#poesia d’amore eterna
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pier-carlo-universe · 21 days ago
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Battiti di Miranda Ranalli: un viaggio lirico nei colori dell’amore. Recensione di Alessandria today
Un’intensa poesia che intreccia passione, bellezza e il ritmo eterno del cuore
Un’intensa poesia che intreccia passione, bellezza e il ritmo eterno del cuore La poesia “Battiti” di Miranda Ranalli è un capolavoro di introspezione e sentimento, capace di trasportare il lettore in un mondo in cui l’amore si manifesta in ogni fibra dell’essere. Attraverso versi ricchi di immagini vibranti e simboli evocativi, Ranalli ci offre una lirica che celebra la forza dirompente del…
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vecchiorovere · 2 months ago
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In verità siamo una sola anima,
tu e io.
Appariamo e ci nascondiamo,
tu in me, io in te.
Ecco il significato profondo
della mia relazione con te.
Poiché fra te e me non esistono
né tu, né io.
Siamo al tempo stesso
lo specchio e il volto.
Siamo ebbri della coppa eterna.
Siamo il balsamo e la guarigione.
Siamo l’acqua di giovinezza
e colui che la versa.
Rumi (Poesia d’amore Sufi)
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ma-come-mai · 2 years ago
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Splendido pezzo, anti-conformista e coraggioso su Sanremo, scritto da Tomaso Montanari per Il Fatto Quotidiano.
"" L’inquietante sensazione è che il marketing di Sanremo si sia mangiato proprio tutto: perfino il presidente della Repubblica, voluto e acquisito al Festival dall’onnipotente manager di Amadeus e Benigni, in una indecorosa “privatizzazione” della massima magistratura repubblicana, all’insaputa degli organi di governo del servizio (già) pubblico.
Del resto, la forza di Sanremo è questa: essere sempre, nel bene e nel male, lo specchio fedele dello stato delle cose. Ed è innegabile che l’imbarazzante rappresentazione della nostra eterna società di corte, col sovrano benedicente in persona e l’aedo osannante, sia stata terribilmente efficace: proprio perché capace di raccontarci per come siamo veramente, al di là delle intenzioni dei protagonisti. Per la stessa ragione, il preteso inno d’amore di Roberto Benigni è stato così imbarazzante: perché la Costituzione è tutto tranne che uno strumento di celebrazione del potere costituito. La Carta – diceva Piero Calamandrei – “è una polemica contro il presente, contro la società. Perché quando l’articolo 3 vi dice ‘È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana’ riconosce con ciò che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto, e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione! Un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare”.
Ebbene, la retorica fluviale di un Benigni autoridottosi a cantore dello stato delle cose è esattamente il contrario di queste parole acuminate: la Costituzione viene depotenziata, messa al guinzaglio, normalizzata. Diventa un bel sogno, del tutto inconferente con una realtà che, anno dopo anno, la contraddice sempre più profondamente. Bisognerebbe ricordare, allora, che la Costituzione è “sorella” di chi si batte davvero per farla rispettare e attuare: non di chi assiste inerte a questa deriva, rimanendo al potere da decenni. Altrimenti nulla rimane della “rivoluzione promessa” che, sempre secondo Calamandrei, vi è racchiusa: la Carta diventa un soprammobile trasmesso per via ereditaria, un innocuo sedativo utile ad addormentare del tutto le coscienze.
L’apice dell’ipocrisia si è toccato nel passaggio sulla prima parte del primo comma dell’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra”. “Il verso di una poesia, una scultura”, l’ha definita Benigni, esaltandone “la forza, la bellezza, la perentorietà”, e concludendo che “se questo articolo lo avessero adottato le altre Costituzioni del mondo non esisterebbe più la guerra sulla faccia della Terra”. Fosse stato presente un bambino, uno di quelli capaci di dire che il re è nudo, avrebbe potuto urlare che non basterebbe affatto che altri Paesi adottassero questo articolo: lo dovrebbero poi anche attuare! Perché se lo facessero con la stessa coerenza dell’Italia, allora le guerre sarebbero ben lungi dallo scomparire.
Un anno fa, al tempo dei primi invii di armi all’Ucraina aggredita dalle truppe di Putin, i costituzionalisti si divisero tra chi riteneva quell’aiuto compatibile con l’articolo 11 e chi invece riteneva che fossimo fuori dalla Costituzione. Tutti, però, concordavano che se quell’invio non fosse stato immediatamente accompagnato da una forte azione diplomatica allora si sarebbe configurata la situazione di una risoluzione di una controversia internazionale solo attraverso l’uso della forza. Che è esattamente ciò che la Costituzione vieta: ed è anche esattamente ciò che, purtroppo, è poi puntualmente successo. Ci possono essere ben pochi dubbi, oggi, sul fatto che il continuo invio di armi, e la nostra partecipazione a un fronte occidentale che prolunga la guerra come mezzo per contrastare l’influenza di Russia e Cina, sia contrario allo spirito e alla lettera della Costituzione. Appare chiaro che l’Italia non sta lavorando per la pace, ma per la “vittoria” contro Putin: ciò che la Costituzione ci proibisce di fare! La guerra, insomma, non la stiamo affatto ripudiando: come dimostra a usura la presenza di un esponente di spicco dell’industria delle armi al ministero della Difesa.
Non è la prima volta che accade, purtroppo. Nel 1999 il primo governo D’Alema (di cui Sergio Mattarella era vicepresidente del Consiglio; per poi passare alla Difesa nel secondo dicastero D’Alema) partecipò a una guerra illegittima sia per la Carta dell’Onu sia per la nostra Costituzione. Non c’è da stupirsi: la logica del potere non è la logica della Costituzione. Quel che invece deve stupirci, e indignarci, è l’ipocrisia con cui un artista si piega al servo encomio e alla propaganda che tutto questo vorrebbe nascondere. “L’arte e la scienza sono libere”, dice la Costituzione: ma se sono gli artisti a consegnarsi a una servitù volontaria, allora per l’ennesima volta quelle parole rimangono inerti.
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riccardofranchinilucca · 3 months ago
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📷 Lucca appena sveglia pura poesia: Tra mura antiche sorge Lucca fiera, custode silenziosa di un’epoca intera. Il passo lieve si perde tra i vicoli stretti, dove il tempo scorre piano, senza fretta né detti. Le torri guardiane, erette nel cielo, sfidano il vento e il tramonto più bello. Le pietre narrano storie d’amore e di guerra, di vita vissuta, di sangue e di terra. Sulle mura si cammina sospesi nel vuoto, tra il verde degli alberi e l’azzurro remoto. Un cerchio perfetto, abbraccio di pietra, che stringe la città, come un’anima lieta. Il suono di campane echeggia lontano, mentre il Serchio scorre placido e piano. Lucca è un respiro, un sussurro del vento, un canto antico che dura un momento. Accanto le mura la protegge una vecchia pantera che ogni domenica ruggisce sempre più fiera. E quando la sera colora le strade, si accende di luce e si spegne ogni fade. Rimane l’essenza, un’eco leggera, di Lucca, città eterna, che il cuore s’impera.
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ma-pi-ma · 6 years ago
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Amore mio, ecco settembre Ed ecco il tuo viso che dolcemente palpita.
Il tempo infinito Come le poesie incompiute.
È come contare certe tristezze Certi fiumi.
Noi che abbiamo vissuto la parentesi del tempo (Sulle rive agitate del desiderio).
Per questo il nostro amore Ha la tristezza eterna di un crepuscolo?
İlhan Berk, Parole d’amore, da Storia segreta della poesia, 1982
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pangeanews · 6 years ago
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Investigando una vita irripetibile: dialogo con Renato Minore, che ha scritto il libro sull’enigma Rimbaud
Tra sogno e incubo, chi non lo desidera? Essere uno, singolarmente e indubbiamente sé, per ciascuno, in clamorosa corrispondenza. Spezzettati – ma non spezzati – nell’occhio del prossimo, giacere tra i suoi futuri. Arthur Rimbaud ci è riuscito. Rimbaud non è solo il poeta spiazzante, assoluto, che ha cambiato la poesia per rifiutarla, mordendo l’Africa con giaguari nello sguardo. Rimbaud è l’icona della poesia, l’iconoclasta della vita, quello che chiede una intimità fiammata con chi lo legge, il poeta veggente, il “ladro del fuoco”, come scrive a Paul Demeny nel 1871, quello che pratica “commercio d’armi e munizioni” secondo il Signor Fagot (a cui scrive nel 1887), il meraviglioso inquieto (“Mi annoio molto, sempre; anzi, non ho mai conosciuto nessuno che si annoi quanto me”: alla famiglia, nel 1888), il santo, secondo la sorella Isabelle, che tentò di erigerne l’agiografia in contrasto con la vigorosa vulgata – edificata da Paul Verlaine, per cui restò, sempre, il ragazzo “dal volto perfettamente ovale d’angelo in esilio” – del poeta ‘maledetto’, dacché “quelle poesie esprimono idee e sentimenti di cui l’autore fatto uomo, e uomo serio e onesto, provò vergogna e pentimento”, d’altronde, “all’Harar, paese da lui amato appassionatamente, gli indigeni lo chiavano il Santo, per via della sua meravigliosa carità” (così Isabelle a Louis Pieriquin, nel 1891). Insomma, allo stesso tempo, Rimbaud è santo e criminale, volitivo e virtuoso, è voluttà e pietà, è l’estasi di tutte le contraddizioni. “Il commento a Rimbaud è attualmente diventato un genere letterario”, osservava Jean Paulhan: per rendersene conto basta sfogliare una bella antologia curata un tot di tempo fa da Adriano Marchetti, Rapsodia selvaggia. Interpreti francesi di Rimbaud (Marietti, 2008). Lì vi leggiamo i consigli di Victor Segalen (“Non dobbiamo cercare di capire”), le agnizioni di André Gide (“Credo che nella penosa epoca attuale… l’individualismo oltranzista che c’insegna Rimbaud, questo incomparabile fermento, vada tenuto in serbo”) e di Paul Claudel (“fu un mistico allo stato selvaggio”), le orazioni di André Breton (“Trasformare il mondo, ha detto Marx; cambiare la vita, ha detto Rimbaud: queste due parole d’ordine per noi fanno tutt’uno”), gli inni di René Char (“Hai fatto bene a partire Arthur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie, per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”). Rimbaud sembra l’elettricità della letteratura: ancora nel 2011 Jamie James dedicava a Rimbaud a Giava (in Italia: Melville, 2016) un radioso romanzo-reportage. Anni prima, piuttosto, fu il Rimbaud di Renato Minore a strappare applausi – edito da Mondadori, Premio Campiello nel 1991. Romanzo d’imprevedibile delicatezza – anche in Italia c’è una solida tradizione di esegeti di Rimbaud, dall’Arthur Rimbaud di Ardengo Soffici, siamo nel 1911 – che torna, ora, rivisto, per Bompiani come Rimbaud. La vita assente di un poeta dalle suole di vento. Minore, in effetti, è anche biografo degli specchi, dei messaggi cifrati, delle piste errate, dei Rimbaud rimbambiti dalla contraffazione (la storia del mucchio di versi ‘africani’, “Ma bisogna credere alla luna di Harar? Farebbero comodo quei versi. In fondo risolverebbero l’enigma, e a buon mercato. In Africa, Rimbaud continua a scrivere. Addirittura progetta il ritorno in grande stile nel mondo delle lettere”; o quella del poeta che griffa col suo nome la piramide di Luxor: “Un Rimbaud inciso in pietra, la pietra eterna delle piramidi. È la sua firma lasciata a Luxor, incorniciata a regola d’arte… Tutto semplice. Ma una firma, lasciata come unico segno di un viaggio di cui non si sa nulla, è sospetta. Ne spuntarono fuori altre due nella stessa stele di Luxor: più in basso, di fronte a quella grande. Una abbreviata, semplicemente RIMB, così come il poeta talora firma le lettere nel 1889. Troppe. Si può pensare che siano apocrife, un altro falso per depistare. Sono la prova della ‘stupidità del suo autore’: sentenzia un critico, giudice implacabile. Ma si è proprio stupidi se si deposita sulla pietra un simile prolungamento di sé? Perché giudicare opera da sciocchi quel lampo di bêtise che, folgorando, alimenta un gesto elementare, simile a quello per cui si vede riflessa la propria immagine allo specchio?”). Insomma, Minore va, anche, a caccia di tutti gli ‘altri’ Rimbaud, il poeta dell’Io è un altro, che si è disseminato ovunque, perfino sotto l’amaca della nostra lingua. Così, è inevitabile, per trovare Rimbaud – o l’anatema della sua ombra – andai in cerca di Minore. (d.b.)
Lei ha scritto il romanzo su Rimbaud. E quello su Leopardi. Le immagini di questi due poeti estremi, che hanno rotto codici e forme e formalismi in qualche modo si apparentano, si sovrappongono. Cosa li accomuna, cosa li distanzia?
Forse la protratta condizione “adolescenziale” che li pone di fronte alle grandi domande sulla vita, sull’identità, sul mondo e su queste costruiscono un mirabolante telaio di visioni, sogni, pensieri più o meno ossessivi. Leopardi è più dubbioso, più ragionativo, meno trascinante. Leopardi è Leopardi anche per lo Zibaldone, le Operette Morali: non c’è solo il poeta, c’è un complesso di funzioni e possibilità espressive. Dentro di lui c’è l’assurdo sorriso di chi nella vita non finisce mai di interrogarsi, l’opera – creatura non solo di chi scrive versi, sangue che circola, nervi che captano, cuore che raccoglie, cervello che filtra, spirito che trasforma. Rimbaud no. È il veggente, l’innovatore che stravolge ogni schema. Il poeta come fuoco di conoscenza e verità, trascinante forza di conoscenza e verità. È un segno forte, indelebile dentro la storia culturale e poetica della sua epoca, ma tuttora s’innalza come un faro. Meteora per la brevità dell’azione ma immensa e profonda come durata è la sua influenza.
Ladro del fuoco, veggente, Sommo Sapiente, estremo criminale, colui “che ha in carico tutta l’umanità”: chi è il poeta agli occhi di Rimbaud, che cosa raffigura?
Non esiste altro esempio di poeta così perfetto, sicuro e autorevole con un esordio tanto folgorante che poi scivola nel vuoto assoluto. Un poeta che si fa anche carico di una funzione sociale e sacrale i cui versi vogliono avere un timbro profetico, salvifico. La poesia è spesso un alibi, dici poesia e tocchi (pensi di toccare) un livello a priori di comunicazione superiore, garantita dalla marca. Non è così, ci dice Rimbaud: la poesia come prova, rischio, ricerca costante, continuo riequilibrio del peso specifico della parola è sempre qualcosa che, come la lepre delle favole, puoi continuare a inseguire, puoi anche sfiorarla. E poi, lo sappiamo scompare definitivamente, un fantasma presto dissolto nel nulla. Ma proprio la corsa con cui la insegui ne segna, con il battito del tuo cuore, la necessaria velocità per non perderla di vista.
In una visione romantica sembra che Rimbaud per cinque anni abbia scritto poesie e per il resto abbia vissuto ‘poeticamente’, visitando il ‘mostruoso’ dell’anima, della vita, precipitando nell’ignoto. Lei parla, fin nel titolo, di “vita assente”: cosa intende? Allora la vita. «Il poeta della rivolta, e il massimo», scrisse Camus. Da oltre un secolo si sono accumulate su di lui ciarle d’ogni tipo, rievocazioni scientifiche e fantasiose, biografie romanzate, saggi accademici, film anche mediocri. Il suo abbandono dell’attività poetica alle soglie dei vent’anni ha causato una costernazione più duratura e diffusa di quella determinata dallo scioglimento dei Beatles. Ancora oggi su Internet si diffondono leggende su di lui, uno dei personaggi dall’influenza più distruttiva e liberatoria sulla cultura del secolo che abbiamo alle spalle, e sulla sua carriera. In vita, non solo di poeta con la sua travolgente meteora, ma di esploratore, commerciante, contrabbandiere, cambiavalute, profeta mussulmano. E postuma, come simbolista, surrealista, poeta beat, studente, rivoluzionario, paroliere rock, antesignano gay e tossicodipendente, vagabondo e visionario, Angelo dell’omosessualità, della violazione, della lotta alla borghesia, della ribellione, il primo poeta che seppe ripudiare i miti «dai quali la sua epurazione ancora dipende». L’énfant prodige, il genio ribelle e visionario, il «pederasta assassino» dei Goncourt nella violenta storia d’amore con Verlaine, l’avventuriero, l’uomo d’affari. Sempre in fuga, mai appagato: «Mi annoio molto, sempre. Non ho mai conosciuto nessuno che si annoiasse come me», scrive dall’Africa.
L’interpretazione della vita di Rimbaud (di cui l’opera sarebbe una profezia) e i romanzi su Rimbaud (penso ai libri di Soffici, di Edmund White, di Jamie James, ad esempio) sono diventati dei generi letterari a sé, ciascuno ha il proprio Rimbaud, Rimbaud sembra poter essere di tutti e di nessuno, merito, forse, della sua elusività. Lei in quale posizione si è posto e quale Rimbaud ha scoperto nel suo viaggio verso di lui?
Prendiamo come test le sue lettere. Un epistolario che, in tutta la sua vastità – diviso com’è tra primi attori (Rimbaud e Verlaine) e comprimari, caratteristi e comparse – è la radiografia di una vita chiacchieratissima, esibita e impenetrabile a un tempo, dalle mille sorprese e misteri. Sono sceneggiate le stazioni di un’esistenza, anzi di un’opera-vita da cui provengono misteriosi messaggi spesso contraddittori, in una complessità che, comunque «è pronta ad accogliere ogni aspetto del possibile». Sono i tanti enigmi di un poeta che si fece mercante, cercò ma senza esito di diventare esploratore, vendette armi a Menelik, quelle stesse che furono usate contro gli italiani ad Adua, non fu (al contrario di quanto a lungo si è creduto e scritto) un negriero. Per oltre dieci anni, dal 1880 all’inizio del 1891 quando il tumore al ginocchio lo costrinse a ripartire per Marsiglia, si mosse in uno scenario in cui tutto era davvero possibile: trafficava con l’inconnu tra Aden, Harar, Entotto, cercava di arricchirsi e senza riuscirci, era anche un mercante ingenuo, voleva vendere Bibbie in un paese di analfabetismo totale. Un mito che è anche una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia. Un dato per tutti: il Mercure de France, che nel 1912 ha pubblicato l’opera completa delle sue poesie, ha venduto fino alla fine dello scorso millennio ben trentadue copie al giorno di quella edizione. Praticamente per molti anni la casa editrice è vissuta dei proventi di quel libro.
Guardo a Rimbaud e viene da pensare che la poesia è tale perché è tesa fino alla rinuncia, al silenzio, alla fuga, al menefreghismo, all’oblio. È così? Cos’è la poesia, di cui Rimbaud è la sfrenata (ormai sfigurata dagli interpreti) icona?
Proprio per rispondere ad una domanda come questa, raccontando Rimbaud non ho cercato la verità di Rimbaud ma la verità in Rimbaud, la verità che un poeta sa illuminare e diffondere, tracciando un percorso nell’invisibile, in quella zona verso cui guardò Arthur, figlio di contadini che disegna la silente e incorporea costellazione che seppe rilevare dal nulla. “Inventarne la storia per ritrovarne il filo”, scrive Artaud. Come qualcosa di diverso, la fatica di conoscere, la dannazione di conoscere, con il file rouge del romanzo che sta nella ricerca indiziaria, nell’investigazione di un’esistenza irripetibile; come un giallo che alla fine non ha soluzione, ma solo la nudità del problema e che in ogni momento corre il rischio di vedere il suo oggetto svaporare nell’ovvietà dello stereotipo, oppure resistere a ogni tentativo di scasso.
*In copertina: Arthur Rimbaud ad Harar, 1883
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ilcielodipuglia · 6 years ago
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Manoscritto (Mario Trejo 13/1/1926 – 14/5/2012) Che il pane sia pane e mare il mare Basta congetture Pipistrelli lunari o roditori di orchidee Ogni parola ha un prezzo Le parole che attaccano come raggi o vipere E anche madre Amico E alcool e letto e tavola E il figlio concepito a dolci spinte E i funghi che originano lampi d’amore O bagliori di morte E il poeta che cade sotto le pallottole Come un sole che la notte crivella Che il pane sia pane e mare il mare E l’acqua eterna Come la sete è eterna Per poter dire infine: Ho trovato un pane in riva al mare Gli avvoltoi sorvolavano il mio amore Ho morso un’orchidea Gli avvoltoi si disputavano un corpo amato Ho guidato camion e dormito nelle segherie Gli avvoltoi divoravano la mia amata Ho viaggiato di notte sulla sabbia calda Ho invocato i nomi segreti Ho scongiurato un maleficio Ho arginato una catastrofe Ho condotto un’aquila al suo nido Sono morto con i miei morti e sono vivo Quando sono arrivato in città Un folle vagava per le strade Nel suo sguardo aveva un coltello Gli ho dato la mia mano L’ho guardato Gli ho parlato e la mia voce proseguì tra le stelle Eravamo noi due soli sulla terra Eravamo in due sulla terra La solitudine andò in frantumi La poesia in parole
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iltrombadore · 4 years ago
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Pasolini, la poesia e la critica, tra figuratività e figurazione
(Tanti anni fa curai, per incitamento della cara amica Laura Betti, una esposizione di foto, disegni ed altri materiali visivi e scritti che illustravano la vocazione “figurativa” di Pier Paolo Pasolini a partire dalla poesia, passando per la pittura, la letteratura e il cinema (”Pier Paolo Pasolini. Figuratività e Figurazione”.Roma, Palazzo delle Esposizioni, 29 Febbraio-23 Marzo 1992). Di quella bella mostra ho recuperato il catalogo dalla quale estraggo la mia presentazione che, mi pare, non abbia perso lo smalto, col tempo che passa...)
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FIGURATIVITA’ E FIGURAZIONE
di Duccio Trombadori
Tra poesia e critica la vita e l’opera di Pier Paolo Pasolini passa e si giustifica lungo un doppio binario, uno sguardo duplice sulle cose del mondo, complementare e quasi indistricabile.
In questo senso le armi della poesia sono anche quelle del pensiero: e segnalano una ininterrotta tensione sperimentale (come dimenticare l’esperienza di riviste come ‘Officina’?) verso quella “strada d’amore”  fisico e intellettuale cui il poeta si terrà fedele fino alla fine dei suoi giorni.
Letterato, militane, o critico militante?
L’anima di Pasolini si esprime sempre oscillando tra i due poli, ‘trasumanar e organizzar’, che tracciano il limite di una umanità sofferta o a caro prezzo acquisita.
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Il dolore, qui, non solo è conosciuto, ma perseguito: a guisa di una irredimibile posizione di vita che intende tenere unite e separate “passione” e “ideologia”.
Ecco allora un altro sdoppiamento che traccia netta la linea di demarcazione di chi guarda con meraviglia, e di chi osserva analizzando; ed è il profilo di un originale modo di essere moderno, nell’Italia dei letterati e degli ideologi.
Lo sguardo incantato e programmatico , l’occhio che indaga spietato nel corpo dell’esistenza poetica, impone al registro letterario un additivo, di tipo civile, pur sempre inappagato; come inappagata o disattesa risulta quella “strada d’amore” così convulsamente perseguita che lo avrebbe sempre fatto essere, scriveva, “col sentimento al punto in cui il mondo si rinnova”.
L’idea di una passione figurativa come punto di intersezione di estetica e morale è legata al poeta che organizza “per verba” e “cum figuris”: ciò che comporta ovviamente il passaggio dalla figura decadente di chi cerca al modo vecchio una risposta nello stile, alla scelta di chi cerca uno stile nella risposta e nella polemica civile, appunto.
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La figuratività come criterio poetico è l’altra faccia del modo d’essere, comunista antimoderno, dell’intellettuale: così l’elogio dell’”impuro realismo” rivissuto quasi mitologicamente, diventerà movente di una espressività figurativa, o di una “figurazione” ben più densa e ricca perché ricercata con i mezzi del cinema: “lingua scritta della realtà”, diceva, e al tempo stesso alta definizione simbolica di questa.
Forse l’arte era ancora per lui un principio-speranza e anche il fondo impolitico di una acuta esigenza vitale: il realismo, certo; e unito ad esso, una inconfessata vocazione alla ascesi, alla liberazione religiosa.
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I corpi nella figurazione pasoliniana sono la cifra della esistenza e del suo limite infame: l’amore, la fame, la sottomissione, la solitudine, il supplizio, appaiono nelle sue immagini e versioni poetiche, come esperienze-limite, forzature di una insopprimibile quanto disperata vitalità.
Solo, oltre i corpi, parlano per noi i volti: queste ricorrenti movenze dello sguardo, tra ingenuo e malandrino, che simboleggiano la tragedia della coscienza o, se si vuole, dell’anima prigioniera.
Non l’eccesso razionalistico, salva l’uomo; ma il suo sguardo implorante, sembrano dirci le immagini fissate dall’obbiettivo, o in movimento, per la macchina da ripresa.
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Alla ricerca dei volti, dunque, nel vuoto dell’uomo ‘scomparso’, come direbbe Foucault. Alla ricerca della innocenza, con passione quasi ereticale, però (“Quoniam non cognovi litteraturam introibo in potentias Domini…”): come ci dicono testi figurali, quali le scene di “Salò” o delle “Mille e una notte”, o del becero “Accattone”.
Qui il povero, il semplice di Pasolini, ti guarda con un riso di “timido scetticismo, o rinuncia a chi lo tenti…perché nel suo cuore non c’è posto per altro sentimento che la religione”.
Qui lo sguardo duplice, del Pasolini critico che analizza e giudica il Pasolini poeta, si commenta da solo.
Ma anche nel saluto e augurio conclusivo (“…Odia quelli che vogliono svegliarsi e dimenticarsi delle Pasque…”) rivolto alla eterna, anche se nuova, gioventù, torna il motivo di un lontano punto di partenza: quella “strada d’amore” tra passione e ideologia, ragioni ultime di una esistenza vissuta con le armi della poesia e della figuratività.
Duccio Trombadori
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I SEGNI DELL’ANIMA
Che modo strano di dipingere, aveva. Un fare quasi sciatto che contrasta con la pulizia dello sguardo cinematografico, a volte in modo perentorio, esclusivo.
Negli acquarelli, nei disegni di gioventù, prevale la macchia diluita, una carica gestuale che insiste sulla espressività e sull’esile contorno di figure colte d’impressione, con tinte bluastre, fondi verde, e rapide sortite di vivido bianco, o rossastri incupiti.
Fedele alla regola purovisibilista per cui “vedere è soprattutto un interpretare”, Pasolini pittore resta legato all’appunto visivo e in qualche modo geloso di una percezione quasi ingenua della linea e della forma.
La “iniziale passione pittorica” di cui parlava a proposito dei suoi lavori cinematografici è utile a fissare l’attenzione su di un clima culturale, quello che reagì -con torti e ragioni- alle virtù rapprese in letterarietà del nostro Novecento.
E così scriveva:”...accanto al mio Zigaina, vorrei un bel Morandi, un Mafai del ‘40, un De Pisis, un piccolo Rosai, un gran Guttuso...”. Ecco la pinacoteca ideale di Pasolini: ce n’è abbastanza per collocare il gusto del poeta in quel preciso crinale espressivo che vede la pittura italiana, tra il ‘30e il ‘40, passare dalla levigatezza tonale oppure neoprimitiva, alle accensioni fantastiche ed espressioniste di quel pronunciato “bisogno di realtà” che anticipava la tensione artistica del secondo dopoguerra: nel mito e nella speranza di un mondo che si voleva “post-borghese”.
Così, come fogli ingialliti dal tempo, le carte dipinte e i disegni appena accennati custodiscono i più gelosi segreti di un “livre de chevet” : non diario in pubblico, ma esercizio erotico-pedagogico nel preservare il mito di quella eterna gioventù che sempre inseguiva, come l’alba perduta di una “renovatio” morta ancor prima di nascere.
Senti, tra quelle immagini forti e pure non pienamente formate e distinte, la eco fresca e pulita dei giorni di Casarsa, l’aleggiare delle “belle bandiere” e del dialetto purificatore dei semplici e degli esclusi. Qui, tra le sue immagini il poeta immergeva se stesso e non cresceva con la Storia : come le calde sensualità, ivi appena accennate, perseguivano quella atmosfera “statu nascenti”, di aurora intramontabile in cui si racchiude, forse, il più esile e intimo mistero di un ‘anima.
Duccio Trombadori
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bibliotecasanvalentino · 4 years ago
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera e l'autore prescelti sono: "L'amore coniugato" di Annalisa Giuliani.
Quante declinazioni ha l’amore? Quante facce e quali “strati” lo attraversano?
C’è l’amore vissuto, sognato, strappato e poi esiste quel tipo eccezionale d’amore cui si “deve” rinunciare. Ma c’è anche un amore “assente” o che è “troppo” (oltremisura) dal quale si fugge lontano allo stesso modo in cui si evita un dolore.
Esiste il ricordo che si annoda ai luoghi e alle atmosfere, attaccandosi ai volti e al quotidiano andirivieni di arrivi e partenze; all’opposto, c’è l’oblio che ha il sapore amaro di solitudine e di abbandoni, oblio che, talvolta, si custodisce e riposa in un nome. E questo nome è Artemisia: come l’arbusto dalle proprietà sedative e placanti, la “pianta della visione e dell’oblio”, appunto…
Artemisia, come il nome della protagonista del romanzo: scelta onomastica, questa, felice ed evocativa, che rimanda con una simmetria perfetta ad un personaggio che è in un sol tempo profondo e leggiadro, vago ma determinato: una donna la cui nascita reclama subito una lacerante separazione, il distacco dal corpo materno. Corpo vissuto solo dall’interno e mai nell’esperienza dei giorni, una fisicità mai abbracciata se non nell’intima culla amniotica.
Artemisia interpreta l’amore “superlativo”, elevato al suo massimo grado e lo declina nel suo eterno presente, nel suo accadere e trascendere spazi, tempi e individui, dando linfa sempre nuova a tutte le relazioni, ad ogni legame. Perché amare è verbo che si flette al passato, ma non conosce trascorsi definitivi, nutrendosi (come gli è del tutto naturale) di singoli istanti, momenti universali, in tutti i tempi. E amare è pure scegliere – non sempre per il meglio, non solo per la soluzione più sicura.
Così anche Artemisia non può sottrarsi alla responsabilità di una scelta, quella tra il rimanere “prigioniera di un presente a intermittenza, eterna sospesa nel tempo indefinito […] Lei, l’amore mal coniugato. Rovinafamiglie, mangiatrice di uomini. Ammaliatrice. Amante […]” o, piuttosto, l’andare via e interrompere quel legame così speciale, seppur clandestino, con l’uomo di cui è innamorata, Ernesto. La sua decisione, con inevitabili ripercussioni non solo sulle proprie ma anche sulle vicende degli altri personaggi coinvolti, cambierà anche le sorti del figlio che segretamente aspetta dall’ignaro Ernesto.
Di fatto, Artemisia fa ricadere solo su di sé il peso della scelta, evitando qualunque presa di posizione a Ernesto, sposato con un’altra donna e già padre, del tutto incapace di stravolgere le rassicuranti abitudini familiari.
Distanza e oblio sono i muri che Artemisia erige tra sé e l’amore; ella abbraccia il sentimento della dimenticanza che intorpidisce il cuore, sì, ma non lo cura. Anzi, la separazione amplifica l’amore e lo “cambia” fino a trasformarlo in un continuo passaggio da un corpo all’altro, da un luogo all’altro, da un’esperienza all’altra. Intorno alla vicenda dei due amanti per i quali “non poteva esistere passato, non era immaginabile futuro. Solo presente vissuto e consumato in fretta” si intrecciano altre storie, crescono altre vite, tutte descritte con forza e poesia: così nelle pagine si incontrano Eloisa, Alberta, Enea, Aldo e Allegra che, pur trascorrendo e sopravvivendo a situazioni e scelte differenti, giungono infine a convergere in una sorta di equilibrio ritrovato.
Il tempo, la distanza, il ricordo e le nuove esperienze incorniciano e accompagnano l’orizzonte narrativo fino all’epilogo, restituendo una specie di giustizia ai sentimenti.
L’amore, se è autentico, non si esaurisce né smorza mai i suoi effetti, i quali possono tornare a “colpire” anche a distanza di molto tempo: esso muta in forza ed in energia da trasmettere ai volti ed ai gesti, tracciando un percorso circolare – compiuto e mai concluso. Un sentimento che non si rinnega, che rimane fedele a se stesso pur accogliendo aspetti diversi e differenti espressioni; l’amore riunisce tutti i tempi dell’azione, il passato, il presente ed il futuro, ad eccezione dell’imperativo, giacché esso non può tollerare le imposizioni.
Così come avviene per il verbo e la sua flessione, con la sua variabilità di forme, allo stesso modo l’amore si coniuga per tutte le persone, le differenzia, le caratterizza, le induce all’azione e, infine, le (ri)unisce.
Cos'altro aggiungere sull'autrice di questo romanzo? Annalisa Giuliani ha lasciato parlare il suo cuore anche nella vita privata, rinunciando a una vita lavorativa da avvocato per dedicarsi con dedizione ai ragazzi e alla loro istruzione, perciò si può concludere che abbia coniugato l'amore anche alla professione!
Recensione a cura di Rita Pagliara
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violet-d-enfer · 7 years ago
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Dipnoi
Anjuška si era svegliata quella mattina da un sogno di pesci volanti sulla superficie del mare. Pesci molto strani in realtà e non solo perché si muovevano a serpentina a sfioro dell’acqua. La ricostruzione che Anjuška era riuscita a fare era fastidiosamente frammentaria, nonostante fosse rimasta un buon quarto d’ora, seduta sul letto, a stropicciarsi gli occhi come se lo sfregamento dovesse e potesse riportare a galla i dettagli dei pesci in questione che, invece, rimanevano nascosti, testardi e irritanti. Soprattutto perché pensare di andare dal suo Précepteur e chiedergli una risposta esaustiva con così pochi particolari avrebbe significato, come minimo, una lezione fin troppo erudita sulla sua acerba capacità di osservazione e sulla sua mancante destrezza nella descrizione: “Questo tuo balbettare, inaccettabile per inciso, è l’ennesima prova, qualora ce ne fosse bisogno, di quanto sia improcrastinabile l’ampliamento del tuo lessico, bambina mia”. La risata fragorosa le fece perdere la concentrazione necessaria a continuare l’imitazione del pomposo aio. E questa abitudine, fuori luogo visto il resto, di iniziare o concludere le sue frasi con ‘bambina mia’. Non era più una bambina! E si ostinavano a chiamarla e trattarla come tale. Avrebbe davvero dovuto prendere dei provvedimenti. Dopo la colazione. “Insomma, questi pesci erano grandi e poi avevano…” “Bambina mia, non è corretto iniziare le frasi con ‘insomma’. Meglio: i pesci cui le accennavo.” “Mph.” “Mph? Vogliamo davvero usare espressioni degne della servitù, Anjuška?” Sì, e ancora sì, quando parlano fitto spesso sento le loro risate e sono così vere che li invidio, e non devono stare a preoccuparsi di tutta questa etichetta… “Signorina, vuole degnarmi di una risposta?” Ecco, pure il formale ‘signorina’ e il ‘lei’. “Chiedo scusa.” Non è vero. “Bene, adesso descrivimi le caratteristiche dei pesci, in modo puntuale” Puntuale! Respira, Anjuška. “Erano pesci allungati, dai colori verde, e poi blu e poi alcuni un violaceo appena accennato. Ed avevano musi antichi.” “Questa non è una descrizione puntuale, bambina mia. Non è neanche esatta dal punto di vista della terminologia: quei ‘poi’ ridondanti, quel ‘musi’. Inoltre, mi piacerebbe averti insegnato almeno la corretta progressione temporale di un racconto o di una descrizione. Si inizia introducendo l’argomento centrale. Ricominciamo. Dove hai visto i pesci cui vuoi che io dia un nome?” Lo sapevi che sarebbe andata a finire così. Te le cerchi. Da grande, sì, tra poco, pochissimo tempo, troverò il modo di vendicarmi… “…li ho sognati.” “Inammissibile. Le pare che i sogni possano essere materia da prendere in seria considerazione, signorina? Non sono che la cloaca dove si gettano gli scarti del vissuto cosciente. Niente di cui valga la pena di occuparsi, dal punto di vista scientifico. E, forse ancor più grave, niente che valga la pena di raccontare. Lo considero qualcosa di altamente scostumato. Meno di niente.” E se ne va. Un giorno, non lontano, lo vedrò andare via, diretto al bagno penale. E sorriderò. E magari andrà a finire che ci tirerà fuori delle memorie letterarie di successo. Devo architettare un pieno oculato. Oddio, parlo come lui. In tutto questo rimuginare, occhio cupo e vendicativo, Anjuška si aggira per i corridoi con passo che, se scorto, meriterebbe un altro predicozzo. Ma nessuno di pericoloso sembra in vista. La biblioteca di babuška. Se non lì, dove? La missione richiede un’attenzione tutta particolare. Non le è permesso entrare lì da sola. Il sospetto è che non sia per il timore che lei sciupi qualche tomo di gran valore, non lo ha mai fatto neppure da piccola. Tutto il contrario, aveva perfettamente imparato la lezione di babuška. Glieli leggeva quando era molto piccola, tanto che lei non ricordava altro che la stanza in penombra o buia, l’odore della babuška, del suo seno come un cuscino, e la sua voce. E non solo li cantilenava, ma le faceva anche tutta una storia del ‘libro’ quasi fosse una persona in carne ed ossa da conoscere con tutte le fascinazioni di una prima conoscenza e tutti i pericoli che ciò comporta. E non si risparmiava neppure la parte polemica. “Un libro non è un oggetto, non è un atteggiamento, non è uno strumento da usare per fare sfoggio di sé, per salire su un qualche piedistallo con aria snob: è una prova d’amore. Ma non dell’amore a cui pensi confusamente tu che ancora non ne sai quasi nulla, bambina mia. Una delle cifre dell’amore è la parola, e il dono, e la condivisione fine a se stesa.” Ruotava lo sguardo verso gli scaffali, poi lo fissava di nuovo negli occhi di lei e proseguiva. “Guarda questi libri, sembra che ti aspettino. Pensa al viaggio che hanno fatto: le notti insonni e i dì febbricitanti di chi li ha scritti, i suoi incubi, i suoi segreti, le sue gioie, le sue sofferenze, tutto racchiuso e regalato a perfetti sconosciuti. Pensa alle mani di chi ha prodotto la carta, pensa a quelle di chi ha regalato a quel tesoro intimo una degna copertina. E poi, bisogna comprare un libro, accarezzarlo, annusarlo dall’esterno, la pelle, separarne impazientemente le pagine unite, ed annusarlo all’interno, ritardare il più possibile il momento della lettura. È solo allora, sfogliando accuratamente una pagina dopo l’altra, che si scoprono idee ed emozioni che neanche il più onesto tra i trafficanti di opinioni, quello con le migliori intenzioni, può offrire.” Per Anjuška e la sua mente incantata quella era la saggezza, ne sentiva il sapore fino in fondo alla lingua. C’era un ‘ma’. C’era sempre un ‘ma’. Lei non avrebbe dovuto avere libero accesso a quel luogo. I libri avevano subito una catalogazione del tutto speciale. Essenziali: adatti, non ancora adatti. Non essenziali: di contorno, da leggere per diletto e per conversazione. Immorali, proibiti. Nessuno dovrebbe leggerli, nessuno avrebbe dovuto pubblicarli, né tantomeno scriverli. “Un giorno questi signori ne pagheranno le conseguenze davanti al giudice massimo, dal momento che gli uomini sono deboli ed educazione e censura hanno imperdonabilmente mancato il loro dovere”. ‘Mai e poi mai leggibili’: eterna, implacabile, immutabile condanna. Il giudizio di Monsieur le Précepteur era inappellabile. Un particolare, sospetto: mai una parola di condanna nei confronti di babuška che li aveva acquistati, letti e riposti in bella mostra. Strana cosa, di solito non aveva peli sua lingua né, e di questo Anjuška gliene dava atto, era un ruffiano. Un giorno avrebbe scoperto la trama sottostante. Ovviamente, l’attenzione di Anjuška era tutta concentrata sui ‘non ancora’ e ancor di più sull’eterno ‘mai’. Non poteva certo prenderli e portarseli in camera. Ma aveva memorizzato la loro posizione, gli orari delle ronde più agguerrite; quando la perdevano, se non con Kolja, avrebbero facilmente potuto ritrovarla accucciata a terra, nel posto più buio della biblioteca, con un libro tra le mani o in grembo quando le parole perdevano lei a lei stessa. Mattina e pomeriggio erano i momenti meno indicati per le sue sortite. La notte, una coperta ed una candela, erano il suo adorato rifugio. Aveva anche un alleato fidato. Rispetto ai divieti, di qualunque natura, ed in particolare di tipo letterario, babuška aveva un’idea tutta sua. Le aveva regalato, clandestinamente, la chiave della biblioteca per il suo dodicesimo compleanno. E questo era il gesto simbolico. Ma, in precedenza non si era certo risparmiata gesti molto pi�� concreti passandole direttamente i libri, quando lei era assente. E lasciandole consigli inestimabili, anche se in parte enigmatici, al tempo in cui gliene faceva dono. “A mio avviso potresti leggere di tutto, senza particolari timori reverenziali o di altro tipo. Ci sono, evidentemente, delle controindicazioni. Rischi di non cogliere degli eventi e la loro natura. Dei passaggi possono risultarti indecifrabili, soprattutto per i saggi. Puoi non conoscere le parole, ma per questo basta un vocabolario, anzi direi che è un’ottima scuola. E poi c’è il pericolo più grande, ma quello è inevitabile: non comprendere il senso generale e particolare del romanzo o del saggio; perché le singole parole puoi impararle, ma quello che compongono insieme, il significato che anche le parole riescono solo ad adombrare, beh, per quello ci vuole tempo, ammesso e non concesso che sia mai possibile.” “Ma posso chiedere a te.” “Certo, ma non sempre potrò risponderti con la soluzione: la lettura è un’avventura intima.” “E perché, se non lo capisco, non puoi spiegarmi tu il senso del libro?” “Perché sarebbe il mio senso, non il tuo. Possiamo incontrarci su alcuni punti, discutere del libro, chiarirci dei passaggi oscuri, confrontarci, e altro ancora. Ma, in fin dei conti, anche se si saranno reciprocamente ampliati, rimarremo ognuna con il libro e l’idea che ci ha impresso dentro.” “Non mi piace. Voglio capire quello che lo scrittore voleva dire.” “Ah, hypocrite lecteur, — mon semblable, — mon frère! Ci aggiungerei: infidèle.” “Cos’è?” “Una poesia, fuori contesto, di un ‘nuovo’ poeta.” Pausa. Silenzi diversi: attesa e congetture confuse. “Mph. Tanta fatica per non capirci niente.” “Allora lo rileggerai. Crescendo, sarai tu e, insieme, una tu diversa. Ed ogni esperienza maturata aggiungerà un piccolo tassello, un’altra piccolissima tu, pezzettini insignificanti a prima vista. Eppure, essenziali. E, quindi, se leggerai un libro in età diverse, vi scoverai dettagli e significati sempre diversi che si sovrapporranno gli uni agli altri.” “Ma non finirò mai così.” “Vero. Grazie a Dio non si finisce mai.” E la lasciava così a contemplare: la voragine del tempo mancante, la sua impotenza a leggere e capire. Aveva questo potere di lasciarle nelle narici il suo profumo, e dentro queste frasi dal tono dolce, sereno, dalla facciata rassicurante in contrasto con l’eco profonda, vagamente inquietante. Mentre ricordava e sorrideva, la sua parte pragmatica aveva elaborato un piano: prendere l’Enciclopedia (catalogata: essenziale, con alcune proibizioni) e sfogliarla, in ordine alfabetico (serve metodo, Anjuška, non iniziare a seguire il filo del disordine come tuo solito), fino a trovare una riproduzione dei pesci che aveva sognato. Vaste programme. A, B, C, D che scandiscono il primo pomeriggio. E poi il ritrovamento, la fronte corrugata si distende, le labbra corrucciate si distendono anch’esse in un sorriso di soddisfazione e vittoria, quasi di rivincita. “Dìpnoi (o dipnòi) s. m. pl. [lat. scient. Dipnoi, dal gr. δίπνοος «con doppia respirazione»]. – Ordine di pesci ossei d’acqua dolce, in gran parte fossili, oggi rappresentati da poche specie, di forma allungata, coperti di squame sottili, con scheletro prevalentemente cartilagineo, corda dorsale persistente, e vertebre senza corpo vertebrale; respirano sia per branchie sia per mezzo di una vescica natatoria concamerata, che costituisce un vero organo polmonare. Le specie dei generi Lepidosiren e Protopterus, rispettivam. dell’America Merid. e della regione etiopica, scavano gallerie nel fango dei pantani e vi trascorrono un periodo di vita latente durante la stagione secca.” Lepidosiren. Vita latente. Pesci in letargo. Lei che sogna pesci d’acqua dolce che vanno in letargo ma volano a sfioro sul mare. Che cosa stramba. Doveva raccontarla a qualcuno. Rapida occhiata fuori dalla finestra. Kolja! Di corsa, è tardi, e Kolja non ha tutto il tempo che vorrebbe lui, che vorrebbe lei. Anjuška: “…e questi pesci del mio sogno, vanno in letargo!” Kolja: “Esistono davvero? E perché dovrebbero?” Anjuška: “Pare di sì, anche fuori dai miei sogni. E lo fanno per risparmiare, quando è tutto arido per il caldo e si chiama estivazione.” Kolja: “Quella è pigrizia.” Anjuška: “E sono pesci che si interrano nel fango del fiume, quando il fiume è in secca, e riducono al minimo il metabolismo, e sono i dipnoi.” Kolja: “Ed è pigrizia.” Anjuška: “Secondo te, avrebbero sviluppato un polmone solo perché troppo pigri per andare a cercarsi l’acqua, che non c’è né dove stanno, né altrove?” Kolja: “Pesci tropicali debosciati.” Anjuška: “La ‘naturale’ infingardaggine meridionale, eh.” Risate. Kolja: “Spiegazioni semplici per fenomeni semplici.” Anjuška: “Ma non è un fenomeno semplice. Sti pesci...risalgono a tipo 400 milioni di anni fa. Hanno sviluppato un polmone. Capisci? Respirano!” Kolja: “E visto che respirano possono venire nei tuoi sogni a svolazzare sul mare.” Anjuška: “Sì!” Kolja: “Io non mi posso nascondere sottofango. Devo andare se no son guai.” Anjuška: “Sì. Copio la riproduzione, domani ti porto il disegno.” Kolja: “Grazie. E stai attenta a non parlare così col tuo précepteur…e ai sogni.” Lepidosiren Paradoxa. Anjuška lo ripeteva come un’orazione, sotto le coperte, prima di addormentarsi. Credeva che se lo avesse ripetuto per un congruo numero di volte, con la giusta concentrazione e la dovuta convinzione, il sogno sarebbe venuto da sé. Come se si potessero blandire i sogni, quelli se ne fregano. E, infatti, niente. Dieci giorni di sogni scialbi e fuori tema. Il Précepteur aveva sbollito la foga degli improperi, persino Kolja aveva, infine, smesso di chiederle, con una volutamente malcelata ironia, che ne fosse dei suoi pesci irreali. Ovviamente, solo dopo aver commentato con tono canzonatorio gli sforzi artistici di lei. Persino lei iniziava a lasciar sbiadire questa fissazione itticonirica. Beninteso, dopo aver accarezzato anche l’idea di farsi costruire l’habitat adatto per poi acquistare i suoi pesci, pesci realissimi questa volta, da ospitarvi. Aveva abbandonato il progetto quando aveva sentito la sua voce proporselo a volume alto. Precisamente, la terza prova del discorso da tenere a suo padre. Infattibile. Poi, senza preghiere né rituali, la Lepidosiren Paradoa era lì, proprio lei. In un ricordo vivido. Le era apparsa sbucando e materializzandosi dal buio, uscendone aggraziata, eseguendo davanti ai suoi occhi evoluzioni lente ed eleganti. Ad un certo punto, Anjuška si era resa conto anche dell’apparizione di un contesto geografico. Se lo sarebbe aspettato abbagliante, riarso dal sole; invece, persisteva una penombra grigiastra. Il letto di un fiume, il fango, tristi arbusti, pietre. La Paradoxa, che fluttuava su quel desolato ricordo di fiume, la osserva, pare sorriderle, consapevole di avere la soluzione per questo be pasticcio. Inizia ad abbassarsi, fendendo l’aria in diagonale, alla ricerca di un fango morbido da penetrare. Lo trova. Punta il ‘muso’. La guarda con occhi sapienti mentre, con la parte prominente del ‘volto’, spinge contro la melma per forzarla ed aprirsi un pertugio. Una pressione centrale e verso il basso del corpo, spostamenti alternati del muso a destra e sinistra, che sarebbero dei tonfetti se non fossero tanto fluidi e delicati. Si fa largo, scava la tana senza violenza, muovendosi a serpentina, sinuosa, prendendosi tutto il tempo necessario. Come se ci provasse un piacere speciale, tipico della sua specie. Chissà, forse la sua babuška le aveva raccomandato, quando era piccola, di non lasciarsi sfuggire, per la fretta, il minimo dettaglio, la prima volta che avesse compiuto l’operazione che doveva conservarle la vita. Forse spiegandole che un atto così necessario alla sopravvivenza non era solo utilitaristico, ma intrinsecamente bello, piacevole, come lo scivolare molle dentro la terra ancora umida. Dopo un po’ anche l’estremità della pinna caudale scomparve. Del pesce era rimasto solo un leggero rigonfiamento sulla superficie fangosa, e il rigonfiamento si muoveva al ritmo lento ma regolare del suo respiro. Diventò un sogno regolare. Tre volte alla settimana, la Paradoxa veniva a farle visita. All’inizio, non facevano altro che guardarsi. Anjuška, nel sogno, non si vedeva, ma sapeva di essere piegata sulle ginocchia, con i gomiti appoggiativi sopra; si sentiva anche piegare collo e viso per cambiare prospettiva e visuale nella sua osservazione muta. Muta. Sentiva nel sogno dei suoni flebili, dei mugugni, incomprensibili, come se cercassero di parlarsi, senza riuscirvi. Poi successe. Quasi si fossero, infine, accordate: trovarono le parole da condividere. La Paradoxa le parlò con tono basso e calmo. Le raccontò la sua vita, i suoi viaggi, lunghi e perigliosi, le disse che aveva iniziato, un pomeriggio particolarmente afoso, a sentirsi stanca e di aver cercato un luogo sicuro dove potersi riposare. Ed in questo viaggio si era imbattuta nel suo sogno di mare pesci volanti. Si erano incontrate, casualmente. La Paradoxa l’aveva scrutata per un po’, aveva sentito tepore e affidabilità; aveva deciso di fermarsi nei suoi sogni. Anjuška ricambiava quei racconti stupefacenti con i resoconti della sua ordinata quotidianità, tanto noiosa quanto resa scoppiettante dalla sua voce squillante, dalla velocità con cui pronunciava le parole per paura di dimenticarsi qualcosa di fondamentale. Incredibilmente, Anjuška non raccontò niente di queste conversazioni. A nessuno. Solo a Kolja comunicò vittoriosa che, sì, aveva sognato il suo pesce irreale. Ne fu contento senza darlo troppo a vedere. Aveva anche smesso di passare le notti in biblioteca. Ma le parole della Paradoxa avevano lo stesso fascino, anzi quasi maggiore, di quello dei libri: c’era la sua voce ad inanellare novelle dopo novelle un romanzo fantastico, c’erano gli occhi splendenti nella penombra del sogno e del fango, c’erano le pinne filiformi che vibravano al ritmo delle diverse sfumature dei ricordi riportati a galla. “Ti ringrazio, Anjuška. Dovevo fermarmi, riallacciare le fila della mia vita. Raccontarla a te per vederla più chiara.” Fu l’ultima cosa che le disse, fu l’ultima volta che la sognò. Anjuška scoprì l’amarezza del tradimento, nella forma più sciocca possibile: un pesce sognato. Ma non riusciva proprio ad impedirsi di provare un persistente senso di imbroglio, cocente. Finse che non le importasse nulla. Finse di aspettarselo, figuriamoci. Finse di non soffrirne. Fino all’estate. Nel bosco che faceva parte della proprietà della dacia, c’era un fiume. Kolja e lei passavano sulla riva e in acqua tutto il tempo che potevano. Sempre spiacevolmente insufficiente. Un pomeriggio, Anjuška si ritrovò a battere il palmo del piede destro sul letto del fiume, saggiando se per caso ci fosse un qualche rigonfiamento nascosto. Il gesto istintivo aveva preceduto il pensiero conscio. Uscì dal fiume, senza una parola. Si accucciolò contro il tronco di un albero lontano. Kolja nuotava, non si accorse di niente. Pianse. Odiandosi per quel moto di inaccettabile debolezza. Una brutta confessione contro cui scagliare le sue recriminazioni. “Sei stata uno strumento: avevo bisogno di qualcuno che mi ascoltasse.” Una menzogna. “Avevo questo tempo, in attesa che arrivasse il mio letargo, te l’ho regalato. Ce lo siamo regalato. Adesso, il letargo arriva. Ma ci rivedremo. Quando l’acqua tornerà, appena sveglia, prima di ripartire.” Avrebbe solo voluto un saluto. Anche doloroso. Ma vero.
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pier-carlo-universe · 6 days ago
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Hermann Hesse: La forza dell’amore nella poesia. Recensione di Alessandria today
L’amore che dona coraggio e felicità eterna: un inno all’amore universale
L’amore che dona coraggio e felicità eterna: un inno all’amore universale Un viaggio tra parole e sentimenti La poesia di Hermann Hesse, intitolata “Ma la cosa migliore”, rappresenta un canto d’amore intenso e universale, che racchiude l’essenza stessa dell’esistenza umana. Hesse, con il suo linguaggio semplice ma straordinariamente potente, ci accompagna attraverso le esperienze più belle…
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tempi-dispari · 6 years ago
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Al via progetto Shakespeare 2018, dal 17-21 ottobre al Teatro Cometa Off
Prende il via dal 17 al 21 ottobre il progetto Shakespeare 2018, che comprende la messa in scena al Teatro Cometa Off di Roma di quattro spettacoli del grande drammaturgo inglese, con protagonisti la coppia Bartolini-Baronio, Sarah Biacchi e Roberto Ciufoli, Gabriele Granito, Beatrice Messa e Fabio Massimo Maffei, Giovanna Mangiù, immersi nell’atmosfera suggestiva di una mostra di memorabilia cinematografiche, di una personale fotografica di grande valore iconografico e preceduti ogni sera dalla proiezione di inediti cortometraggi realizzati con l’intento di rimarcare il valore immortale della poetica shakespeariana, rivestita di originalità e resa estremamente attuale e vicina al pensiero della società contemporanea. La manifestazione si sposterà poi in Tuscia a novembre e completerà il suo percorso a dicembre come allestimento permanente all’interno dello Shakespeare Interactive Museum, che Casa Shakespeare sta predisponendo al Teatro Satiro Off di Verona, sia delle due mostre che dei corti shakesperiani che verranno proiettati giornalmente in una apposita installazione. L’iniziativa ideata dalla Sycamore T Company (Roma) e da Casa Shakespeare (Verona) è la ideale continuazione di Shakespeare Re-Loaded Festival, che nasceva nel 2016, in collaborazione con Argot Studio, per celebrare il 400nario della morte di William Shakespeare con una serie di spettacoli basati sulla riscrittura di personaggi shakespeariani. La novità di Shakespeare2018 è la trasposizione del teatro shakespeariano sul grande schermo, riproponendolo come fenomeno “pop” e avvicinandolo al pubblico di qualsiasi età ed estrazione sociale. Il fulcro del progetto è infatti Sh-ort-akespeare, una serie di corti interpretati da giovani volti noti del teatro e del cinema italiano, che verranno proiettati all’interno della manifestazione per diventare poi una presenza permanente nel S.I.M di Verona, a cui si affianca una mostra di memorabilia con foto d’epoca, manifesti e rarità riguardanti i capolavori cinematografici di Franco Zeffirelli e Kenneth Branagh e una personale fotografica di Manuela Giusto con gli scatti più significativi dello Shakespeare Re-Loaded Festival, e con foto tratte dal backstage dei corti realizzati dalla Sycamore T Company. A cinquanta anni dall’immortale Romeo e Giulietta di Zeffirelli, una sorta di precursore del filone “pop-Shakespeare”, e a venticinque da Molto Rumore per Nulla, il gioiello cinematografico di Branagh, quasi per celebrare questi due anniversari, le interpretazioni di Alessandro Averone, Michele Giovanni Cesari, Caterina Gramaglia e Giovanna Mangiu’ rendono di nuovo fenomeno “pop” la poesia del Bardo. Integrano inoltre Shakespeare2018 e il S.I.M di Verona due apporti filmati deliziosi, di ottima fattura e di grande generosità: EDMUND FROM LEAR di Giulio Forges Davanzati, piccolo gioiello in lingua originale che porta testimonianza di come il linguaggio shakesperiano possa essere “agito” con efficacia ed autentica emozione anche da un attore non anglosassone; e OPERAZIONE SHAKESPEARE di Maria Stella Taccone, corto-divertissement prodotto per la Shakespeare Fest del Globe Theatre di Roma del 2014: una indagine semiseria sulla modernità del Bardo con Marco Iannone, Manola Rotunno, Giulia Rebecca Urso, Cristiano Priori e Bruno Petretti. e con il prezioso contributo di Gianluca Merolli, Lorenzo Lavia, Angelo Longoni, Massimiliano Vado e Nino Formicola.
Ad impreziosire questi cinque giorni dedicati al Bardo e alla sua arte, quattro spettacoli teatrali che celebrano il fascino immortale che le sue opere e la sua poesia hanno su il pubblico. Apre la rassegna il 17 ottobre LETTERE D’AMORE SCRITTE A MANO di Cynthia Storari, un reading affidato alle poetiche voci di Tamara Bartolini e Michele Baronio che narra dell’incredibile fenomeno delle lettere a Giulietta, le quali hanno alimentato nel tempo una sorta di inspiegabile fenomeno mediatico che ha portato alla creazione del Club di Giulietta. Il tutto inframmezzato da poesie, brani letterari, canzoni e chiacchiere varie, in una sorta di divertita e nostalgica celebrazione della piu’ eterna e consumata storia d’amore di tutti i tempi. A seguire, il 18 ottobre, LADY MACBETH SHOW, con Sarah Biacchi e Roberto Ciufoli. Scritto dalla stessa attrice, e diretta dalla talentuosa regista – soprano Chiara Maione, lo spettacolo conduce gli spettatori un viaggio fra le pieghe non dette del personaggio shakesperiano più noir attraverso la commistione di linguaggi differenti: il talk show televisivo, la prosa di Shakespeare e la lirica di Verdi. Per muoversi in un tale caleidoscopico insieme di esperienze artistiche l’attrice – cantante Sarah Biacchi si avvale del particolarissimo utilizzo della voce che da tempo la porta ad un’unicità espressiva nei panorami europei. Il 19 ottobre è la volta delle variopinte atmosfere circensi di ROMEO AND JULIET CIRCUS di Gabriele Granito, con Gabriele Granito, Beatrice Messa e Fabio Massimo Maffei. Una compagnia di attori girovaghi senza tempo “lo Circo de lo verbo” arriva nella piazza di un villaggio per inscenare la propria tragedia in cambio di qualcosa da mangiare “. Tra balli e acrobazie il carrozzone intende arrivare alla corte d’Inghilterra e rivendicare Luigi Da Porto, il primo vero autore di Romeo e Giulietta. Chiude “Shakespeare 2018” , il 20 e il 21 ottobre, lo spettacolo Rosalina: come la polvere e il fuoco di Silvia Guidi, interpretato da Giovanna Mangiu’ con la regia di Michele Giovanni Cesari. “Abbiamo lavorato sulla versione iniziale del testo originale di Silvia Guidi, in forma di monologo, ampliando l’arco narrativo ed accentuando il contesto storico, allo scopo di descrivere il più dettagliatamente possibile l’essere umano nei suoi sentimenti e nel rapporto con Dio.” – annota il regista. “Rosalina, personaggio secondario di Shakespeare, cerca la sua rivalsa e trova qui lo spazio per tornare a raccontarsi e ad affrancarsi da quel poco che viene detto di lei, dall’opinione superficiale del pubblico in merito a quello che lei realmente desidera. Vuole dare chiarimenti sul suo personaggio, per raccontare veramente ciò che è e affinché non si travisi il suo senso d’essere. L’innesto di passi di Pirandello e Rilke partecipa a quest’intento: esprimere la necessità che Rosalina ha di essere, esistere, far arrivare correttamente chi è come essere umano.” Il Progetto Shakespeare2018 è, dunque, un micro festival che celebra William Shakespeare, le sue storie, i suoi drammi, i suoi personaggi, tra schermo e scena, avvicinandolo ad un pubblico più vasto ed eterogeneo possibile.
PROGRAMMA 17/10/2018 LETTERE D’AMORE SCRITTE A MANO di Cynthia Storari Con Tamara Bartolini e Michele Baronio
18/10/2018 LADY MACBETH SHOW di Sarah Biacchi Con Sarah Biacchi e Roberto Ciufoli Regia di Chiara Maione
19/10/2018 ROMEO AND JULIET CIRCUS di Gabriele Granito Con Gabriele Granito, Beatrice Messa e Fabio Massimo Maffei Regia di Gabriele Granito
20/10/2018 E 21/10/2018 ROSALINA – COME LA POLVERE E IL FUOCO di Silvia Guidi Con Giovanna Mangiu’ Regia di Michele Giovanni Cesari
SH-ORT-AKESPEARE Viaggio all’interno delle declinazioni dell’Essere Con Alessandro Averone Michele Giovanni Cesari Caterina Gramaglia Giovanna Mangiu’ Regia di: Alberto Basaluzzo Michele Giovanni Cesari Alessandra Schiavoni Cinematografia di: Alberto Basaluzzo Produzione Sycamore T Company
UFFICIO STAMPA Maresa Palmacci Tel: 348 0803972; mail: [email protected]
SOCIAL MEDIA MANAGER Martina Mecacci Mail: [email protected]
COMETA OFF: Roma, Via Luca della Robbia, 47 Orario del botteghino: dal martedì al venerdì dalle ore 15:00 a inizio spettacolo, il sabato e la domenica dalle ore 16:00 a inizio spettacolo, lunedì riposo. Telefono: 06.57284637
Biglietti: 10€ online, 11.50€ al botteghino+ 3 € di tessera associativa
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federicapiacentini · 8 years ago
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Sani e Fragili.  “L’arte di essere fragili” di Alessandro D’Avenia.
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A spiegarla, la poesia, perde il suo mistero. Scema la magia, come fosse una bacchetta magica difettosa. Alessandro D’Avenia non ostruisce il messaggio del poeta Leopardi con una retorica inutile, melensa e gratuita; anzi, prega i lettori di non confondere il suo L’arte di essere fragili, edito da Mondadori, per una mera opera di critica letteraria: questo lungo epistolario con uno dei maggior poeti della Letteratura italiana è un’accorata richiesta di restituire passione all’insegnamento e di comprenderne il ruolo imprescindibile per lo sviluppo di individui sociali sani e fragili. Sani e fragili: potrebbe suonare come un’antinomia; viceversa, è l’ambizione senza inganno: si è sani quando si accoglie la propria fragilità e se ne fa un’arte.
Ingabbiato soltanto come “il pessimista”, nessuno ha più acceso i riflettori sulla parola “poeta”: Giacomo Leopardi cantava la vita e la vita a volte ha sguardo truce e severo. Liquidato come sfortunato, infelice, sventurato, egli ha colto più di ogni altro la verità di ciascuno di noi e l’ha declinata nei più bei versi mai scritti. Battuto dai dolori impietosi che colpirono persino la vista, tanto da costringere Giacomo a dettare gli ultimi versi all’amico Antonio Ranieri, la sua poetica custodisce messaggi d’amore, solidarietà e speranza – oggi tanto necessari – che si mescolano ai fili d’erba come gramigna nel vasto prato dell’esistenza umana: infestano, hanno radici forti, attecchiscono su qualsiasi terreno, sottraggono ossigeno all’indifferenza e all’odio, le due vere bestie di cui siamo prede in natura.
La Letteratura è bella, lasciatemelo dire. È bella perché ripara: “è dei poeti riparare – cito dal testo – cosa tutt’altro che comoda, così come lo è delle persone e dei mestieri pazienti. Per loro è evidente che non si creano le cose dal nulla, ma che vanno custodite e coltivate, rimesse a nuovo.” Con il tempo impariamo a riparare noi stessi e dunque in noi abita il poeta. Tuttavia negli ultimi anni mostrarsi fragili pare sia diventato un disonore. Ricordo gli anni adolescenziali, e questi ultimi, in cui i versi mi sono venuti in soccorso rivelandomi la verità delle cose pur nella loro ambigua complessità: “Da insegnante e da scrittore, sono chiamato a custodire, curare, riparare alunni e parole, proprio perché sono preziosamente fragili.” Lettera dopo lettera D’Avenia racconta il suo mestiere di insegnante, lo sguardo vigile su ogni seme, che per sbocciare dovrà superare il primo inverno aspro e spietato: l’adolescenza. Ma chi più di Giacomo Leopardi ha raccontato i drammi, i vuoti, i salti, gli entusiasmi della grande trasformazione? Chi più di lui ha descritto il buio dell’incomprensione, della solitudine, della sofferenza, della malattia? Chi più di lui è stato ed è vicino ai ragazzi di ogni tempo, specchiandosi negli stessi occhi confusi e impauriti? Perché allontanare i ragazzi da questa visione preziosa secondo la quale la vita è fatta di buio per vedere le stelle e di luce per godere del sole, senza omettere l’uno e l’altra, il dolore e la gioia, la morte e la vita? Per decenni gli insegnanti si sono fermati alla schiena curva dell’autore de L’infinito senza entrare nel verso e donarlo con la dovuta comprensione a schiere di allievi devastati da famiglie infuocate da tensioni, litigi, contrasti, dissapori. “Spaccare il guscio e lasciare che ogni fiore sia, questo è il compito di ogni maestro.” Spaccate i gusci, andate al di là, navigate oltre le rime. Ed è la scuola il luogo per spaccare i gusci, per seminare, riparare, sfrondare, rinascere. Accade spesso il contrario, ovvero che la scuola diventi il luogo del guscio per eccellenza attorno cui sappiamo bene come costruire muri nell’età adulta. E rischiamo così che il fiore muoia e il pianeta inaridisca.
“Sogno una scuola in cui la letteratura valga più della storia della letteratura, leggere più del dover leggere, la parola più del programma.” Approvo e applaudo. Ho come l’impressione che persino la scuola sia vittima del “presto” e del consumo. Non si può consumare la poesia, non si può fare presto mentre si legge o si spiega. Bisogna fermarsi, comprendere, riflettere, approfondire, ragionare. La scuola deve insegnare a vivere, non a omologarsi: a questo pensano già i mass media. “La letteratura è custode di questo fuoco costante, è il racconto che consente di realizzare il nostro compito, anche quando abbiamo dimenticato tutto e ci sentiamo smarriti.” La questione non è Leopardi, la questione è tornare a insegnare Leopardi con la passione che gli è dovuta, quella passione che brucia e marchia a fuoco per la vita. D’Avenia scrive: “Sono le cose inutili, come i sogni, come la letteratura, che dobbiamo salvare, soprattutto a scuola”. Ci è stato dato il dono di esistere, vivere è un atto di responsabilità. Insegnare richiede lo stesso impegno, poiché deve mantenere issata la vela della conoscenza e della fiducia in un mondo migliore.
Questo è il fulcro dell’opera e qui torna più volte lo scrittore, che parla ai ragazzi, affinché imparino a fare della propria fragilità, dei propri buchi, il volto sano di se stessi, e parla ai docenti, affinché risveglino il desiderio di foggiare ogni studente con amore e lealtà, come fosse qualcosa che appartiene loro. La scuola non può salvare senza passione. Rispondere con altrettanti dubbi alle domande della vita e comprendere qual è il nostro ruolo è il vero compito in classe da svolgere con dedizione e coscienza. Dirsi a gran voce che bisogna ripartire dalle aule per una società migliore – ho sempre amato quell’ora, scarsa e rubata, di educazione civica – non è sufficiente se il ruolo del docente è svilito agli occhi degli alunni e se gli allievi vengono privati della loro personalità. Non è sufficiente se si interpreta la scuola come un ricovero per adolescenti e genitori, anziché una baita in cui imparare a godere delle vette più alte e da queste trarre ispirazione. Attraverso il giovane Leopardi D’Avenia porta tra le pagine la sua esperienza di insegnante di Lettere, senza dubbio da esempio. Quel che può apparire un restauro della poetica leopardiana è invece una profonda riflessione sull’insegnamento, un mestiere cui è stata più volte messa la minigonna e gettato in mezzo a una strada. Non soltanto: è un’acuta osservazione dei giorni durissimi dell’adolescenza con la quale D’Avenia, professore e scrittore, ha saputo costruire ponti di versi e pagine.
L’arte di essere fragili è un amabile dialogo: tra adulto e adulto, tra adulto e ragazzo, tra la realtà del Sé e la finzione della maschera. Uno dei ritratti più vivi di Leopardi, un omaggio autentico – e per questa ragione popolare, compreso ai più – che fino a oggi la Letteratura non ha saputo fare, chiudendo Giacomo, per l’ennesima volta, in una biblioteca. E lui invece desiderava parlare a tutti. Agli adulti in fuga dal proprio destino, a quelli boicottati dalla vita, a quelli rotti, a quelli braccati. Il poeta si rivolgeva e si rivolge a tutti quei giovani mai ascoltati con le orecchie, mai sentiti con il cuore, come lui. Per questa ragione, l’amato saggio-epistolario è per i ragazzi e per i genitori, per gli allievi e per i docenti. “Creare è sinonimo di amare.” Parole dell’autore, ed è forse questo il basamento di ogni principio o insegnamento. Se vogliamo ragazzi in vita, non soggetti di Natura ma protagonisti di Storia, insegnare ad amare è tutto ciò che dobbiamo fare. Amare è l’unica istruzione. Ha un “che” di francescano la poesia di Leopardi e su questo appunto, che sento veritiero, mi trovo d’accordo, perché tutto intorno a noi – dal cinguettio sui rami denudati dall’inverno all’acqua fresca dei fiumi, sino alla luna che veglia con pace eterna – si fa poesia agli occhi delle anime gentili e tormentate. Dobbiamo ripararci, ha ragione Alessandro D’Avenia. Tutti nasciamo con quel terribile difetto, citando Tiziano Terzani, della mortalità e ciò ci rende fragili e sani, umili e fortissimi, come una ginestra.
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cresy · 8 years ago
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ENZO ZAMBETTA PRESENTA UNA SERATA, OSPITE LUCIO BATTISTI, ALLA LAMPARA di Trani  per l’elezione di Miss PUGLIA nel 1964
PROLOGO
TANTI PROFUMI TANTE SFUMATURE DI ODORI MA IL SUO INCONFONDIBILE “DAVIDOFF” LI ANNIENTA TUTTI. CIAO ENZO IL TUO PASSAGGIO SU QUESTO MONDO SARÀ SOTTOLINEATO ANCHE DA QUESTO.
Mino Balestra
Sinossi Enzo Zambetta non lo conoscevo personalmente ma Mino Balestra, noto presentatore radio televisivo, grande amico di Enzo, ed editorialista di Puglia da Amare, il quotidiano d’informazione che dirigo, mi ha parlato lungamente della sua pluri-decennale amicizia con il compianto general manager pugliese così intensamente che mi ha toccato nel profondo del cuore tanto che ho scritto per lui una  poesia.
È il profumo il fil-rouge della poesia “Campo 11” quel profumo dalle innumerevoli fragranze e note odorose che caratterizzavano l’uomo Enzo che amava piacere e farsi notare sempre ed in ogni situazione.
IN MEMORIA DI ENZO ZAMBETTA
 “Campo 11”
  Acqua di mare menta e  lavanda lì nella terra umida di campo 11 recito una preghiera,
son odorosi i colorati fiori sulla tomba una croce unica e muta mesta e di tempesta vissuta ed infinita ormai per sempre sui tuoi mortal resti nel camposanto umido di lacrime terrene per te piccolo grande uomo gocce di pioggia che striano il viso rugoso di vita,
sandalo e cedro tabacco, ambra e muschio crudo è l’inverno silente, parla di te Enzo, quel piccolo grande uomo che giace solingo al cospetto della luce infinita ed eterna;
tabacco e geranio ancor son profusi nell’etere che sembra ancor parlar d’amore e perdono quello dei morti sotto l’ombra di un umido cipresso;
campo 11 l’ultimo giaciglio dormi in pace anima bella, mentre s’ode il suono di una campana santa tra il pianto ignudo di un canto mortal e sgomento;
le note odorose compagne olfattive di un profumo che nessun vento mai spazzerà è il ricordo di un uomo compianto ed amato,
piango sì piango perle ribelli
son lacrime dolci amare son pietre nel cuore quì nella polvere ove solo il dolor vivente scorre libero nel fievole vociare di coloro che restano su questa amara terra.
Campo 11… odoroso campo 11 è quel che ne resta.@
Inedita@2017 di Crescenza Caradonna
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    “Campo 11″IN MEMORIA DI ENZO ZAMBETTA di Crescenza Caradonna ENZO ZAMBETTA PRESENTA UNA SERATA, OSPITE LUCIO BATTISTI, ALLA LAMPARA di Trani  per l'elezione di Miss PUGLIA nel 1964…
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pangeanews · 5 years ago
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“La sua tomba semplicemente non esiste”. Piccolo discorso sul corpo martoriato, sfinito, scomparso del poeta
Il corpo del poeta equivale al suo corpo poetico – il corpo del poeta va letto con la stessa attenzione con cui si attende alla sua opera. In effetti, il corpo distingue uno stile, richiama un particolare prodigio del verbo.
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Il 4 giugno del 1970, in San Lorenzo fuori le Mura, Carlo Bo poteva dire, sul corpo del poeta, “Giovani della mia generazione in anni oscuri di totale delusione politica e sociale, sarebbero stati pronti a dare la vita per Ungaretti, e cioè per la poesia”. Certo, la morte è per tutti, ma nessuna morte è uguale all’altra; la morte non interrompe nulla, ma alcune morti hanno l’ardire del segno, dello stigma.
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La tomba di Lev Tolstoj, morto in fuga, il 20 novembre 1910 nella stazione di Astàpovo
Pur squarciato, assassinato, il corpo di Pier Paolo Pasolini ebbe assistenza d’amore, il 5 novembre del 1975, l’anno in cui Eugenio Montale fu omaggiato con il Nobel per la letteratura, durante il funerale, a Roma. “Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro”, disse, allora, grave d’emozione, Alberto Moravia, combinando i piani – ciò che conta e ciò che è sacro. A nessuno, molti anni prima, importò del corpo di Dino Campana, il poeta formidabile, relegato in Castelpulci fino alla morte, nel 1932. Fu Piero Bargellini, riconoscendo a quel corpo carati di genio, a lottare, dal 1938, perché “una sistemazione più degna” fosse data al poeta. D’altronde, chi ha curato il corpo di Emanuel Carnevali, nei vent’anni di vita che gli son rimasti, tornato dagli Usa, tra Bazzano, Roma, Bologna, un policlinico e l’altro?
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Mi piace il testamento – pur letterario – di Luigi Pirandello, quasi un micro-racconto, una poetica. “Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui”. Più stringato quello di Giuseppe Verdi – “Che i miei funerali siano modestissimi e siano fatti allo spuntar del giorno o all’Ave Maria di sera senza canti e suoni” – ma qui, più che altro, lo s’intende dal tono retorico, mirabile, siamo nell’ambito delle intenzioni, di chi deve dare ai posteri, ricco di gloria, un’immagine di sé, di – pur autentica – sobrietà.
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Indipendentemente dai desideri degli artisti, i governi hanno tentato di schiacciarli, almeno da cadaveri. “La sepoltura della famosa poetessa Anna Achmatova fu collocata a un livello infimo: nell’obitorio dell’ospedale venne improvvisata una commemorazione sul suo feretro, che poi fu trasportato direttamente al cimitero” (John e Carol Garrard). Era il 1966, e gli ostacoli di Stato animarono l’energia di molti poeti – tra cui Iosif Brodskij e Arsenij Tarkovskij – che decisero di proteggere il corpo morto, memorabile, della Achmatova, “donna dalla vita leggendaria, la cui sfrenata resistenza a ciò che considerava indegno nel suo paese la trasformò non solo in un emblema della letteratura russa, ma della storia russa del XX secolo” (Isaiah Berlin). D’altronde, la morte di Boris Pasternak, accaduta sei anni prima, fu salutata con un trafiletto pubblicato dalla “Literaturnaja Gazeta” (“Si comunica l’avvenuta dipartita dello scrittore Pasternak Boris Leonidovič, membro della mutua degli scrittori, dopo una lunga e grave malattia”), e contenuta nella sua casa a Peredelkino. Dall’Informativa redatta “dal vicedirettore della Sezione cultura del Comitato Centrale del Pcus”, leggiamo che “una delle donne, lì con un bambino in braccio, ha detto ad alta voce: ‘Ma che tipo di scrittore è se si è messo contro il potere sovietico?’”.
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Paul Celan si getta nella Senna il 20 aprile 1970; è ripescato dieci giorni dopo
…poi ci sono i corpi che spariscono, per un crinale di giorni – la prova dell’angelo – e ricompaiono, incrinati e corrotti. Il corpo di Paul Celan vaga, tra il 20 aprile e i primi di maggio, nella Senna – la sua opera prevede il trafugamento, il travisamento delle fattezze. Quattro anni prima, Delmore Schwartz muore in una camera del Chelsea Hotel. Si era fatto fuori da tutto da tempo – bussarono alla sua porta dopo tre giorni. D’altronde, nell’aprile del 1932, nessuno riuscì a prelevare dalla Fossa delle Marianne il corpo di Hart Crane, scomparso a ogni orazione, per il gusto, forse, di una eterna giovinezza. Altri, invece, hanno goduto, da morti, di lauti onori e giusti tributi, dacché “un bel morir tutta la vita honora”.
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Il corpo di Marina Cvetaeva, che penzola in una piccola casa a Elabuga, nel Tatarstan, è l’ultimo giorno di agosto del 1941, è trattato come un rifiuto, come ciò che non dovrebbe esistere, come un accessorio inaccettato. “Fu sepolta in una sorta di fossa comune del cimitero di Elabuga, su una collina, tra alberi di pino. Senza una lapide. La tomba di Marina Cvetaeva non esiste”.
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Nell’anno in cui la Cvetaeva si ammazza, Bruno Schulz è relegato nel ghetto di Drohobyč. Nel 1942 un ufficiale della Gestapo gli spara in testa – per gioco, per vanto, perché quel corpo è nulla, pura parola, se la ripeti al contrario, che differenza fa? Spazzato in una fossa comune, il corpo di Bruno Schulz, leggero e alieno come i suoi racconti, svanisce, inghiottito dalla Storia.
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Il punto oscuro a cui tende il poeta, lo scrittore è proprio quello. La sparizione. Una sparizione sonora, fisica, reale. Defunto all’opera – cioè, compiuto – lo scrittore deve svanire: la tomba è un’offesa, il sacrario un sacrilegio, la lapide una chiacchiera. Se Cristo risorge nella carne – ma con le ferite/feritoie – il poeta in carne scompare. Che fine ha fatto il corpo del “controrivoluzionario” Osip Mandel’stam, che si ostina ancora – refoli agiografici – a recitare Petrarca in russo, a Vladivostok, un nome che appena lo pronunci spalanca crociate nel gelo? “L’unica sua lettera dalla Siberia giunge a Mosca il 13 dicembre, dà notizia, fra l’altro delle sue pessime condizioni di salute… muore il 27 dicembre, si spegne nella baracca che serviva da infermeria, e il suo corpo verrà poi sepolto in una fossa comune, vicino al campo” (Remo Faccani). Era il 1938, ma della sua morte i parenti sapranno qualche anno dopo – scombinare le date della morte, braccate fino al frainteso, all’errore, deviando l’opera pia, anche questo è un segno formidabile.
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Isaak Babel’ muore, fucilato, il 27 gennaio 1940. La moglie, Antonina Nikolaevna Pirožkova, nel 1954, scrive al Procuratore generale dell’Urss “per un eventuale alleggerimento del suo destino futuro”. Lo credeva vivo. Gli aveva scritto – per 14 anni. Chi avrà letto le sue lettere? Qualcuno, pio sconosciuto, avrà risposto alle sue lettere? C’è margine per un romanzo. La verità, invece, dice che “non esistono né documenti né testimonianze sulla morte di Babel’, né sul luogo dove è stato sepolto” (Costantino di Paola). Puf. Sparito. Restiamo noi, a disseppellire quei corpi, a lavarli, a scrostarli dall’orrore, a renderli lucidi, ancora pericolosi. (d.b.)
*In copertina: il corpo di Percy Bysse Shelley viene cremato sulla spiaggia di Viareggio, nel 1822, alla presenza degli amici, tra cui Lord Byron; il quadro che raffigura l’evento è di Louis Edouard Fournier 
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pangeanews · 5 years ago
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“Non faccio che ripetere il tuo nome Irma Irma Irma. Mi sembra di vederti ovunque”. L’amore impossibile tra Eugenio Montale e “Clizia”, Irma Brandeis
Le parole sono fili di ferro che tessono trame di vite sospese, le parole creano realtà che non esistono, le parole confondono, infiammano, straziano, le parole possono essere salvifiche e attraversare un oceano per tenere in vita un istante durato per tutta l’esistenza come quello di Clizia e di Arsenio, ovvero Irma Brandeis, la ragazza di fuoco (brand) e di ghiaccio (eis), giovane ebrea americana poliglotta e studiosa di Dante, ed Eugenio Montale, poeta che con le parole e con i nomignoli affettivi amava giocare. A rendere il «ricordo un pezzo di eternità» quel «Buongiorno, Direttore», l’incipit di un incontro avvenuto tra i due a Firenze presso il Gabinetto Viesseux nell’estate del 1933, che cambierà a entrambi la vita, trasformandola in una storia d’amore irrequieta e sospesa che il poeta dei Limoni renderà eterna con la silloge Le occasioni e con un carteggio di ben centocinquantasei lettere, votando Clizia a musa immortale. Ma chi è veramente Clizia? Valeria Traversi, saggista ed esperta di letteratura italiana del Sei e del Novecento, nel suo romanzo di esordio Io non sono Clizia per i tipi Raffaelli Editore con prefazione di Marco Sonzogni, ha voluto togliere a Irma le vesti di mera musa ispiratrice, restituendola al lettore come «una donna di eccezionale valore umano, un’instancabile e acuta studiosa».
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Irma, venuta a Firenze per studiare la lingua di Dante, si ritrovò tra le mani Ossi di seppia, dono di un amico; come per la più infelice Francesca da Rimini, «il libro» le fu «galeotto» e le aprì «l’ondata della vita» che sapeva di aria profumata di agrumi e riscaldata dal sole, e cominciava così per lei «a dipanarsi il filo che mette nel mezzo di una verità». Inizia l’incantesimo: Clizia, come Alice, scivola nel rabbit hole, la porta delle meraviglie che la conduce lungo Costa San Giorgio, Ponte Vecchio, Palazzo Pitti, San Ruffillo, fino alla veranda della storica Pensione Annalena, accompagnata da Parlez-moi d’amour, cantata dal suo Arsenio. Erano gli anni di «Solaria», delle Giubbe Rosse, del fermento più produttivo degli intellettuali e dei poeti italiani, ma anche gli anni del fascismo e della primavera hitleriana che fanno da basso continuo al romanzo.
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La Traversi ci svela una delle storie d’amore più tormentate del Novecento, che dopo il precipitoso ritorno di Irma in America, a seguito dell’entrata in vigore in Italia delle leggi razziali, fu soprattutto una relazione epistolare diradatasi dopo il 1939: «Non faccio che ripetere il tuo nome Irma Irma Irma. Mi sembra di vederti ovunque e non so se esserne spaventato o rincuorato». A queste parole di Arsenio risponde Irma: «Ho paura della mia fantasia che mi fa vivere spazi e tempi che in realtà non esistono; perché io ho visto veramente una nostra casa, un nostro gatto, i nostri libri e, fuori, Costa San Giorgio». Ma il tempo, scandito dall’attesa delle lettere, simile al «ritmo che il nuotatore deve trovare tra l’apnea e il respiro», dovette deludere Irma. Così nelle Occasioni Montale scriveva: «La speranza di pure rivederti / m’abbandonava; / e mi chiesi se questo che mi chiude / ogni senso di te, schermo d’immagini, / ha i segni della morte o dal passato / è in esso, ma distorto e fatto labile, un tuo barbaglio».
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Il romanzo cerca di popolare l’immedicabile assenza che caratterizzò quella storia, rivelando dietro quel vuoto una pienezza, il delirio di esserci per l’altro, una segreta forma di presenza: «My dear Arsenio, […] sento la tua presenza accanto a me in ogni istante della giornata e mi pare impossibile essere separata da te. Scriverti è l’unica consolazione». Ma quell’assenza per il poeta è linfa, Clizia, «il girasole impazzito di luce», salvezza per lui, il visiting angel, la sua Beatrice, la donna angelo che scende dalle «alte nebulose» a visitare il poeta. Ma Clizia non è Beatrice, venuta «da cielo in terra a miracol mostrare», il suo è un cielo d’«alte nebulose»: «Ti libero la fronte dai ghiaccioli / che raccogliesti traversando l’alte / nebulose, hai le penne lacerate / dai cicloni, ti desti a soprassalti».
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Montale lascia in eredità a Irma la più grande dichiarazione d’amore, una raccolta di poesia dopo un lungo silenzio epistolare e soprattutto questi versi in cui si vaticina un incontro nella dimensione più onirica della poesia, senza tempo né spazio dove passato e presente sono un punto: «Ho tanta fede in te / che durerà […] Ci ritroveremo allora in non so che punto / se ha un senso dire punto dove non è spazio / a discutere qualche verso controverso / del divino poema». La promessa di un ultimo incontro è datata giugno 1981, ancora una volta elusa da un destino avverso. Montale, infatti, muore a settembre, quando Irma aveva deciso di incontrarlo per l’ultima volta a Firenze: «Irma, / you are still my Goddes, my divinity. / Quando, come ci rivedremo? / il tuo Montale».
Anita Piscazzi
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