenti e rendendoli infiniti. Al fondo dell'intervista trovate alcuni dei suoi scatti più belli. Di questi tempi molte persone stanno perdendo il contatto con la natura e con la propria interiorità, elementi che sorprendentemente viaggiano di pari passo.
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