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"Mani pulite" di José Saramago: una riflessione poetica sulla moralità e il progresso. Recensione di Alessandria today
La denuncia di un progresso ambiguo, tra innovazione e distruzione La poesia “Mani pulite” di José Saramago, Premio Nobel per la Letteratura, affronta con sferzante ironia e profondità filosofica il tema del progresso tecnologico e del suo impatto sull’etica umana. In pochi, incisivi versi, Saramago evidenzia il paradosso di una società che, pur avendo sviluppato strumenti sofisticati per…
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Il paradosso di Simpson è la certezza di Burns.
Come nel migliore dei gialli tutto è collegato, alla fine è stato il maggiordomo gay. Trascurando alcune variabili o dimenticandosi antefatti abbiamo sia il paradosso di Simpson ma anche la certezza di Burns.
Il lavoratore pigro analfabeta funzionale cade nel paradosso, l’oligarca finanziere invece vende certezza con la © maiuscola. Il consumatore finale è la domanda stupida mentre il capitale è l’offerta che non puoi rifiutare. La legge di Say o la legge di Lynch sono le opzioni.
Se stai dalla parte giusta puoi usare il termine paradosso avendo tutta la Ragione perché l’offerta crea la sua domanda, se stai dalla parte sbagliata il tuo paradosso diventa inevitabilmente gogna perché il linciaggio deve diventare generalizzazione specista e classista.
Alcune compagnie ferroviarie intuirono alla fine dell’800 che sarebbe stato importantissimo suggestionare ed influenzare la società per creare i presupposti migliori per i loro affari. Nulla di nuovo, il serpente fece propaganda sulla mela ben prima del Far West.
La mela non aveva effetti avversi, del resto il serpente sul bastone d’Esculapio è una garanzia anche in tempi recentissimi. Poi tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi, per questo quando il bufalo sei tu puoi benissimo scartare di lato ma devi cadere per forza. Ma decide non solo la sorte del bufalo, ma anche l’avvenire dei tuoi baffi e il tuo mestiere. La propaganda descritta meravigliosamente in una canzone. Decide non solo chi cade, ma anche coloro che devono cambiare e cosa debbano fare della loro esistenza. Aggiungendo un serpente e un paio d’ali il bastone medico deve cambiare in un caduceo dedicato ai commercianti e al tintinnar di moneta. Non dimenticare mai che il progresso tecnico è irreversibile, togliere dunque la vipera e le ali non è contemplato dalla dottrina.
Pensate a Marshall e al suo piano, leggete poi gli scritti economici dell’autore, solo così potrete toccare le pareti del labirinto. Metodi che si ripetono, anche per il PNRR dovrete pagare il fio, l’avvenire dei baffi e del mestiere è già scritto.
Cosa dovete cambiare lo vedete quotidianamente, la propaganda batte dove il dente è da levare, se non duole lo faranno dolere. È tutto talmente ovvio, la borghesia unilateralmente pensatrice di Clisterflix è ossessionata dal controllo, esattamente come tutte le borghesie. Loro non vedono i paradossi ma solo le certezze. I patriarchi delle scienze economiche, della psicologia, della finanza, della medicina hanno deciso per loro. Il pensiero è infibulato da Burns e soci, ma a pagarne le spese sarà sempre e solo Homer. Patriarchi annoiati da tutto, li divertono solo alcuni giochi di società proiettati su scala globale. Un giorno giocano a Monopoli con le vostre finanze, un altro a Risiko con le vostre vite.
Se non vedi i dadi sei una pedina, questa è la certezza del paradosso.
-Fabio Bulla
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Ho sempre creduto che esista un enorme fraintendimento di fondo nella storia politica europea, la cui natura torna ad emergere periodicamente e si cristallizza in paradossi apparentemente inspiegabili, ad esempio la massa di poveri (classi subalterne, come dice Gad Lerner agitando Gramsci) che vota un partito a tutti gli effetti borghese e padronale come la Lega. Il fraintendimento comincia con la radice di tutti i mali del nostro tempo, cioè l’Illuminismo, e si manifesta nell’alleanza anti-aristocratica fra borghesia e popolo. Borghesia e popolo rappresentano, ontologicamente, valori inconciliabili. La borghesia è individualista, il popolo collettivista. La borghesia è urbana, il popolo rurale. La borghesia è laica, il popolo religioso. La borghesia coltiva l’istruzione, il popolo la saggezza. La borghesia si fida della scienza, il popolo ne diffida. La borghesia crede nel progresso, il popolo nell’immutabilità del mondo. La borghesia governa con la legge, il popolo con la giustizia. La borghesia produce, il popolo distribuisce quello che c’è. La borghesia si colloca in cima alla piramide di astrazione identitaria (prima la nazione, ora l’Europa), il popolo sta alla base (prima la comunità regionale, ora la nazione).
La storia politica europea degli ultimi tre secoli è una storia di inganno della borghesia ai danni del popolo. Di sfruttamento delle energie popolari, economiche e militari, a fini borghesi. La tragedia è che gli straccioni di Parigi avevano molto più in comune con i ribelli della Vandea che con gli enciclopedisti: eppure hanno combattuto su posizioni opposte. Marx e il socialismo scientifico costruiscono sul paradosso, e sanciscono così la sconfitta perpetua di tutte le istanze comuniste. Il tentativo di trapiantare nel corpo del popolo i valori progressisti della borghesia - cui Marx rivolge gli occhi a cuoricino nel primo capitolo del Manifesto - crea i mostri del socialismo reale, l’orrore dell’homo sovieticus vagheggiato dagli scienziati di Cuore di Cane.
E quindi, oggi, la coltre di fumo non si può più diradare. Il popolo rimane sempre il popolo. Sospetta sempre, e a ragione, degli ingegneri, dei medici, dei professori, dei burocrati. Il popolo conosce una verità più profonda, ma al suo posto hanno sempre parlato i traditori. Il popolo è di Destra, ma di una Destra che non è mai esistita davvero. Una Destra comunista e credente, identitaria eppure umanitaria. Ha abbandonato la sinistra degli attici e dell’UE per affidarsi alla destra delle fabbriche e dei padroni locali. Ugualmente ingannato, in attesa inconsapevole di quel crollo universale della modernità, accelerata fino allo schianto, che cancellerà le lettere della menzogna dalla storia.
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Annunciate le #nominations ai Critics' Choice Documentary Awards 2021 @CriticsChoice. I documentari che hanno conquistato il maggior numero di candidature sono: #Ascension (MTV Documentary Films) Il doc che esamina il "sogno cinese" contemporaneo attraverso osservazioni sbalorditive sul legame tra lavoro, consumismo e ricchezza. Nell'esplorare cinematograficamente l'aspirazione che guida l'odierna Repubblica Popolare Cinese, il film si tuffa nei paradossi universali del progresso economico. #BecomingCousteau (Picturehouse/National Geographic Documentary Films) Avventuriero, regista, inventore, autore e ambientalista: per oltre quattro decenni, Jacques-Yves Cousteau e le sue esplorazioni sotto l'oceano sono diventate sinonimo di amore per la scienza e il mondo naturale. Quando ha imparato a proteggere l'ambiente, ha portato con sé il mondo intero, lanciando allarmi più di 50 anni fa sul riscaldamento dei mari e sulla vulnerabilità del nostro pianeta. #TheRescue (National Geographic Documentary Films) Il doc racconta la storia avvincente e incredibile che ha trafitto il mondo nel 2018: l'audace salvataggio di dodici ragazzi e del loro allenatore dal profondo di una grotta allagata nel nord della Thailandia. #SummerofSoul (...Or, When the Revolution Could Not Be Televised) (Searchlight Pictures/Hulu) "Più che un semplice documentario Summer of soul è la tardiva riparazione a una storica ingiustizia. Nel 1969, distribuito in sei weekend, andò in scena a New York l'Harlem Cultural Festival, un evento fondante per tutta la black culture degli anni a venire cui presero parte, tra gli altri, Stevie Wonder, Nina Simone, Gladys Knight, Sly & Family Stone, Mahalia Jackson, The 5th Dimension, Chuck Johnson e tanti altri" #Val (Amazon Studios) "Il film segue la vita e la carriera dell'attore Val Kilmer. È stato realizzato grazie a centinaia di ore di video che Kilmer ha accumulato nel corso di 40 anni, passando da filmati amatoriali in Super 8 e 16 millimetri a riprese in VHS e digitale. Il documentario immortala con uno sguardo intimo e toccante la vita personale e il percorso di Kilmer attraverso il cinema, la sua giovinezza, la perdita dell'amato fratello Wesley a https://www.instagram.com/p/CVM2eqTMV-u/?utm_medium=tumblr
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Rileggiamo Thomas Carlyle, il pensatore antimoderno che aveva il culto degli eroi (e preferiva Maometto a Bentham)
Thomas Carlyle (1795-1891) andrebbe letto a prescindere: il suo libro assurdo, alla Sterne ma senza quel pacato umorismo protestante, è Sartor Resartus del quale esiste una recente traduzione italiana per Liberilibri (2009). Se poi aggiungiamo del pepe, scopriamo che Borges vi appose una nota, o meglio vi sparse del disinfestante, quando ne uscì l’edizione argentina. Correva l’anno 1945 e ancora non si sapeva benissimo che Carlyle era stato plagiato dai tedeschi dell’ultima guerra: sciagurati fino in fondo.
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Di che parla Carlyle in Sartor? Il libro uscì tra 1833 e 1834 e il pretesto dell’azione narrata è la discussione delle mode, in particolare l’abbigliamento e come questo riveli moltissimo dei corpi che riveste. In realtà si tratta di una deliziosa presa per i fondelli della cultura tedesca che comunque Carlyle conosceva benissimo. Cultura tedesca, in quel giro d’anni, era sinonimo di patriottismo, senso di patria, bello, sublime e via così. Carlyle organizza tutto ciò e lo riplasma in lingua inglese, più agile e sfuggente della tedesca originaria. Classico esempio di ricreazione da una lingua all’altra e, stavo per dire, di passaggio di consegne. Perché la Germania, subite le batoste reazionarie dopo i moti del’48, si arrende allo sviluppo scientifico, industriale, al cannone e al baffo di Bismarck: queste cose Carlyle in parte le accoglierà, in larga misura le rifiuterà. In questo senso l’Inghilterra pragmatica gli fornirà fino alla fine il parterre, il piedistallo per spiegare al pubblico isolano che succede altrove, quali ne sono le scaturigini.
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Per Carlyle sta tutto qui, negli eroi, nelle figure singole che danno la svolte giuste alla storia. Da storico e conferenziere di età vittoriana, ma soprattutto come ribelle e vero scozzese, Carlyle dopo Sartor si lascia andare negli Eroi, elogiando in serie l’eroe come divinità cioè Odino, a seguire l’eroe inteso per profeta (Maometto) e, senti un po’, poeta (Dante e Shakespeare). Infine, Carlyle descrive gli eroi che furono sacerdoti (Lutero e Knox), scrittori (Johnson, Rousseau e Burns) e sovrani (Cromwell e Napoleone). Davanti a un pubblico eterogeneo com’è sempre quello delle conferenze, Carlyle spara certamente qualche broccolo decisamente scorretto sul piano politico. Ad esempio: “Qual è il fine principale dell’uomo, quaggiù? Maometto non prende il bene e il male come fanno un Bentham e un Paley, né calcola i profitti e le perdite e la somma finale di piacere dell’uno e dell’altro; né, fatti tutti i conti a base di addizioni e sottrazioni per ottenere un risultato netto, vi chiede se, in complesso, il bene non superi di gran lunga il male. No, non è che sia meglio fare questo piuttosto che quello – questo sta a quello come la vita sta alla morte, come il cielo sta all’inferno. Se mi chiedeste quale dottrina preferisca tra quella utilitarista degli economisti di Bentham e quella di Maometto, tra calcolare la virtù con profitti e perdite riducendo l’universo creato da Dio a una macchina a vapore bruta mentre la divina anima dell’uomo diventa un bilancino per pesare fieno e cardi, piaceri e dolori – se mi chiedeste quale di queste due dottrine dia l’immagine più meschina e più falsa dell’uomo e del suo destino quaggiù, vi rispondo – non certo quella di Maometto!”
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Carlyle teneva questo ciclo di conferenze sugli eroi nella storia a Londra, nel 1840, viveva a Chelsea che allora non era la zona elegante conosciuta dalla giovane Woolf a spasso nei suoi appunti giovanilistici su Casa Carlyle – il nostro scozzese abitava invece in un sobborgo che era il quartierino dove si rifugiavano teorici, pugnalatori e italiani come Mazzini, ospite proprio nel 1840 a casa Carlyle. Ora immaginate il patatrac, o, detto in gergo colto, l’eterogenesi dei fini.
Insomma, ebbe il demerito di scrivere contro il progresso in senso astratto (in buona compagnia con Leopardi, Dostoevskij, e altri da aggiungere a piacere) compose per soprammercato un volumetto su Federico di Prussia. Disgraziatamente, quel citrullo di Goebbels annotò nei suoi diari che il baffetto-impotente-conduttore-dei-tedeschi teneva nel bunker proprio questo libro di Carlyle. Apriti cielo, quando furono pubblicati per la prima volta i diari di Goebbels dal grande storico inglese Trevelyan si scatenò la caccia al colpevole, all’ideologo. Si andò per le spicce e da dal 1978, dalla pubblicazione dei diari di Goebbels, Carlyle rientra a titolo ingiustificato nelle schiere dei fomentatori di disgrazia e di odio.
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In realtà Trevelyan fu storico ben attrezzato, scrisse storie di MI6 che diedero fastidio in alto loco al punto che ne fu impedita la ristampa (molto brit). E vedeva lontano, scrisse netto che la diceria di Goebbels sul nesso Hitler-Carlyle non stava in piedi.
Del resto spulciando tra le lettere di Trevelyan ne trovo una che fa al caso nostro. Ecco cosa scriveva all’allievo Alasdair Palmer il 14 agosto 1988: “In generale non sono un amante di Wagner. Ma ogni cinque anni faccio lo sforzo di andare con mia moglie Xandra a Bayreuth, riconoscendo che Wagner, come Carlyle e Hugo e altri, era certo un mostro ma soprattutto un uomo di genio – e che l’arte e lo studio non vanno giudicate sulla base del loro autore, né dalle ricadute pratiche che in seguito scaturiscono da questi autori quasi per via paterna (soprattutto per Wagner)”
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A ben vedere, anche Borges calcò la mano scrivendo la premessa all’edizione argentina degli Eroi (1949): “Carlyle giustificò Bismarck, venerò e forse inventò la Razza Germanica e per lui un ebreo torturato è preferibile a un ebreo milionario”. Buona notte, chi s’è visto s’è visto… Borges agita spauracchi dalla pampa di un mondo riverso, per una volta va accettato che ha avuto delle potenti allucinazioni giacché il libro di Carlyle contiene, a leggerlo bene, tutt’altro. L’ultima edizione italiana è di un anno fa.
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A onor del vero, a proposito di tradizione tedesca, va smentita la bufala di Hitler lettore di Carlyle. Se anche il libro su Federico di Prussia fece mai la sua comparsata nel bunker di Berlino, tenete a mente due fatti. Uno, che il libro sia presente in una biblioteca non significa che il proprietario l’abbia letto: avvertimento che vale per i lettori colti come per quelli spuri. Due, i libri veramente letti vengono vivificati e portati in scena da chi è alla loro altezza e nel caso di Federico di Prussia, il vero interprete di Carlyle fu Karl Goerdeler (1884-1945), sindaco di Lipsia e audace direttore del cenacolo di Kreisau dove si cospirò contro la tana del lupo. Prima di venire giustiziato, Goerderler scrisse questa preghiera: “Non sarà forse possibile che col nostro nazionalismo arbitrario abbiamo proprio fatto un affronto a Dio e messo in atto l’idolatria? Sì, in questo caso i fatti che continuano ad accadere avrebbero un significato”.
Il vero significato di Carlyle l’ha capito meglio l’ispirato Goerdeler di tutti gli sciagurati che agitano i fantasmini dei libri da bandire e dismettere, sciocchini tuti rivolti a conservare lo stato presente, senza rimetterci le loro unghie pulitine, mai dediti a scavare nel fango dei testi vecchi come Carlyle.
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Bel lavoro, aver adottato il bilancino economico di Bentham e aver scordato il resto del mondo, mettendo tra parentesi Carlyle, l’Oriente e chi abbia fede diversa dal paradiso in terra dei calvinisti, quello fatto di grazia e denaro – così ci si fodera gli occhi e i libri restano più muti di quanto già non siano.
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È inutile dare dettagli ulteriori sulla vita di Carlyle, come quella vicenda bizzarrissima dove si trovò schierato con Dickens, Tennyson e Ruskin a sostenere la dura repressione degli insorti giamaicani da parte del governo inglese, mentre dall’altra parte della barricata stavano con mazzolin di fiori Darwin, Herbert Spencer e Huxley senior – correva l’anno 1865. Basta tener fermo che la Storia della Rivoluzione francese di Carlyle (1837) diede da pensare e scrivere Dickens ne Il racconto di due città (1859) e a Twain, sempre oscillante nei suoi paradossi democratici.
In seguito, mentre gli omini americani imbrigliavano le cascate del Niagara, Carlyle se ne venne fuori con un libello opportunamente stampato anonimo: Superate le cascate del Niagara – e dopo? Il nostro esordisce con un rutto o una cannonata: “Al posto della democrazia – che per esser completa arriverà a grattare il fondo – e delle religioni – le quali nell’arco di cinquant’anni saranno svaporate davanti alle libertà di coscienza, opinione e progresso – al posto di queste vi sarà il Libero Commercio, in tutti i sensi e in tutte le estensioni: Commercio libero e illimitato che porterà alla rimozione dei limiti di velocità per arrivare tutti un po’ più in basso a comprar solo cianfrusaglie economiche e brutte – e toccherà fare questo percorso sensazionale all’ingi�� non solo verso i generi di consumo ma pure riguardo quanto vi è di temporale, spirituale ed eterno, il quale sarà scagliato generosamente all’aria e allargato come le porte dell’universo, così che ognuno incominci ad andarsene, libero e di testa sua, in ogni direzione, sotto il vessillo luminoso del voto universale, compiendo rapidamente il suo tragitto. Se poi qualcuno non sarà in grado di svolgere questo suo compitino, lo si eleggerà per un incarico apposito”.
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Un’altra opera ghiotta di Carlyle è la sua storia strampalata sui Re di Norvegia (1875) che potete ascoltare a questo indirizzo. Ma in definitiva, siccome scrisse una valanga di carta, per afferrarlo è meglio affidarsi alle sue lettere private, messe a disposizione sul sito della Edinburgh University. Qui sotto ve ne traduco una.
Andrea Bianchi
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Thomas Carlyle da Edimburgo (dove faceva finta di studiare) al fratello Alexander, mercoledì notte, 4 dicembre 1882:
Questo nostro pianeta non ha nulla che valga la metà dell’affetto che gli amici portano l’un l’altro – quel genere di sentimento, quelle simpatie vicendevoli, gli incoraggiamenti da cuore a cuore che conferiscono dignità e dolcezza a chi sta tra i più umili, e senza queste sensazioni, anche se riusciamo a durare, non saremmo che splendidi deserti. Ti prego ancora una volta di rallegrarti con me per questa gioia e di impegnarti a raffinarla – accrescere il benessere di chi ci sta a cuore – contraccambiare la sua generosità tentando all’infinito di dare spazio ai suoi migliori interessi in questo mondo e nell’altro. (…)
Il mio unico consiglio riguardo ai tuoi studi è che quando leggi dovresti provare, in aggiunta, un minimo di dolore nel riflettere; e quando scrivi non dovresti rimaner sospettoso verso quel che ti sforzi di esprimere, soprattutto nelle lettere dovresti mettere giù tutti i tuoi pensieri, caldi e vividi come si presentano davanti alla tua fantasia. Così acquisteranno vigore mentre prima tentavano di apparire eleganti: inoltre quando scrivi agli amici non devi sempre risultare interessante, magari devi pure mostrarti stupido; come l’acqua che i contrabbandieri versano di nascosto dentro i loro spiriti – acqua che da sola è insipida e senza molto senso, ma che serve benissimo allo scopo per temprare l’alcol mescolato. Questo non ha senso, sento che mi dici: no di certo – ma su altri terreni sarà pur certo perché è l’illustrazione di una verità. (…)
Non mi sorprende che ora cerchi di imbarcarti sulla rotta del commercio – è tutto circondato da ghiacci allo stato presente, da ogni lato. Tu continua a guardare, comunque, e in qualsiasi luogo noterai lo scintillio di una fessura – gettati lì! (…) Qui vita tranquilla, nessun incidente rompe le solite correnti della nostra storia, nessuno s’immischia con noi, né lo facciamo noi da parte nostra, Jack è qui a studiare i nomi delle ossa e io scrivo robe senza senso tutta la mattina, poi insegno dalle due alle sei, torno a casa e leggo fino alle undici e mezza, e così il giorno è fatto.
L’altro giorno, poi, sono andato con Murray a cercare MacCulloch allo Scotsman, eccolo che sedeva in un angolo come il grande Orso polare, invano rimasticando e tentando di digerire le dottrine di Adam Smith e di Ricardo e sembrava stesse lì solo per vomitarci addosso quelle belle teorie economiche durante le lezioni della prossima primavera, certamente in qualche forma utile per il “libero pensiero” della nostra città. Insomma questo Orso mi guardava con sospetto e malafede, non pareva per nulla incline a parlarci, manco fossimo dei pirati che chiedono il parley prima di esser buttati a mare. Come potessero le dottrine economiche tutte insieme tormentare il nostro Orso, non saprei dire – ma ha mai provato paura di quelle cose? Magari dovrei avventurarmi io a spiare che succede in quelle terre spoglie? Per ora non ci do peso.
Devo finire questo flusso di chiacchiere. Dimmi tutte le nuove, vorrei sapere dei poveri corpi di chi ti sta intorno più che se fossero scudieri dispersi. Le scarpe di Shaw vanno rammendate, lo farò io. E quanto costava l’orologio di Robie? è un segna-tempo modesto ma l’ho tenuto per troppo tempo senza restituirglielo. Vorrei che gli chiedessi qualcosa al riguardo la prima volta che lo vedi. Ora scrivimi appieno di tutti i tuoi piani/progetti/transazioni. Sono per sempre il tuo caro fratello, e il più vero
Thomas
* traduzione di Andrea Bianchi
**In copertina: Thomas Carlyle (1795-1881) nel 1754
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di Stefania Mezzina
GIULIANOVA – Prosegue la prima edizione de La pintìca dei libri, una rassegna letteraria organizzata dalla Compagnia dei merli bianchi e dalla Di Felice Edizioni che si svolge a Giulianova, in via Marconi 21 (sede della Compagnia dei merli bianchi).
Il prossimo appuntamento è per sabato 15 febbraio alle 17.30, con la presentazione del libro “Nero di seppia. Pensieri e aforismi per il XXI secolo” di Lavinia Spalanca con disegni di Pino Manzella (Arsenio Edizioni). Modererà l’incontro l’editrice Valeria Di Felice. Le letture saranno a cura dell’attrice Margherita Di Marco.
Si tratta di centottanta, tra pensieri e aforismi, che scandiscono il racconto di un secolo. Centottanta riflessioni in punta di penna, una penna intinta nel nero della seppia e imbevuta del suo gusto acre e pungente, che stimolino nel lettore una coscienza critica, un’indignazione morale e un risveglio civile dinanzi alle menzogne, e alle brutture, della nostra epoca – all’insegna delle “fake news” e dell’odio per il “culturame” – contro i falsi miti di ‘progresso’: la tecnologia salverà il mondo, la democrazia di internet, i nativi digitali.
Si tratta di «massime particolarmente riuscite», come scrive Fabio Stassi, dove «ci sono i paradossi ma anche alcuni piccoli scatti folgoranti», che illuminano squarci di vita vissuta, comportamenti ordinari sottratti alla casualità e rivestiti di un significato simbolico, anche grazie all’ausilio delle raffinate e acuminate illustrazioni di Pino Manzella.
Lavinia Spalanca (Palermo, 1978) è professore a contratto di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Palermo e docente di materie letterarie nelle scuole statali. In questi anni si è occupata del rapporto fra l’intellettuale e il potere, curando la riedizione del romanzo antimilitarista di Tarchetti Una nobile follia (2009), indagando le diverse declinazioni del racconto bellico nella modernità letteraria (Il martire e il disertore, 2010) e la rappresentazione del potere nella Firenze ducale (Il governo della menzogna, 2017).
I suoi studi prendono altresì in esame, da diverse angolazioni, la letteratura italiana dall’Otto al Novecento (I fiori del deserto, 2008; La sirena dipinta, 2011; Leonardo Sciascia, 2012; L’isola a tre gambe, 2016, Pier Paolo Pasolini, 2019). È membro della Fondazione “Leonardo Sciascia” e del Collegio di Direzione e Lettura della rivista internazionale «Todomodo».
Pino Manzella nasce a Cinisi, Palermo. Studia Lingue e Letterature Straniere e si laurea all’Università di Palermo. Fin dai primi anni Settanta disegna manifesti e vignette per le attività politiche e culturali animate da Peppino Impastato del Circolo Musica e Cultura prima e a Radio Out poi.
Dagli anni Settanta espone in mostre personali e collettive e di rassegne di carattere nazionale ed internazionale. Svolge attività grafica e sue opere sono state pubblicate in alcune copertine della collana Storia dell’editore Franco Angeli, nonché in pubblicazioni della Rubbettino, Scirocco Edizioni, Di Girolamo Editore, Casa memoria Impastato Edizioni e per alcune produzioni discografiche.
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L'uomo senza qualità" e la nostra confusione
Francesco Demichelis
In una breve nota di commento alla pubblicazione del primo volume de L'uomo senza qualità di Robert Musil del 1932 (trad. it. Einaudi, 2014), Thomas Mann si richiamava ad un principio di "ordine, senso e poesia" quale prodotto di una "necessità vitale", nel contesto di "un'epoca di desolato disordine e assenza di senso"; in quest'ottica egli scriveva: "L'uomo senza qualità è un libro attuale nel senso più profondo del termine” (Robert Musil, "L'uomo senza qualità" in Nobiltà dello spirito e altri saggi, Mondadori, 1997).
Tale anelito verso una "necessità vitale" in merito alla ricerca del senso di un'epoca tradisce lo spirito goethiano che animava il Mann degli anni '30, e basterebbe forse da solo per indurre ad adottare il monumentale romanzo-saggio di Musil quale viatico cui affidarsi per indagare la profonda crisi del significato che affligge il nostro tempo e il sentimento di paura generalizzato che sta mettendo in discussione gli ideali di progresso e le speranze nel futuro della nostra civiltà.
Nel rifarci a quel principio di attualità evocato da Thomas Mann in un'epoca che vedeva allungarsi sull'Europa le ombre minacciose del nazismo e della guerra, possiamo in effetti pensare a L'uomo senza qualità come a uno specchio la cui superficie, pur oscurata dal trascorrere del tempo, rimanda immagini di un passato nel quale l'imminenza della fine traspare nella forma della decadenza del senso.
Mastodontico frammento (pubblicato in maniera discontinua nel corso degli anni '30, il libro rimase incompiuto per via della guerra e della scomparsa del suo autore, avvenuta nel 1942) esso individua, nel suo procedere sul piano storico e letterario di catastrofe in catastrofe, le motivazioni e la fenomenologia della fine di un mondo mettendo in scena gli ultimi mesi dell'Austria-Ungheria, giusto a un passo dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. L'uomo senza qualità è dunque la cronaca impietosa di un attimo sospeso nel quale la decadenza di una civiltà tocca il suo apice prima dello spalancarsi del baratro che la inghiottirà. Il racconto dell'attimo che prelude ad una catastrofe del passato, sviluppato da Musil nel corso degli anni che ne preparavano un'altra ancora più devastante, definisce il carattere profetico del libro e la sua spendibilità nel presente, ove un futuro sempre più minaccioso sembra profilarsi all'orizzonte.

L'Imperatore Francesco Giuseppe I in preghiera per la vittoria dell'Austria nella Prima Guerra Mondiale, cartolina postale, 1915 (Austrian Post AG, Vienna).
I recenti fenomeni migratori dal sud del mondo che interessano i nostri confini – masse di uomini e donne pronti a tutto pur di sfuggire alle guerre e alle catastrofi ambientali delle quali l'Occidente, per inciso, è il principale responsabile – rappresentano senza dubbio uno dei cardini sui quali ruota l'epoca attuale nonché il dato socio-politico dal quale partire per valutare la capacità della civiltà europea di produrre significati condivisi nel contesto del difficile momento che si trova ad attraversare: in questo senso i migranti sono l'elemento catalizzatore intorno al quale si configura la polarità che vede il terrore del futuro di una società demograficamente esausta contrapporsi alla misura di una speranza da riporre nell'afflusso di nuove energie.
È di alcuni anni fa la pubblicazione del risultato di uno stranissimo esperimento letterario ad opera del romanziere americano Jonathan Franzen: una traduzione in lingua inglese di alcuni testi scelti di Karl Kraus, accompagnati da un corposo apparato di commento nel quale l'autore e traduttore dell'opera rintracciava una serie di affinità tra una presupposta decadenza della società americana del principio del XXI secolo e l'epoca del tramonto dell'Austria-Ungheria – messa in croce, all'interno dei testi proposti, da quel che si può tranquillamente definire il suo massimo censore (The Kraus project, Farrar, Strauss and Giroux, 2013).
Simili analisi pretestuose e ben poco interessate alle effettive vicissitudini della storia prestano il fianco alle pericolose riletture sulla decadenza della civiltà austro-ungarica – espressione della più grande e longeva entità statale multietnica che l'Europa ricordi – intesa come termine di paragone rispetto al destino del nostro continente. Alla luce di un secolo di sconvolgimenti e di cambiamenti epocali che ci separano dalla fine della Grande Guerra, è infatti curioso notare quanto le attuali semplificazioni del discorso circa una Heimat ideale e avulsa dagli sviluppi della storia stridano con le motivazioni storiche profonde che portarono alla disintegrazione dell'Austria-Ungheria, ma in "un'epoca di desolato disordine e assenza di senso" quale appare essere la nostra, simili contraddizioni non sembrano poter essere risolte con tanta facilità.

Koloman Moser, Disegno preparatorio per il francobollo commemorativo del 60° giubileo del regno di Francesco Giuseppe I, 1908, (Austrian Post AG, Vienna).
L'epoca della finis austriae è stata un'epoca di profonde contraddizioni, e Robert Musil è stato il suo cantore più importante nonché unica figura intellettuale che sia riuscita, per tramite della sua opera maggiore, a sviscerarle tutte con impressionante precisione. Elias Canetti ricordava che il compito di cui Musil si fece carico nel suo lavoro pluridecennale a L'uomo senza qualitàera nientemeno che la rifondazione dell'Austria-Ungheria intesa nei termini di una forma di vita spirituale (Il gioco degli occhi, Adelphi, 1985): motore di tale restaurazione di un tempo perduto è la pratica della sospensione del racconto e della sovrapposizione della forma saggistica a quella narrativa, suo tratto peculiare è la possibilità di una rilettura del passato che smentisca le ingannevoli pretese, proprie della peggiore cultura di destra, circa un ripristino sul piano storico di fantomatiche età dell'oro. Quella di Musil non è infatti una negazione della storia quanto un suo trascendimento sul piano dell'arte, e la struttura paradossale del suo romanzo è la chiave per decifrarne gli imprevedibili ricorsi: animato da un pensiero altissimo, questo sofisticato meccanismo narrativo è, da quasi un secolo, impegnato strenuamente nella sfida per il conferimento di un senso alla sparizione di un mondo.
L'uomo senza qualità presenta il quadro di una realtà che funziona per contrasti; il suo universo di riferimento – la Cacania – è intimamente duplice e a tale duplicità corrispondono i paradossi e le antinomie sulle quali il romanzo è costruito. Primo paradosso è anzitutto quello di un romanzo che è, al tempo stesso, un saggio, il cui obiettivo è la soluzione dei contrasti della realtà storica per tramite di una disposizione alla precisione del pensiero che rasenta la pedanteria (va "fin oltre", secondo Roberto Bazlen: lettera del 12 giugno 1951 a Luciano Foà su L'uomo senza qualità). La duplicità dell'Austria-Ungheria, imperiale e regia (k.u.k. cioè kaiserliche und königliche, da cui la Cacania di Musil), il cui simbolo è quello di un'aquila a due teste, si riflette nella paralizzante tensione tra estrema concentrazione delle forze e totale dispersione dello spirito all'interno della quale si dibattono i personaggi del libro; protagonista dell'azione è Ulrich, alter ego dell'autore e testimone di un momento storico dal respiro trattenuto, la cui condizione di "uomo senza qualità" apre il racconto al campo delle probabilità che impediscono alla realtà di trovare una sua forma definita.

Koloman Moser, Disegno preparatorio per un francobollo di guerra, 1915 (Austrian Post AG, Vienna).
Il racconto stesso tende verso il nulla: unico tratto distintivo di una trama evanescente è infatti l'Azione Parallela, cioè a dire il comitato incaricato, nei mesi immediatamente precedenti lo scoppio della guerra, di organizzare le celebrazioni per il settantesimo anniversario del regno di Francesco Giuseppe I che, con ogni evidenza, non potranno mai avere luogo. Questo secondo paradosso determina lo stabilirsi di quel momento dilatato per le circa milleottocento pagine del volume, che è funzionale a far emergere le laceranti antinomie del momento storico; L'uomo senza qualitàrichiama in effetti l'immagine di un orologio a pendolo il cui funzionamento è regolato su un moto oscillatorio che, in luogo di scandire lo scorrere del tempo, ne determina e stabilisce le qualità dialettiche: questo moto, infinito e precisissimo, declina una disposizione dinamica e al tempo stesso bloccata della narrazione, nella quale ad ogni movimento per un verso corrisponde esattamente il suo contrario.
Il permanere di tale attimo sospeso quale unica realtà diegetica esperibile risolve l'azione in una visione mistica, raggiunta per tramite della pratica assidua dell'esattezza saggistica; tale pratica favorisce l'emergere di una realtà completa, la cui totalità dilaga a dispetto delle sue profonde discordanze, comprendendole anzi tutte nella configurazione di una visione spirituale di straordinaria efficacia.
Da qui un altro paradosso: al criterio di esattezza assoluta nella definizione di una realtà diegetica presentata dall'autore nella sua totalità dialettica, corrisponde la possibilità di trattare le principali tematiche irrazionaliste affrontate nel romanzo – quali il sentimento mistico, la decadenza dello spirito, l'interesse morboso verso la malattia mentale – con il rigore di una trattazione scientifica che fa da contraltare ai numerosi elementi di follia e di incoerenza presentati nel racconto. Le minuziose considerazioni circa i casi di un assassino psicopatico che diviene un caso da rotocalco, di un generale pacifista che si prepara alla guerra riflettendo sull'amore universale, di una ragazza di sangue ebraico che sostiene una congrega di giovani seguaci della purezza germanica, di un raffinato intellettuale di fama internazionale che intrattiene loschi affari nell'industria petrolifera diventano in tal modo metafore del disagio morale e della confusione che affliggeva l'Austria-Ungheria nell'imminenza della fine insinuando, al tempo stesso, un sottilissimo e feroce principio di ironia nella drammatica esposizione di una situazione politica esplosiva.

Koloman Moser, Cartolina commemorativa del 60° giubileo del regno di Francesco Giuseppe I, 1908 (MAK, Vienna).
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Gesù bambino rubato
“Una mattina si sparse per la città la notizia di un mostruoso e raccapricciante sacrilegio”. Così comincia un capitolo del romanzo di Dostoevskij “I demoni” nel quale si narra della profanazione di un icona venerata nel paese senza nome in cui è ambientato il racconto.
L’icona era posta al fianco di una chiesa accanto alla piazza del mercato: un luogo centralissimo dunque. Durante la notte qualcuno aveva rotto la nicchia in cui era conservato un quadro della Vergine, impadronendosi di alcuni oggetti preziosi. Non contento aveva lasciato un topo morto come dileggio verso la religione. L’indignazione dei cittadini fu unanime.
Non credo che i trentini abbiano avuto la stessa reazione alla notizia che il Gesù bambino del presepe allestito in piazza Duomo era stato rubato. Certo, il fatto non è passato inosservato, anche perché l’opera, curata dall’associazione “Amici del presepio di Tesero”, era già stata esposta a Roma, a Istanbul, a Betlemme senza subire alcun tipo di danneggiamento. Ed ecco che proprio qui, a Trento, dove la tradizione dovrebbe trovare un riconoscimento adeguato alla cultura cattolica diffusa nel popolo, dove tutti sono un po’ più buoni a Natale, avviene il furto sacrilego. Davvero non c’è più religione o forse non interessa più nulla. E il presunto trentino cattolico va a farsi benedire.
Ci consoliamo al pensiero che gli autori del gesto saranno stati forestieri, ladri professionisti che conoscevano bene il valore del Gesù bambino (qualche migliaia di euro). Per i soldi si compiono le azioni più nefaste e stupide. La mentalità collettiva tuttavia non prevede limiti nei comportamenti; non esiste più nessuno spazio sacro, comunque lo vogliamo intendere. Questo furto poi è un vero atto vandalico che deturpa la città, che rovina il lavoro e la dedizione altrui.
Così ancora una volta siamo costretti a invocare più che la maledizione di Dio l’aiuto delle telecamere, mentre “ronde” volontarie per consentire l’apertura della basilica di Santa Maria Maggiore hanno sostituito le schiere degli angeli pronti alla battaglia contro il male. L’assessore al turismo del Comune di Trento Roberto Stanchina – come sempre “sul pezzo” – assicura di aver chiesto l’intervento della Digos per scoprire l’autore del “vile gesto”. Non ci saranno dunque liturgie riparatrici. Ormai siamo troppo secolarizzati per questo.
Forse Gesù bambino verrà restituito, forse verrà rilasciato dalle mani dei sequestratori dopo un riscatto, forse sarà liberato da un blitz delle forze dell’ordine. Molto più probabilmente non ritornerà mai. Allora verrà rimpiazzato con una copia conforme, di minor valore, ma comunque in grado di accontentare la gente distratta. Un surrogato di Gesù bambino. Una perfetta metafora del nostro tempo. I simbolismi si potrebbero sprecare.
Sarebbe meglio lasciar passare il Natale senza Gesù bambino. Mostrare a tutti il vuoto. Una scena forse triste ma più aderente alla realtà. Quel vuoto, che non si può immortalare con una fotografia, farebbe molto pensare. Spingerebbe a chiedersi: perché? Che cosa è successo? Gesù bambino non nasce più? Quel vuoto imporrebbe di fare una sosta. Come ha invitato a fare il vescovo Lauro che, in un saluto ai turisti, ha auspicato una vacanza “che merita silenzio e tempi dilatati, lontani dalla frenesia immateriale del mondo digitale”.
Qualche anno fa, a Taio in Val di Non, la Messa di Natale era stata celebrata in un tunnel: era l’inaugurazione della galleria realizzata per liberare il borgo dal passaggio continuo di automobili e camion. L’orizzonte della salvezza si limita alla liberazione dal traffico. Anche in questo caso il progresso della modernità ha sostituito qualsiasi altro tipo di attesa. Altro che lentezza!
La nostra è invece la stagione dei paradossi. Perché in piazza Duomo Gesù bambino era già nato qualche settimana prima di Natale. Il bambinello era stato aggiunto per consentire ai passanti di farsi un selfie per una fede da turista con il sapore del consumismo dilagante. Si dirà che il presepe era un’opera d’arte unitaria e che non si poteva allestirlo a pezzi, magari completandolo quando le feste erano quasi finite. Sì, perché all’antico proverbio per cui “l’Epifania tutte le feste si porta via” abbiamo sostituito l’idea che siano l’apertura e la chiusura del mercatino a sancire la durata del periodo natalizio. Durante la Quaresima le feste carnevalesche sono ormai diventate un’abitudine perché non si può cancellare l’offerta turistica magari organizzata da mesi per le condizioni avverse del “meteo” o per le scadenze del calendario liturgico.
La religione del nostro tempo è altra: l’idolo è l’io. Il contorno serve per accarezzare la sua libertà: essa tuttavia finisce per “consumarsi” in un’accelerazione continua. Sostituiremo Gesù bambino. In realtà lo abbiamo già fatto. E sappiamo tutti con che cosa.
Editoriale pubblicato dal “Trentino” il 21 dicembre 2017
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Rudolf Kassner: chi è costui? Il maestro sconosciuto del secolo
Figura pressoché ubiqua, inafferrabile, mi fu rivelata, per così dire, da Rainer Maria Rilke, che nel 1910 ne scrive così a Magda von Hattingberg, una delle tante ammiratrici che gli ‘servivano’ per attingere alla propria interiorità, per specificare il proprio ragionamento. “Fu un’epoca difficile, aprii stanco il libro e lessi, fra gli aforismi di Rudolf Kassner questo: La via del fervore alla grandezza passa attraverso il sacrificio. Mi trapassò l’anima. Come un pugnale che venga affilato contro di te, e che poi l’assassino porti per un anno sotto il mantello, sempre stretto nella mano in agguato: come poi questo pugnale si levi infine e si tenda e entri nel petto vero: così colpì dentro di me”. Rilke aveva il libro di Kassner con sé in Egitto: alla calura faraonica, ancestrale, forse, è imputabile l’estasi dei toni.
*
Più che l’aforisma mi colpì la figura, ignota. Rudolf Kassner. Doveva essere un uomo straordinario – fantomatico. A Kassner, Rilke dedica la poesia Wendung, “Svolta” – “Stelle caddero in ginocchio/ sotto l’assalto dei suoi sguardi alzati” –, nel 1916 gli dona il manoscritto dei ‘notturni’, Gedichte an die Nacht; soprattutto, per Kassner, esplicitamente, è scritta l’ottava delle Elegie duinesi:
Chi ci ha dunque voltati che, in qualsivoglia cosa intenti, disposti siamo come uno che parte? Come quello, sull’ultima collina che gli mostra per una volta ancora tutta la sua valle, s’arresta, si volge indietro, indugia – così viviamo, in un continuo prendere congedo.
All’amica e mecenate Marie von Thurn und Taxis, Rilke scrive, “non è forse il più importante tra gli scrittori del nostro tempo?”. Pare lo sia stato, a sfogliare l’opaca schiettezza delle statistiche: morto nel 1959 in Svizzera, nel Canton Vallese, dove s’era ritirato in omaggio all’amico Rilke, per penetrare nelle sue visioni liriche, Kassner, tra il 1930 e il 1955 è stato candidato per tredici volte al Nobel per la letteratura. Nonostante la letteratura non fosse il più esatto tra i suoi interessi.
*
Ve l’ho detto, Kassner ha qualcosa di famelico e fatato insieme, è totem e ombra. Nato nel settembre del 1873 in Moravia, settimo di dieci figli, il padre, Oskar, impiantò in Slesia una fiorente azienda di barbabietole, fabbricava zucchero; i figli li fece educare da precettori privati. Rudolf nasce sfibrato dalla poliomelite, il dolore lo allena, perfeziona gli studi a Vienna e a Berlino, fa il viaggiatore, instancabile. Nella sua vita convergono le maggiori personalità del secolo: a Parigi frequenta Paul Valéry e André Gide, dal 1902 entra in amicizia con Hugo von Hofmannsthal, che riconosce in lui un soldale (“Credo che sia il letterato e l’uomo di cultura più notevole espresso dal mondo tedesco”, scrive, nel 1904). Non fu filosofo, lo dissero “il nuovo Nietzsche” e lui rispose che non avevano capito nulla, per lui la visione di Nietzsche era troppo volgare, troppo nera, troppo pop. Postulò il potere dell’immaginazione sulla ragione, fu un micidiale aforista, tutti lo cercarono, si concesse a pochissimi. A Friedrich Dürrenmatt e a Marguerite Yourcenar spalancò le porte di casa; Thomas S. Eliot, che aveva incrociato a Parigi molti anni prima, si limitò a un laccato elogio per i suoi ottant’anni (pratica pia attuata quel dì): “Rendo omaggio a un uomo illustre, a un grande europeo che con orgoglio può guardare alla propria opera”. Influenzò Curtius, Georg Simmel, Wystan H. Auden (“Il numero degli autori che riescono a condizionarci è davvero piccolo: lui è uno dei rari a poter imprimere un cambiamento nel nostro modo di pensare”). Disse che fu l’India a dargli i natali come filosofo: vi atterrò nel 1908, a Bombay, restò un anno. A Calcutta fece amicizia con Stefan Zweig.
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Fu un viaggiatore della mente, Kassner, certo – ma viaggiò moltissimo. In Inghilterra studiò l’opera di Laurence Sterne, di De Quincey, di Thomas Hardy; dalla Francia tornò traducendo Gide e Saint-John Perse; nel 1905 esplorò il Nordafrica, attraversando il Sahara in macchina. Dopo l’India, affrontò l’Egitto e l’Italia; nel 1911 virò in Russia: entusiasta, tradusse Puskin, Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj. Uomo di sfrenate energie, voltò in tedesco William Blake e Platone, s’inoltrò nei meandri della cultura orientale, fu poligrafo, volutamente ermetico; conservatore, anti-nichilista, si preferì mistico – lavorò, in fondo, ai margini di tutto, nell’occulto, destinato a essere occultato. La Germania nazionalsocialista bandì la sua opera – e, in sintesi, il suo autore. Affascinato dalle teorie di Albert Einstein, andò a incontrarlo, non prima di aver studiato: era convinto che le loro opinioni sul mondo e sul tempo non divergessero troppo.
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In Italia, l’opera di Rudolf Kassner è inesistente. Nel 1942, per la cura di Alessandro Pellegrino, Bompiani pubblica Gli elementi dell’umana grandezza e altri saggi; nel 1997 Neri Pozza edita I fondamenti della fisiognomica (a cura di Giovanni Gurisatti); è Artemide, invece, nel 2004 a stampare una antologia di scritti sotto il titolo La visione e il suo doppio (a cura di Gerhart Baumann, Aldo Venturelli, Laura Benzi). Tutto qui. Kassner, per sua natura – per scelta, diremmo – non si apparenta ad alcuna scuola: è un ‘antimoderno’, crede che la modernità, il culto del progresso, abbiano sfacciatamente volgarizzato il volto umano, fino a piallarlo nell’anonimo pollaio. I lavori sulla fisiognomica – che intersecano una visione della storia, dell’estetica, un’etica – sono quelli più affascinanti. Secondo lo studioso, nel volto è dipinta l’origine e il destino di colui che lo indossa. “L’uomo è come appare, anche se non appare come è realmente”, scrive in uno dei suoi aforismi paradossali. Tutto è forma: il viso di un uomo, una bestia, una idea, una religione. La forma è l’essenza, l’essenziale: non è la superficie ma il modo in cui si lascia esporre il mistero. Lo studio dei volti, dunque, è l’indagine di un immaginario. Costretto alla metropoli, alla vita artatamente ‘sociale’ l’uomo perde la personalità del proprio volto – nella civiltà delle macchine e della democrazia ‘siamo tutti uguali’, cioè equivalenti. Leggere i volti significa farsi veggenti. La fisiognomica, perciò, non è scienza ma estro filosofico, anomalia da ispirati. L’uomo moderno – che sia un parto della massa o uno squalo del capitale – è scisso, inautentico: la simulazione lo distingue; l’uomo fa l’attore, il volto prende figura di maschera, di mascherina. Il rito quotidiano è ‘di facciata’: il sacro monte dell’interiorità ci è precluso. A dire di Kessner, solo il Giusto può vagare tra le contraddizioni senza distrarsi, riesce a curare l’ulcera. D’altronde, scrive, “Sai che sono debole – ogni definizione è falsa”. Alla catena umana in catena di montaggio esistenziale, Kessner opponeva i paradossi dell’immaginazione. Noi non siamo spendibili, non siamo riassunti e replicati dalle nostre spese, dalle nostre voglie involute; siamo un universo ambiguo. Per i paladini dell’ordine, questo è troppo. (d.b.)
*In copertina: Rudolf Kassner nel 1956
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“Quando si è sensibili solo al sottosuolo dello scibile umano, a un viaggio al termine della ragione, a una visione oscura degli esseri umani…”: la disciplina della ‘tabula rasa’ (necessaria per sopravvivere al predominio degli intellettuali ottusi)
Essere lontani da voi stessi quanto un falco dalla luna… ognuno di noi è diverso dagli altri e differisce da sé, perennemente mutevole, anche rispetto a se stesso, e nessuno può davvero essere ‘se stesso’, neanche una volta.
Essere bizzarri, vulcanici, imprevedibili. Sfuggire alle classificazioni. Non soffermarsi teoricamente sui problemi sociali, benché si senta come pochi la miseria del mondo, e questo perché il sottosuolo uccide la teoria. Detestare le specializzazioni perché troppo lucidi e ipertrofici per concentrarsi su un solo argomento. Nutrire un’avversione istintiva, feroce per la cultura istituzionale, l’erudizione sterile e i “ritualisti della cultura”. Più ancora, provare una profonda estraneità per l’erudizione, in sé. Essere contro le personalità libresche, e coloro che commerciano con le idee altrui e “credono di essere, con le loro glosse e i loro commenti, dei rischiaratori del mondo”. Criticare, impietosi, l’idea dell’intellettuale impegnato.
*
Quando si scrive solo per reazione, per se stessi, per fastidio, e il movente di ogni parola è impuro, misto al disprezzo – una lotta. Quando si è molto sensibili, ovvero si usano i sensi in modo assoluto. Quando parlate, e un buco nero vi lampeggia negli occhi, e lo sguardo è in fuga, per timore di poter ferire gli altri con le macerie del vostro vuoto, quel nulla che intimidisce anche voi. Quando si affacciano i lampi, e la notte è in movimento, e annotate con scrupolo l’assurdo, consonanti e vocali, oltre il vile tumulto di un morbido assedio, per scatenare i gorghi, un agguato senza tregua e vivere il rigore di un naufragio, vertiginoso, e apprezzare il portamento della tempesta nel furore dell’oscurità, quando le cose vibrano al peso dell’ira e del silenzio.
Quando è impossibile sposare la realtà, il principio di realtà, e seguire i propri umori platonicamente, relegandoli ai margini della vita coniugale, sociale, nel privato di uno studio, come dovrebbe essere per quel genere di creatori che si rinchiudono nel chiostro di un monastero laico; non invadere la santità della normale vita domestica, e confinarsi in un asilo privato, ai margini della società, per essere innocui, e non scandalizzare nessuno con lo spettacolo ripugnante di un’agonia, e morire “alla maniera dei gatti o delle bestie selvagge che cercano una tana segreta per proteggere le ultime convulsioni della loro vitalità”. Quando è impossibile vedere nel sociale, una realtà fragile e convenzionale, la realtà ultima, e non pensare che gli esseri umani sono: “un’apparizione straordinaria, ma non un successo”.
Quando credere nell’Uomo vuol dire avere fede in una confortante e illusoria dimora, in un territorio edificante in cui la fiducia nelle regole trascende le regole stesse, un’idea degli esseri umani non solo parziale, ma falsa, che non è mai esistita, non esiste e mai esisterà, se non nelle nostre fantasiose utopie. Quando rimanere all’oscuro della non coincidenza tra quello che realmente siamo e l’immagine ideale, nobile, che abbiamo creato di noi stessi, vuol dire rifiutare il feroce insolubile di un Qohèlet, il “c’è solo quello che c’è, e quel che dovrebbe essere non c’è”, non è mai esistito e mai esisterà; che la vita è bellezza rapinosa e, allo stesso tempo, come la scaletta di un pollaio, corta e piena di merda, dove scorgiamo tutti “l’orrore che scorre appena sotto le abitudini e le pratiche più correnti della vita e della società”; che gli esseri umani si rivelano, finalmente, solo quando “smentiscono l’immagine che hanno dato di sé nelle epoche pacifiche”, ed emerge il lato meschino e tragico delle loro più sofisticate creazioni, l’individuo com’è, irriducibile, sconcertante, con tutto ciò che esso implica d’impuro, atavico e irresistibile, colmo di sovrana ambiguità.
Quando c’è qualcosa di troppo puerile, consolatorio e compiacente, sterile e illusorio nel credere, oggi, di poter salvare le sorti della civiltà o della cultura, dell’arte e della letteratura, facendo appello al pensiero, allo spirito e alle creazioni delle mente. Quando qualcuno che la sa lunga scorge lucidamente che religione, filosofia, ragione, letteratura, arte, tutte, danno troppa importanza agli esseri umani; che, per conoscere la loro reale natura, è sufficiente parlare con loro, vivere in mezzo a loro; che la misantropia è figlia della conoscenza in presa diretta, del realismo; che più si conoscono gli esseri umani, più si è misantropi.
Quando nel mondo visibile, esteriore, domina il decadimento, e la nostra idea di immortalità, ahimè, pretende di strappare la perpetuazione della specie da tutto il reale, dai fenomeni mutevoli, passeggeri e di sigillare con l’apoteosi dell’invano l’individuo, di essere una dispensa dalla condizione umana, per escludere tutto un universo tangibile, brulicante, che si sa immenso; e quando questo rimedio si trasforma nel vero carnefice del genere umano. Quando il pensiero e la creazione, dopo la caduta, si rivelano solo un’abolizione immaginaria di opposizioni reali, e la conoscenza un rimedio che abbiamo escogitato per paura, nell’illusione di attenuare gli effetti della follia del mondo, da cui siamo sopraffatti, per condurre una vita nell’attesa di un fine che non giungerà mai… la Provvidenza, la Misericordia di Dio, il Progresso, la Scienza, l’Umanità, la loro luce redentrice.
*
Quando si vive “in esilio, da se stessi, e dagli altri”, e si conserva qualcosa “dell’innocenza e del furore delle persone totalmente sole”, sprofondati, da sempre, in una precoce percezione dell’effimero, in quel sentimento della vanità di tutto che impedisce di credere che le cose possano avere una ragione. Quando vi è chiaro che la Storia non la fanno i probi. Che non esiste la normalità. Che nessuno di noi è normale. Che, a guardare lucidamente la fisiologia del mondo, la Storia umilia i singoli a favore della Comunità, la quale a sua volta edifica le cattedrali delle sue culture e civiltà attraverso la sovranità delle singolarità di rango, equivoche e paradossali, emerse dal travolgente pantano dell’avventura umana; che la Storia, nel bene e nel male, l’hanno sempre fatta i grandi squilibrati, le personalità d’eccezione, i paradossi assoluti, immoralisti che aleggiano cupi, torbidi e ambigui sulla genesi delle nostre istituzioni umane, sulla lumière de la sagesse. Che la vita stessa si nutre di una linfa ambigua, e impone l’evidenza del fondamento teologico, non solo della politica e del formalismo giuridico, ma di tutto il pantheon della conoscenza, dietro cui si nasconde, non la legge e il consenso, ma la forza e l’irrazionale. Che perfino il Diritto si fonda sulla violenza. Che la stessa guerra, nella natura umana, non rappresenta solo un vuoto transitorio della nostra moralità, un errore, un’eccezione alla nostra innata nobiltà o alla nostra superiore facoltà civilizzatrice. Che la violenza fa parte della vita, e la natura riduce in polvere, senza riguardo, le creazioni della saggezza. Che condottieri, imperatori, guerrieri, tiranni, poeti, filosofi, teologi, riformatori, artisti, mistici, popoli, seduttori e mascalzoni di ogni epoca, tutti, sono per lo più squilibrati d’eccezione; popoli, nazioni e individui distinti dalla facoltà di unire patologia e, talvolta, produzione di teoria della cultura; molti coltiveranno piccole oasi, alcuni raggiungeranno grandi distanze, mentre altri, la maggioranza, infine subiranno colpi d’inesorabile ferocia, e li chiameranno i margini della storia, le vittime. Che la maggior parte degli esseri umani, in generale, vivono quasi sempre al di sotto del loro potenziale umano, sessuale, immaginale, intellettuale, e non sono fatti per essere liberi e, peggio ancora, non saranno mai all’altezza dei propri squilibri; che quasi tutti scadono nel quadro dei casi umani, in quel territorio dove i pregiudizi e limiti di un essere umano non muteranno mai, come per paradossale e folle incanto, in mito, in potente e contraddittoria arte. Che solo il fanciullo e colui che è affetto dalla “dissennatezza” di cui parlava Puškin possono scorgere la vanità e l’assurdo di tutto ciò che non è diretto. Che la maggior parte degli artisti aspirano a essere consacrati senza mettere in causa il fatto stesso di esistere, a conquistare il diritto di rimanere ‘bambini’ in un mondo di adulti, e conservare la loro minorità al cospetto di quella società che intima loro di diventare maggiori, guadagnandosi da vivere sulle macerie dell’infanzia altrui, con un gesto di immane prepotenza imperiale. Che le potenze che formano questo nostro mondo sono superiori a ognuno di noi, ed è impossibile promettere che cospireranno in nostro favore; che quando un’anima rovina, ogni essere umano agisce secondo la propria natura – alcuni rimangono atterriti dal terrore, altri fuggono o si nascondono, mentre alcuni spiegano le ali come aquile e si alzano in volo, per creare opere immortali, per predare e lottare.
Quando il potere uccide l’innocenza, e, superata l’infanzia, tutto è potere, forza di coercizione, seduzione e soggezione, il potere del potere, e poi il potere del danaro, del sesso, della bellezza, delle parole, dell’intelligenza, della passione, della forza fisica; quando il sesso, questa cosa che noi civilizzati facciamo, come scrive Baudelaire, con “organi escrementizi”, e resiste alla pratica dissacrante, prosaica del bidè, è sempre una questione di mangiare ed essere mangiati, di vittima e carnefice; un territorio ferino, là dove si esprimono le profonde faccende umane in cui vige, su tutti, l’amor proprio, il soddisfacimento del proprio piacere, dei propri bisogni e tutta quella selva di moventi impuri che costituiscono il vero motore della natura umana: interesse, opportunismo, ambizione, desiderio, paura, invidia, cattiveria, disonestà, gelosia, viltà, crudeltà. Quando possiamo attaccare addosso agli esseri umani tutta la cultura e la civiltà, il progresso che volete, e l’istinto rappresenta comunque e sempre il fondo oscuro dei nostri atti mascherati da civiltà. Quando ognuno di noi nasce con in dote una dose di opportunismo da spacciare e, se teniamo fede al movente di ogni nostro atto, all’amor proprio, vale solo la capacità di illudersi su stessi e di illudere gli altri sulle nostre illusioni, anche nell’incoscienza del falso.
*
Quando non si è splenetici, né introversi, e non si può fare a meno, comunque, di cogliere soprattutto le lucide verità negative che la gente del sottosuolo, della strada, cinica e realista, sa da sempre. Quando si privilegiano le cupe verità, alle illusioni edificanti, perché nell’infelicità e nell’orrore c’è qualcosa di più vero, delle piacevoli malinconie, di artisticamente più vero, benché nessuno ami la bruttezza in sé. Quando si è sensibili solo al sottosuolo dello scibile umano, a un viaggio al termine della ragione, a una visione oscura degli esseri umani, che svela per noi quella bellezza di cui nessuno vuole tenere realmente conto – nessuno corre con fervore verso l’abisso! – perché da sempre si teme che l’arte voglia esprimere qualcos’altro, qualcosa di inumano: un universo tanto inquietante, terribile e nudo, e incredibilmente così poco ‘poetico’, nobile o sublime.
Quando si rigetta con sdegno il compito che il grande Nabokov assegna all’estetica, lui che, al pari di legioni e legioni di creatori, vedeva nell’arte e la grande letteratura solo un gioco, mera voluttà estetica per il nostro piacere e la nostra vibrazione spirituale, intellettuale e nei lettori, in fondo, semplici spettatori; lui, che non ebbe orecchio per il ruggito di Dostoevskij, al punto da disprezzarlo – “non un grande scrittore, e un mediocre” – e rifilarci questo sconcertante ‘miao miao’ letterario: “Per me un’opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estetica, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri stati dell’essere dove l’arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma”.
Quando non si ha fiducia in questo mondo, e tuttavia si rimane in questo mondo, non esistendo un altro mondo al di là di questo, migliore; quando non esiste un ideale luogo di attesa per la conquista della santità o della saggezza; quando è impossibile provare amore per i propri simili, ma solo una pietà senza illusioni; quando è impossibile credere in Dio, negli esseri umani, né tantomeno nell’Uomo; né alla potenza provvidenziale della parola, dell’arte, della letteratura, quando queste vorrebbero rappresentare solo un paradiso che il peccato non dovrebbe macchiare. Quando è impossibile aderire all’illusione imperialista di ogni letterato o scrittore – che abbandonano la vita per la letteratura – di poter sollevare il mondo appoggiandosi sul linguaggio; quando questo scarto dal mondo è solo un baratro invalicabile che separa l’arte dalla natura e l’artificio dal vivente, là dove ogni natura e ogni vita sono ritenuti infami, e di fronte a una carogna si impone questo verso elevato e nobile: “E allora ai vermi che ti mangeranno… o mia bellezza, di’ che in me sono salve la forma, l’essenza divina”, di un Baudelaire ancora preso dalla stretta idealista, che fa l’impossibile per onorarla. Quando i letterati sono degli egotisti sfrenati, fino al punto della fatuità, e la loro dolcezza, semmai, è tutta per chi scrive bene, poiché, vittime del pregiudizio della parola, suoi cortigiani, si adattano a una pietà da Accademia della Crusca e si emozionano davvero solo davanti allo stile e agli artigiani della scrittura. Quando, a proposito dei mestieranti, “l’obbligo di produrre aliena la passione di creare”. Quando, infranto ogni incanto del mondo, è impossibile credere a qualsiasi finzione euristica di questa terra o sofisma magico, alla lingua della retorica, dei sofisti, di quelli che si nascondono nelle astrazioni, che rifuggono le oscure forze inconsce che si agitano in noi, al riparo nella levigata superficie delle teorie e dell’arte, anche le più trasgressive. Quando non si riesce a tollerare la mera estetica letteraria, i discorsi estetizzanti, nemmeno quelli terribili di un Lautréamont. Quando chi ti legge, e ama la tua scrittura, è un sedotto in più, un’altra vittima da aggiungere alla lista delle tue prede, e la vecchiaia, ormai, solo la vita sotto una luce fredda, la nostalgia, un silenzio che “scava gli occhi dal nord degli anni”, il corso fermo dei fiumi, e neanche l’ombra di una preda.
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Quando non si crede alla strana e illuministica fiducia nella formazione su larga scala di un’opinione pubblica colta, coraggiosa e capace di servirsi del proprio intelletto; quando non si ha fiducia nel lettore, nella sua facoltà critica, in un vuoto formalismo che nasconde un essere umano che per lo più è un ammasso di feroci pregiudizi ambulanti travestito da statuaria apoditticità. Quando nessuna illusione induce a credere che la cura contro l’infelicità e l’iniquità del mondo sia alla nostra portata, poiché si vive nella lucida consapevolezza che il male non sia morale, politico, economico, ma rivesta: “il carattere di una fatalità cosmica, di una legge universale, perpetua e inalterabile”, come afferma il potente nano di Recanati, lucida creatura che non superava il metro e quarantuno di altezza.
Quando non si tollerano i dotti che giocano alla commedia della conoscenza, e la maggior parte dei fruitori di libri, degli illusi che immaginano l’intelligenza coincidere con il sapere, con il tanto più leggere, tanta più intelligenza, con un territorio, quello da circuito culturale, dove ogni cosa è trasformata in un “evento di rango intellettuale”, astratto, in “un attentato contro tutto ciò che può esserci di irriflesso, in una ribellione contro le proprie profondità”, dove domina una falsa illuminazione, la conoscenza nell’eccesso della riflessione, dove si scivola sulla superficie delle cose, o nella cultura pop, che è non più nemmeno la cultura popolare, nel senso potente del termine. Quando tutto il fenomeno della cultura dotta è una funesta apoteosi della coscienza astratta, e un compiacersene perfino, un territorio dove non troverete mai niente che sia deeper, darker, colder – nulla, qui, che sia profondo, notturno, freddo. Quando le produzioni artistiche, letterarie e filosofiche, oggi più che mai, sono rinchiuse un circolo vizioso che le vede subordinate alla stampa giornalistica e alla moda, e queste ultime, a loro volta, lo sono agli interessi commerciali. Quando, come pensava Céline, l’editore è per lo più l’incarnazione del parassita, il padrone che sfrutta gli operai o il ruffiano che campa sul lavoro delle prostitute e solo talvolta, molto raramente, un interlocutore con cui discutere di ciò che è davvero essenziale in Letteratura. Quando – parole di Carmelo Bene – l’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla. Quando si vegeta in un circuito culturale che vuole illuderci, chissà perché, di essere l’arena privilegiata di un dialogo ininterrotto, e in realtà è ben altro, al punto che un famoso esponente della Cultura, smagato, vi scrive in una lettera privata: “Giornali, case editrici, università e media sono collegati in rapporto conflittuale l’un con l’altro: i giornalisti odiano i professori, i professori detestano i giornalisti, gli editori disprezzano gli autori, la gente dei media detesta tutti.” Alla faccia del dialogo.
Quando il molto leggere dei dotti è letale per il pensare. Quando le migliori menti che avete conosciuto sono quelle che hanno letto di meno. Quando il troppo leggere, salvo rari casi, produce una dotta barbarie, e non la rara coincidenza di profondità ed erudizione. Quando disprezzate la poesia da eunuco, e siete contro i falsi figli delle Muse. Quando anteponete i dilettanti e gli autodidatti, ai dotti, e sostenete che le più grandi creazioni siano state prodotte dai primi, non dai secondi, benché gli autodidatti vengano considerati dai dotti come contrabbandieri, anche se sono loro ad avere la merce migliore.
Quando il critico, il più delle volte, è un anatomista al lavoro sulle parti di un corpo morto, che riporta in pieno giorno dalle profondità dell’esistenza, uno che spacca il capello in quattro con l’ausilio della chirurgia, che esaurisce e svuota l’essenziale e vive nel suo iper-intellettualismo critico educando gli altri all’astrazione, a questo processo d’identificazione speculativa con il reale; l’angelo che presagisce la presenza dello scandalo del reale e fugge e si contorce – e non è tanto questo a turbare, quanto l’evidenza che dietro alla dissimulazione pura, a questo ricorrere ai ripari, non vi sia quasi mai del genio se non eventualmente il probo “eroe della mente”, e la totale assenza del senso del ridicolo.
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Quando è impossibile la fede nel potere cognitivo del concetto; quando si dissolve il primato conoscitivo dello stesso pensiero concettuale. Quando in teoria si sa tutto sulla natura umana, e dunque si capiscono le spietate visioni di Proust sull’amicizia e sull’amore, o il punto di vista dei grandi moralisti classici, al pari di quello degli immoralisti metafisici, o le idee di Shakespeare e Dostoevskij sui fenomeni del mondo e la vita umana nelle loro tragedie, quel genere di contraddizioni e complessità, fonte di innumerevoli disagi e delusioni, che lo scrittore di professione si adatta ad amministrare scientificamente!
Quando si è esclusi, infine, dalla superstiziosa eloquenza del consorzio umano, da questo stupefacente idolum theatri, e si giunge al confine ultimo, l’epilogo, per alcuni di noi, può assumere solo i toni dello scetticismo e il pessimismo, a varie tinte e sfumature, talvolta anche fosche e abominevoli. Del delinquente puro, dell’assassino, crudele e folle, o del tiranno; di un disincanto assoluto, demoniaco e un cinismo senza scrupoli, che “non contento di riflettere sui difetti dei suoi simili, si adopera per sfruttarli, per trarne beneficio”, con “la mancanza di illusioni, il sarcasmo spudorato e una chiaroveggenza a scopo di lucro”, à la Talleyrand; con la filantropia delusa, malinconica e lucidissima, di chi si ritira nelle Lettere spirituali, non prima di aver scritto: “dopo aver letto, per così dire, tutto quello che avevano scritto gli altri, dopo aver preso notizia di tutte le soluzioni, ed aver fatto del mio meglio per persuadermi di questa o di quella e per appropriarmela – e dopo aver constatato la fallacia e la manchevolezza di tutte e l’impossibilità per una mente sincera di non vedere che ogni pensiero che vuole essere soluzione lo è solo nascondendo a sé medesimo le obbiezioni mortali che dal senso stesso della soluzione affacciata si levano a colpirlo”; con una navigazione in solitaria, inutile, impolitica, da parte di colui che non è interessato, che si pone ai margini dell’esistenza, non propone nulla, nulla vuole, dagli altri, e rifiuta di cullarsi ancora con la critica della cultura, con qualsiasi riforma programmatica o progetto culturale, poiché non ha più, o non mai avuto le “illusioni degli intellettuali contemporanei”; con quello delle personalità impietose, dei Grandi Inquisitori che demoliscono i nostri alibi della salute e della felicità razionali, nell’ambito della diagnosi metafisica sull’esistenza, che non rinunciano, tuttavia, a un senso di pietà e solidarietà umana aperte al mistero, unite allo spirito del liberalismo, alla recita, per discrezione, di una coscienza democratica.
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Quando sai che questo punto di vista impietoso non sarà mai ben accolto, in nessun ambito culturale e che ciò comporterà un sempre maggior isolamento, e te ne fai una ragione, perché in cuor tuo sai che in realtà la misantropia è una lezione di vitale realismo, linfa pura, e una “tenda nel deserto” della nostra epoca, e di ogni epoca.
Che sono, oggi, quelli che si azzardano a dire che i grandi spregiatori metafisici della vita sono in realtà quelli che l’hanno più amata e soprattutto vissuta, e che più l’amano; che sono dei grandi appassionati, e uomini feriti come pochi, “allo stesso modo di tutti coloro a cui fu negato il dono dell’illusione”, e che: “fra tutte le persone, le persone meno insopportabili sono quelle che odiano gli uomini… non bisogna mai fuggire un misantropo… trovo che la cosa veramente bella della vita sia l’aver perso ogni illusione e ciononostante fare un atto di vita, essere complici con una cosa come questa; essere in totale contraddizione con quello che si sa; e se la vita ha qualcosa di misterioso è appunto questo, che pur sapendo ciò che si sa, si è capaci di compiere un atto che va contro il proprio sapere”. Cioran
Non il riso della rinuncia, ma affermazione della vita, nonostante tutto, e un farsi davvero carico del reale.
Luca Orlandini
*L’articolo è costellato da alcuni disegni preparatori di Michelangelo; in copertina, l’autore.
L'articolo “Quando si è sensibili solo al sottosuolo dello scibile umano, a un viaggio al termine della ragione, a una visione oscura degli esseri umani…”: la disciplina della ‘tabula rasa’ (necessaria per sopravvivere al predominio degli intellettuali ottusi) proviene da Pangea.
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Fare surf tra i paradossi: sull’arte narrativa dei monaci taoisti
In un disegno di epoca Ming, il maestro taoista, con baffetti e veste lunga fino ai piedi, è sdraiato, appoggiato al braccio; la costellazione dell’Orsa Maggiore – che in Cina si chiama il Moggio – copre il maestro, come un velo. Chi conosce il Tao, riposa sulla terra e ha per suddito il cielo, si pone come punto di sintesi tra cielo e terra. Non nutrendo ambizioni su questa terra, che è il luogo di ciò che è fugace, il maestro sogna – e nel calco dei suoi sogni dispone la propria vita transitoria, terrena.
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Che cos’è il Tao? Fondato da Lao Tzu in un poema di 81 ‘stanze’ di grande fascino, il Tao Te Ching, del taoismo si ignorano gli esordi, leggendari – Lao Tzu è vissuto forse nel VI, forse nel IV, forse nel III secolo prima di Cristo, forse non è altro che un mito – e frequentarlo è come scalare una parete rocciosa ricoperta da una coltre di ghiaccio. Il taoismo, consolidatosi nello Zhuangzi, opera “ai vertici della letteratura mondiale, non solo della filosofia cinese in cui gioca un ruolo determinante” (Leonardo Vittorio Arena) e nel Liezi, “uno dei testi fondamentali per lo studio del pensiero della Cina antica, ma anche, insieme al Tao Te Ching e al Zhuangzi una delle tre scritture in cui la tradizione taoista continua a vedere sintetizzati i propri principi dottrinali e le loro relative applicazioni” (Alfredo Cadonna), è un tour nel paradosso e nell’indicibile. Il Tao, infatti, “è un qualcosa che non può essere definito, in quanto la dottrina va insegnata ‘senza parole’”, introduce a “rinunciare a qualsiasi tipo di ambizione, sia in campo politico-sociale sia in campo culturale”, comporta “la necessità di appartarsi dalla società, di contestare il sistema, di praticare il non fare” e “si raggiunge col completo distacco dal mondo fenomenico, con la rinuncia assoluta e lo con lo stato estatico” (così la sintesi di Lionello Lanciotti). Il Tao nasce nella negazione – così i primi versi, perentori, del Tao Te Ching: “Tao chiamato Tao non è Tao/ i nomi non possono nominare alcun nome durevole” – e lì si evolve, in un ribaltamento completo, continuo di tutti i valori mondani e di tutte le evidenze.
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Un esempio? Il concetto di ‘utilità’. Secondo la visione banalmente occidentale è importante ciò che è ‘utile’, il taoismo ci insegna “la qualità dell’inutile”. Cosa significa? Il taoismo, che ha un pensiero poetico ma nient’affatto astratto, resta una filosofia naturale, dell’esperienza, con i piedi per terra. Se un albero è ‘utile’ viene tagliato per fabbricare case, navi, carri. Un albero ‘utile’ viene ucciso. L’albero che ha il legno ‘inutile’ alla costruzione, vive millenni. Se una creatura è ‘inutile’ viene ignorata, perciò è salva dal massacro della Storia.
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Essere abili nel fare qualcosa per trarne profitto è un errore; l’abilità deve essere fine a se stessa, praticata sui flutti del caso. L’ingenuità, la vaga innocenza, l’assenza di scaltrezza, tutto ciò che agli occhi degli ‘uomini di mondo’ certifica uno stato di idiozia, per il taoista è il massimo della virtù. “I [t]aoisti ironizzano sulla presunzione di coloro che pensano di poter catturare la realtà in un sistema intellettuale. Sono altresì convinti che cercare di imporre una norma di comportamento agli individui e alla società, sforzarsi di migliorare le cose, è fare il primo passo nella direzione sbagliata ed è la sorgente ultima del disordine” (Augusto Shantena Sabbadini). Rinunciare alle cariche e agli onori, abitare la non azione (wu wei), cioè adattarsi al fluire di tutte le cose, obbedendo alla natura delle cose e non ai propri desideri personali, contemplare il mondo sapendo che la realtà sensibile non è la realtà vera, l’ultima, è la disciplina del taoismo.
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Orientativamente, tra il IV e il I secolo prima di Cristo il taoismo, narrato nei tre grandi libri del canone (Tao Te Ching, Zhuangzi, Liezi), trova la sua forma ed è il più squisito frutto culturale della Cina antica. Dialogando con il taoismo, il Buddhismo Mahayana, portato in Cina da Bodhidharma nel V secolo dopo Cristo, diventa Chán e poi Zen, nella versione giapponese. Del taoismo originario (in Zhuangzi e Liezi) è propria l’arte narrativa, il gusto per lo sketch paradossale (che diventa koan nello Zen, il gesto linguistico che porta al ‘risveglio’), per la battuta schietta in grado di sgretolare le menzogne della ragion comune, per l’aforisma esoterico, in cui il discepolo deve inabissarsi tentando l’illuminazione. Nel taoismo – come nel buddhismo zen – non ci sono nozioni da imparare, non si esige un progresso culturale, si attende, attraverso i testi, allo shock capace di modificare per sempre il nostro sguardo sulle cose. Il taoismo ci insegna a camminare a testa in giù e a mettere casa tra le nuvole.
Giovanni Zimisce
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Si pubblicano, per gentile concessione, alcuni racconti dal libro “Storie e leggende taoiste” (Theoria 2018, pp.92, euro 10,00), a cura di Giovanni Zimisce.
La deformità è un bene
A Song crescono cipressi e gelsi ottimi per il legname. Con alcuni alberi si fabbricano pertiche, con altri travi molto rinomate, con altre ancora si fanno le bare dei nobili e dei mercanti. Tutti questi alberi non giungono alla fine della loro esistenza: vengono uccisi dalle asce quando sono giovani. Questo è il problema di chi ha delle qualità. Le vacche dalla fronte bianca, i maiali deformi, gli uomini con le emorroidi non erano utili ai sacrifici. Gli uomini deformi non sono di buon auspicio: questo è quello che dicono gli astrologi. Proprio per questo sono di ottimo auspicio per l’uomo spirituale.
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I consigli di Uomo Senza Nome
Tian Gen camminava su una roccia assolata. Quando arrivò al fiume incontrò l’Uomo Senza Nome.
“Come si governa l’impero nel modo migliore?”, chiese.
“Che domanda stupida!”, disse Uomo Senza Nome. “Vivo come un uomo, a fianco del Creatore. Quando mi prende la noia, cavalco un falco e vado fino al paese del nulla, nei domini incontaminati. Perché mi scocci con queste domande?”.
Tian Gen ripetè la domanda.
“Deponi il cuore nella solitudine, poni il respiro nell’indifferente, abolisci ogni desiderio e vivi nella spontaneità. Così, l’impero sarà ben governato”.
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La parabola della bellezza
Yangzi era in viaggio e fece tappa in un piccolo albergo. Il padrone dell’albergo aveva due concubine, una bella e l’altra brutta. La brutta era esaltata a discapito della bella, oltraggiata. Yangzi si domandò il perché. Un dipendente dell’albergo gli rispose: “La bella si pensa bella e io non vedo la sua bellezza; la brutta sa di essere brutta e io non vedo la sua bruttezza”. Yangzi disse: “Ricordate, discepoli. Agite da uomini saggi senza considerare sagge le vostre azioni, così verrete amati”.
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Cosa me ne faccio dell’impero?
Shun voleva abdicare in favore di Shan Juan. “Io sono il centro dell’universo, sono il padrone dello spazio e del tempo. D’inverno indosso le pellicce, d’estate abiti di lino. In primavera lavoro la terra per rafforzare il mio corpo. In autunno raccolgo, così posso nutrirmi e riposare durante l’inverno. Quando il sole sale, mi reco al lavoro; quando cala mi fermo. Sono un uomo libero, tra Cielo e Terra, e il mio cuore sa cosa desidera e non vuole altro. Cosa me ne faccio dell’impero? Mi rattrista che tu non mi conosca”.
Shan Juan non accettò, si spogliò dei rari averi e percorse la via delle montagne. Nessuno l’ha più trovato.
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