Non siamo soli
Tutti mi chiedono “Per cosa sei depresso? Puoi comprare tutto quello che vuoi!”
Vorrei che tutte le persone del mondo fossero ricche per fargli capire che i soldi non sono tutto. Non esistono supereroi, esistono solo uomini.
Con DeMar bisogna partire da lontano...
Compton, 20 miglia da L.A., California. È il 24 settembre 1992.
Frank DeRozan entra al Weever’s Barber shop della città per far tagliare i capelli a suo figlio per la prima volta. Il vecchio Willy Weever, nel sistemare DeMar, pensa ad alta voce e dice “Mani enormi e piedi enormi. Scommetto 1 milione che questo ragazzo diventerà un giocatore di basket”
Barbiere e profeta, perché il piccolo diventerà davvero un giocatore di pallacanestro, ai massimi livelli possibili. Ma da quel primo taglio di capelli nel salone alla prima palla a 2 con Toronto c’è un vuoto grosso 20 anni, che DeMar ha riempito con una vita tutt’altro che in discesa.
Vivere a Compton ti fa crescere in fretta, ti espone al freddo rumore dei colpi di pistola e ti lascia quella perenne colonna sonora in testa di sirene di polizia, di ambulanza, in corsa per le strade della città.
“Blessed One”
Sul polso destro, quello che oggi spezza decisamente meglio nel tirare con fiducia oltre l’arco, suo grande limite di inizio carriera, DeMar ha voluto imprimere per sempre il modo in cui la nonna materna lo chiamava.
Mamma Diane e Frank, dopo 5 anni di
matrimonio, erano ormai rassegnati all’idea che l’aggravarsi di una malattia all’utero diagnosticatale da adolescente rendesse impossibile una seconda gravidanza.
Diane ha avuto già Jermaine, chiamato così in onore di suo fratello, sparato a 19 anni per strada, ma viste le circostanze non crede di riuscire a portare avanti la gravidanza. Invece, quasi per miracolo, DeMar arriva, e da qui quel nome.
Non è il suo unico tatuaggio. Sul polso sinistro c’è Diane, sulla mano destra
“LOYALTY”
Fedeltà. Fedeltà al padre, alla madre, a Compton. Un valore, spesso ignorato. Un dogma per lui.
L’infanzia e l’adolescenza di DeMar sono scandite dai colpi di pistola. A 4 anni uno zio viene ucciso a 2 vicoli di distanza da casa sua. L’ufficio della Polizia, benchè a 100 metri, non offre alcuna sicurezza, a Compton funziona così e tra mille stenti i DeRozan ovattano il ragazzo il più possibile.
A 12 anni, quando in tutto il Paese si parla di lui, la Dominguez High School, dove negli anni precedenti erano passati il futuro NBA Brandon Jennings e il campione coi Pistons Tayshaun Prince, inizia una corte serrata al giocatore. Promettono soldi al padre, lo riempiono di aspettative, ma DeMar si fa trovare tra i banchi nel primo giorno di scuola della 9° classe della Compton High School. E, al prof, sorpreso nel vederlo, esclama:
“Mettiamo Compton sulla cartina geografica!!”
26 di media da freshman, i tifosi lo amano. E le prodezze sul parquet lo aiutano a mettere da parte i momenti di scoramento e tristezza. È così conosciuto e apprezzato a Compton che, come rivela Frank anni dopo, alcune gang una volta accortesi della sua popolarità iniziano a girare alla larga in segno di rispetto. A casa di “Deebo” non si passa, il nome gliel’hanno dato i tifosi, chi conosce Ice Cube ne saprà qualcosa.
I corteggiamenti continuano, e tra la moglie depressa e senza lavoro e la titubanza di DeMar a lasciare abitudini e città natale, è Frank a tuonare che il figlio non è in vendita, e non è nemmeno pronto ad allontanarsi, non ancora almeno. Il compromesso però si trova, perché insieme scelgono l’Università di South California, a 20 minuti da Compton.
DeMar non brilla all’inizio e segna poco più di 10 punti a partita, ma nella Pac-10 raddoppia il fatturato e mette a tacere molti critici. Per fronteggiare le difficoltà economiche, coglie al volo la chance di andare subito tra i PRO e con la chiamata n.9, in Canada, comincia la sua avventura NBA.
Ma non è tutto oro quel che luccica.
“This depression get the best of me”
Siamo a Los Angeles e si gioca l’All-Star Game. È forse il primo momento da inizio stagione in cui i giocatori possono finalmente rilassarsi. Niente voli per qualche giorno, niente schemi, niente pressioni. È un weekend di festa, e se sei una delle stelle impegnate nella gara della domenica, la festa è doppia.
Nel più insospettabile dei contesti però, DeMar prende lo smartphone tra le mani. Ci pensa un po’, e alla fine digita poche ma significative parole, per liberarsi, per mostrarsi, per aprirsi in tutta la sua fragilità.
“Questa depressione sta prendendo il meglio di me”
Famoso, ricco, senza apparenti mancanze o necessità che non possa soddisfare in un batter d’occhio, nel tweet di DeMar si percepisce parte di quel disagio che mai avremmo associato ad una super-star NBA, per giunta nella sua migliore stagione e nella miglior stagione dei Raptors, primi a Est in quel momento è col terzo miglior record della Lega.
DeMar si apre, si sfoga, lascia andare nei giorni successivi a quel tweet parte di quel magone con cui lotta da troppo tempo. Lo fa con sincerità.
“È una di quelle cose in cui non conta quanto indistruttibili possiamo apparire, siamo semplicemente uomini a fine giornata.
Proviamo tutti queste sensazioni. A volte le reggo, altre volte prendono il meglio di me, come se avessi il mondo addosso.
Se non mi conoscete, io sono un tipo tranquillo. Amo essere riservato in un certo senso, nel mio spazio personale, capace di affrontare da solo qualsiasi cosa mi ponga davanti. Ho avuto spesso notti difficili, sono così da quando sono piccolo, ma penso che è esattamente da lì che mi porto i demoni dentro.
È un vero problema, ma siamo umani, tutto qui. Ecco perché guardo ogni persona che incontro allo stesso modo. Non mi interessa chi sei, puoi essere la più insignificante che trovo per strada o la migliore del mondo, io tratterò tutti con rispetto. Lo faccio perché mia mamma ha sempre detto: non prenderti gioco di nessuno perché non puoi mai sapere cosa ha passato quella persona. E sin da quando ero bambino, non l’ho fatto. Non mi interessa il loro lavoro, la loro razza, i loro gusti, niente.
Tratto tutti allo stesso modo, non puoi sapere cosa c’è dietro, devi rispettare e basta.
Avevo amici che credevo perfettamente a posto, la cosa successiva che sapevo di loro però era che fossero dipendenti dalle droghe e non riuscivano a ricordare cosa fosse successo il giorno prima. Non ho mai bevuto un drink in vita mia perché sono cresciuto vedendo tante persone affogare per tutta la vita in un bicchiere i problemi che stavano avendo. Capite cosa intendo?
Non è nulla contro cui sto combattendo o di cui mi vergogno. Alla mia età ho capito che ci passano in tanti. Forse c’era un modo diverso per affrontare pubblicamente tutto ciò, ma ho ricevuto messaggi veramente belli da più parti. Oggi, alla mia età, mi rendo conto di quante persone stiano attraversando le mie stesse difficoltà. E anche se so che a qualcuno non piacerà il mio successo nonostante problemi del genere, I’m OK with that”
Nel coraggio di DeMar, a pochi giorni di distanza, Kevin Love prima e Oubre Jr poi non hanno esitato nel parlare apertamente dei loro problemi personali. Attacchi di panico, crisi d’ansia, depressione, un tormento interiore che dietro i canestri e coi riflettori puntati addosso non si vede, ma che anzi costringe i giocatori a sembrare più duri, più forti, più solidi, quasi a voler mascherare quella fiamma che lentamente li sta bruciando dall’interno.
Subito dopo le parole delle tante star la Lega ha deciso di investire in un programma per dare supporto mentale e psicologico si giocatori.
Non esiste antidoto, ma c’è di certo un modo per stare meglio e limitare i danni di un mostro troppo spesso sottovalutato: parlarne.
DeMar, Kevin Love, Kelly Oubre Jr, Jahil Okafor, i fratelli Morris e, qualche giorno fa, Paul Pierce. E il mondo NBA, a partire dai primi campanelli d’allarme di qualche fino alle parole recenti e allo speciale sul tema di Jackie MacMullan “The State of Mental Health in NBA” (5 puntate con The Truth, Love e Bosh per iniziare), sta offrendo un grande supporto e un grande stimolo a chi, spesso in silenzio, soffre terribilmente.
We are only humans, after all.
Storie a Spicchi - Demar Derozan
JTL
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