#penombra
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Per tutta la sua breve ma intensissima vita, Leopardi non smise mai di pensare al mito, concependolo non soltanto come un modo di manifestarsi della sapienza antica, appartenente all’infanzia del mondo, né solo come una semplice espressione della soggettività volta a esorcizzare il terribile della natura, ma piuttosto come una modalità ontologica di darsi delle cose stesse, potendo sopravvivere solo in un paesaggio in penombra, non abbagliato da alcuna illuminazione diretta.
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Niglio - Penombra
I fratelli Niglio emergono in Penombra, disco d’esordio che celebra i fasti della musica elettronica anni ‘90/’00, dalla 2-step alla drum&bass, integrando e rivisitando elementi della tradizione lucana. Già a partire da Bersagli, brano di apertura della tracklist, i Niglio mettono in chiaro i loro intenti, ovvero dire le cose come stanno: “Non mi fido di chi predica bene / Se lo facessi, non lo…
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IL SENSO DELLA COSCIENZA
Nomadismo di sguardi al sorgere del sole stinti in una sgrammaticata liturgia ove coniugano transiti in declino nell’unione metafisica di consapevolezza. Polveri d’aria, inferriate arrugginite atmosfera commotivata in una struggente deriva ostano l’eternità di ideali caduti nella barca solitaria della penombra. Si fa labile il guaito d’un lupo allontanato dal branco mentre s’allarga il tondo di…
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CARDONA-PINTURA-PAISATGES-CARRER DE LA FIRA-ARQUITECTURA-PERSONES-CARRERS-PENOMBRA-PINTOR-ERNEST DESCALS por Ernest Descals Por Flickr: CARDONA-PINTURA-PAISATGES-CARRER DE LA FIRA-ARQUITECTURA-PERSONES-CARRERS-PENOMBRA-PINTOR-ERNEST DESCALS- Paisajes del Nucli Antic en el pueblo de CARDONA, personas andando por el Carrer de la Fira en un ambiente de penumbra, la estrechez de la calle impide que el sol se introduzca entre las casas formando una atmósfera con poca luz, lugares históricos en los que disfrutar de su antigua arquitectura. Pintura del artista pintor Ernest Descals sobre papel de 50 x 70 centímetros, pintar el movimiento humano en las calles de los pueblos de la comarca del Bages, provincia de Barcelona, Catalunya Central.
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Eclissi di Luna di penombra in data 5 maggio 2023: per gli osservatori italiani, però, sarà poco più di una comparsata: vediamo insieme il perché.
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“ In quarta scoprii il patriottismo: cantando in coro con le mie compagne Le ragazze di Trieste. A casa, papà era fiducioso nella vittoria; la mamma stava in pensiero per i suoi fratelli (anche zio dottore era al fronte), e per tutti i soldati. Si raccomandava a papà perché ottenesse «l’esonero» per quelli che erano padri di famiglia (loro dicevano «il zónero»). Il patriottismo era una cosa dei signori. In paese cantavano il famoso «se vuoi veder Trieste – la guardi in cartolina» e io ne soffrivo un po’. Ma Ciota andava piú in là. Cantava con aria cupa e vendicativa: e quei signori che han gridato viva la guerra or che hanno un figlio sotto terra viva la guerra non gridan piú. Capivo che non si poteva contrapporre a quel «sottoterra» le «ragazze di Trieste». “
Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Einaudi, 1964¹; p. 155.
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Cespugli sempreverdi per zone all'ombra
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Ho voglia di darti un bacio sul collo, quello appena dietro l'orecchio, quello possibile solo dopo aver spostato una ciocca di capelli con le dita, in penombra, delicatamente, sfiorando appena la pelle... ♠️🔥
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(...) Se tu mi ami, io amerò te. (...) Che lungo abbraccio io ti darei nella penombra delle mie spine!
Federico Garcia Lorca
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Mi hai mostrato il Tuo lato oscuro ed io... l'ho stretto nel buio della notte.
La luce attrae tutti...la penombra è per i pochi che ne sanno cogliere l'essenza.
⛓️🐺🖤⛓️
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Eccomi qui...
Vengo a consumarti la bocca
e a trascinarti per i capelli
in un'aurora di conchiglie.
Perché voglio, e perché posso.
Penombra di seta rossa.
Federico García Lorca
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Sento, ma non odo.
Ascolto, non parole ma battiti di cuore e brividi sulla pelle. Ho freddo. Chiudo gli occhi, mi stringo nelle spalle e trovo il calore del tuo abbraccio. Sorseggio un caffè. Sulle labbra, ancora il ricordo dei tuoi baci. Cala il sole, si fa sera. Penombra. Sorrido. Ti vedo mentre mi accarezzi con un dito il contorno del volto.
Sento, ma non odo.
Il tuo odore, la tua pelle, le tue mani... Sei qui, sei con me, anche quando non ci sei, in un pomeriggio qualsiasi, in una domenica malinconica come tante.
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“ Il mio grande amico, quand’ero piccola, fu il mio cane Murò. Murò era un «setter laverac focato», come diceva papà con compiacimento. Era figlio di Maura, la cagna del veterinario. Murò era dolce e discreto, paziente nei giochi come papà stesso. La sua fronte pensierosa esprimeva lo sforzo costante di comprendere, di prevenire. In molte fotografie Murò appare come il mio custode. In una è accanto a me, nell’orto, seduto sulle zampe di dietro, il collo eretto; è fiero, consapevole della sua dignità. C’è una somiglianza tra il cane e la bambina. Entrambi hanno sulla fronte – rigida e scura quella di lui, bianca e convessa quella della bambina – un leggero corrugamento, un’ombra di malinconia. Ma l’occhio di Murò è fisso, intrepido ed ingenuo come quello di una recluta, mentre gli occhi della bambina sembrano rivolti a considerar qualcosa di lontano e preoccupante. Anche Murò era stato, come tutti, giovane e gaglioffo. Una volta mangiò tutti i «tomini» che uno di Boves aveva portato. I cacciatori prima cosa dicevano di lui: – Questo è il cane a cui piacciono i tomini di Boves! Si prendevano questa confidenza, ma sapevano bene come Murò fosse prezioso alla caccia, e avevano per lui grande considerazione: ne parlavano con quella gravità affettuosa che osservavo nei cacciatori quando lodavano i loro cani.
Sovente la mamma ed io seguivamo papà e Murò a caccia, specie agli uccelli, lungo il Cant. Per quel genere inferiore di caccia il cane era d’impaccio e io dovevo trattenere Murò. In quei momenti Murò non era certo dolce, ma diventava anche piú bello. Dava strattoni, tendeva la testa selvaggiamente, attirato da un richiamo che pareva farlo uscire di sé. Io lo stringevo attorno al collo con le mie braccia di bambina, mi appendevo al suo collare. Quante volte Murò mi trascinò tra gli sterpi ed i sassi, di peso: gemendo lui di desiderio, io di impotenza. Dopo, mentre lui ansava trafelato, lo abbracciavo con tenerezza e gli toglievo a una a una le lappole e le pagliuzze. Diventò vecchio e negli ultimi tempi era sordo e quasi cieco. Urtava nelle gambe dei tavoli, camminava a testa bassa, chiuso in sé e avvilito. Papà disse che l’avrebbe mandato per un certo tempo presso un allevatore dove l’avrebbero curato. Fui distratta da altre cose? Ho potuto sorvolare su quella perdita? Siccome non ricordo il momento in cui dovetti capire che non avrei piú rivisto Murò; peggio, che qualcuno doveva averlo finito. (È possibile che l’abbia dimenticato proprio perché ne soffersi molto; che abbia voluto fuggire quel pensiero). “
Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Einaudi, 1964¹; pp. 108-109.
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Felci Adiantum
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