#poesia greca moderna
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" Il 31 dicembre mi fece il consueto regalo per il nuovo anno. Tre sterline, la poverina. Una volta me ne dava due; negli ultimi anni sono diventate tre. Poverina! Con quale garbo me le diede. Io le regalai qualche profumo, come sempre. Che pio sentimento è quello materno! Era una fra le donne più tirate – ridotta così dalle circostanze, nel timore di rimanere per strada. E nonostante ciò con quale facilità mi diede tre sterline. Erano una gran somma per lei. È vero che mi conosceva per un tipo molto parsimonioso e che il denaro non sarebbe uscito dalla casa. Ma alla fine non ne era poi così sicura, perché non le dicevo mai la cifra che avevo messo da parte. "
Konstantinos Kavafis, Poesie e prose, a cura di Renata Lavagnini e Cristiano Luciani, Bompiani (collana Classici della Letteratura Europea diretta da Nuccio Ordine), 2021¹, p. 1677.
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Περιστάσεις, ποίημα - Circostanze poesia
Πρώιμοι έρωτες που έφυγαν από ζεστά στρώματα νωρίς και το κορμί μας έπεσε καταγής στο πάτωμα και μοιάζει σαν να ψήλωσαν απότομα τα πόδια του κρεβατιού κι είναι σαν εμείς να κοντύναμε στις περιστάσεις.
Artwork: ©2022 Ababa Asteriou Πρώιμοι έρωτες που έφυγαν από ζεστά στρώματα νωρίς και το κορμί μας έπεσε καταγής στο πάτωμα και μοιάζει σαν να ψήλωσαν απότομα τα πόδια του κρεβατιού κι είναι σαν εμείς να κοντύναμε στις περιστάσεις. Amori prematuri che sono andati via da materassi caldi presto e il nostro corpo è caduto per terra sul pavimento e pare come se fossero allungati del…
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Alberto Borgogno - “Canto di Saffo: Amore e Separazione”
Il docente di Letteratura Greca dell’Università di Siena, saggista, scrittore e compositore musicale, dopo aver pubblicato con successo su YouTube i suoi brani, esce negli store e nelle radio
Il brano scelto per questo suo esordio discografico è “Canto Di Saffo: Amore e Separazione”, di cui Alberto Borgogno è autore di musica e testo, mentre Silvia Nencetti è la voce interpretativa.
«Ho costruito il testo della mia canzone utilizzando brani di ben sette frammenti fra quelli che si sono salvati nel naufragio dell’opera di Saffo (nn. 1-2-16-31-34-94-168b nella benemerita edizione di Eva Maria Voigt): tutte le parole che ho affidato al canto sono traduzioni di altrettante parole greche che si trovano nei frammenti: però il collocarsi di queste parole in un ordine che crea una narrazione, il loro disegnare in qualche modo una fabula, sia pure di breve respiro, è dipeso esclusivamente da me, io me ne assumo la piena responsabilità! In cosa consiste il mio racconto? All’inizio vediamo Saffo nel giardino del suo tiaso, probabilmente nel tardo pomeriggio, quando ancora fumano gli altari dei sacrifici (fr. 2): invoca la grande dea di cui è sacerdotessa, Afrodite, e la prega di starle accanto, di esserle alleata nel suo prossimo tentativo di rendere più amorosa una delle sue ragazze (fr. 1), e ha anche modo di esporre la sua idea – che diventerà famosa nei secoli – riguardo alla bellezza e all’amore («la cosa più bella è ciò che si ama», fr. 16). Dopo la pausa strumentale ho collocato il frammento 31: Saffo improvvisamente vede una sua allieva seduta accanto a uno splendido giovane, lì nel giardino; la vede felice e accondiscendente, e allora esplode in quella serie di manifestazioni affettive e fisiche che hanno affascinato tanti lettori, a partire dall’Anonimo del Sublime, che ci ha trasmesso il frammento, e da Catullo, che ce ne ha lasciato una magistrale traduzione nel metro preciso dell’ode saffica (seguiranno in epoca moderna le due traduzioni del Foscolo, 1790 e 1821, e quelle di Racine e di Tennyson, entrambe del 1832). Si tratta di una delle ragazze da lei amate: è giunto da lontano il bellissimo pretendente, forse ha già stipulato il contratto di matrimonio col padre di lei, e lei gli rivolge un dolce sorriso: dunque Saffo la perderà. Troppo semplicistico battezzare con lo sbrigativo nome di «Ode della gelosia» - come spesso è stato fatto - questo immortale frammento 31 Voigt, che nasce da un inestricabile intreccio di situazioni e di sentimenti. Esso termina con alcune parole che, pur prive ormai del contesto originario, forniscono un indizio prezioso per la prosecuzione della nostra storia. Si tratta dell’affermazione «ma tutto si può sopportare» (allà pàn tólmaton): Saffo dovrà sopportare la separazione perché è giusto che questa avvenga, perché così vuole l’istituzione che la vede sacerdotessa di un tiaso famoso in tutto il Mediterraneo orientale. E allora, quando la notte sarà sopraggiunta e la luna avrà prepotentemente cancellato tutte le stelle (fr. 34), Saffo, sola nel suo letto, lenirà il suo dolore coi ricordi struggenti del tempo passato: le splendide espressioni che il lacunoso frammento 94 lascia intravvedere, con l’aggiunta di qualche altra notazione pur sempre desunta dal lessico per la poesia femminile creato dalla nostra poetessa, mi hanno fornito le parole della chiusa del pezzo» Alberto Borgogno
youtube
PER SAPERNE DI PIÙ
CONTATTI / SOCIAL www.youtube.com/@albertoborgogno
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2 LUGLIO 1939 nasceva ALEXANDROS PANAGULIS
Sono trascorsi 46 anni dall’assassinio di Αλέξανδρος Παναγούλης.
Alekos ha rappresentato nella mia vita qualcosa di fondamentale, un esempio di straordinaria dignità.
Il suo ricordo di combattente della libertà è indelebile: le sue idee vivono. Non arrendersi mai. Non durante gli interrogatori, le torture, i processi farsa, la prigionia; ma neanche dopo, dinanzi all’indifferenza, ai compromessi, alla cattiva politica.
Mai un passo indietro.
Panagulis è stato assassinato la notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 1976. Il governo ellenico dell'epoca alle dipendenze come l'attuale dello zio Sam, fece passare il delitto per un incidente.
Nel libro Intervista con la storia, Oriana Fallaci gli chiede: «“Alekos, cosa significa essere un uomo?”- E lui risponde: “Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell'umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un'ancora. Significa lottare. E vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata Se”.».
Il 5 maggio del 1976 si celebrarono ad Atene i funerali di Alekos. E' stata la più grande manifestazione popolare greca.
Αλέκος è stato un rivoluzionario e poeta greco, considerato un eroe nazionale della Grecia moderna.
A causa del suo fallito attentato contro il dittatore Georgios Papadopoulos, sostenuto dalla Central Intelligence Agency e dal dipartimento di Stato USA, venne perseguitato, torturato e imprigionato a lungo, fino alla sua liberazione dopo una mobilitazione internazionale. È protagonista del libro Un uomo della Fallaci. Della giornalista e scrittrice fiorentina, comunque, non ho apprezzato la sue deriva finale contro l'Islam. In ogni caso, questo romanzo ispirato da una storia vera, è mirabile.
di Oriana Fallaci
… Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più. Non venivano soltanto dalla città, da Atene. Venivano anche da lontano, dalle campagne dell’Attica e dell’Epiro, dalle isole dell’Egeo, dai villaggi del Peloponneso, della Macedonia, della Tessaglia: coi treni, coi battelli, con gli autobus, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio prima che la piovra li inghiottisse, contadini e pescatori con l’abito della domenica, operai con la tuta, donne coi bambini, studenti. Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano che eri morto… andai alla ricerca della tua fiaba. La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principi assoluti da qualsiasi parte essi vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti…
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“Vivete felici”. Orazio, il più contemporaneo tra i classici, nelle parole di Pound, Ceronetti & Co.
L’altro giorno casco su un libro. Copertina contorta dal tempo, anonima. Credo provenga dalla biblioteca di mio zio. Sta in Piemonte, ha ottant’anni, per una vita ha fatto il geometra e coltivato la passione per le cose belle. E i libri antichi, vari, pur privi di pregio per biblioamanti. Insomma, è un tomo, malridotto, delle Opere di Q. Orazio Flacco volgarizzate col testo latino a fronte e con annotazioni. La versione è dell’abate Francesco Venini, matematico con il guizzo lirico (ha composto pure alcuni Saggi della poesia lirica antica e moderna), morto nel 1820, duecento anni fa, ma chi lo conosce più… Il libro esce a Venezia, “Dai Torchj di Sebastiano Valle”, nel 1812.
*
Essenzialmente, sono uno che divora linguaggi. Me ne nutro, amo la lingua che non capisco, il retroscena del rétro, l’osceno del muffito, la parola in disuso, il settenario disseppellito, il verbo smesso, smunto. Così, ad esempio, ci vuol poco a farmi felice leggendo l’Ode XIV di Orazio, Ad Postumum, tradotta dall’abate Venini:
Come fugaci ohimè! Postumo Postumo,
Di nostra vita gli anni ognor sen volano!
Né pietà, né saggezza
Posson la morte indomita,
O la rugosa ritardar vecchiezza.
Non se ogni giorno offrissi all’implacabile
Nume d’Averno un’ecatombe triplice,
Al Nume, che circonda
E Gerione e Tizio
Di Stige irremeabile coll’onda.
Tutti varcar dovremo l’onda terribile…
Invan di Marte fuggirem lo strepito…
*
Del club di Mecenate, e in assoluto della giungla della lirica latina, Orazio è il poeta più ‘contemporaneo’, il più amato, ambito, imitato, insieme a Catullo. Virgilio, Lucrezio, Lucano hanno toni per noi inconcepibili; la satira di Giovenale non attira, Ovidio è troppo laborioso, il resto è vagabondaggio accademico. Orazio, “l’ape matina” che “nei miei limiti compongo un canto laborioso”, è emblema del poeta che si concentra sulla forma poetica, artigianale, non dimentica l’umile nel suo canto, guarda con disincanto alla vita che scorre. “È vecchia consuetudine raffigurarlo di breve statura, pingue, arguto, amante dei comuni piaceri. Così fu: ma fu anche irrequieto e malato. E patì di occhi, di stomaco, di insonnie, di smanie nervose: e il suo corpo invecchiò assai prima che il suo intelletto. A quarant’anni si sentiva già vecchio e dava alla vita della giovinezza un addio pacato come si conveniva a un uomo – qual’era lui – di straordinario equilibrio”, lo descrive così Concetto Marchesi. “Classico dell’anima classica in quanto saggezza ed equilibrio”, lo dice Antonio La Penna.
*
Ezra Pound, tra i latini, prediligeva Sesto Properzio, a cui dedica, nel 1918, un Homage. Gli pareva più brillante e ricco di possibilità liriche. Nei Cantos lo scheletro formale gli è fornito da Dante ma uno dei modelli è Ovidio. Nel 1930, però, sul “Criterion” creato dal suo amico T.S. Eliot, Ez scrive un lungo saggio su Orazio (edito in Italia, a cura di Caterina Ricciardi, da Raffaelli, nel 2009). L’incipit è tipicamente, violentemente poundiano: “Né semplice né passionale, sensuale soltanto quando si fa gourmet di ghiottonerie e di linguaggio, aere perennius. Quinto Orazio Flacco, calvo, panciuto, di umile estrazione, un sicofante, il meno lirico dei grandi maestri della letteratura, occupa un interno volume del British Museum Catalogue, e una buona metà di cattiva poesia inglese sembra essere stata composta sotto il suo influsso”. Due cose sono interessanti. Intanto, la congiunzione tra i tratti fisici di Orazio e la sua opera: è lui, il poeta, a fare dell’autoritratto lirico una specie di poetica (che ha il gusto della scaltra umiltà: il poeta, ci dice, non è bello, non possiede la vertigine di Pindaro, né la sensualità di Catullo). Poi, il fatto che la poesia inglese derivi da quella di Orazio, autentico narratore in versi. Il resto è Pound. Per spirito di contraddizione, scrive che Orazio gli pare banale (“Catullo e Ovidio aggiungono qualcosa alla poesia, qualcosa che non c’è nella poesia greca che ci è pervenuta. Al suo meglio, Orazio è talvolta più, talvolta poco meno, di un traduttore”) perché non è stato lui a tradurlo e chi lo ha tradotto lo ha frainteso (“C’è una precisa arte oraziana. Con l’eccezione di Catullo, egli fu il più abile versificatore dei poeti latini”).
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Tradotto da John Dryden, Orazio appare tra le maglie dei versi di William Wordsworth e di John Keats, è il mito – per nitore lirico e capacità di alternare i toni senza brutalizzarli – di Wystan H. Auden, è imitato da Robert Frost. Per Iosif Brodskij – in Dolore e ragione va letta la bella Lettera a Orazio – è proprio Orazio, spesso ‘imitato’, il punto di giunzione tra il mondo classico e il contemporaneo, ha l’umanità appropriata (complessità, ironia) per definire il caos in formule liriche, come una delle sue rare apparizioni, quasi un avatar, Osip Mandel’stam.
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In Italia vedo Orazio nella cinica fermezza di Montale, Alessandro Fo lo ha ritracciato in Andrea Zanzotto, ma è Fernando Bandini che lo ha tradotto (per Marsilio). Guido Ceronetti era sintonizzato su altri linguaggi – Giovenale, il deserto biblico – eppure ha dato una bella lettura delle Odi di Orazio (Adelphi, 2018). Ad esempio, ci ha insegnato che l’algido, equilibrato Orazio, in verità, è poeta in fiamme. “Perché invece del gelo, si scopre in questo stile del fuoco? Perché la contrazione della vita, mediante l’impegno della parola, richiede un enorme sforzo, una sovrumana energia, uno spreco di pazienza, tutto il fuoco della passione rivolto ad un fine che la contraria”. E poi c’è questo aspetto: “La chiarità di mente, mentre la confusione nelle povere teste umane, diventate troppo numerose per resistere al contagio della propria rabbia, delle proprie emanazioni d’impurità, va dappertutto rompendo qualsiasi limite, è un’acqua di cui non si vanteranno mai abbastanza le virtù curative”. Non poco.
*
Come sarà il domani? Quest’ansia fuggila.
Quanti giorni prescritti
T’abbia la Sorte, vivili
Come un raro guadagno, ragazzo mio
Così Ceronetti traduce un brandello della nona ode di Orazio, libro primo. Così la traduce Mario Ramous (che fu pure poeta, dimenticato, non da poco):
Smettila di chiederti cosa sarà domani,
e qualunque giorno la fortuna ti conceda
segnalo tra gli utili…
Questo è l’abate Venini:
Non esser del domani invan sollecito,
Ma ricevi qual nuovo benefizio
Ogni dì, che la sorte
T’accorda favorevole
Tardando il passo celere di morte.
*
L’inno, infine, è a vivere fino in fondo, finché il corpo non vada in corruzione. L’editore d’allora, Sebastiano Valle, inaugura Orazio con un paio di pagine Agli amatori della poesia. La frase che chiude la lettera è formidabile. “Vivete felici”. (d.b.)
*In copertina: Frederic Leighton, “Flaming June”, 1895
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Nell'Iliade in generale non esiste coscienza [...] perciò, non vi compaiono neppure parole per designare la coscienza o atti mentali. Le parole presenti nell'Iliade che in seguito vennero a designare cose mentali hanno significati diversi, tutti più concreti. La parola psyche, che in seguito passò a significare «anima» o «mente cosciente», designa nella maggior parte dei casi sostanze vitali, come il sangue o il respiro: un guerriero morente stilla la sua psyche al suolo o la esala nell'ultimo ansito. Il thumos, che passerà in seguito a significare qualcosa di simile all'anima emozionale, designa semplicemente il movimento o l'agitazione. Quando un uomo cessa di muoversi, il thumos abbandona le sue membra. Ma in qualche modo è anche simile addirittura a un organo; quando infatti Glauco prega Apollo di alleviare il suo dolore e di dargli la forza di aiutare l'amico Sarpedonte, Apollo ascolta la sua preghiera e «infonde vigore nel suo thumos» (Iliade, XVI, 529). Il thumos può dire a un uomo di mangiare, bere o combattere. Diomede dice in un punto che Achille combatterà «quando nel petto il thumos gli parla e un dio lo sospinge» (IX, 702 sg.). Ma il thumos non è in realtà un organo e non è sempre localizzato: un oceano infuriato ha thumos. Una parola di uso un po' simile è phren, che è sempre localizzata anatomicamente come il diaframma, o sensazioni nel diaframma, ed è usata di solito al plurale. Sono le phrenes di Ettore a riconoscere che suo fratello non è vicino a lui (XXII, 296); il significato delle phrenes è quello che esprimiamo con «restare col fiato mozzo per la sorpresa». Solo vari secoli dopo la parola passò a significare «mente», o «cuore» in senso figurato. Forse più importante è la parola noos, che, scritta nous nel greco più tardo, venne a significare «mente cosciente». La parola deriva dal verbo noeo, «io vedo». La sua traduzione più appropriata nell'Iliade sarebbe qualcosa come «percezione» o «riconoscimento» o «campo visivo». Zeus «tiene Odisseo nel suo noos». Egli vigila cioè su di lui. Un'altra parola importante, che deriva forse dal raddoppiamento della parola meros, «parte», è mermera, che significa «in due parti». Essa fu trasformata in verbo mediante l'aggiunta della desinenza -izo, il suffisso che trasforma comunemente un sostantivo in un verbo; il verbo risultante è mermerizo, che significa «sono diviso in due parti riguardo a qualcosa». I moderni traduttori, nel desiderio di dare una presunta qualità letteraria alla loro opera, usano spesso termini moderni e categorie soggettive che non rendono giustizia all'originale. Mermerizo viene così tradotto erroneamente come «io pondero, penso, ho la mente divisa, sono incerto, turbato, cerco di decidere». Sostanzialmente però, esso indica un conflitto su due azioni, non su due pensieri. È un verbo che si riferisce sempre al comportamento. Esso è usato varie volte per Zeus (XVI, 647; XX, 17), oltre che per altri. Del conflitto si dice spesso che ha luogo nel thumos, o qualche volta nelle phrenes, ma mai nel noos. L'occhio non può dubitare o essere in conflitto, come potrà invece la mente cosciente, che sarà inventata poco dopo. Queste parole sono in generale, o con qualche eccezione, la massima approssimazione di un individuo, autore personaggio o dio, al possesso di una mente cosciente o di pensieri coscienti. [...] Non c'è inoltre un concetto di volontà né una parola per designarlo: il concetto si sviluppò stranamente tardi nel pensiero greco. Gli uomini dell'Iliade non hanno dunque una propria volontà e certamente non hanno alcuna nozione di libero arbitrio. In effetti l'intero problema della volizione, un problema così difficile, secondo me, per la moderna teoria psicologica, è forse tanto difficile proprio per il fatto che le parole per designare tali fenomeni furono inventate solo così tardi. Una parola della quale si avverte similmente l'assenza nel linguaggio dell'Iliade è quella per «corpo» nel nostro senso moderno. La parola soma, che nel V secolo a.C. venne a designare il corpo, in Omero è sempre plurale e significa «membra morte» o «cadavere». Essa è l'opposto di psyche. Ci sono varie parole che designano diverse parti del corpo, e in Omero il riferimento è sempre a tali parti, mai al corpo nella sua totalità. Non sorprende quindi che l'antica arte greca di Micene e del suo periodo presenti l'uomo come un aggregato di membra stranamente costruite, le articolazioni raffigurate in modo inadeguato e il torso quasi separato dai fianchi. È, sul piano dell'immagine, ciò che troviamo ripetutamente in Omero, che parla di mani, di braccia, di òmeri, di piedi, di polpacci e di cosce, descrivendoli come veloci, forti, in rapido moto, ecc., senza alcuna menzione del corpo veduto nel suo complesso. _____________ Il poema stesso non è opera di uomini nel nostro senso. Le sue prime tre parole sono Menin aeide thea, «Canta l'ira, o dea!». E l'intero racconto epico che segue è il canto della dea che l'aedo posseduto «udì» e cantò ai suoi ascoltatori dell'età del ferro fra le rovine del mondo di Agamennone. [...] Chi erano dunque questi dèi che muovevano gli uomini come se fossero automi e che cantavano poesia epica attraverso le loro labbra? Erano voci, le cui parole e le cui istruzioni potevano essere udite dagli eroi dell'Iliade così distintamente come le voci udite da certi pazienti epilettici e schizofrenici o come le voci udite da Giovanna d'Arco. Gli dèi erano organizzazioni del sistema nervoso centrale e li si può considerare come personae, nel senso di forti presenze costanti nel tempo, amalgami di immagini parentali o ammonitorie. Il dio è parte dell'uomo, e del tutto coerente con questa concezione è il fatto che gli dèi non escono mai dall'ambito delle leggi naturali. Gli dèi greci, diversamente dal dio ebraico del Genesi, non possono creare qualcosa dal nulla. Nei rapporti fra il dio e l'eroe ci sono le stesse cortesie, emozioni, la stessa opera di convincimento che si riscontrano nei rapporti fra persone. Il dio greco non appare tra scoppi di tuono, non suscita mai soggezione o timore nell'eroe ed è lontanissimo dal dio esageratamente pomposo di Giobbe. Egli semplicemente guida, consiglia e ordina. Né il dio infonde un senso di umiltà o addirittura di amore, e ben poca gratitudine. Anzi, io sostengo che il rapporto fra il dio e l'eroe era simile – essendone di fatto l'antecedente – al referente del rapporto fra Io e Super-io in Freud o del rapporto del sé con l'altro generalizzato di Mead. L'emozione più forte che l'eroe sente nei confronti di un dio è lo sbigottimento o la meraviglia, il genere di emozione che noi sentiamo quando emerge improvvisamente nella nostra mente la soluzione di un problema particolarmente difficile, o che risuona nell'eureka! di Archimede nella vasca da bagno. Gli dèi sono quelle che noi oggi chiamiamo allucinazioni. Di solito essi sono visti e uditi solo dai particolari eroi cui si rivolgono. A volte si presentano avvolti da una nebbia o emergono dalla spuma del mare o da un fiume, o scendono dal cielo, il che suggerisce che sono preceduti da un'aura visuale. Altre volte, però, compaiono semplicemente. Di solito si presentano direttamente con la loro identità, spesso come semplici voci, ma a volte assumono l'aspetto di persone molto vicine all'eroe. [Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza]
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Museus Recife
Um museu é, na defini��ão do International Council of Museums (ICOM, 2001), “uma instituição permanente, sem fins lucrativos, a serviço da sociedade e do seu desenvolvimento, aberta ao público e que adquire, conserva, investiga, difunde e expõe os testemunhos materiais do homem e de seu entorno, para educação e deleite da sociedade”.
Os museus tiveram origem no hábito humano do colecionismo, que nasceu junto com a própria humanidade.
Desde a Antiguidade remota, o homem por infinitas razões, coleciona objetos e lhes atribui valor, seja afetivo, cultural ou simplesmente material, o que justifica a necessidade de sua preservação ao longo do tempo. Milhares de anos atrás já se faziam registros sobre instituições vagamente semelhantes ao museu moderno funcionando. Entretanto, somente no século XVII se consolidou o museu mais ou menos como atualmente é conhecido.
Depois de outras mudanças e aperfeiçoamentos, hoje os museus, que já abarcam um vasto espectro de campos de interesse, se dirigem para uma crescente profissionalização e qualificação de suas atividades, e se caracterizam pela multiplicidade de tarefas e capacidades que lhes atribuem os museólogos e pensadores, deixando de ser passivos acúmulos de objetos para assumirem um papel importante na interpretação da cultura e na educação do homem, no fortalecimento da cidadania e do respeito à diversidade cultural, e no incremento da qualidade de vida. Porém, muitos dos conceitos fundamentais que norteiam os museus contemporâneos ainda estão em debate e precisam de clarificação.
Museus Recife História
Apesar da origem clássica da palavra museu – do grego mouseion – a origem dos museus como locais de preservação de objetos com finalidade cultural é muito mais antiga. Desde tempos remotos o homem se dedica a colecionar objetos, pelos mais diferentes motivos. No Paleolítico os homens primitivos já reuniam vários tipos de artefatos, como o provam achados em tumbas. Porém, um sentido mais próximo do conceito moderno de museu é encontrado somente no segundo milênio a.C., quando na Mesopotâmia se passou a copiar inscrições mais antigas para a educação dos jovens. Mais adiante, em Ur, os reis Nabucodonosor e Nabonido se dedicaram à coleção de antiguidades, e outra coleção era mantida pelos sacerdotes anexa à escola do templo, e onde cada obra era identificada com uma cartela, semelhante ao sistema expositivo atual.
Na Grécia Antiga o museu era um templo das musas, divindades que presidiam a poesia, a música, a oratória, a história, a tragédia, a comédia, a dança e a astronomia. Esses templos, bem como os de outras divindades, recebiam muitas oferendas em objetos preciosos ou exóticos, que podiam ser exibidos ao público mediante o pagamento de uma pequena taxa. Em Atenas se tornou afamada a coleção de pinturas que era exposta nas escadarias da Acrópole no século V a.C. Os romanos expunham coleções públicas nos fóruns, jardins públicos, templos, teatros e termas, muitas vezes reunidas como botins de guerra. No oriente, onde o culto à personalidade de reis e heróis era forte, objetos históricos foram coletados com a função de preservação da memória e dos feitos gloriosos desses personagens. Dos museus da Antiguidade, o mais famoso foi o criado em Alexandria por Ptolomeu Sóter em torno do século III a.C., que continha estátuas de filósofos, objetos astronômicos e cirúrgicos e um parque zoobotânico, embora a instituição fosse primariamente uma academia de filosofia, e mais tarde incorporasse uma enorme coleção de obras escritas, formando-se a célebre Biblioteca de Alexandria.
Ao longo da Idade Média a noção de museu quase desapareceu, mas o colecionismo continuou vivo. Por um lado os acervos de preciosidades eram considerados patrimônio de reserva a ser convertido em divisas em caso de necessidade, para financiamento de guerras ou outras atividades estatais; outras coleções se formaram com objetos ligados ao culto cristão, acumulando-se em catedrais e mosteiros quantidades de relíquias de santos, manuscritos iluminados e aparatos litúrgicos em metais e pedras preciosas. No Renascimento, com a recuperação dos ideais clássicos e a consolidação da humanismo, ressurgiu o colecionismo privado através de grandes banqueiros e comerciantes, integrantes da burguesia em ascensão, que financiavam uma grande produção de arte profana e ornamental e se dedicavam à procura de relíquias da Antiguidade. Algumas coleções se tornaram célebres pela sua riqueza, como a dos Medici, em Florença; reis, nobres e burgueses abastados de toda a Europa competiam na propaganda de suas coleções e mantinham círculos de eruditos em arte, filosofia e história em seu redor, onde se debateram ideias influentes e se conceberam novos métodos educativos, como o academismo.
Entre os séculos XVI e XVII, com a expansão do conhecimento do mundo propiciado pelas grandes navegações, se formaram na Europa inúmeros gabinetes de curiosidades, coleções altamente heterogêneas e assistemáticas de peças das mais variadas naturezas e procedências, incluindo fósseis, esqueletos, animais empalhados, minerais, curiosidades, aberrações da natureza, miniaturas, objetos exóticos de países distantes, obras de arte, máquinas e inventos, e toda a sorte de objetos raros e maravilhosos. Tais gabinetes tiveram um papel importante na evolução da história e da filosofia natural especialmente ao longo do século XVII. Na mesma época proliferaram as galerias palacianas, dedicadas à exposição de esculturas e pinturas. Mas tanto os gabinetes como as galerias ainda estavam essencialmente dentro dos círculos privados, inacessíveis à população em geral. Movidas por interesses científicos foram fundadas inúmeras sociedades e instituições, como os jardins botânicos de Pisa (1543) e o de Pádua (1545), a Real Sociedade de Londres (1660) e a Academia de Ciências de Paris (1666), que reuniam suas próprias coleções. No Brasil a primeira coleção de que se tem notícia foi formada pelo colonizador neerlandês conde Maurício de Nassau, cuja corte se notabilizou pelo brilho científico e cultural, instalando-a em torno de 1640 no Palácio de Friburgo, em Recife, semelhante em caráter aos gabinetes de curiosidades.
Lista dos principais museus de Recife
Museu da Cidade do Recife: Praça das Cinco Pontas, s/n – Telefone: (81) 3355-3108
Instituto Ricardo Brennand: Rua Marcio Campelo, 700 – Telefone: (81) 2121-0365
Cais do Sertão: Av. Alfredo Lisboa, s/n – Telefone: (81) 3182-8266
Museu do Estado de Pernambuco: Av. Rui Barbosa, 960 – Telefone: (81) 3184-3170
Museu do Homem do Nordeste: Av. Dezessete de Agosto, 2187 – Telefone: (81) 3073-6340
Museu do Trem: Rua Floriano Peixoto, s/n – Telefone: (81) 3184-3197
Museu da Abolição: Rua Benfica, 1150 – Telefone: (81) 3228-3248
Museu Militar do Forte do Brum: Praça da Comunidade Luso Brasileira, s/n – Telefone: (81) 3224-7559
Museu de Arte Moderna Aloisio Magalhães: Rua da Aurora, 265 – Telefone: (81) 3355-6871
Museu Murillo La Greca: Rua Leonardo Bezerra Cavalcante, 366 – Telefone: (81) 3355-3129
Museu da Polícia Militar de Pernambuco: Rua Benfica, 198 – Telefone: não informado
Museu de Ciências Nucleares: Av. Prof. Luis Freire, 1000 – Telefone: (81) 2126-8708
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La Piccola Biblioteca del Gioco #2: Homo Ludens
Per chi è appassionato di giochi intelligenti, come il sottoscritto, il mondo sembra iniziare nel 1974 con la pubblicazione di Dungeons & Dragons, vero big bang di una rivoluzione ludica culturale.
Qualche “eretico”, come Peterson, viola questo tabù temporale e si spinge più indietro, fino ad indagare le origini del nostro personale universo, ma sempre da un punto di vista meccanicistico, per il quale ad una azione ne segue un’altra e l’insieme delle azioni pregresse genera il substrato culturale di quelle successive.
Ma Huizinga scrive nel 1939, quindi ben prima della nascita di Arneson e ad un solo anno dalla nascita di Gygax, e quindi fornisce un punto di vista neutro, non contaminato dalla diffusione culturale del Gioco di Ruolo.
Il libro è diviso in sezioni che hanno lo scopo di dimostrare al lettore come l’elemento ludico sia presente in ogni aspetto della civiltà antica e moderna: le arti figurative, la danza, il canto, la poesia ed anche attività quali il commercio o la guerra presentano, per l’autore, le caratteristiche dell’attività ludica che, essendo presente anche negli animali, deve necessariamente predatare la civiltà.
Huizinga inizia definendo quali sono le caratteristiche del gioco (sempre analizzato come “play” e non come “game”):
1) Il gioco è libero, ed è in effetti libertà
2) Il gioco non è “ordinario”
3) Il gioco si distingue dalla vita sia per fattori spaziali che temporali
4) Il gioco crea ordine, è di per sé ordine e richiede un ordine assoluto e supremo
5) Il gioco non è connesso ad alcun interesse materiale, e non si ottiene alcun profitto nel giocarlo
Queste caratteristiche possono essere ritrovate, secondo l’autore, nelle basi di ogni comportamento umano “evoluto” e, allo scopo di dimostrarlo, Huizinga attua un’analisi principalmente di carattere filologico, unita ad elementi di antropologia e di studio delle culture antiche.
Gli argomenti che presenta sono ad un primo sguardo convincenti, anche se in alcuni casi peccano da una parte di troppa attenzione alla parola, ovvero al ricreare il modo di vivere antico al significato originale di una data parola, senza considerare le possibili variazioni totali di significato, come nell'italiano “Serafico”; dall'altra le considerazioni antropologiche ruotano continuamente intorno alla civiltà greca, in una specie di esaltazione della stessa come unica culla di civiltà, tipico del pensiero dominante tra le due guerre mondiali.
L’autore conclude il libro rammaricandosi della deriva che ha preso oggi il gioco, mostrando come lo sport abbia perso il suo carattere ludico divenendo principalmente un business e di come il “quinto punto” delle caratteristiche di cui sopra sia perso a favore di tantissimi giochi che non producono alcun innalzamento culturale, come il bridge. Chissà cosa avrebbe scritto se avesse saputo che da lì a poco il mondo sarebbe stato sconvolto dalla nascita del Gioco di Ruolo…
Homo Ludens ci mostra inoltre anche uno spaccato della vita dell’autore, con le sue preoccupazioni per la deriva dei totalitarismi in Europa, per il cementarsi delle idee Marxiste in Unione Sovietica (idee fortemente rigettate dall'autore in quanto erronee e poggianti su fondamenta sbagliate) e per il timore di una nuova guerra.
Per le sue idee sulla libertà di pensiero, Huizinga, professore dei Paesi bassi, verrà arrestato dai nazisti durante l’occupazione e morirà nel 1945, poco prima del termine della guerra. La sua è una testimonianza coraggiosa e non possiamo quindi non annoverarlo quale primo filosofo del gioco, avendo egli identificato e codificato le basi culturali che permettono, ai noi giocatori, di guardare indietro, ad un mondo più antico, magari non idilliaco come descritto, ma senza dubbio più giocoso.
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Targa per Giovanni Bardi Via dei Benci 3, Firenze
43°46'2.94"N 11°15'33.15"E
IN QUESTA CASA DEI BARDI VISSE GIOVANNI CONTE DI VERNIO CHE AL VALOR MILITARE MOSTRATO NEGLI ASSEDI DI SIENA E DI MALTA CONGIUNSE LO STUDIO DELLE SCIENZE E L'AMOR DELLE LETTERE COLTIVÒ LA POESIA E LA MUSICA E ACCOLSE E FU L'ANIMA DI QUELLA CELEBRE CAMERATA LA QUALE INTESA A RIPORTARE L'ARTE MUSICALE IMBARBARITA DALLE STRANEZZE FIAMMINGHE ALLA SUBLIMITÀ DELLA GRECA MELOPEA DI CUI SCRISSERO GLI STORICI DELL'ANTICA CIVILTÀ APRÌ LA VIA GIÀ CHIUSA DA SECOLI AL RECITATIVO CANTATO E ALLA MELODIA E CON LA RIFORMA DEL MELODRAMMA FU LA CUNA DELL'ARTE MODERNA _____________ N. MDXXXII - M. MDCXII
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2 LUGLIO 1939 nasceva ALEXANDROS PANAGULIS
Sono trascorsi 45 anni dall’assassinio di Αλέξανδρος Παναγούλης.
Alekos ha rappresentato nella mia vita qualcosa di fondamentale, un esempio di straordinaria dignità.
Il suo ricordo di combattente della libertà è indelebile: le sue idee vivono. Non arrendersi mai. Non durante gli interrogatori, le torture, i processi farsa, la prigionia; ma neanche dopo, dinanzi all’indifferenza, ai compromessi, alla cattiva politica.
Mai un passo indietro.
Panagulis è stato assassinato la notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 1976. Il governo ellenico dell'epoca alle dipendenze come l'attuale dello zio Sam, fece passare il delitto per un incidente.
Nel libro Intervista con la storia, Oriana Fallaci gli chiede: «“Alekos, cosa significa essere un uomo?”- E lui risponde: “Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell'umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un'ancora. Significa lottare. E vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata Se”.».
Il 5 maggio del 1976 si celebrarono ad Atene i funerali di Alekos. E' stata la più grande manifestazione popolare greca.
Αλέκος è stato un rivoluzionario e poeta greco, considerato un eroe nazionale della Grecia moderna.
A causa del suo fallito attentato contro il dittatore Georgios Papadopoulos, sostenuto dalla Central Intelligence Agency e dal dipartimento di Stato USA, venne perseguitato, torturato e imprigionato a lungo, fino alla sua liberazione dopo una mobilitazione internazionale. È protagonista del libro Un uomo della Fallaci. Della giornalista e scrittrice fiorentina, comunque, non ho apprezzato la sue deriva finale contro l'Islam. In ogni caso, questo romanzo ispirato da una storia vera, è mirabile.
di Oriana Fallaci
… Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più. Non venivano soltanto dalla città, da Atene. Venivano anche da lontano, dalle campagne dell’Attica e dell’Epiro, dalle isole dell’Egeo, dai villaggi del Peloponneso, della Macedonia, della Tessaglia: coi treni, coi battelli, con gli autobus, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio prima che la piovra li inghiottisse, contadini e pescatori con l’abito della domenica, operai con la tuta, donne coi bambini, studenti. Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano che eri morto… andai alla ricerca della tua fiaba. La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principi assoluti da qualsiasi parte essi vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti…
#noisiamoquellichecredonoancoraaquesteemozioni
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Discorso intorno alla fotografia del buco nero M87. Ovvero: i poeti devono riappropriarsi del cosmo. D’altronde, Pascoli cantava “le solitarie Nebulose” e Majakovskij voleva interrogare Einstein
Sembra l’occhio di Sauron, la pupilla che ti fissa dal fitto del cosmo, ti risucchia, con inesplicabile seduzione. Per alcuni è un anello che sta realizzando la sua forma, incandescente, ad altri pare la carezza di un angelo, l’ultimo amen prima dell’incomprensibile, la traccia dell’innocente sull’oscuro che smargina.
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L’uomo, intendo, è impastato di linguaggio: le cose non esistono nella loro definizione ‘scientifica’, ma per la natura linguistica che le anima. Per questo, mi sembra irritante dare al buco nero appena fotografato – impressionante: fotografare il cuore di tenebra, fermare l’assedio dell’oscurità – e alla galassia che lo ammanta la didascalia M87. Facciamo una gara lirica a chi assegna, a questo occhio indimenticabile, il nome più bello.
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Quando ero piccolo avevo un libro di mitologia greca e uno sul cosmo. Mi sembravano la stessa cosa. Il mito non serve a spiegare l’ignoto, il cosmo. Al contrario, serve a tracciarlo nella nostra mente, che è linguistica, e nella nostra carne, che è affettiva. L’uomo ragiona ancora per ‘storie’, non per incestuose cronache di logaritmi.
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L’Event Horizon Telescope ha fotografato per la prima volta un buco nero: l’intuizione astratta di un uomo trova conferma nella natura del cosmo. Che raffinatezza. Il buco nero M87 si trova nel cuore dell’Ammasso della Vergine, che è costituito da 87 galassie visibili, molte delle quali si chiamano Leda, altre Virgo, ovviamente, con un numero identificativo al fianco. Tra poco chiamo Ian Solo e mi getto nell’improbabile.
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Da bravo cristo, fiero della propria ignoranza, sfoglio il The Astrophisical Journal Letters, dove un articolo dettagliato, First M87 Event Horizon Telescope Results. I. The Shadow of Supermassive Black Hole. Intorno a questa idea dell’ombra del buco nero sarei pronto a scrivere un poema. Ci capisco poco, va da sé. Questo è l’esordio introduttivo: “I buchi neri sono una predizione fondamentale della teoria della relatività generale (Einstein 1915). Una definizione caratteristica dei buchi neri è il loro ‘orizzonte degli eventi’, un confine casuale nello spaziotempo da cui nessuna luce può sfuggire (Schwarzschild 1916)”.
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Leggendo del buco nero e della profezia realizzata di Einstein, mi viene in mente quanto ricorda Roman Jakobson in quel libro miracoloso, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. “Nella primavera del 1920 tornai a Mosca, stretta nella morsa dell’assedio. Portai nuovi libri europei e notizie sul lavoro scientifico dell’Occidente. Majakovskij mi fece ripetere più volte il mio resoconto confuso della teoria generale della relatività… ‘Io sono assolutamente convinto che la morte non ci sarà. I morti saranno resuscitati. Troverò un fisico che mi spieghi punto per punto il libro di Einstein’. Per me in quell’istante si rivelò un Majakovskij completamente diverso: l’imperativo di una vittoria sulla morte lo possedeva… In quel tempo Majakovskij era preso dall’idea di inviare a Einstein un radiotelegramma di saluto: alla scienza del futuro da parte dell’arte del futuro”.
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Majakovskij e Einstein: che incontro clamoroso sarebbe stato. Poesia e scienza, in effetti, sono uno. L’ascesa al cosmo la fa più la poesia che la scienza, perché l’uomo, ripeto, è una creatura linguistica, che ha i verbi nel sangue. Si costruisce una nave per atterrare sulla luna perché qualcuno, per secoli, la luna la ha cantata, la ha ‘creata’ con il linguaggio, con la poesia.
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Che scienza e poesia siano abbracciate è un concetto limpido ai poeti. Lo sapeva Walt Whitman (“Amo lo spirito scientifico – essere sicuri ma non troppo, la volontà di abbandonare le idee quando le prove le contraddicono: questo è buono – mantiene le vie aperte – dà vita, pensiero, affetto, umanità, la possibilità di ritentare dopo un errore, dopo una ipotesi sbagliata”), lo ha ribadito Saint-John Perse dalla tribuna del Nobel: “è il pensiero disinteressato di scienziati e poeti che è onorato, qui. E qui almeno una volta non guardateli come fratelli ostili: stanno esplorando lo stesso abisso, varia solo il loro modo di investigazione… In verità, ogni creazione della mente è prima di tutto ‘poetica’ nel senso proprio della parola; e finché esiste un’equivalenza tra i modi della sensibilità e l’intelletto, è la stessa funzione che si esercita al principio nelle imprese del poeta e dello scienziato… Il mistero è comune, comunque. E la grande avventura della mente poetica non è in alcun modo secondaria rispetto agli avanzamenti, drammatici, della scienza moderna. Gli astronomi sono stati scossi dalla teoria dell’universo in espansione, ma non ve n’è di meno, di espansione, nella morale infinita dentro l’uomo, dentro il suo universo”.
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Come si sa, Giovanni Pascoli è un poeta eminentemente ‘cosmico’, esaspera le necessità abissali di Leopardi. Ne Il ciocco, il più vasto dei Canti di Castelvecchio, Pascoli canta “le solitarie Nebulose”, “il folgorio di Vega”, la “cripta di morti astri, di mille/ fossili mondi”, “i Soli” che “la neve della Eternità cancella”. Pascoli è orientato alle galassie, ai mondi che nascono e si sfasciano, all’incredibile attualità dei tempi. La sua, va da sé, non è una descrizione ‘scientifica’, quella non serve: il poeta mette le ali alla scienza perché scorge il lembo dell’invisibile, solletica i misteri, dentro e fuori di noi, che poi altri, con altre armi, andranno a esplorare.
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E poi? E poi c’è Montale, il grande tagliagole della galassia, che negli Ossi di seppia ci dice “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti”, e allora il poeta si concentra sul suo ombelico, non più telescopico, non più microscopio che sonda i misteri dell’animo, ma piscina di una illustre non vita. Da Montale – un assoluto genio – ai poeti casalinghi nel proprio ego di oggi, si spalanca un buco nero.
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Un bel libro divulgativo, Origini. Quattordici miliardi di anni di evoluzione cosmica (Codice, 2005), scritto da due scienziati, Neil deGrasse Tyson e Donald Goldmisth, conclude così: “Ogni nuovo modo di aumentare la conoscenza annuncia l’apertura di una nuova finestra sull’universo… Se ci imbarchiamo in questo viaggio non è per un semplice desiderio, ma per il mandato, conferitoci dalla nostra specie, di ricercare il nostro posto nel cosmo. Quello che abbiamo scoperto, i poeti lo hanno sempre saputo”. Il libro è serrato da una citazione dai Quattro quartetti di Thomas S. Eliot.
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Sui giornali, oggi, intorno al buco nero, mi sarei atteso i versi di un poeta, che in quel buco, icona dell’insondabile, ci avrebbe gettato, a far pasto del mai visto. Invece. I poeti devono riappropriarsi del cosmo, perché il cosmo è una deflagrazione linguistica. (d.b.)
L'articolo Discorso intorno alla fotografia del buco nero M87. Ovvero: i poeti devono riappropriarsi del cosmo. D’altronde, Pascoli cantava “le solitarie Nebulose” e Majakovskij voleva interrogare Einstein proviene da Pangea.
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Libri| I giorni ed i versi, di Franco Melissano
di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
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Libri| I giorni ed i versi di Franco Melissano
di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
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“L’uomo, in qualunque punto del mondo vada, reca con sé un vicolo cieco”. Iosif Brodskij, il poeta fondamentale
Il 24 maggio Iosif Brodskij avrebbe compiuto ottant’anni, ma è come se ogni anno, per lui, valesse dieci: per autorevolezza pare coetaneo di Puskin e compagno di bevute di Shakespeare. Per distorsione ottica, Brodskij pare un pioniere, un iniziatore, ma anche l’esecutore della tradizione che lo ha preceduto, è quello incaricato di mozzarle il capo e impagliarla. Così, allo stesso tempo, Brodskij sembra antichissimo – era lì quando Gilgamesh partì alla ricerca dell’immortalità – e prossimo: è sdraiato sulla scrivania, mentre scrivo.
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Per onorare il poeta, Farrar Straus & Giroux pubblica in edizione speciale quattro libro di Brodskij – che oltreoceano è americanizzato come Joseph Brodsky. Due raccolte di saggi – Less Than One, On Grief and Reason –, un testo teatrale – Watermark – e una antologia di Selected Poems, 1968-1996, a cura di Ann Kjellberg, di cui ho tradotto parte di un pensiero, più avanti. Niente di nuovo sotto il sole editoriale. Una conferma, piuttosto: Brodskij, di qui e di là dall’oceano – proprio perché è un poeta russo pubblicato e cresciuto in terra americana, sovietico e yankee allo stesso tempo –, è il poeta fondamentale.
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A differenza di Thomas S. Eliot, che con pervicacia si è costruito un ‘canone’ di riferimento e una poetica di platino, Brodskij accenna a una costellazione di maestri – quelli che cita al principio del suo discorso al Nobel, “Osip Mandel’stam, Marina Cvetaeva, Robert Frost, Anna Achmatova, Wystan H. Auden”, come se egli fosse lì per loro, in risarcimento, come se la poesia fosse la consegna del fuoco, e altri di cui ha scritto come Kavafis, Eugenio Montale, Derek Walcott, ad esempio – ma preferisce essere elusivo, inafferrabile. Se si inginocchia davanti ai maestri è perché, come un bambino spericolato, è passato sotto le loro gambe, è avanti, altrove, chissà dove.
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Il talento umano di Brodskij – la poesia va semplicemente assunta e sussurrata a voce piatta, finché i verbi non si ampliano in navate e cattedrali – è nell’accennare una cosa per il gusto di contraddirla. “Per uno che ha sempre preferito la sua dimensione privata a qualsiasi ruolo pubblico…”, attacca Brodskij il discorso al Nobel. Eppure, preda di un egotismo tipico, ‘da romanzo russo’, ha reso pubblico il proprio privato, in saggi memorabili. “Io ricordo piuttosto poco della mia vita, e ciò che ricordo non ha questo gran valore”, scrive in Meno di uno, e va avanti per una quarantina di pagine a raccontarci di sé; idem in Fuga da Bisanzio (con auguri espliciti: “Oggi compio quarantacinque anni. Mi trovo ad Atene, seduto al Lykabettos Hotel, a torso nudo, immerso in un bagno di sudore, intento a ingurgitare potenti dosi di Coca-Cola”); idem in In una stanza e mezzo. Entrambi i saggi superano abbondantemente le cinquanta pagine. In effetti, Brodskij ha sempre raccontato di sé: se si ha una intelligenza piena di tigri e di betulle non bisogna aver vissuto, è sufficiente aver visto.
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D’altronde, dicendo di esiliarsi dalla dimensione politica, Brodskij è stato uno dei poeti che più di tutti ha fatto politica. A differenza di Pound, che si è esposto nel corpo sanguinoso della Storia, e di Eliot, che ha teorizzato la conservazione, Brodskij ha subito il regime per abbatterlo, proprio come Davide contro Golia. Alcuni saggi – Per citare un versetto, Sulla tirannia – sono potentemente politici. La visione di Brodskij, però, non risparmia nessuno: per lui l’azione politica è sempre coercitiva, la democrazia un modo, velato di algido buonsenso e di buone intenzioni, per sopraffare il prossimo. “Ormai ogni nuovo assetto sociopolitico, si tratti di una democrazia o di un regime autoritario, è un passo in più nella marcia di allontanamento dallo spirito dell’individualismo e di avvicinamento al caotico sfrenarsi delle masse. All’idea dell’unicità esistenziale di una persona si va sostituendo quello della sua anonimità”. Nel 1980 Brodskij insiste sul pericolo della tirannia burocratica, dello Stato dentato – si, avete letto bene: si tratti di una democrazia o di un regime autoritario. “Ogni ostentazione di individualismo in mezzo a una folla può essere dannosa: prima di tutto per la persona che la ostenta… per questo c’è lo Stato gestito dal partito, con i suoi servizi di sicurezza, gli istituti psichiatrici, la polizia e la fedeltà dei cittadini”. Poiché è poeta, Brodskij è terrorizzato dalla norma, da ciò che è normale, dal normalismo, che si impone tramite ghigliottine o codici di legge.
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Poi, certo, c’è la poesia, di cui, alieno al russo, posso dire per difetto di vetro, come chi scambia la rivelazione per la ripetizione, l’occhio del falco per una moneta, il bicchiere per un millesimo di Volga. Tra le poesie, tante, che amo, c’è il poema In Inghilterra, questo è un brano da York, “In memoriam W.H. Auden”, a me pare scritto per sconfiggere i Quattro quartetti. Non occorre capire ‘cosa significa’, ma lasciarsi nel magma verbale, senza richiesta – Nicea non lo giudichi, lo accetti.
L’uomo, in qualunque punto del mondo vada, reca con sé un vicolo cieco; col suo angolo ottuso un ginocchio ripiegato moltiplica una prospettiva di prigione, che è come un cuneo di cicogne, quando drizzano il corso a sud. Come tutto ciò che va avanti.
Il vuoto, inghiottendo la luce del sole alla stregua d’un biancospino, si gonfia – quasi lo palpi – in direzione di una mano tesa, e il mondo si fonde in una lunga strada nella quale vivono gli altri. In questo senso è Inghilterra. L’Inghilterra in questo senso è ancora Impero e in grado – a credere alla musica, come acqua gorgogliante – di dominare i mari. Quindi, ogni elemento…
Lo stelo verticale dell’epilobio è lungo più di questa antica strada romana che va al Nord, da tutti a Roma dimenticata. Sottraendo maggiore da minore, Tempo da uomo, avrai parole come resto che spiccano su sfondo bianco più nettamente di quanto riesca il corpo a fare in vita, anche dicendo: “prendimi!”.
E la fonte d’amore si trasforma in oggetto d’amore.
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Poiché non esiste una poetica che non sia consustanziale a un destino, Brodskij per dire di sé scrive di Leningrado che fu ed è la città di Pietro – l’atto di tirannia è nello scombinare i nomi, o dire che va tutto bene quando va male. “La Grecia, Roma, l’Egitto – era tutto lì, e tutto era scheggiato dai colpi sparati dall’artiglieria… E dal fiume grigio, carico di riflessi, che scendeva verso il Baltico, magari con un rimorchiatore lì in mezzo a lottare contro la corrente, ho imparato più cose sull’infinito e sullo stoicismo che dalla matematica e da Zenone”. La poesia di Brodskij, eccola: Grecia che si fonde ai soviet, macerie che evocano galassie future, Pantheon e Parlamento, il transitorio – “un rimorchiatore” – nell’assoluto – “infinito” – e poi il fiume/poesia che onnisciente, cauto, corrode tutto. Brodskij non credeva nelle rivoluzioni, era certo della caduta – e la puntellava, con spilli d’oro. (d.b.)
***
Quando Iosif Brodskij scese dall’aereo ad Ann Arbor, Michigan, nel 1972, in esilio dall’Unione Sovietica, a 32 anni, accompagnato da un amico, il professore russo ed editore di scrittori censurati in patria Carl Proffer, aveva la testa piena di poesie inglesi, di film americani, di jazz, di pittura e architettura italiana, di mitologia greca e romana. Una dieta costante di conformità sovietica e ideologia in scatola aveva allontanato Brodskij dalla scuola, a Leningrado, quando era ancora adolescente, e un’avversione verso l’acquiescenza lo aveva obbligato a diversi lavori piuttosto umili per uno stipendio. Questa traiettoria lo portò in modo quasi inesorabile al confino obbligatorio in un remoto villaggio agricolo nel distretto subartico di Arkhangelsk. Per tutto quel tempo, si ingigantì la sua vocazione alla lettura. Suo padre aveva conservato una ziggurat di libri con i quali il giovane Brodskij si staccava dal resto della komunalka (gli appartamenti comuni) della famiglia per leggere e scrivere di notte, condividendo la sua scrittura con uno stretto nugolo di amici. Con la revoca della censura sovietica, dagli anni Novanta, l’opera di Brodskij è custodita in diversi archivi, si può leggere.
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I predecessori immediati di Brodskij – Boris Pasternak, Osip Mandel’stam, Anna Achmatova, Marina Cvetaeva – lottavano contro la violenza omicida del regime bolscevico ritenendo le risorse della prosodia russa un deposito di valori universali e civili. Comporre in misura classica era espressione di solidarietà ma anche di solidità individuale e artistica, era una sfida contro il pragmatismo forzato dell’ideologia sovietica. “La poesia russa ha fornito un esempio di purezza e di fermezza morale, che in minima parte si riflette nella mera conservazione delle forme classiche”, ha scritto Brodskij.
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Autodidatta, impulsivo, irremovibile, disarmato, Brodskij è emerso nello scenario artistico come un virtuoso; ha fatto con i versi russi cose che nessuno riteneva possibili. La sua mentore, Anna Achmatova, venerata per aver affermato la propria autonomia poetica pur sotto minaccia di prigionia e di morte, lo ha riconosciuto immediatamente come portatore del fuoco dell’autentica poesia russa. Brodskij ha recepito la poesia formale – capace di alto lirismo, levigato nello scettico splendore di Puskin – dandogli una sensibilità moderna. Il suo linguaggio abbraccia la compostezza classica, la serietà biblica, il disincanto filosofico, il gergo da strada. Tra i confini della sua tana cinta di libri, ha cercato modelli e coetanei in tutto il mondo, leggendo l’inglese come contrappeso necessario, trovando un tono quotidiano, anticonfessionale, una tradizione possente in un paesaggio generoso.
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Ha scritto le prime poesie elogiando T.S. Eliot e John Donne, ma nella scabra fattoria ad Arkhangelsk, in esilio, dove un amico gli invia la New Pocket Anthology of American Verse curata da Oscar Williams, scopre, durante lunghe notti di lettura, i suoi amori più duraturi: W.H. Auden e Robert Frost. Ha assimilato la loro pratica, usando la poesia per smorzare gli effetti drammatici e grandiosi, per accedere a una umanità minima, con lo sguardo spalancato.
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Quando Brodskij lasciò la Russia, in esilio involontario, all’inizio ebbe paura che, scisso dalla sua patria, non avrebbe scritto altro. La sua vita poetica era stata inevitabilmente internazionale – aveva sempre desiderato l’Italia, le sue proporzioni classiche, la sua eredità in frantumi – ma la storia, ora, gli imponeva un viaggio a senso unico. Abbracciò il demotico americano, come professore improvvisato alla University of Michigan, offrendo una risposta all’anti-intellettualismo militante degli anni Settanta e alla reazione dell’arte elitaria. Il Brodskij che atterrò ad Ann Arbor nel 1972, semplicemente, non apparteneva ad alcun establishment. Piuttosto, affrontò l’esilio come una amplificazione della carica esistenziale che animava la sua sensibilità. Era un poeta dagli occhi aperti, che non sopportava la commiserazione. Essere solo, perdere famiglia, amici, l’amore, la lingua, la topografia di riferimento, dovevano rappresentare la solitudine propria di ognuno, universale. Il passato è un luogo in cui non puoi tornare, il futuro è infinito vuoto. L’amore per l’Italia, dove il passato è ovunque, fu una specie di rifugio.
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Brodskij scrisse quattro libri di poesie in russo mentre era negli Stati Uniti oltre a pubblicare due libri di poesie scritte in precedenza. Il primo libro in inglese che fu in grado di supervisionare come autore fu A Part of Speech (1977), grazie a una elaborata sinfonia di collaboratori. Il libro fu pubblicato da Farrar, Straus & Giroux e l’editore, per convalidare certi passaggi, inviò i testi ad alcuni poeti con cui Brodskij aveva affinità – Derek Walcott, Richard Wilbur, Anthony Hecht, Howard Moss – che li voltarono in inglese, sotto la guida di Brodskij.
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Ora viviamo in un’epoca in cui molti scrittori lavorano oltre confine, al di là della lingua madre, testimoniando violenze e disagi; Brodskij è stato un pioniere. Ai suoi tempi c’era un gruppo di poeti, alcuni ai margini dell’impero, altri che avevano reciso le loro radici – Derek Walcott, Seamus Heaney, Octavio Paz, Czeslaw Milosz, per dirne alcuni – che portavano con sé l’emblema di tradizioni falciate dalla storia. Faremmo bene a occuparci della loro opere, stando in piedi, come hanno fatto loro, davanti alla nostra porta, tra un passato ferito e la feritoia della lingua da cui sgorga il futuro.
Ann Kjellberg
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“Tutto lo scibile umano è la grande arte di eludere la temibile esperienza terrena”: quando la poesia ha iniziato ad avere terrore della vita. Ovvero, sullo scisma tra carne e intelletto che ha disfatto l’Occidente
Si narra che la poesia sia più antica della civilizzazione e, in epoche assai remote, imbrigliava la follia del mondo nel modo più potente e fertile, esaltandone la linfa. Poi tutto mutò…
In origine la scena del mito, dove si presentavano dèi, uomini e cose, era la natura; la quale evocò negli uomini un ordine fondato sul disordine originario dei fenomeni del mondo, che fino ad allora aveva consentito di assimilare per analogia il reale, senza ucciderlo o disprezzarlo. La complessità della rugosa realtà da stringere era ancora onorata, benché temuta.
E infine accadde l’irrimediabile frattura.
*
Un mirabile storico delle idee racconta che il razionalismo mistico dell’antichità, il pensiero greco a Eleusi, disprezzava la carne e cercava di sostituire la creazione divina con qualcosa di proprio. All’alba della ragione autonoma, il razionalismo filosofico si spinse oltre e fu un pallido surrogato di quello mistico, giacché predicò la fiducia nelle sole proprie forze, ossia in un universo costruito con la logica, la geometria, la chimica.
Jacob Taubes, a sua volta, aggiunse che tendenzialmente i filosofi moderni oltrepassano l’ambito ontologico della filosofia classica greca, che, comunque intesa, girava ancora intorno a un’elaborazione del concetto di natura; concetto nel quale perfino la teologia cristiana era inclusa, poiché essa separava l’ambito naturale da quello sovrannaturale, cogliendo dunque l’ambito sovrannaturale attraverso concetti naturali. Il principio gnostico era già presente, ma le categorie meta-fisiche, allora, erano ancora fisiche, determinate dalla norma della physis.
La categoria universale della filosofia moderna al contrario non fu più rappresentata dalla natura, ma da un sistema di riferimento totalmente nuovo: lo spirito autonomo e i suoi corollari – interiorità, mente, intelletto. Le categorie della filosofia moderna furono trascendentali, non metafisiche. La sua norma non era la natura, ma ciò che veniva prodotto esclusivamente dall’uomo, da colui che si voleva superiore alla natura. La matematica moderna, infatti, non parlava più la lingua della natura. Venne così meno ogni costitutiva mondanità, la simbolica del mondo esteriore, che, rispetto al passato, si tradusse in mera allegoria, vuota idealità e vuota trascendenza di un io artificiale. Se la dissacrazione ebbe origine con la filosofia greca, e proseguì con la rivelazione monoteistica – poiché, “più netto della linea di separazione posta dalla filosofia pagana tra l’ambito divino e quello mondano, tra forma originaria e materia, fu il confine tra Dio, il creatore, e le sue creature, posto dalla rivelazione monoteistica” –, con l’affermarsi del metodo moderno delle scienze della natura il cerchio infine si chiuse, e l’interpretazione simbolica della natura, il mistero delle corrispondenze, persero ogni valore. Furono smascherate come mistificazioni. L’immaginazione, l’analogia e le corrispondenze, prive di un correlato mondano, presero la strada dell’allegoria, che rappresentò la vittoria della coscienza demitizzata sulla coscienza mitica.
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Anche il Romanticismo non sfuggì a tale schema: “i collegamenti romantici e post-romantici tra ordinamenti ed esplorazioni di corrispondenze non abbattono i ponti esistenti tra la fantasia soggettiva e il mondo oggettivo, ma restano fatalmente esiliati nell’interiorità soggettiva”. Con una cesura quasi manichea tra mondo e uomo, analogie e metafore mutarono in prodotti dell’immaginazione individuale, interiore, privi di un correlato esteriore. In fuga dal reale. Le corrispondenze, da allora, ebbero origine solo nel più profondo dell’anima, in un ritiro nel proprio essere.
Se la coscienza mitica in origine non conosceva alcuna separazione tra ambito divino, mondano e umano, in seguito vi furono i molti secoli, il cui retaggio ancora oggi domina, nei quali l’accento venne posto sull’interiorità del soggetto, e la verità dell’analogia fu esiliata nell’ambito chiuso, contemplativo, della poesia, con la relativa nascita del concetto dell’arte, surrogato e conseguenza di una frattura originaria: l’estinzione del mito. Era il rivolgimento dell’istinto dall’esterno all’interno. Una forma di contrasto della vitalità reale, impura, per sublimarla a un livello superiore, astratto, in un universo poetico chiuso, al riparo da quel che troviamo là fuori. Solo in quanto impulso poetico chiuso, interiore, si rivelò, da allora, il divino, l’assoluto, l’eterno, il non-mondano, l’infinito.
*
È un mutamento profondo dello schema mitologico dell’antichità.
Io e mondo furono separati, e il desiderio di esistere, da allora, fu una colpa, un peccato. Si scatenò così quel processo di interiorizzazione della sofferenza, della stessa colpa della nascita e del desiderio di esistere, che neutralizzava e riassorbiva la carne della volontà.
L’impulso creativo, da allora, privo di un correlato mondano, fu questa stessa trascendenza interiore del soggetto, irrelata, storica, profana, autonoma. In preda a un dualismo gnostico, quasi manicheo, immaginammo una trascendenza che mutò nell’oltremondano, nel contro-mondano. In un contro-principio che si stagliava di fronte al mondo esteriore. Da una parte, la psiche, le potenze mondane, la vita naturale, che nella redenzione gnostica bisognava lasciarsi alle spalle; dall’altra, il pneuma, l’idea di un Sé non-mondano, centro trascendente e acosmico dell’io, interiorità ultima e irrelata, che nella gnosi corrisponde al Dio oltremondano. Un’antica idea di libertà, che si propaga per osmosi attraverso i secoli, e che, nella modernità, unisce pensatori anche diversissimi tra loro. Valéry e Proust, per esempio, furono dei pneaumatici che si rifugeranno nell’extra-mondanità dell’arte, in un particolare surnaturalisme – il loro unico aldilà, e assoluto, a cui si aggrapperanno con tutte le loro forze, sarà infatti la parola, considerata quale trascendenza in sé, in cui riaffiora intatto l’antico sigillo: “In principio fu il Verbo”. Una agognata perfezione caratterizzata dall’indipendenza dalla natura e dalla mondanità.
Con delle qualificazioni che aprirono le porte a una gamma di strumenti per depotenziare il contesto reale dei fenomeni della natura, di fronte al soggetto che tentava di spogliarsi non solo della natura ma anche dell’impura soggettività mondana della sua umanità, l’essere umano fu evocato come apertura sul possibile più che sul reale, come potenza immaginale che reagiva al piatto realismo, alla “falsa realtà dell’esperienza”, per evadere nel sogno e imbarcarsi nell’irreale. Così da proiettare l’Uomo al di là delle proprie condizioni biologiche, per spezzare “il sistema chiuso dei bisogni fisiologici, in cui sono prigioniere le altre specie animali”, e fare di lui una creatura alata, superiore. Colui che non spiccava tale volo spirituale era considerato alla stregua di un ominide. E non ingannatevi! Anche la celebre distinzione di Valéry, tra “spirito” nell’accezione metafisica – sia essa di natura filosofica, religiosa o iniziatica, ch’egli ripudiava – e la sua nozione di “spirito”, a cui attribuisce un significato strettamente funzionale: “di potenza trasformatrice che si oppone ad una realtà data, per proiettarsi oltre, verso un possibile che ancora non è, ma che, tuttavia, è in grado di prefigurare, sognare e, soprattutto, di costruire”, è vana, poiché le due nozioni sono unite da un comune e letale scopo: sdegnare il reale.
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Da allora, paradossalmente, sottrarsi, sprezzanti, alla ciclicità dei processi naturali diventa un merito, un progresso, e non il vile privilegiare una fuga dal reale, un temibile idealismo originario, un’umiliante astrazione intellettuale in seno a una wasteland… una terra desolata. Spirito, mente, pensiero sono tutti avatar che indicano una fuga da un disordine naturale – tutto ciò che è naturale, infatti, venne sempre stigmatizzato come disordine – per costruire un ordine artificiale. Un ordine per sé, a partire da un disordine per sé, in cui l’Animale, questo scioccante singolare generale, mutò nel nostro più intimo rimosso.
L’Occidente e l’Europa, di conseguenza, furono questa fabbrica di sapere intellettuale senza pari, poiché nati da un modello intellettuale incorruttibile, quello pagano, “in cui per la prima volta si è effettuato il passaggio decisivo dal linguaggio comune, per natura empirico e approssimativo, al ragionamento universale, astratto”. Grazie al quale l’Occidente valicò ogni confine geografico, riuscendo a imporre le proprie conquiste intellettuali nel mondo intero, al punto da diventare “la parte preziosa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello d’un vasto corpo, una prodigiosa macchina civilizzatrice”, afferma con orgoglio lo stesso Valéry. Al di fuori di tale astrazione: l’arcaico, il barbaro, il non illuminato. L’indotto.
È la cultura che, fin dagli albori, privilegerà il Tempo, il culto superstizioso per la Storia e l’Uomo, per ripudiare lo spazio. Ne farà una divinità, a danno della carne – l’Occidente, il teatro dell’immortalità nella conoscenza.
Tutto lo scibile umano è la grande arte di eludere la temibile esperienza terrena.
Emanuel Lukovskij
In copertina: Gustave Moreau, “Edipo e la Sfinge”, 1864
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