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“Sole di inverno” di Antonio Machado: la poesia della luce nei giorni freddi. Recensione di Alessandria today
Una riflessione poetica sull’inverno, il tempo e la bellezza della natura.
Una riflessione poetica sull’inverno, il tempo e la bellezza della natura. Antonio Machado, uno dei più grandi poeti spagnoli del XX secolo, ci regala con “Sole di inverno” una lirica delicata e intima che esplora la bellezza della luce invernale e il passare del tempo. La poesia si apre su un parco in una giornata d’inverno, dove la semplicità del paesaggio e le immagini nitide dei rami…
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Oggi è il primo febbraio. In Spagna chiude la caccia e per migliaia di levrieri la vita finisce, miseramente così come era inziata. Le atrocità a cui sono sottoposti per la loro breve vita e infine per la loro morte, sono inaccettabili e tuttavia la cultura spagnola ancora le sostiene. È la tradizione.
In loro onore riportiamo un magnifico e toccante testo di Rafael Narbona, perch�� sappiate, perché rifiutate, perché combattiate.
Los Galgos Ahorcados - I levrieri impiccati
La Spagna è il paese dei levrieri impiccati.
La Spagna è il paese che non apprezza la tenerezza inconcepibile
di un animale che si intreccia con l'aria, disegnando acrobazie impossibili.
La Spagna è il paese degli alberi con i rami assassini,
dove una corda infame spezza una vita leggera come schiuma.
La Spagna è una terra sterile che seppellisce la poesia nel suo grembo morto.
I levrieri sono poeti in agguato nel vento, levigano gli spigoli in silenzio,
scivolando via come un filo d'acqua dal fondo di un fosso.
I levrieri sono poeti che si stagliano alla luna, componendo sagome senza eguali.
I levrieri accavallano le parole, ci saltano sopra, evitano gli accenti, così arroganti e inflessibili.
L'accento è un signore ridicolo che si infila nelle parole come una spina.
I levrieri turbano la sua routine, gettandola al vento, giocandoci finché si stufano.
Così riceve lezioni di umiltà e accetta la sua dolorosa insignificanza.
Le impronte dei levrieri non lasciano traccia. Sono veloci, alati, quasi eterei.
Non influenzati dalla gravità nè dalla durezza della pietra.
I levrieri accelerano la rotazione della terra, quando la follia si impadronisce di loro.
Lo sguardo riesce a malapena a seguire il loro galoppo vertiginoso,
ma grazie alle loro corse percepiamo la musica celeste.
I levrieri prendono in giro l'ortografia tendendo o piegando le orecchie.
Le orecchie di un levriero possono trasformarsi in una X, Y o LL.
Sforzandosi un poco sono in grado di delineare la Ñ o il numero Phi,
il numero aureo in cui è nascosto Dio,
giocando con una serie infinita che lascia con un palmo di naso gli insegnanti.
Gli insegnanti della scuola non capiscono Dio, nè i levrieri.
Dio è un bambino che utilizza i puntini di sospensione per attraversare i fiumi.
Li genera uno ad uno e salta in avanti. Quelli che avanzano, se li tiene in tasca.
I levrieri non sono mai separati da Dio,
perché sanno bene che hanno bisogno di non perdersi sulla strada,
dove si nasconde l'uomo con il forcone in mano.
Ci è stato detto che Dio è un vecchio con la barba bianca e la pelle rugosa,
ma Dio è un bambino malato
che calma il suo dolore accarezzando la testa ossuta di un levriero.
I levrieri vigilano sul mondo, mentre Dio riposa.
Ogni volta che viene commessa una malvagità, lanciano un grido e Dio si sveglia,
ma Dio non può fare nulla,
perché nessuno presta attenzione ad un bambino
che in punta di piedi non raggiunge lo spioncino della porta.
Gli uomini che impiccano i galgos hanno perso la loro anima molto tempo fa.
In realtà, la loro anima è fuggita inorridita quando ha scoperto le loro mani insanguinate.
Gli uomini che impiccano i levrieri nascondono gli occhi dietro gli occhiali scuri,
perché gli occhi li tradiscono.
Basta guardarli per capire che dietro non c'è nulla.
Gli uomini che impiccano i levrieri sono gli stessi che fucilarono García Lorca.
Non gli è importato sradicare dal nostro suolo un poeta
che dormiva tra camelie bianche e piangeva lacrime d'acqua.
Non gli è importato seppellirlo in una tomba senza nome,
con gli occhi aperti e uno sguardo di orrore sul viso.
Gli uomini che impiccano i levrieri parlano a malapena. Non amano le parole.
A loro non piace giustificare le proprie azioni ed esprimere le proprie emozioni.
Lasciano una scia di dolore e paura.
Ridono dei poeti che passano notti insonni
cercando di trovare un verso alla fine di un sonetto.
Ridono degli sciocchi che vogliono un futuro senza bombe o rovine nere.
Ridono delle promesse fatte ai bambini,
delle rassicurazioni sull'eternità che placa la morte e ci impedisce di cadere nell'oblio.
Ogni volta che muore un levriero, un bambino rimane orfano.
I levrieri prestano la luce dei propri occhi ai bambini malati.
Li accompagnano nelle notti di febbre piene di incubi.
Li svegliano dolcemente, parlandogli all'orecchio del giorno che arriva,
con la sua freschezza e la luce rosata dell'alba.
Gli parlano della primavera e dello sbocciare dei fiori.
Parlano delle mattinate torride d'estate, quando il mare è calmo
e il sole sembra una pietra gialla che non smetterà mai di brillare.
Gli dicono che l'inverno si è nascosto dietro un cespuglio e si è addormentato.
I bambini malati sono i bambini che il giovane Rabì scelse
per mostrare al mondo la bellezza nella sua forma più pura.
Il giovane Rabì si presentò di fronte al potere delle tenebre
con un ragazzo paralizzato ed un levriero affamato,
senza ignorare che la compassione è uno strano fiore.
Un fiore che cresce solo su pendii ripidi e in profonde solitudini,
dove le preghiere fremono di paura al pensiero di risuonare in una cantina vuota.
Certe mattine mi alzo presto ed i cani sono già sulla spianata che chiamano piazza,
con la sua triste chiesa dalla facciata imbiancata a calce, e un albero dal tronco nodoso.
Raggruppati per lunghe catene, tutti sono giovani e non sanno cosa li aspetta.
Non sanno che quel giorno diversi di loro resteranno sul campo,
sopraffatti dalla crudeltà umana.
Potrei avvertirli,
ma gli uomini che preparano la loro morte vanno in giro con fucili da caccia e lunghe corde,
ed i loro occhi sembrano braci ardenti di un odio antico.
Gli occhi dei galgos svolazzano come colorate farfalle.
Blu, marrone, viola, forse un debole bagliore d'oro.
Alcuni sono seduti, altri sdraiati, assopiti. Alcuni sono in piedi, altri scomposti.
Alcuni sono così sottili che sembrano quasi levitare.
Alcuni sembrano d'argilla, altri d'argento, altri sono bianchi come l'alba.
Come l'alba che avanza nella piazza e li fa sembrare in movimento.
Si sentono le catene, le grida, le risa.
Via tutti insieme, aggiogati a un destino ingiusto.
Mi sento come Don Chisciotte alla vista dei galeotti,
condannati a spingere un enorme corazzata con un remo:
"Perché fare schiavi coloro che Dio e la natura hanno creato liberi?"
Mi sono seduto su una panchina di pietra e li ho guardati andarsene.
Un levriero bianco, dall'andatura rassegnata, si voltò e mi guardò con umanità,
con gli occhi stanchi e vagamente speranzosi.
Sapevamo entrambi che le nostre vite sono una scintilla,
un momento di chiarezza in un buio infinito,
ma ci siamo sforzati di pensare che ci saremmo rincontrati sotto un altro cielo,
vagando per una sconfinata pianura,
distanti da quel mattino omicida che si sarebbe preso le vite dei più goffi
e di quelli rimasti indietro.
Ci rincontreremo in una mattina di pienezza e splendore, senza tristezza o negligenza,
una mattinata perfetta, libera da paure e lavoro.
Guarderemo indietro, come due vecchi amici che hanno scoperto la gioia di essere altrove.
I suoi occhi nei miei occhi, i suoi sogni nei miei sogni e i nostri battiti all'unisono nel vento.
RAFAEL NARBONA😪
Quanta inutile cattiveria 😡
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Sei stata breve ed intensa come i fiammiferi della terrazza triennale o come la sua vista su Milano che hai voluto vedere ancora un po’ prima di andare via.
Sei la timidezza di tre rose rosa appassite che non volevi accettare come tutti i regali anche quelli che non ti ho mai dato. Sei il profumo da bambina ‘pink sugar’ che forse era l’unico meno forte che avevi. Sei la salsa agrodolce che metti sul pollo fritto,più agro che dolce, dolce quando sei come i tre, ancora tre, baci al caramello che non mangi da sola, anzi che non mangi proprio, il cioccolato è troppo cremoso, meglio se bevi un po’ d’acqua. L’acqua che trovavi in macchina, ma sbaglio o non mancava mai? Sei il Victoria secret che mi rimane addosso e non mi molla per tutto il cazzo del giorno dopo. Se stavo fermo potevo sentirne l’odore. La prima sera dei tentennamenti, scendo o non scendo, c’è qualcosa che non va. ‘’Non ho i vestiti adatti ad un fighetto come te’’. Sei la canzone che hai ascoltato ‘in qualche serie tv’ che cita ‘uno straniero senza casa’ ‘a cui sorridi per coprire il tuo cuore’. Sei la tapas al baccalà che hai mangiato come fosse un gelato. Il ristorante ‘La fortuna’, sì, non so quanto sia stata per te effettivamente una fortuna incontrarmi. Sei il delicato fiore che non so come ho fatto a far rimanere intatto tutto il giorno, sicuramente aveva una forza di volontà e di vivere maggiore della tua. Lo sapevo che qualcosa non andava per il verso giusto, ma non ci ho pensato molto quando ti vedevo sorridere perché avevi fatto partire la macchina e la stavi guidando all’una di notte nel parcheggio di Vaiano. Non ci ho pensato quando nel MC mangiavi da sola e mi guardavi come se volessi stuprarmi. Non ci ho pensato tra i vicoletti del centro storico , o tra un gelato con i cereali e uno alla nocciola. Forse Olly aveva capito che stavi giocando con qualcuno che poteva finalmente renderti una donna e non una ragazzina di 19.Aveva capito tutto e sono sicuro che i giorni dopo sperava che la sera dopocena venissi per una passeggiata. Forse non hai mai capito con chi avevi a che fare. Sei la pioggia che cade, che cade soltanto a Napoli. Milano era asciutta come le mie speranze quando senza neanche degnarti di scendere, ritorno a casa. Sei l’orsetto che non ti ho mandato la sera della spagnola che in realtà a stento ho baciato. Sei la poesia che ti ho letto e non ti ho dedicato. Sei le 3 cose che alla fine non hai fatto. Ecco cosa sei. Con me saresti stata molto di più, ma forse non lo saprai mai.E non credere che ce l’abbia con te. Sono un po’ acido come solo io so fare, ma ti voglio bene e spero riesca anche da sola a fare tutto il possibile per te stessa, perché credo che tu possa fare molto di più di così.
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Opera di Hiroyuki Masuyama.
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Caminante no hay camino. Viandante, non c’è cammino […]. Il verso di Antonio Machado ha lasciato la poesia alla quale apparteneva per andarsene nel mondo, insomma per camminare, a sua volta, lungo quei sentieri dove prende forma, e ritmo, un sapere, o una sapienza, della vita: l’esperienza del cammino non come movimento progressivo verso una meta, né come relazione visibile della partenza con l’arrivo, e neppure come piacere per il tratto già compiuto e ansia per quel che resta da percorrere, ma soltanto come esperienza tutta interiore di una condizione, che è insieme uno stato di sospensione e di conoscenza, e dunque come figura dell’esistenza umana stessa. Il verso appartiene a una poesia della raccolta Campos de Castilla, del 1912, in particolare alla sezione Proverbios y cantares (la poesia è indicata con il numero XXIX). Ecco la poesia in spagnolo, seguita da una mia traduzione in italiano:
Caminante, son tus huellas
el camino, y nada mas;
caminante, no hay camino,
se hace camino al andar.
Al andar se hace camino,
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante, no hay camino,
sino estelas en la mar.
Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
Andando si fa il cammino,
e nel rivolger lo sguardo
ecco il sentiero che mai
si tornerà a rifare.
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare.
“Caminante, non hay camino”. Traducendo, diversi anni fa, ero incerto se rendere quel “caminante” con un’allocuzione: “Tu che sei in cammino, non c’è cammino”. Questo sia per dare rilievo con la voce cammino all’atto stesso del camminare, sia per sottrarre l’immagine alle varie declinazioni romantiche del wanderer, appunto del viandante (ma sul wanderer ci sono le due liriche bellissime di Hölderlin, la seconda rifacimento ampio della prima, versi densi di riverberi e di possibili trasvalutazioni metafisiche, soprattutto nella parte dedicata al tempo del ritorno).
Liberare il cammino, come fa Machado, dalla sua dimensione fisica e visiva, per farne una figura precipua dell’interiorità, è possibile proprio in una cultura come quella spagnola che ha nella sua mitografia due grandi rappresentazioni, sorgenti a loro volta di molte interpretazioni e variazioni filosofiche e narrative: l’hidalgo don Chisciotte della Mancia e il pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Il cammino di Alonso Quijano diventato il Cavaliere dalla triste figura, è, di stazione in stazione, di avventura in avventura, l’affermazione di un’alterità fantastica, ideale, irriducibile alla convenzione, che fa deflagrare il sempreguale, la ripetizione, la concretezza del visibile e del tangibile. In quel grande romanzo non è la direzione verso una meta a generare fantasmagorie, ma il cammino stesso, inteso come tempo e spazio dell’accadere. Quanto all’altro cammino, quello verso Santiago, esso era, prima che il costume e il cosiddetto turismo culturale ne dilatasse e disperdesse il senso, un esercizio che univa il percorso sul sentiero e nel paesaggio con l’itinerario spirituale che portava verso la purificazione: figurazione corporea della medievale cristiana peregrinatio. Paradigma che presiede alla Commedia di Dante, il cui verso d’incipit nomina appunto il cammino: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”.
Del resto, una filigrana di ascesi, un esercizio di distacco dagli affanni del mondo perché lo sguardo possa rivolgersi al teatro della propria interiorità ha a lungo accompagnato la figura del cammino: si pensi alla lettera nella quale Petrarca racconta l’ascensione al monte Ventoux in compagnia del giovane fratello, che è insieme descrizione del cammino e interrogazione di sé (il poeta porta infatti con sé le Confessioni di Agostino, che apre quando giunge in alto). Molteplici sono le connessioni del cammino con la cura di sé o con l’attivazione di un pensare che sia in accordo con il ritmo del passo (quella che Valéry chiama “reciprocità tra la mia andatura e i miei pensieri”): nel mio libro sull’interiorità (Il cielo nascosto) non potevo non dedicare un capitolo alla figura del cammino.
Machado nel verso “Caminante no hay camino” allontana la storia, e le storie, che fioriscono nel tempo e nei luoghi del pellegrinare – il narrare favoloso, dal picaresco al devozionale che nasce proprio nelle soste del viaggio e alimenta il romanzesco occidentale – per dare rilievo a un movimento che è percezione dell’essere in cammino, da sempre e per sempre in cammino, cioè in una condizione che è raffigurabile bene dall’esilio: stato di lontananza anzitutto interiore, di spaesamento e sradicamento, di sospensione e desiderio aperto e incolmato, come quella che sarà nei particolari interrogata da Maria Zambrano (eccoci ancora nella cultura spagnola), o da scrittori dell’esilio come Edmond Jabès. Costui sottrarrà l’erranza sia al rimpianto dell’origine sia alla speranza della meta, per farne invece la soglia di un interrogare incessante: apertura costante della domanda, invece che replica del senso, o quiete di un approdo.
Ricordo che quando per Feltrinelli tradussi di Jabès Le livre de la subversion hors de soupçon (Il libro della sovversione non sospetta) la copertina più appropriata – parlandone anche con l’autore – sembrò la riproduzione di un’opera di Antoni Tàpies, l’artista spagnolo che nella sua ricerca ha dato forma alla cancellazione, colore all’abrasione, segno materico alla mancanza e allo spaesamento (molto bello il dialogo che Tàpies ha intrattenuto a lungo con un suo amico, José Ángel Valente, il quale a sua volta, oltre che poeta di grande tensione immaginativa e speculativa, fu il traduttore spagnolo di Jabès).
A proposito del legame tra il cammino e l’esilio: un bravo interprete musicale di Machado, Joan Manuel Serrat, quando nel 1969 cantò, tra diverse poesie del poeta, i versi di Caminante son tus huellas sopra citati, li unì ad altri versi sull’esilio, in una canzone che comincia:
Todo pasa y todo queda,
Pero lo nuestro es pasar,
Pasar haciendo caminos,
Caminos sobre la mar.
Tutto passa, tutto resta,
ma il nostro è un passare,
un passare battendo sentieri,
sentieri sopra il mare.
Per Serrat dire di Machado e del “caminante” voleva dire pensare all’esilio, a Machado stesso in esilio (il poeta, sostenitore attivo della Repubblica spagnola, dopo la caduta di Barcellona il 26 gennaio del 1939 e la fine dell’esperienza repubblicana, dovette attraversare il confine e andare in terra d’esilio, dove dopo meno di un mese morì).
Potremmo ora sostare un momento sulle huellas, le impronte del verso di apertura, e sulle estelas, le scie del verso di chiusura. Le impronte, nient’altro che le impronte: questo il cammino. Esse dicono il passaggio, ricordano che siamo passaggio, cioè segno che insieme dice quel che è accaduto e annuncia la sparizione di quel che è accaduto. Se di qualcosa le impronte testimoniano, esse testimoniano del transito: esposte al vento della cancellazione, la loro forma è un fragile gioco dell’apparenza, appartengono al mostrarsi e nascondersi della terra. Ma quelle impronte sono le tue impronte. Anche quando sulla sabbia del deserto sono subito cancellate dal vento, esse ti appartengono in quanto già state. Il cammino è questo tuo offrire un segno alla sparizione. Camminare è stare nella bellezza, e nel fuggitivo lampeggiare, della sua apparizione. Delle immagini che nascono da questa consapevolezza, si alimenta la poesia di Machado.
Sulle estelas. Non c’è cammino, soltanto scie sul mare. Anche il mare, come il deserto, più ancora del deserto, si prende il passaggio, lo sottrae alla vista, lo cancella. Ma le scie sono il segno di una presenza: questa presenza è la vita stessa, una scia, una sequenza di scie, che presto si ritrae confondendosi con un’onda più grande. E questo mare che chiude la poesia e che si spalanca dinanzi alla vista interiore – come accade nella più nota poesia leopardiana, L’infinito – invita a spostare lo sguardo verso la lontananza estrema, sul confine tra il visibile e l’invisibile, sull’orizzonte che è oltre il nostro stesso vedere, oltre il nostro cammino.
Dalla soglia del verso “Caminante, no hay camino”, possiamo muovere verso tutta la poesia di Machado, a cominciare da Soledades, seguire il meraviglioso accordo tra il vedere e il sentire, ascoltare le modulazioni pensosamente musicali dei versi, e avvertire come il dolore cerca di salire verso la parola, farsi parola.
Dopo la lettura di Machado, ciascuno porterà con sé qualche verso che, come accadeva per i detti memorabili presso la sapienza antica, gli farà compagnia lungo il cammino. Tra i versi del poeta che da molti anni mi risuonano spesso nella mente ci sono tre versi pronunciati da un “caminante” nella notte: “Está en la luna /el alma de la tierra /y en los luceros claros”. Versi che ho tradotto, un po’ liberamente, così: “È nella luna l’anima della terra /e nel chiarore delle prime stelle”.
Un verso:
Ugo Foscolo. Né più mai toccherò le sacre sponde
Dante. L'amor che move il sole e le altre stelle
Giacomo Leopardi. Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi
Charles Baudelaire. Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva
Francesco Petrarca. Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
Eugenio Montale. Spesso il male di vivere ho incontrato
Stéphane Mallarmé. La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri
John Keats. Una cosa bella è una gioia per sempre
Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest'albero mutilato
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Flor Garduño: magia e poesia in bianco e nero
di Gustavo Millozzi
©Flor Garduño, Autoritratto
-- Non molto tempo fa ho ripubblicato su queste pagine un breve testo che, con un suo "Fotoinish, Amilcare G.Ponchielli aveva dedicato nel 1999 a Flor Garduño e devo ringraziare Claudio Marra che mi ha suggerito l'idea di approfondire la conoscenza di questa fotografa messicana non molto nota in Italia. Salvo poche sporadiche presenze in collettive, ha avuto, per quanto mi consta, una sola mostra personale nel 2006 al Museo di Roma in Trastevere mentre numerose, oltre ai riconoscimenti e presenze in musei e collezioni, sono state quelle esposte in vari Paesi.
Flor Garduño, nata nel 1957 a Città del Messico, quando aveva cinque anni, assieme alla sua famiglia si trasferì in una fattoria a venticinque chilometri dalla capitale: qui trascorse la sua infanzia e adolescenza circondata dalla natura e dagli animali, esperienza che lasciò in lei una fondamentale impronta.
Disegnava molto e voleva diventare una pittrice per cui, all'età 19 anni iniziò i suoi studi alla Esquela Nacional de Artes Plásticos dove, nel 1977, incontrò due persone per lei significative: la fotografa di guerra ungherese Kati Horna (1912-2000), che aveva lavorato a fianco con Robert Capa e l'artista latino-americano Manuel Alvarez Bravo (1902-2002) che diventarono suoi mentori.
Horna è stata determinante nell'aiutare Garduño a esplorare il mondo più vasto che la circondava, principalmente attraverso l'interpretazione di correnti e movimenti come il surrealismo, il femminismo e a riflettere sullo stato sociale così diverso tra le classi messicane. Bravo è stato sua guida per insegnarle l'importanza fondamentale non solo di massimizzare le sue capacità tecniche, iniziando dalla camera oscura, necessarie per migliorare e affinare la sua arte, ma è stato anche determinante per farle capire il significato di essere auto-disciplinata con orientamento scrupoloso, metodico e critico nel lavoro, senza mai arrendersi. Queste impostazioni a lei trasmesse da Horna e da Bravo hanno avuto un impatto profondo e duraturo sulla giovane artista e sulla sua produzione creativa futura.
Tra il 1981 e il 1982 viaggia con una squadra organizzata dalla fotografa Mariana Yampolsky (1925-2002) fotografando i villaggi rurali e le loro comunità in tutto il Messico. Questa esperienza, e quanto acquisito da Kati Horn, hanno influenzato gli scatti di Flor Garduño, quasi sempre di paesi e città di campagna rappresentati in modi strani e misteriosi tipici del surrealismo fotografico messicano del quale fan parte anche Graciela Iturbide (n.1942), pure allieva di Manuel Alvarez Bravo e Lola Alvarez Bravo (1903-1993), figlia del medesimo.
Con queste sue immagini ha pubblicato nel 1985 il suo primo libro "Magie del juego eterno" (Magia dell'eterno gioco) dove, attraverso gli elementi luminosi delle sue fotografie (acqua e albero, terra e aria), porta nel presente gli eterni orizzonti e soli della terra indiana d'America ed il suo tempo che, per i nativi, è allo stesso tempo vasto e minuto, infinito e limitato. E il segreto dell'arte di Flor Garduño è quello di saper penetrare in entrambi i mondi, l'immenso e il minuscolo, l'ora (ed anzi la giusta ora) senza perdere il contatto con il tempo passato, con quello presente e con quello futuro.
Nel suo secondo libro "Bestiarium" del 1987 presenta intense immagini dedicate all'archetipo animale: è un viaggio ossessionante attraverso il mondo messicano della mitologia (che l'autrice dimostra di ben conoscere) in cui figure reali e fantasiose di animali, spesso antropomorfe, prendono vita accanto alla figura umana alla quale sono accomunate; talune di queste fotografie rappresentano una zoologia giocosa che sembra recuperare le esperienze dell'infanzia.
Con "Testigos del tiempo" (Testimoni del tempo) del 1990 ci illustra l'eredità della tradizione indigena e la collaborazione tra terra e persone mostrandosi quale testimone delle storie di tragiche sofferenze contro i popoli e le terre natali, ma senza perdere la continua speranza, convinta dalla forza della bellezza e capacità di recupero di una comunità che resiste alle prove del tempo.
Nel 1994 dà alle stampe il suo quarto libro "Mesteños" frutto di un viaggio compiuto l'anno precedente negli Stati Uniti: questo titolo è la parola che significa in lingua spagnola "senza tetto" o "indomiti" e così erano stati definiti i cavalli selvaggi (e da questa deriverà il termine "mustang" per i cavalli selvaggi delle praterie nordamericane) che rappresenta anche unitamente all'ambiente ed alla vita delle quali essi fanno parte. Sono immagini dove la bellezza e maestosità di questo animale ci vengono restituite attraverso una sintesi di intensi particolari.
"Inner light" (Luce interna) esce nel 2003 e l'anno successivo "Flor": in questi libri la fotografa messicana si allontana dall'architettura e dal paesaggio per esplorare il nudo femminile e la natura morta pur non abbandonando anche su questo terreno il suo inconfondibile "realismo magico". Facendo eco a Manuel Alvarez Bravo e a Tina Modotti, Garduño anche qui evoca antichi miti e rituali indigeni con un tocco surrealista e celebra tutti i suoi soggetti con il gioco sensuale di luci e ombre, dove anche le cose inanimate parlano di una segreta loro vita interiore. Ma è il corpo femminile, i suoi piani e le sue curve, che consacra con sontuosa luminosità: nudi sensuali e simbolici e nature morte creano, legandosi assieme, queste raccolte che sono come un diario del suo personale ed intimo paesaggio. Con questi scatti, tutti eseguiti con luce naturale, ha creato una serie di immagini (realizzate dentro e intorno alle sue due case, in Messico e in Svizzera tra le quali si divide, con il marito fotografo Adriano Heitmann ed i figli Azul ed Olín) che infondono al bianco e nero un magico lirismo.
"Trilogy" edito nel 2011 (è stato stampato anche in Italia da Contrasto) è un compendio di oltre trent'anni di lavoro della nostra fotografa ed è suddiviso in tre parti in quanto oltre ad riprendere immagini da "Bestiarium" presenta altri due temi, "Mujeres fantasticas" e "Naturalezas silenciosas".
"Mujeres fantasticas" (Donne fantastiche) raffigura la donna come una moltiplicità di simboli e intrisa di contrasti chiarosculari che la fanno emergere da una notte di sogni e di enigmatici archetipi dove convive con animali e piante che le offrono vita, vitalità, prigionia o gloria. Una delle operazioni caratteristiche di Flor Garduño è infatti quella di mettere in relazione l'umano, il vegetale, l'animale e il minerale, senza rispettare l'antica divisione tra regni naturali. Troviamo così un'altra chiave per la sua fotografia: in essa si ripetono le stesse presenze, ma con invocazioni diverse; esseri e oggetti che ritornano grazie a scatti fotografici con significati alterati.
Flor Garduño sottolinea altresì l'ambiguità della donna quale creatura intrisa di interpretazioni nell'intento di darci la possibilità di intravedere la sua autentica natura.
"Naturalezas silenciosas" (Nature silenziose) è una raccolta di immagini dove gli oggetti rappresentati, dotati di un'anima calda e sensuale, sono immersi nella magia della cultura messicana e parlano di una vita interiore e segreta. Sono nature morte che emanano una maestosa pace e grandiosità dove la vita rimane, ma solo per un momento, sospesa e dove gli oggetti assumono dimensione erotica. Flor Garduño così precisa “quando penso alle mie nature silenziose, confesso che ho creato queste fotografie per me stessa, per riuscire a mantenere il mio spirito giocoso e fantastico attraverso tutti questi anni”.
Flores Garduño, dipingendo con la luce, non ha mai ceduto alla seduzione del colore, ma ci ha offerto un bianco e nero dove è riuscita a farcelo ad ogni modo percepire con la nostra mente: anche se i suoi neri sono profondi come inchiostro ed i suoi bianchi brillanti come ghiaccio non per questo i grigi non contengono tutte le informazioni e le sensazioni che ci potrebbe dare la tavolozza di un pittore.
Viene definita come un "poeta-fotografo" in quanto le sue potenti immagini di popoli nativi in tutte le Americhe, insieme ai suoi simbolici studi di nudo e alle liriche nature morte, hanno superato la soglia tra il mondo sacro e quello temporale consentendoci di intravedere ciò che Carlos Fuentes definì "il ritratto commovente dell'eternità".
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Una galleria di immagini, opera di Flores Garduño, viene riportata al seguente link: http://immagini.fotopadova.org/post/178671583101/flor-gardu%C3%B1o-poesia-in-bianco-e-nero-di-gustavo
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“Stare nella poesia è un modo per stare al mondo senza essere del mondo”: dialogo con Antonio Prete
Qui, quindi, la poesia diventa cenacolo, celebra l’amicizia, il contatto con i morti, l’esattezza dell’adesso e il modo in cui il verbo puntualizza il divenire in destino. Tutto è sempre ora (Einaudi, 2019) ha certamente la cadenza dell’omaggio (And all is always now canta T.S. Eliot nei “Quartetti”), ma è, per lo più, credo, cifra verbale che è legge, norma poetica: il poeta è quello per cui il tutto è nel frammento (mimo von Balthasar), sul palmo di una mano; è quello per cui è sempre adesso, è sempre l’allerta dell’ora, è sempre il momento culminante, definitivo. “Il transito, la cenere, l’aurora,/ tutto è sempre nel respiro dell’ora”, è il distico che chiude Nel respiro dell’ora. Il poeta ammette, non annuncia, semmai si annienta nell’adesso, dando chiarore al creato, carisma al “tempo che è solco/ di conchiglia e fuga di comete”. Non c’è distanza di sguardo tra l’Antonio Prete studioso di cose letterarie (quello de Il pensiero poetante, Nostalgia. Storia di un sentimento, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità) e il poeta, grammatico della meraviglia: tenerezze, crisi, crismi, sono i medesimi. Così, questa raccolta puntellata di fraternità – da Celan a Wallace Stevens, da Edmond Jabès a Eliot – è nello stesso tempo – per competenza, tensione lirica, ricorrenza di temi – un asteroide del Novecento e un azzeramento, quasi che il secolo fosse un ago (“All’ombra// del menhir la ricordanza è aspra”: torna una parola-emblema, Menhir è la raccolta di Prete edita per Donzelli nel 2007, la ricordanza ci riarma a Leopardi). A poesie elette al vento della Storia (“La ferita ha memoria, e ha sapienza/ pareva dicesse una voce nel celeste/ del mattino domenicale a Harlem”), Prete ne alterna altre, presocratiche, dove si guarda tutto come mai prima, come al primo o all’ultimo giorno (ci sono alberi, cieli, la neve, le creature piccole e “sopra, invisibile, la corsa dei mondi/ lungo sperdute ellissi”), le più belle. E ci sono tante stelle, in questo libro, dappertutto (compresa la prosa Dire la stella), come se si desiderasse un altro cosmo, come se fosse il bene alzare gli occhi, perché, in fondo, poesia è enumerare gli astri, e narrarne l’estro, la storia, l’esito. (d.b.)
Fin dal titolo, l’annuncio di un ‘rapporto’ con i poeti che ama, immagino, che ha studiato, da Eliot a Celan al grande Jabès. Dunque la poesia è anche un contatto, un rapporto incessante con ciò che si è letto?
Sì, proprio come dice, la poesia è contatto – tutti i sensi sono chiamati a raccolta – con la poesia di altri poeti, ed è rapporto con una lingua che ha una storia, ha luoghi vertiginosi, abissi, estensioni estreme del dire e del sentire, del vedere e dell’immaginare. La poesia come amore della lingua. Mi viene in mente un aforisma appunto di Jabès, che certo non è stato un formalista, ma uno che si sporgeva sul tragico dell’epoca: “La poesia ha soltanto un amore: la poesia”. In questo, forse più che negli altri miei libri, è dichiarato il rapporto con i poeti, dico con i grandi nomi della poesia. Le imitazioni e alcuni versi usati come epigrafi sono per dir così la dichiarazione esplicita: una cifra visibile di un rapporto che è fatto, come accade sempre nella poesia, di dialoghi formali, di rispondenze, di riprese, di repliche.
D’altra parte, non mi pare che lei sia stato ‘vampirizzato’ dai poeti che con pazienza incessante studia. Come ha trovato, districandosi dal groviglio delle ‘fonti’, la sua propria voce?
In effetti, qui è il punto. Che è analogo al punto che mi è accaduto di osservare tante volte quando mi sono avventurato nella traduzione della poesia: come trovare nel dialogo un proprio timbro, nell’ascolto un proprio modo di sentire, come approdare a una propria lingua dopo la navigazione nella lingua di altri. Sono convinto che anche nella scrittura poetica a un certo momento accada una sorta di insorgenza quasi miracolosa, i cui passaggi è difficile spiegare e ripercorrere, perché appartengono al profondo del nostro sentire: la vocazione stessa alla poesia nasce dalla lettura della poesia, così la voce – la voce che chiama – diventa col tempo una propria voce. Credo che la familiarità stessa con la poesia a un certo punto chieda di essere come inverata in una sorta di distacco, un distacco che è insieme eredità e cominciamento.
La poesia Compianto è scritta, lo denuncia, dopo il naufragio “del peschereccio che era salpato dal porto libico di Misurata (3 ottobre 2013)”. Le chiedo, allora, come può misurarsi la poesia con la tragedia, senza cadere nel grottesco dell’occasionale, senza imbarbarirsi alla cronaca?
Ripenso spesso a quel che dice Hölderlin : “Quel che accade sia per te un’occasione”, dove occasione ha con sé il senso forte della partecipazione, il sentimento di un’appartenenza all’accadimento che è com-passione. Per questo non penso a un’opposizione tra poesia civile e poesia diciamo lirica o sperimentale: si tratta di formulette che usa chi vuol procedere per classificazioni e schieramenti. Per me il verso è la lingua che ospita l’accadere, e spesso questo accadere appartiene al tempo e allo spazio della propria interiorità, ma può anche venire dalla propria epoca, dal tragico della propria epoca. E il caso dei naufragi nel Mediterraneo è questo tragico.
Ha avuto rapporti particolari, vissuti, con poeti che l’hanno aiutata a precisare la sua poetica?
Ha già citato, all’inizio, Edmond Jabès. La sua frequentazione, la traduzione dei suoi libri, la sua amicizia, hanno avuto una grande importanza per me. Nel modo di porsi – libero, non legato a convenzioni – dinanzi alla parola, al senso, alla tradizione, all’ignoto, Jabès mostrava il legame forte che c’è tra meditazione e scrittura, tra interiorità e invenzione, tra etica e immaginazione. Questo, nella consapevolezza che la scrittura è sempre una scommessa, un azzardo, e coincide con la vita, con le sue pulsioni, con i suoi fantasmi, con le sue contraddizioni. Poeti come Mario Luzi e Yves Bonnefoy mi hanno fatto il dono della loro amicizia: con loro ho avuto incontri, conversazioni, confronti. La lettura e lo studio dei loro scritti, e la condivisione di alcuni loro amori – Leopardi, Baudelaire, tra questi – hanno fatto parte del mio cammino. Ma anche l’aver frequentato, dagli anni Settanta in poi, molti amici poeti italiani, ha certo influito sul mio lavoro. Ma, quanto al definirsi di una poetica, credo che poi agiscano sia le forme in cui le nostre esperienze sono preservate, custodite, rielaborate nella memoria sia i modi con i quali ci disponiamo dinanzi alle grandi domande sull’esistenza e sul cosmo sia infine le relazioni che intratteniamo attraverso i sensi con il visibile e con l’invisibile, con il qui e con l’altrove, con il tempo e la sue fuggitive parvenze. E tutto questo nella lingua, con la lingua, dunque con la materia sonora del dicibile.
Qual è il poeta che ha segnato la sua giovinezza, che le ha imposto lo stigma della poesia?
Fin dall’adolescenza ho letto molti poeti, la maggior parte stranieri in traduzione italiana. La lirica spagnola del Novecento mi coinvolgeva molto, da Jimenez a Machado a Lorca. Leopardi, certo, mi ha accompagnato nella giovinezza, e mi accompagna ancora. Insieme a Baudelaire. Ma della poesia nostra novecentesca è stato forse Ungaretti, più che Montale, a conquistarmi da adolescente. Poi sono sopravvenuti, più avanti, Mallarmé, Rilke, Valéry, Char, Celan. Tradurli, spesso, è stato il modo più bello, e più faticoso, per dialogare, per conoscere la tessitura intima della loro forma.
“Tradurre/ è prestare parola al desiderio,/ non colmare la sua pena”. Qui sembra aver colto in versi il senso della traduzione: è così? Tradurre è desiderio che ricama sulla pena?
Quei versi appartengono alla poesia che ho intitolato Traducendo Louise Labé. Tradurre alcuni sonetti della poetessa lionnese del Cinquecento, petrarchista autrice del breve e folgorante canzoniere d’amore, induce a pensare questa congiunzione tra traduzione e desiderio. Ma l’occasione si può allargare all’atto del tradurre in quanto tale. Si traduce un poeta perché si desidera preservare il respiro della sua poesia, l’essenza del suo dire poetico, in un’altra lingua, ma questo gesto non estingue il desiderio, perché si sa che c’è un nucleo – di vita, di legame tra vita e parola – che la traduzione non può raccogliere.
Che senso ha, ora, ostinarsi alla poesia? Le chiedo, infine, un pensiero sulla poesia italiana contemporanea: le interessa, è interessante?
La poesia stessa è ostinazione. In un mondo che non riconosce la poesia. Stare nella poesia è un modo per stare al mondo senza essere del mondo. La poesia, lo diceva Leopardi, non è mai contemporanea. Non è in sintonia con l’epoca. Vive d’altro, con altro. Questa alterità è l’ostinazione. Quanto alla poesia italiana del nostro tempo, mi piace molto la variabilità delle forme, degli stili, dei rapporti con la tradizione. Il ventaglio del Novecento è sorprendentemente ricco, la sua presenza è forte ancora, e attiva. Quanto all’oggi, credo sia superficiale scommettere su una tendenza o su un’altra, come credo sia solo un esercizio esteriore opporre alla lirica l’antilirica, alla poesia l’antipoesia o la postpoesia.
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“Non passa un giorno che non siamo, per un istante, in paradiso”: Borges, una poesia dissepolta e la conferenza sulla letteratura tedesca all’epoca di Bach
Prima che Jorge Luis Borges ci lasciasse diede un ultimo piccolo lavoro di versi. Oggi irreperibile o quasi: I congiurati. Uscì nel 1985, lo tradusse Mondadori. Lo ascoltate in lingua originale, con tanto di sottotitoli, su YouTube. A me sembra indecoroso non proporre di nuovo una di quelle sue ultime scritture. Già la raccolta si apre con questa maledizione di bellezza: “dalla sommità dei miei anni ho notato che la bellezza, come la felicità, è frequente. Non passa un giorno che non siamo, per un istante, in paradiso”.
Come si fa a non abbracciarlo?
*
Comunque c’è della prosa dentro I congiurati. Questa che vi traduco è fantastica in doppio senso. Per bellezza, valore. E per etimologia, giacché fin dal titolo si presenta come fantaepigrafismo. Eccola:
Frammenti di una tavoletta di argilla decifrata da Edmund Bishop nel 1867
È l’ora senz’ombra. Il dio Melkart veglia sulla precisione del mezzogiorno per il mare di Cartagine. Annibale è la spada di Melkart. I tre quintali di anelli d’oro dei Romani morti in Puglia, sei volte mille, sono arrivati al porto. Quando l’autunno è nei grappoli sarà stato dettato il verso finale. Sia elogiato Baal, Dio dei molti cieli, sia elogiata Tanith, espressione di Baal, i quali diedero la vittoria a Cartagine e che mi fecero ereditare l’ampio idioma punico, il quale sarà la lingua del mondo, i cui caratteri sono talismani. Non morirò in battaglia come i miei figli, i quali furono capitani di battaglia e che non seppellirò, però a notte fonda innalzerò il canto di guerra e di esultanza. Nostro è il mare. Che ne sanno i Romani del mare? Tremino i marmi a Roma; hanno udito il rumore degli elefanti in guerra. Dopo convegni interrotti e parole causidiche, siamo giunti a impugnare la spada.
Tua la spada adesso, Romano; la tieni conficcata in petto. Ho cantato la porpora di Tiro, che è nostra madre. Ho cantato i lavori delle genti che scoprirono l’alfabeto e solcarono i mari. Ho cantato la pira della regina famosa. Ho cantato i remi e gli alberi e le tempeste difficili…
Berna, 1984.
*
A questo punto andiamo a fondo e leggiamo finalmente in italiano una conferenza di Borges su come e perché la letteratura si oblia. Fino a che noi contemporanei non capiamo più chi è chi: se la pira ha bruciato il nostro amore o proprio Didone, se la laminetta passò per le mani di Virgilio prima che Borges si inventasse Edmund Bishop, se insomma non siamo lo stesso sangue della poesia che ferma il secolo facendoti rileggere la parola al verso precedente sul quale sei passato veloce…
Il testo spagnolo sta in Cursos y conferencias del 1953.
Andrea Bianchi
***
La letteratura tedesca nell’età di Bach
Nel famoso saggio di De Quincey sull’omicidio considerato come una delle belle arti, c’è un riferimento a un libro sull’Islanda. Quel libro, scritto da un viaggiatore olandese, contiene un capitolo che è diventato famoso nella letteratura inglese e che è stato menzionato da Chesterton. Si intitola “I serpenti in Islanda” ed è breve al punto che consiste di una sola frase: “Serpenti in Islanda; non ve ne sono”. Il compito che intraprendo oggi è una descrizione della letteratura tedesca nell’età di Bach.
Dopo qualche ricerca, ero tentato di imitare l’autore del libro sull’Islanda e dire: “letteratura tedesca nell’età di Bach; non ve ne era”. Ma una brevità simile mi punge come schifiltosa, una mancanza di educazione. Per di più, sarebbe ingiusto perché coinvolge un’era che produsse molti poemi didascalici che imitavano Pope, così tante favole al modo di La Fontaine, così tante epiche alla stregua di Milton. A questo si aggiungano le società letterarie che fiorirono in modo veramente insolito, e tutte le polemiche lanciate con una passione assente nella letteratura del nostro tempo.
*
Ci sono due criteri diversi per la letteratura. Quello edonistico, del piacere, che è il criterio dei lettori; da questo punto di vista, l’età di Bach fu letterariamente povera. Poi c’è l’altro criterio, quello della storia della letteratura, che è molto più accogliente della letteratura stessa; da questo punto di vista, fu un’epoca importante perché preparò la scena al periodo successivo: l’Illuminismo e poi l’età classica della letteratura tedesca, la più ricca che ci sia stata e una delle più ricche in assoluto: l’età di Goethe, Hölderlin, Novalis, Heine, e molti altri ancora. Questo fenomeno di un periodo povero nella letteratura tedesca non è l’unico Tutti gli storici hanno osservato che tutta la letteratura tedesca non una cosa che si sussegue, ma piuttosto periodica, intermittente. Ci sono state età di splendore e, tra queste, età di nulla (o quasi), di oscurità e di inerzia.
Si sono cercate spiegazioni per questo fenomeno. Per quel che ne so, ve ne sono tre. La prima è politica. Si dice che la Germania, che diventa un campo base per tutti gli eserciti d’Europa, fu periodicamente invasa e distrutta. (Come anche pochi anni fa). E che l’eclisse della letteratura tedesca corrispose a queste distruzioni. Spiegazione buona, ma non credo sia sufficiente.
L’altra è quella degli storici tedeschi. Dicono che i periodi oscuri sono quelli in cui lo spirito tedesco non è riuscito a spiccare il volo perché l’età si dedicava a imitare modelli stranieri. È vero, però vanno osservate due cose. Primo, quando un territorio ha un forte spirito, influenze estranee ed esotiche non lo debilitano, ma lo rafforzano. È il caso del periodo Barocco, l’era precedente a Bach. (In Germania chiamano il Settecento “secolo Barocco”). In quel secolo, brillante in quel paese, predominavano influenze straniere, ma lo spirito tedesco non ne era oppresso perché le assimilava e le adoperava.
Di passaggio vorrei notare – perché specialmente ci interessa – che l’influenza predominante nel Settecento tedesco veniva dalla Spagna. I Sogni di Quevedo si imposero su Michael Moscherosch, il più grande satirico di quel periodo il quale scrisse un libro intitolato Visioni meravigliose e vere. L’autore sostiene che il libro ritragga tutti gli atti del genere umano, i suoi veri colori ipocriti, mendaci, vani. Questo è chiaramente sotto il segno di Quevedo, il quale diede vita al libro tedesco.
Un altro caso, più famoso, è quello di Grimmelhausen il quale conosceva i romanzi picareschi spagnoli, una traduzione frammentaria del Chisciotte e Rinconete e Cortadillo di Cervantes, e una versione tedesca di Guzman di Alfarache di Mateo Aleman, e tentò di applicare le tecniche di queste opere alla storia di un soldato tedesco di nome Simplicissimus nella Guerra dei Trent’anni. Quel progetto fu, chiaramente, un successo. È facile osservare che la novella picaresca spagnola è il limite di questi argomenti. Non si tenta di abbracciare tutte le ricchezze e le miserie della vita quotidiana di Spagna. Si ha da fare, semmai, con scappatelle mordi e fuggi, spesso tra servidorame. Se paragoniamo il Buscon di Quevedo con le ballate dello stesso autore, ripiene come sono di prostitute, ruffiani, assassini e ladri, vediamo che c’è un mondo criminale, di fuorilegge che è davvero più ricco nelle ballate che nel romanzo picaresco.
*
Un’altra differenza tra modello spagnolo e imitazione tedesca: la novella spagnola picaresca era scritta con intento morale e satirico. Al contrario, il libro di Grimmelhausen, specialmente nei primi libri, sembra non aver altro scopo che riflettere, come un vasto specchio, tutta la terribile vita tedesca durante la Guerra dei Trent’anni. In seguito, siccome il libro ebbe successo, l’autore prese ad aggiungere capitoli. In quelli finali capita qualcosa di veramente tipico per la mente tedesca: si scappa dai fatti concreti e ci si volge all’allegoria. L’eroe di tante avventure sanguinarie diventa eremita, prima nella Foresta Nera e poi su un’isola. Il finale, l’eroe sull’isola, è importante per la letteratura tedesca perché prefigura un genere di libri che sarebbe diventato popolare nel diciottesimo secolo, nell’età di Bach. Erano le robinsonate, imitazioni dell’opera di Defoe.
I tedeschi furono proprio spinti da Defoe e produssero infinite imitazioni. Alla fine, erano così entusiasti dell’idea dell’uomo solitario su un’isola che distrussero il pathos dell’idea e presero a scrivere romanzi in cui apparivano simultaneamente trenta o cinquanta Robinson; non erano storie di solitudine o pazienza di un singolo uomo, ma piuttosto di imperi coloniali e utopie politiche.
E torno al problema sollevato all’inizio: che ci sono epoche di sterilità e oscurità che paiono periodiche nella letteratura tedesca. Credo che, oltre alle circostanze politiche e all’influenza di letterature straniere (le quali, contrariamente ai critici patrioti, non sono sempre malevole), vi sia una terza ragione, e mi pare la più importante anche se non esclude le altre e che, forse, è fondamentale. Credo che il motivo dell’oscurità risieda nel carattere tedesco. I tedeschi sono incapaci di agire spontaneamente a hanno sempre bisogno di giustificazione per quello che devono fare. Hanno bisogno di vedersi in terza persona singolare, e per di più vedersi magnificati prima delle loro azioni.
La prova di questo è che per lungo tempo i tedeschi non furono, come sono recentemente diventati, un popolo attivo ma, semmai, una nazione di sognatori. Richiamo il famoso epigramma di Heine dove dice che Dio ha ricompensato i francesi col dominio terreno, gli inglesi col dominio sul mare e i tedeschi col dominio delle nuvole. E richiamo anche una famosa poesia di Hölderlin intitolata Ai tedeschi. Lì il poeta dice ai compatrioti di non irridere il bambino che dà di speroni e di frusta al cavalluccio di legno: povero in azioni e ricco in pensieri. Poi si domanda se l’illuminazione non venga dalle nuvole, o il frutto dorato dalla foglia oscura, e se il silenzio del popolo tedesco non sia la solennità che precede il festival e il tremore che annuncia la presenza di dio.
Oltre agli esempi letterari, credo che possiamo richiamare esempi di politica tedesca. Non so se ricordate che all’inizio della guerra del 1914 un Cancelliere tedesco, Bethmann Hollweg, dovette giustificare il fallimento di onorare il loro impegno alla neutralità. Qualunque politico in ogni parte del mondo si sarebbe inventato un sofisma per difendersi. Al contrario Hollweg, per giustificare l’attacco tedesco, chiaramente sleale, costruì una teoria della lealtà e disse nel suo discorso che non dovevano obbedire a un trattato perché questo non era che un foglio di carta. Cose più esagerate le fece il Nazismo. Non era abbastanza essere crudeli, per i tedeschi; pensavano fosse necessario costruire una teoria precedente alla loro crudeltà, una sua giustificazione come postulato etico.
Credo che questo possa spiegare i periodi oscuri della letteratura tedesca. Sono periodi di preparazione dove lo spirito tedesco sta prendendo una decisione.
*
Ho citato spesso il progetto di Valéry: una storia della letteratura senza nomi che presenti tutti i libri del mondo come se fossero stati scritti da una sola persona, lo spirito universale. Accettiamo l’immagine e vediamo la letteratura tedesca come prodotto del suo spirito. Possiamo supporre che l’età in cui visse Bach, dal 1675 al 1750, corrisponda alla meditazione che si stava preparando per la splendida età di Hölderlin, Lessing, Goethe, Novalis e, più tardi, Heine.
Parlare di Germani in questa era, comunque, può indurre in errore. Pensiamo ora alla Germania come a un paese grande e compatto, ma allora era una serie di piccoli regni, principati, ducati, tutti indipendenti. Stava alla periferia in Europa. A conferma di ciò, e lo sapevano i tedeschi in quel periodo, dobbiamo solo considerare due illustri come Leibniz e Federico II di Prussia. Leibniz scrisse un trattato dove tentava di difendere la lingua tedesca. Spinse i suoi vicini a coltivare il loro linguaggio e disse che questo non sarebbe più stato torpido e nebuloso ma che sarebbe diventato come cristallo, come il francese. Aggiunse qualche considerazione patriottica e poi si dedicò per il resto della sua vita a scrivere in francese. La sua decisione di abbandonare il linguaggio nativo per quello straniero prova quel che pensava veramente. Uomo di curiosità universale, era naturale che fosse interessato allo stile del suo proprio linguaggio ma allo stesso tempo lo sentiva come provinciale.
Un caso più esplicito, quello di Federico il Grande. Diceva spesso che la letteratura buona non poteva uscire dalla Germania. Quando scoprì i Nibelunghi lo ritenne infantile e barbarico. Si sa bene che fondò accademie, che gli individui le frequentavano e scrivevano in francese. Erano letterati francesi rispettati con venerazione provinciale.
Altri esempi di provincialismo: il Dr. Johnson, quando era abbastanza anziano, decise di imparare un nuovo linguaggio per vedere se la sua mente funzionava ancora correttamente. Scelse l’olandese. Non gli capitò di studiare il tedesco, linguaggio tanto oscuro e tanto poco stimato come l’olandese. Torno alle polemiche in voga nel periodo. Tra le altre, quella famosa tra Gottsched e due scrittori svizzeri, Bodmer e Breitinger. Gottsched era scrittore che voleva essere dittatore letterario dell’epoca e pubblicò molti libri a Lipsia, dove visse a lungo. Gli svizzeri avevano tradotto il Paradiso perduto di Milton, uno aveva scritto un poema epico sul Diluvio e l’altro su Noè. Difendevano – in un modo abbastanza interessante – i diritti dell’immaginazione in poesia e fecero infuriare Gottsched, il quale rappresentava il gusto francese e pubblicò un libro intitolato Arte poetica dove difendeva le unità aristoteliche. È curioso paragonare la difesa di Gottsched con quelle scritte in altre parti d’Europa. Si vede bene l’atmosfera provinciale e borghese della Germania, e questo lo notavano pure gli avversari svizzeri. Gottsched disse che le opere devono limitarsi ad unità di azione (devono avere una trama), di spazio (un solo luogo), e di tempo, la quale era sempre stata interpretata come ventiquattro ore. Per Gottsched ventiquattro ore erano troppe per un motivo davvero borghese. Diceva che, al massimo, poteva tollerare dodici ore, ma dovevano essere diurne e non notturne. Poi aggiungeva – senza rendersi conto dell’errore – questo argomento straordinario: le ventiquattro ore non possono contenere le ore notturne perché, spiegava, di notte si deve dormire. Era devoto all’idea borghese che sia sconveniente tirare tardi la notte.
C’era anche un poeta, Günther, altro esempio interessante del periodo. Compare in tutte le storie della letteratura tedesca, i suoi poemi sono senza valore se li leggiamo senza sapere dell’era in cui furono scritti, sono solo buoni se li paragoniamo a quelli di altri poeti del tempo. Leggo alcuni versi del suo poema su Cristo:
Dal di fuori sono tormentato Dalla forte marea della sfortuna; dal di dentro, terrificanti paure e la furia di tutti i peccati. L’unica salvezza, Cristo, è la mia morte e la tua pietà.
Il poeta è importante in quanto poeta del Pietismo, la forma religiosa entro cui visse Bach. Movimento sorto dalla chiesa luterana che si può spiegare così: Lutero aveva preso a difendere la libertà dell’individuo cristiano attaccando l’autorità della Chiesa. In uno dei suoi trattati, La libertà dell’uomo cristiano, mantiene questo paradosso: l’uomo cristiano è maestro di tutti gli uomini e tutte le cose – ed è soggetto a tutti gli uomini e a tutte le cose. Lutero tradusse la Bibbia in tedesco, fondando il tedesco moderno con un primo monumento letterario. E mantenne che la vera forza di ogni uomo sia in se stesso, nella sua propria coscienza e non nell’autorità della Chiesa. Su questa base attaccò la vendita papale delle indulgenze.
C’è una curiosa dottrina papale che difende questa vendita. Si diceva e credeva, ai tempi di Lutero, che Cristo e i martiri abbiano accumulato un numero infinito di meriti, e che questi siano più grandi di quelli che servano agli uomini per salvarsi. Si immaginò che questi meriti superflui dalla vita di Cristo, della Vergine Maria e dai martiri fossero accumulati in paradiso e formassero il thesaurus meritorum. Si credeva anche che il Sommo Pontefice, il Papa, tenesse le chiavi del tesoro celeste e potesse distribuirlo ai fedeli. Chi comprava le indulgenze comprava parte di quei meriti infiniti custoditi in cielo. Lutero attaccò questa credenza, che diceva non aver alcun senso. Disse anche che salvarsi non servivano le azioni, ma solo la fede. Importava che ogni Cristiano dovrebbe credere che può essere salvato, e questo lo salverebbe.
*
Più tardi, quando trionfò, il Luteranismo divenne a sua volta una Chiesa, e in Germania un secondo papato, rigido come il primo. Molti uomini di fede in Germania protestavano contro questa rigidità e questo carattere esclusivamente dogmatico. Volevano tornare a una religione più personale, una comunicazione diretta tra uomo e Dio. Erano i Pietisti. Il più famoso, il loro capo, si chiamava Philipp Jacob Spenser. Prese a raccogliere gente a casa sua, “raduni di pietà”, i loro nemici li chiamarono Pietisti. Quel che successe alla parola “pietista” capita spesso coi soprannomi ostili: sono adottati dalle persone che vengono attaccate. È successo molte volte nella storia: in Inghilterra coi tories, o in Francia coi “cubisti”. La parola cubista era uno scherzo di un critico ostile, quando vide un certo numero di cubi sul dipinto: Qu’est-ce que cela? C’est du cubisme? La parola cubista fu poi adottata dal partito offeso. Spenser aveva vari obiettivi. Uno era formare riunioni per leggere la Bibbia. Un altro – doveva sembrare abbastanza strano – era praticare il Cristianesimo. Quindi ogni Cristiano doveva dr prova di quel che era tramite rettitudine di vita, semplicità di vestire, condotta irreprensibile. Spenser disse che ogni Cristiano dovrebbe ritenersi un sacerdote e prendere parte al governo della Chiesa. Spingeva perché le opinioni eterodosse fossero tollerate e perché i sermoni fossero meno retorici e più intessuti di stile personale. Il movimento pietista poi scomparì con l’arrivo di un secondo movimento, l’Illuminismo, il quale fece arie di sottomette tutto alla ragione. Ma era fondata, in parte, sul precedente.
Tornando al nostro argomento, raggiungiamo questa conclusione, questo fatto: Bach creò la sua musica in un’era che fu povera di letteratura. Povera, nel senso che – e dovremmo tenere a mente la distinzione – se guardiamo ai lavori durevoli lo è, ma non lo è se la consideriamo dal punto di vista dell’attività intellettuale, perché fu periodo di discussioni, polemiche, e incertezze.
Questo legame di grande musica e povera letteratura (quasi senza valore) ci porta a sospettare che ogni età ha solo un’espressione per se medesima, e che quelle età che hanno avuto la loro più piena espressione in un’arte non la trovano in un’altra. Capiamo, poi, che non è un paradosso ma un fatto normale che la grande musica di Johann Sebastian Bach fu contemporanea alla povera letteratura tedesca di quel tempo.
Jorge Luis Borges
* traduzione di Andrea Bianchi che ringrazia Dario, Valeria e il segno dei loro quattro
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Intervista ad Alberto Bevilacqua: “Ti racconto quella volta che portai a casa di mia mamma Charlie Chaplin…”
Se ne è andato prematuramente a 79 anni, nel 2013, dopo una breve malattia. Alberto Bevilacqua nell’attico di Vigna Clara, a Roma, da dove si vede la “città eterna” allungarsi nella maestosità di tetti e dismisure, scriveva tutti i giorni sin dalle prime ore del mattino. Un quartiere, nella zona nord della capitale con molte palazzine residenziali, che è come un piccolo paese, in cui quattro passi bastano alle cerimonie mattutine: comprare i giornali e bere il primo caffè. Mi disse che negli anni Sessanta acquistò la casa, in uno dei punti più alti di Roma, da un americano che aveva ucciso la moglie.
Alberto Bevilacqua aveva la fronte alta, lo sguardo acceso e pungente, in quelle stanze dove alcuni amuleti erano allineati nei tavoli come i quadri d’autore alle pareti. Una scala a chiocciola saliva nel super attico da dove si vedeva, attraversando il lungo balcone costellato di piante grasse, il gasometro che è entrato a far parte dell’archeologia romana.
Eravamo amici, lo avevo invitato più volte a Fabriano, la città dove vivo. Era il presidente onorario del Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano” che ho ideato dieci anni fa (gli conferii l’onorificenza alla carriera nella prima edizione del 2008).
Alberto Bevilacqua è stato un grande narratore, ma anche un poeta di notevole qualità. Si ricordano i romanzi La Califfa (1964); Questa specie d’amore (1966); L’occhio del gatto (1968); Il viaggio misterioso (1972); Il curioso delle donne (1983); La grande Giò (1986); I sensi incantati (1991); GialloParma (1997); Gli anni struggenti (2000); Viaggio al principio del giorno (2001); Parma degli scandali (2004); Lui che ti tradiva (2006). Da segnalare le opere di narrativa Lettera alla madre sulla felicità (1995) e Tu che mi ascolti (2004) incentrate sul tema del rapporto fra madre e figlio, e Il Gengis (2005), romanzo articolato che ha per tema la gestione famelica del potere economico. Vanno citate le raccolte di versi Le poesie (2007) e Duetto per voce sola. Versi dell’immedesimazione (2008); i libri di racconti brevi apparsi sotto il titolo Storie della mia storia (2007) e Eros II (2009); l’ultimo romanzo L’amore stregone (2009) e la raccolta di scritti Roma Califfa (2012), ispirata alle figure ideali della madre e della città. Nel 2010 uscì il Meridiano Mondadori con alcune delle maggiori opere romanzesche.
L’affresco scenico dei luoghi del Po è lo sfondo di un viaggio in ambienti dove si svolgevano i drammi umani, in un regno pullulante di bizzarrie, nell’immenso fondale dei cantori ambulanti. Ha appreso la narratività orale dai cosiddetti Strioni, considerati dei maestri del raccontare. Strioni che si nascondevano nella nebbia, che secondo le dicerie popolari erano i maghi delle leggende, che camminavano nella vastità che scompagina le dune sabbiose del Po. Si muovevano a gruppi festosi. E nei nebbioni questi raccontatori portavano i loro carrozzoni e le loro storie in mezzo ai fuochi dei grandi inverni. Gli Strioni si spostavano dal nord al sud ed “erano tante cose insieme”, scrisse Bevilacqua nel metaracconto Viaggio al principio del giorno edito da Einaudi, in cui alternò prosa e versi: “Mia madre, e la madre di mia madre, amavano gli Strioni, maestri di prodigi, che qui regnarono, e la loro Lingua della Leggera, che qui nacque per espandersi in tanti gerghi e dialetti, e i loro circhi erranti e favolosi, davvero le mille e una notte, tanto che anche il circo di Cent’anni di solitudine, che approda a Macondo, quasi per certo si ispira a uno arrivato da Po in terre colombiane, e chi non ci crede chieda all’autore, che un giorno gli amici portarono fra questi argini, di fronte a queste acque”.
Alberto Bevilacqua mi parlava delle ville lungo il fiume a cui i crepuscoli sui greti davano la trasparenza dei palazzi di cristallo. Lo immagino ancora nell’attico, al piano di sopra, tra le pile di libri e le pagine di vecchi giornali, tra i fogli sparsi e i sigari sul tavolo, confidarmi aneddoti della sua infanzia e adolescenza trascorse in una casa di fiume. Una terra di greti, canneti e pioppeti. Anche il Parmigianino ne aveva fatto parte. Le storie, in Emilia, nascevano da un’arte sottile che poneva la realtà in risalto servendosi di lati insoliti. Il sorriso degli amici contrastava con la solitudine, con la malinconia di quando il ragazzo Alberto tornava a casa da solo. Due facce della stessa medaglia, come la scena e il retroscena. Esiste un’arguzia nativa che Bevilacqua chiamava arlìa, una specie di presa in giro del mondo attraverso alcuni individui. Del resto lo scrittore si è sempre servito della lingua nata dalle strade, del dialetto del fiume Po. Ma non si tratta di dialetti in senso stretto, perché il dialetto di Parma è intessuto di lingue assimilate negli ultimi due secoli (soprattutto la spagnola e la francese).
“Conservo la foto di un sesso femminile. È stato intagliato da Ligabùn, Antonio Ligabue, sul tronco di un pioppo, uno dei più alti di Baccanello Po. Credo che sia ancora là, perché nessuno sa che è di mano di Ligabue. È una di quelle sculture che Ligabue disseminava per i pioppeti nei giorni di moto rampante, come si diceva tra noi”, mi rivelò una volta che andai a trovarlo.
Sul suo primo libro, La polvere sull’erba, pubblicato solo nel 2000 da Einaudi, ammise: “Andò che Leonardo Sciascia, nonostante gli apprezzamenti, non volle pubblicarlo per ragioni di opportunità. Avevo dato il dattiloscritto a mio padre che lo conservò. Alla sua morte mi è stato restituito in un momento per me difficile. La morte di mio padre mi aveva reso cosciente di quanto avesse contato per me. Quel dattiloscritto mi restituiva la giovinezza. Un atto di vita che nasceva dalla morte”.
La figura della madre, Giuseppina detta Lisetta, era un’ossessione. Prese in mano il piccolo motoscafo che gli aveva regalato da bambino, il primo giocattolo.
Alberto Bevilacqua (1934-2013) è stato anche regista. Qui è sul set de ‘La donna delle meraviglie’ (1985)
“Sono nato a Parma. Una città che è sempre stata divisa in due parti separate da un torrente: la parte aristocratica, oggi dei titolari delle imprese e di capitali economici, e quella dove sono nato io, l’Oltretorrente, un quartiere povero ma fantasioso. L’Oltretorrente era di estrazione anarchica, un quartiere formatosi con Maria Luigia d’Austria e altre duchesse che arrivavano da ogni parte d’Europa, ma anche con attori, trovatori di strada. Quegli Strioni che a te piacciono tanto, incantavano gli abitanti dell’Oltretorrente. Li rivedo a gruppi festosi, i Maestri e le Chimere, le ragazze con i costumi che galleggiavano negli azzurri, negli ori, sulle tuniche dove era ricamato l’emblema delle Antiche Venezie. Mia madre era dell’Oltrettorente, come l’Amelia Bacchini, mia nonna, che la sera usciva con una gatta sottobraccio. Una volta andai a spiarla. Parlava con il marito morto, che veniva a trovarla. Mi ha insegnato a leggere, a scrivere. Aveva una pietà fraterna e mi ha introdotto nel mondo della sensitività, della percezione paranormale che in realtà possediamo tutti. Mia nonna aveva avuto diciotto figli. Non si è mai piegata neppure alle avversità più crudeli. I figli sono morti uno ad uno in una successione di gravidanze drammatiche. La gente vedeva i loro volti aggiungersi nel pannello che ne conservava le fotografie. L’Amelia Bacchini diceva di essere una quercia immortale e che nessuno sarebbe riuscito a disamorarla della vita. Si batteva per le sue idee anarchiche e cristiane. Mia madre invece era malata di quella nevrosi della ragione che vuole ordinare tutto. La sottoposero a numerosi elettroshock negli ospedali psichiatrici dove fu ricoverata”.
Gli chiedevo spesso di Lisetta. “Mi è sempre stata vicina, nella sua lontananza. Ma ricordo una camminata per Roma, insieme, partendo dai borghetti dove la gente esce dalle botteghe per salutare. Era venuta a trovarmi. Avevo insistito tanto perché lo facesse. Una volta mi disse che avrebbe preso il treno, che sarebbe venuta. E lo fece viaggiando di notte. Suonò il citofono che spuntava il sole”.
Lisa si accorse di aspettare Alberto quando il suo uomo, Mario, giovane ufficiale dell’aviazione al seguito di Italo Balbo, si perdeva nelle acrobazie. Il padre dello scrittore fece la trasvolata oceanica, quella crociera aerea nel decennale della Marcia su Roma. La madre ha aspettato e difeso il figlio contro ogni tentativo di farla abortire. Le dicevano che il figlio di un fascista è degno della morte. Mentre lavorava lo covava contro la malvagità. E pensava a crearlo.
Da ragazzo, quando la madre scappava di casa, era Alberto che andava a cercarla nelle nebbie, come in un film che maledettamente si ripeteva. La ritrovava tra le discariche e la spazzatura e la riportava a casa.
“Mi ha sempre contagiato e mi ha impedito di diventare padre. Durante la malattia mia madre non riusciva a baciarmi. Aveva il terrore di baciare in un solo modo, con il bacio dei folli. Ho avuto paura di passare ad un figlio lo stesso tormento di mia madre”.
Alberto Bevilacqua è stato anche regista di alcuni film: La Califfa, Questa specie d’amore, Attenti al buffone, Le rose di Danzica, Tango blu, La donna delle meraviglie, GialloParma.
“Esiste un quoziente visionario che non si esaurisce nella pagina. Robbe-Grillet e molti altri narratori europei hanno fatto cinema. La macchina da presa è un mezzo immediato, un modo di raccontare più diretto con le cose e con i personaggi. Ma non ho tratto film dai miei libri, ho solo rivissuto alcuni momenti della mia vita che avevo già affrontato da narratore”.
Alberto Bevilacqua tenne un diario nei giorni in cui girava La Califfa, in cui scrisse di Romy Schneider: “L’ho vista perdersi nella solitudine dei greti. Scrutava i segnali dei livelli lasciati dalle piane. Si lasciò cadere sul bordo di una barca arenata, sommersa dalla sabbia, tra anitre di legno che servono per richiamare gli uccelli di passo e che ingialliscono a mucchi sotto il sole. Era bellissima e inquieta”.
L’attrice è descritta nella “bellezza della pensosità”, uno stare di profilo nella malizia della posa (narrazioni riportate in Viaggio al principio del giorno). Il senso dell’inesprimibile è svelato, come il senso del dolore e della felicità che si incontra naturalmente. Pagine dense, sparse in una veglia della memoria, in un mormorio ineffabile, in una fiamma che acciuffa la bellezza e l’emozione intatte nel tempo. E’ come con un amore che il linguaggio riassume nel pudore, nel rossore, nel gemito radicato in luoghi fisici. La sensorialità di Bevilacqua è un vaso comunicante tra silenzio e leggerezza, intuito, verità, ironia.
Il regalo più grande che fece alla madre, infatuata da Charlot, fu di portarglielo in casa. Charlie Chaplin era arrivato in Italia per visionare alcuni luoghi dove ambientare La Contessa di Hong Kong. I due erano dalla parti di Parma. “Gli feci strada verso casa mia, che si trovava nelle vicinanze. Mia madre mi aveva portato, da piccolo, alle prime comiche, e indicandomi Charlot col bastoncino mi aveva ripetuto che quell’omino era un genio. E ora Charlot saliva le scale di casa. Mia madre rimase lì, a bocca aperta, dapprima senza riconoscere il grande interprete. Era a disagio perché le avevo introdotto in casa un estraneo, senza averla avvertita. Muoveva le mani per aggiustarsi il vestito peggiore, che indossava quando nessuno la vedeva e mi rimproverava con gli occhi. Rimasi in silenzio a seguire i vari movimenti del suo imbarazzo. Charlot le accarezzò una guancia, girò un’occhiata per la cucina, vide il cappello di mio padre, appeso al gancio, e se lo mise in testa. Notò l’ombrello blu che mia madre legava con cura rincasando dalla pioggia e lo afferrò, facendolo volteggiare con l’abilità di un prestigiatore. Improvvisò alcune delle sue mosse. Allora a mia madre fu chiaro. E ritornò in lei la familiarità immediata che sempre ha avuto con le sorprese della vita, sia allegre che drammatiche”.
Riprendo in mano le lettere che mi ha spedito, scritte con un pennarello blu, le foto scattate insieme, i suoi libri, una cinquantina (alcuni rieditati nel tempo), che mi ha firmato con dediche affettuose, le recensioni che ha scritto sui miei romanzi e sulle mie raccolte poetiche. Alberto Bevilacqua è stato tra i maggiori scrittori italiani da cinquant’anni a questa parte. L’ho sempre sostenuto, e molti mi guardavano con sospetto. So perché: vendeva troppo e suscitava invidia.
Alessandro Moscè
L'articolo Intervista ad Alberto Bevilacqua: “Ti racconto quella volta che portai a casa di mia mamma Charlie Chaplin…” proviene da Pangea.
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