#non perché sono posticci
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a me, onestamente, del passato di crazyj...
#lei davvero l'unico personaggio che proprio non sopporto#è così esagerata che mi sembra finta#ci sono pure altri personaggi che non sopporto ma perché sono stronzi (micciarella)#non perché sono posticci#lei proprio boh#mare fuori#mare fuori spoilers
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Altra gente invece mi chiede come mai da ateo e anticlericale sia dispiaciuto di vedere una chiesa che brucia. Forse perché riesco facilmente a vedere l’arte e la cultura che c’è oltre al simbolo religioso? Forse il vantaggio di non essere credente è proprio quello di riuscire a vedere le cose per quelle che sono, senza essere obnubilati da significati sovrannaturali posticci?
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A me ricordi il mare
e non per le vacanze
che abbiamo fatto insieme
Ma per il tuo ondeggiare
tra il gesto di chi afferra
e quello di chi si trattiene
Ci sono validi motivi per cui dovrei evitare di dirtelo
ma dal momento che mi scrivi dirò
che l'ho capito da subito
perché sei
perché sei tu che quando arrivi sorridi
e a me mi gira benissimo
e sempre tu che se decidi ti giri
e mi pugnali in un attimo
così succede che mi pare che va bene
e invece non va
e se migliora allora peggiorerà
oppure
sono sicuro che va male arrivo di là
e te lo dico tu mi dici "ma va"?
e ancora
a me succede che va bene
e invece non va
e se migliora allora peggiorerà
oppure
sono sicuro che va male arrivo di là
e te lo dico tu mi dici "ti va"?
ma io così non vado avanti
Mi ricordi il mare
non per i riflessi
per il sugo andato a male
il qualunquismo dei discorsi
sotto l'ombrellone
il sudoko che non torna
e quello che era scritto a penna
è già da cancellare
è come l'amore
va di tasca in tasca come l'accendino vuole
ti ritorna quando non hai niente da appicciare
se escludiamo il poco che rimane
ancora ancora ancora
Baci, baci ed abbracci
che diventano lacci
e più diventano stretti
più nascondono impicci
come un cane ti accucci
sui tuoi poveri stracci
e piano piano vai giù
come un programma di Socci
piano piano vai giù
ma poco dopo risorgi
solo che non ti accorgi
dei sorrisi posticci
dei pensieri che scacci
delle cose che lasci
per banali capricci
Mi ricordi il mare
Non per gli ombrelloni
Per la fila in tangenziale
Il malfunzionamento del mio condizionatore
la discesa libera sui sassi senza aver le scarpe
per fare i fricchettoni
Questo è un po' il sapore
del tutto compreso
inclusa la consumazione
io l'ho già bevuta
eppure ho ancora troppa sete
soprattutto quando tu mi uccidi
ancora ancora
Quello di chi si trattiene
a me ricordi il mare
e non per le vacanze
che abbiamo fatto insieme
ma per il tuo ondeggiare
tra il gesto di chi afferra
e quello di chi si trattiene
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[...] La moda oggi è veicolata da fenomeni di massa, appartiene a tutti e a nessuno, ma un tempo le cose erano molto più difficili. Riconoscere qualcosa di “cattivo gusto” era un’impresa ardua e le persone avevano bisogno di linee guida ben specifiche per rendersene conto. Nel secondo dopoguerra il nostro Paese stava vivendo un periodo di materialismo frenetico dovuto al boom economico, e vedeva la nascita di una nuova borghesia, lo zoccolo duro dell’Italia del post-piano Marshall. Questa nuova classe media doveva però rispondere a una richiesta estetica ben precisa: le case degli italiani, i loro vestiti e il loro stile di vita dovevano riflettere il loro nuovo status sociale, e dovevano farlo attraverso oggetti, forme e materiali che oggi definiremmo spesso brutti, di cattivo gusto, o ancora meglio, kitsch.
Il termine “kitsch” deriva dal tedesco “scarto” (o, secondo altri, dall’inglese “sketch”, ovvero schizzo) ed è il termine con il quale veniva definito, nella Germania del 1860, l’opera d’arte commercializzata, la cui facile realizzazione la rendeva accessibile a chiunque, a discapito della sua unicità. Sebbene il termine fosse più antico, solo nel 1939 il kitsch iniziò a determinarsi come lo conosciamo, attraverso uno scritto del critico d’arte americano Clement Greenberg, che lo analizzò per primo nel suo manoscritto L’avanguardia e il kitsch, dove descriveva questo “fantastico fenomeno” come una “retroguardia” dell’avanguardismo di quel tempo. L’essenza del kitsch è l’imitazione eticamente scorretta di ciò che è stato fatto, anche in maniera goffa, poco simile al reale – è, per citare Walter Benjamin: “Una gratificazione emozionale istantanea senza sforzo psicologico, senza sublimazione.”
In parole povere, il kitsch è la “volgarizzazione”, in quanto divulgazione di massa, dell’arte per fini speculativi. Definire il kitsch “brutto”, però, è improprio. Per riprendere le parole di Dorfles, si tratta di “Un’ambigua condizione del gusto.” Anche perché, il semplice “brutto” non definisce la moltitudine di forme che il kitsch può assumere dal punto di vista sociologico e antropologico: dai villaggi turistici ai rosari fluorescenti in omaggio con i giornali religiosi, passando per diversi riti posticci appartenenti alla cultura New Age.
Del fenomeno ne hanno parlato critici, scrittori e artisti in tutto il mondo. Milan Kundera lo ha raccontato nel suo libro L’insostenibile leggerezza dell’essere, attraverso il personaggio di Sabina, che si interroga sulla possibilità che l’uomo possa creare qualcosa di così “sbagliato”, prendendo come esempio una delle azioni più naturali dell’uomo: la defecazione. Se è vero che la merda è una cosa naturale, perché ce ne vergogniamo? La domanda ovviamente è retorica, ed è posta per forzare la riflessione sul fatto che non tutto ciò che l’uomo crea è necessariamente “bello”, anzi. La verità è che il cattivo gusto ha sempre appassionato, nonostante il lascito del secolo scorso, con la sua ricerca del bello nella semplicità. C’è sempre stato posto per l’abbondanza a poco prezzo. La televisione ha poi contribuito a portare nelle case di milioni di persone, insieme all’alfabetizzazione, il kitsch, e Andy Warhol ha coniato il termine “trash”, spazzatura, con l’omonimo film da lui prodotto.
Il kitsch, per quanto fenomeno di massa, ha il merito di aver concesso al popolo un mezzo per riappropriarsi dell’arte, sia pure falsificandola e commercializzandola. Il rischio, in questo inevitabile processo, era quello di affezionarsi alle cose brutte, creando un gusto distorto del bello. A evitare l’apocalittico scenario ci pensò Dorfles con il suo libro cult: Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, pubblicato nel 1968. Negli anni dei pantaloni a zampa di elefante, dello space look e dei temi optical su abiti e pareti, veniva utilizzato nei salotti letterari come bibbia contro il cattivo gusto, che avrebbe risparmiato le generazioni future. Eppure, in quanto intellettuale, Dorfles non ebbe un vero impatto sulla società di massa, se non diversi anni dopo, quando il suo lavoro fu preso in considerazione e studiato da appassionati e accademici, che riconobbero il valore profetico delle sue opere. Del resto, l’Italia è il Paese degli avanguardisti impopolari, dei futuristi bistrattati, dei geniali ideatori non finanziati; ci accorgiamo del valore delle cose quando realizziamo di averle perse.
Dorfles parlò apertamente agli italiani e fece il possibile per mettere in guardia i lettori dei suoi scritti dai mobiletti, dai soprammobili e dal turismo visto attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica usa e getta. Il suo profetismo però non stava solo nell’aver tradotto un concetto – il kitsch – che era già diffusissimo in tutto l’occidente, ma di averlo analizzato dal punto di vista sociologico, dando un quadro più o meno realistico dell’uomo moderno. Nel farlo, fece riferimento al cosiddetto kitsch-mensch (l’essere-kitsch), citato già da Greenberg – sebbene il termine fosse stato coniato dallo scrittore austriaco Hermann Broch per definire la piccola borghesia tedesca. Le caratteristiche fondamentali di questo essere sono tre: moralismo, sentimentalismo e mancanza di cultura. Secondo Dorfles, infatti, l’uomo kitsch è l’individuo che usufruisce dell’opera d’arte in maniera inconsapevole. È ad esempio “Colui che predilige la Pastorale di Beethoven alla Nona per il semplice motivo di trovarla più gradevole.”
L’essere-kitsch della modernità si emoziona a un concerto di musica classica perché immagina che così debba essere, senza riconoscere l’effettiva qualità del suono o dell’interpretazione, apprezza indiscriminatamente qualsiasi opera del passato senza porsi il problema di saperla realmente comprendere, si strugge nel vedere un artista di strada omaggiare Klimt, Picasso, o quei pochi altri artisti ai quali sa fare riferimento. L’individuo in questione è una vittima del conformismo, della produzione di massa, e, in quanto tale, è una vittima (inconsapevole) del kitsch. Dorfles, però, non ha inteso il kitsch-mensch come un individuo prettamente negativo per la società, quanto più una parte integrante di essa. Del resto, nessuno è esente da questo fenomeno, tanto che, per sua stessa ammissione: “È necessario conoscerlo, anche frequentarlo, e perché no, qualche volta utilizzarlo, senza farsi mai prendere la mano. Perché il cattivo gusto è sempre in agguato.” [...]
"Gillo Dorfles ha profetizzato l'uomo del nuovo millennio" di Giovanni Tartaglia
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Capolinea democrazia: si scende!
Che l’Italia dovesse cambiare era necessario, ma che dovesse cambiare regredendo, proprio no.
Regredire in diritti civili (vedasi proposta Pillon, nonché la più recente proposta Poli), regredire in lotta all’evasione (mi riferisco alla pace fiscale, che è solo un altro condono); regredire in libertà di parola ed espressione (le minacce ai media, i curricula ed i posizionamenti dei prossimi dirigenti RAI, i divieti di mandare in onda personaggi scomodi come Mimmo Lucano e Ilaria Cucchi); regredire ignorando altre grosse piaghe del Paese, come la disoccupazione, la sicurezza sul lavoro, la misoginia pervicace, la sicurezza delle infrastrutture, le discriminazioni e - eh già - il razzismo.
Si regredisce anche ritenendo l’obbligo dei sensori sui seggiolini per bambini un grande passo per la civiltà, mentre non si ha uno straccio d’idea contro il bullismo scolastico. Non è civiltà anche debellare questa piaga, la cui diffusione è di stimolo alle imitazioni?
Si è sostituita la politica della formazione civica e della prevenzione (attraverso la cultura a tutti e non solo a chi può permetterselo) con quella del controllo e della repressione. Sì, certo in salsa italiana, un Paese in cui si fa la voce dura contro i difensori della 194 e si liscia il pelo agli evasori; un Paese le cui emittenti ci bombardano di tette&cosce frugando da guardoni nei reality posticci e i bacchettoni di provincia fanno la morale sui social alle calzature di ignare passanti (com’è successo a Sassari, qui). Un Paese in cui s’invoca l’onnipresenza di vigili, carabinieri e poliziotti solo per controllare il nostro prossimo, anche quando butta l’immondizia, auspicando telecamere ad ogni anfratto che però sia altrui. Un Paese sulla Carta Costituzionale laico, ma che consente l’obiezione di coscienza finanche per la vendita della ‘pillola del giorno dopo’, con gli osannamenti ipocriti dei media nazional-popolari. Un Paese che permette a pluri-divorziati di farci la morale sui palchi dei family-days. Un Paese in cui si chiudono i consultori e si tagliano i fondi alla rete di protezione per donne vittime di violenze. (Tanto, chi può, trova sempre il metodo per abortire, comprare la RU486, ricorrere all’eterologa, nascondere capitali e tanto altro.) Un Paese in cui è la Magistratura a dover obbligare il Parlamento a legiferare sul fine-vita.
Un Paese in cui i Sindaci tendono al dispotismo con punte di tirannia comportamentale, al grido “Io sono stato eletto dal popolo!”, ritenendo di poter bypassare le norme. Sindaci che negano la sala per le dichiarazioni di unione civile. Sindaci che impongono il crocefisso nella sala dei matrimoni civili e danno di matto se gli sposi non gradiscono o - casomai - preferiscono arricchire o abbellire il luogo con altre effigi a loro care. I luoghi municipali sono di tutti: siamo in democrazia e il limite è solo la decenza ed il codice penale.
E poi, il Presidente Mattarella ha ricordato che chi vince governa, non comanda.
(Quando la moglie di mio cugino ha fatto il suo ingresso nella sala matrimoni del Comune, non irpino, alloggiato in un antico chiostro monasteriale, le persone in sala hanno cantato Bella ciao e il Sindaco non ha minacciato l’annullamento del matrimonio, sol perché la canzone dei partigiani è diventata - grazie alla stigmatizzazione di stampo destro-leghista - un inno della Sinistra, cui gli sposi aderiscono senza doversene vergognare. Non dimentichiamoci neanche dell’episodio in cui l’attrice Ottavia Piccolo venne bloccata all’ingresso del Lido di Venezia, sol perché indossava un foulard dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Vedete a che siamo arrivati, nella democratica Italia? E pensare che Bella ciao ce la facevano imparare alle scuole elementari, perfino negli anni del riflusso post-sessantottino. Siamo messi male, molto male.)
Il problema vero è che - per ignoranza, semplicemente per ignoranza - stiamo scambiando per democrazia gli slogan messi in bocca al popolo. Ed il popolo (la ggente, o i webeti) non ha molto raziocinio quando si tratta di contemperare le necessità di tutti. Il rischio di scadere in un mondo di nazionalismi (ora si chiamano sovranismi) competitivi ed ugualmente incazzati è serissimo, scrisse Francis Fukuyama, storico statunitense, l’indomani della vittoria di Donald Trump. Sostituite ‘nazionalismi’ con ‘individualismi’ ed avrete la formula per il populismo del Terzo Millennio.
Di recenti regressioni della democrazia se ne vedono un bel po’ in giro per il mondo cosiddetto occidentale. A cominciare dagli Stati Uniti nel segno di Trump (ascoltate Michael Moore nel suo nuovo docu-film, Farenheit 11/9), per finire alla Thailandia, passando per la Turchia, l’Ungheria e la Polonia. Rischia l’Austria, più di Germania, Olanda e Svezia.
Leggevo (su Esquire USA) che in ogni ciclo di democrazia - sintetizzo un editoriale dedicato al già citato Fukuyama - è necessario il regresso per poter ricominciare la lotta. Affermato da uno che ipotizzò la fine della storia (non c’era ulteriore progresso al liberalismo occidentale, secondo Fukuyama, dopo la caduta del Muro), è un passo avanti, avendo egli considerato che il thymos (la lotta, la passione o anche il temperamento umano) è la spinta che rimette in moto la Storia, la quale può essere, quindi, considerata al pari di un’eterna oscillazione sociale tra isotimia e megalotimia, ovverosia tra desiderio di uguaglianza tra cittadini che si ritengono pari e ambizione individuale di coloro che vogliono essere riconosciuti migliori di ogni altro, grazie al potere, o al denato.
Ritengo - con questa premesse - che democrazia sia la condizione in cui la megalotimia sia tenuta più a freno, senza, tuttavia, scadere nell’isotimia totale e totalitaria.
Tuttavia, continua Fukuyama, non stiamo correndo ad abbracciare una più ampia democrazia. E - aggiungo io - ci stiamo impedendo maggiori aperture sociali e soprattutto mentali, lasciandoci obnubilare da un oscurantismo che ha portato alla ribalta gente come i terrapiattisti, i negazionisti di Darwin e delle teorie dell’evoluzione, i no-vax, e le mamme-pancine, senza dir poi dei teorici della Padania, un’enclave mai storicamente o etnicamente attestata.
Ci siamo ribellati (con le politiche di marzo) alla megalotimia di Renzi e del giglio magico, per poi cadere come fessi nell’illusione pseudo-democratica del populismo, anzi dei populismi leghisti e pentastellari, che mascherano le loro megalotimie, ricoprendole con presunte necessità del popolo, laddove non è vero che abbiamo bisogno di più sicurezza, non è vero che stiamo per essere accoppati dai migranti, non è vero che le vaccinazioni causino l’autismo (affermò Isaac Asimov, che la scienza accumula conoscenza più velocemente di quanto la società accumuli saggezza), non è vero che la povertà sia stata sconfitta, non è vero che di famiglia ce n’è una sola (l’ISTAT ha identificato almeno tredici tipologie), non è vero che il reato di apologia del Fascismo sia stato abolito.
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La bella e la bestia - capitolo 2
Indice dei capitoli: La bella e la bestia
Tom Dupain gemette, aprendo gli occhi avvertendo immediatamente una fitta di dolore che gli attraversò la testa, costringendo a serrare nuovamente le palpebre: cosa era successo? Dove si trovava? Ignorando il dolore più persistente, con fatica si issò a sedere e osservò l’ambiente in cui si trovava: le mura scure erano composte da mattoni grezzi e una lieve patina di umido le ricopriva, in vero l’intero posto sembrava aver ceduto al tempo e alla vegetazione, visto che alcuni rampicanti entravano dalla finestra e si allungavano all’interno della stanza: «Dove mi trovo?» si domandò l’uomo, alzandosi e barcollando leggermente. Ricordava la tempesta, che aveva fatto imbizzarrire i cavalli e lo aveva condotto su una strada diversa, lontano dal suo percorso abituale per tornare a casa. Ricordava di aver intravisto un’abitazione e di aver cercato un qualche accesso e poi… Poi il nulla. La sua mente era totalmente oscura. Come era finito lì? Perché era lì? Chi ce lo aveva portato? Erano tutte domande senza risposta e che lo agitavano: il cuore batteva veloce e il respiro era affannato, mentre continuava a guardarsi attorno, alla ricerca di un qualche indizio che spiegasse la sua presenza in quella stanza. Cella, si corresse immediatamente, osservando la porta di legno e che aveva una piccola apertura in alto, attraversata da sbarre di metallo: chi lo aveva catturato? Perché? Non era ricco, era un semplice mercante che faceva la spola tra Parigi e Tours, non aveva nulla da offrire a dei rapitori. Anche i suoi abiti, che avevano visto giorni migliori, erano un indice di quanto non fosse benestante… Quindi perché catturarlo? Un rumore lieve, al di là della porta, lo fece sobbalzare: «Il padrone non sarà contento di saperci qua…» mugugnò una voce metallica, che provocò in Tom un nuovo brivido: una volta, sua figlia, gli aveva mostrato un libro dove c’era la figura di un uomo che, per metà del corpo, era fatto di metallo. Possibile che, dall’altra parte, ce ne fosse uno simile? «Sai quanta paura mi fa quel ragazzino» commentò una seconda voce, con tono sbrigativo: «Cosa potrebbe farmi? Ruggirmi contro? Sgranocchiarmi un po’?» Ruggire? Sgranocchiare? Dove era finito? E se fossero stati dei cannibali? E se… «Ma perché vuoi vederlo?» «Perché sento che quell’uomo è…è…non so dirtelo, ma vedo in lui la soluzione al nostro piccolo problemino.» Lo avrebbero ucciso. Ora ne aveva la conferma. «Vi…vi…prego, n-non u-uccidetemi.» mormorò, allontanandosi dalla porta e osservandola, come se da un momento all’altro si fosse spalancata e i suoi carcerieri sarebbero entrati per portarlo verso morte certa. «Oh. E’ sveglio!» «Perché ci ha chiesto di non ucciderlo? Plagg, cosa hai combinato?» «Assolutamente niente.» «E allora…» «Forse ci ha sentiti…» mormorò l’uomo che rispondeva al nome di Plagg: «Buon uomo, stia tranquillo! Con noi può dormire sogni tranquilli…beh, per quanto si possa dormire lì dentro, l’avevo detto al nostro signore che una stanza più confortevole sarebbe stata adeguata, Tikki aveva anche preparato quella blu nell’ala est…» si fermò, lasciando andare un enorme sospiro: «Ma quel moccioso è testardo come un mulo.» «Vi, prego. Lasciatemi andare. Io non sono nessuno, sono solo un umile mercante…» mormorò Tom, sperando di far leva sull’umanità dei due: «Vi prego, mia moglie e mia figlia mi aspettano a casa.» «Lei ha una figlia?» «S-sì.» «Sentito, Wayzz! L’avevo detto che era la soluzione al nostro problema.» «Non vedo come il fatto che abbia una figlia possa aiutarci.» «Co-cosa volete fare a mia figlia?» «Assolutamente niente, buon uomo!» sentenziò Plagg, cercando di tranquillizzarlo: «Giusto una domandina innocente: che rapporto ha sua figlia con il pelo?» «Voilà!» Marinette sorrise orgogliosa, togliendo il lenzuolo dalla sua creazione e mostrandola al padrone delle bottega: «La macchina taglia e arriccia, Theo.» dichiarò, facendosi da parte e osservando il barbiere avvicinarsi per studiarla: «Ti semplificherà il lavoro: basta che la imposti, tramite questa semplice manopola qua e voilà! Taglia, arriccia e imbelletta. E per farla funzionare, devi semplicemente rifornirla di vapore…» «E’…è…» «Incredibile, vero?» esclamò la ragazza, battendo le mani e sorridendo: «Purtroppo ho potuto impostare solo quattro tagli base, i più comuni. L’ho testata su alcuni manichini, i bracci si muovono ed è stata perfetta. Beh, nella maggior parte dei casi.» «Marinette, ti ringrazio veramente…» «Ma…» «Cosa?» «Dalla tua frase sembrava che ci fosse un ma?» «Ecco, è quella ‘maggior parte dei casi’ che mi costringe a rifiutare la tua invenzione.» dichiarò Theo, posandole le mani sulle spalle e sorridendole comprensivo: «La gente viene qui per farsi tagliare la barba, non per rischiare di venire sgozzato.» «Ma funziona!» «Ne sono certo, Marinette, però mi spiace. Non posso accettarla.» «Te la faccio vedere in funzione, d’accordo?» esclamò la ragazza, sgusciando dalla presa dell’uomo, andando a recuperare il manichino che aveva lasciato fuori dalla porta del negozio: «Ti presento monsieur Mannequin!» «Perché ha un taglio sulla faccia?» «Incidente di percorso.» bofonchiò sbrigativa la mora, sistemando con un po’ di fatica il manichino sulla poltrona, sorridendo poi al barbiere: «Monsieur Mannequin vuole un taglio Chevron per i suoi baffi.» spiegò, armeggiando con la borsa che teneva in vita e recuperando un paio di baffi posticci, appiccicandoli in faccia al fantoccio: «Quindi, giro questa manopola qua, apro il vapore e…» la ragazza si allontanò, osservando soddisfatta i bracci della macchina avvicinarsi al volto del manichino e iniziando a tagliare: «…voilà! Mentre ti occupi di un altro cliente, la macchina…» Un fischio lungo e acuto zittì Marinette che, riportando l’attenzione, sulla macchina notò come questa stava tremando e aveva iniziato a muovere i bracci in maniera sconclusionata, sfregiando il volto di monsieur Mannequin e portandolo alla prematura morte per decapitazione: «Ah…» «L’ha…l’ha…» «Succede quando è fredda, deve solo riscaldarsi. Sistemo la testa a…» «Marinette, domani viene a prendila e riportala a casa tua.» «Sì, d’accordo.» mormorò mesta la ragazza, osservando l’uomo, togliere il tubo del vapore e spingere la sedia in un angolo del suo negozio: «Theo, io…» «Domani, Marinette.» La giovane annuì, uscendo dal negozio e sospirando, calcandosi poi il berretto sulla testa: «Anche stavolta è stato uno schifo» borbottò, osservando alcune ragazze camminare dalla parte opposta della strada: i vestiti lindi e femminili erano l’esatto opposto della maglia logora e della corta gonne a balze che indossava lei. Era stata contenta quando, dall’odiata Inghilterra, era giunta la moda delle gonne corte: le permettevano un’ampia mobilità e non facevano gridare sua madre, come succedeva ogni volta che provava a indossare dei pantaloni. Si portò una mano all’altezza del petto, giocherellando con il ciondolo a forma di coccinella, l’ultimo regalo che suo padre le aveva portato da Tours e incamminandosi verso casa. La data del ritorno del genitore era passata da una settimana, eppure dell’uomo non c’era ancora segno, non che questo la preoccupasse, poiché capitava molto spesso che tornasse con parecchi giorni di ritardo: ecco perché voleva a tutti costi costruire un dirigibile o comunque una macchina volante che facilitasse gli spostamenti del padre, peccato che servivano parecchi soldi e le sue invenzioni… «Oh. Ma guarda un po’ chi c’è» una sgradevole voce femminile le giunse alle orecchie, facendola sbuffare: «Marinette Dupain-Cheng. Chi hai cercato di uccidere oggi?» «Chloé Bourgeois» mormorò la ragazza, voltandosi e osservare la figlia del sindaco uscire dalla pasticceria, vicina al negozio di Theo: «Ti mescoli a noi comuni mortali oggi?» domandò, cercando di ignorare l’abito giallo e carico di nastri e fiocchi. Qualcuno doveva dire a quella ragazza che l’esagerazione non significava più eleganza. Dietro di lei, come al solito, arrancava Sabrina Raincomprix con le braccia cariche di pacchetti e l’espressione sofferente di chi sta portando un peso eccessivo rispetto alla propria forza; Marinette sorrise alla giovane, venendo ricambiata da un timido piegamento delle labbra. «Come al solito puzzi, eh Marinette?» «Come al solito sembri una merceria ambulante, eh Chloé?» «Almeno io non mi vesto da stracciona. Oh, ma cosa dico: tu se una stracciona.» dichiarò la figlia del sindaco, gettandosi indietro un boccolo biondo e sorridendo divertita; Marinette ringhiò, stringendo i pugni e osservando l’altra superarla: «Ricordalo, Marinette. Tu non sarai mai nient’altro che la tipa stramba che vive in fondo a questa via. Niente di più, niente di meno.» «Beh, sempre essere la tipa stramba che quella che è odiata tutta Parigi!» sentenziò la ragazza, osservando la bocca di Chloé spalancarsi in una O perfetta; sorrise, voltandosi e andandosene velocemente, prima che l’altra si riprendesse dall’affronto e le potesse dire altro. Corse velocemente per la strada, raggiungendo il palazzo ove viveva con i genitori e sorridendo alla vista del carro del padre: era tornato! Finalmente era di nuovo a casa! Entrò velocemente nella stalla, osservando la madre accudire i due cavalli dal manto pezzato: «Dov’è, papà?» domandò, attirando l’attenzione della donna, mentre lei si guardava intorno: suo padre non avrebbe mai lasciato le due bestie senza occuparsene, erano la sua priorità appena arrivava a casa. «Tuo padre non c’è.» «Cosa?» Sabine si avvicinò alla figlia, mostrandole una lettera con un sigillo in lacca: «Il carro è arrivato con solo la merce. E in cassetta c’erano questa lettera e uno strano candelabro.» dichiarò, indicando con un cenno del mento il calesse, fuori dalla stalla: «La lettera è per te, Marinette.» La ragazza annuì, uscendo e carezzando il legno del carro, sorridendo alla vista del candelabro: aveva una figura umana e sembrava fatto di ottone; lo prese in mano, facendo scivolare un polpastrello sulle forme del viso e poi riponendolo nuovamente in cassetta, dedicando tutta la sua attenzione alla lettera, osservando la grafia ordinata con cui era stato scritto il suo nome e notando subito che non era quella di suo padre. Che cosa era successo? Ruppe il sigillo di lacca e tirò fuori il biglietto all’interno della busta, leggendo le poche righe che vi erano state scritte:
Madamoiselle Marinette Dupain-Cheng, con la presente la informo che ho soccorso vostro padre lungo la strada che da Tours va a Parigi. Purtroppo non può muoversi e così ho mandato il carro a casa, sperando che voi potreste venire a recuperare il vostro genitore e riportarlo a casa. Sempre vostro, Adrien Agreste
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“Con la sua faccia di cherubino dissoluto”: quando Dylan Thomas scriveva per il cinema
Tutto ciò che riguarda Dylan Thomas è una freccia in faccia – il viso di oggi si fa a pezzi e resta ciò che ero, il ragazzo, diecimila maschere sotto. Cresciuto nella stucchevole periferia torinese, per me, Dylan Thomas era l’amico e la fuga, il sodale e il maestro: ma, allora, un poeta può vivere scrivendo poesie, mi dicevo mentre il resto del mondo pensava che fossi un idiota che barbaglia frasi incomprensibili. Così, quando mi capita tra le mani un libro griffato Milano Libri Edizioni, classe 1976 – non ero ancora nato – con il faccione dionisiaco di Dylan Thomas in quarta – “Nacque nel 1914 a Swansea, nel Galles e morì a trentanove anni, consumato dall’alcool. È considerato la figura più prestigiosa della poesia inglese fra le due guerre” – vado in estasi e compro. Prezzo onesto – sono povero in canna – per un libro a me ignoto, s’intitola Favole di cinema.
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L’edizione è sontuosa: traduzione di Ida Omboni – una che ha tradotto da Oscar Wilde a Flannery O’Connor, da Bernard Malamud a Gore Vidal, di cui è noto, per altro, il sodalizio ferreo con Paolo Poli – e illustrazioni, vintage, di Nicoletta del Buono. Sono raccolti due embrioni di sceneggiatura cinematografica, qualcosa tra il soggetto e lo sketch lirico: Rebecca’s Daughters e Me and My Bike. Sono testi che risalgono al 1948, quando Dylan è già un poeta eccezionale – Deaths and Entrances è del 1946 – e ha già provato l’abracadabra della prosa – Portrait of the Artist ad a Young Dog è del 1940.
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Nel 1974 Einaudi aveva raccolto alcuni “racconti per il cinema” in Il dottore e i diavoli, ora fuori catalogo: perché?
*
In calce al libro, una lettera di Sydney Box, produttore per la Gainsborough Studios, ci fa capire il contesto in cui nascono queste sceneggiature e come si evolvono. “Io e la mia bicicletta non fu mai terminato. Praticamente, cominciò appena. Come sempre agli inizi, Dylan era pieno di speranze. Fece capolino dalla mia porta, con la sua faccia di cherubino dissoluto e gli occhi scintillanti di entusiasmo. ‘Voglio scrivere la prima operetta cinematografica originale’, mi annunciò. ‘Sarà tutta su un uomo innamorato della sua bicicletta; è intitolata Io e la mia bicicletta e racconta tutta la vita di quest’uomo. Che va in velocipede, in tandem, in triciclo, in bicicletta da corsa, e quado muore sale dritto in paradiso in bicicletta su un raggio di sole ed è accolto da un coro celeste di campanelli da bicicletta’. Naturalmente, incaricai Dylan di scrivere il copione”. Naturalmente, Dylan non riuscì a rispettare i patti – preda delle folgorazioni più che della pazienza di consolidarle in pagina.
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Leggo dalla biografia di Paul Ferris, Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere di astuzia e birra (Mattioli 1885, 2008), per approfondire. I soggetti abbozzati da Thomas – poi pubblicati, nel 1995, per la cura di John Ackerman, come Dylan Thomas. The Filmscripts – sono tre. “Sydney Box della Gainsborough sentì parlare di lui e nel 1948 lo scritturò per tre copioni. Per questi fu probabilmente pagato quasi duemila sterline, sebbene nessuno dei film venne mai registrato. Rebecca’s Daughters, basato su materiale già di proprietà dello studio, parlava delle aggressioni dei coloni ai caselli del dazio nelle campagne gallesi del XIX secolo. The Beach of Falesa era un breve racconto di Robert Louis Stevenson, ambientato nei Mari del Sud, e sarebbe stata una produzione costosa. Il terzo film, Me and My Bike, avrebbe dovuto basarsi su un’idea originale, che potrebbe essere stata di Thomas, strutturata come un’operetta… Per un paio di anni, Thomas fu di casa a Gainsborough. Saltuariamente compariva agli studi cinematografici nella West London per partecipare alle conferenze per le sceneggiature, indossando un completo blu lucido… Ritorna il vecchio aneddoto per cui doveva essere rinchiuso per un fine-settimana in una camera d’albergo (stavolta con una bottiglia di whisky) per completare una sceneggiatura”. In realtà, Le figlie di Rebecca diventerà un film: nel 1992, diretto da Karl Francis, con Peter O’Toole come protagonista.
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Incapacità cronica di stare alla cronaca dei fatti, di gestire il denaro – come istituito patto con gli uomini –, di corrispondere a richieste che non siano quella della propria violenta ispirazione, inutilità della colpa, cospirazione al deludere e all’essere adorato, stare nell’irresponsabile e nel repentino bagliore, amare continuamente e continuamente perdersi impetrando perdono (lettera canonica a Caitlin, in quel 1948: “Lasciami tornare da te. Torna da me. Non posso vivere senza di te. Non mi rimarrebbe nulla. Non ti chiedo di perdonarmi, ma ti prometto che non mi comporterò mai più da bestia insensibile, brutale e stupida. Ti amo”). Tutti questi criteri perfino posticci hanno il ‘tipo’ caustico in Dylan Thomas.
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Sia chiaro: il testo è materia per folli di Dylan. Sono, insomma, dolci materiali di scarto. La scrittura, però, è quella, scattante, ironica, a educare il sorriso. Un pezzo: “Augusto in velocipede, avanza sul viale d’ingresso. Vediamo la sua testa emergere dai cespugli, mentre pedala in un tumulto di cani che abbaiano e di galline che starnazzano. Giorgina si precipita giù dallo scalone con le gonne svolazzanti. Attraversa il vestibolo e spalanca la porta d’ingresso. Sulla gradinata si ferma per dare il benvenuto ad Augusto. La testa di Augusto va su e giù dietro i cespugli del viale. Ora o vediamo salire la gradinata, con tanto di velocipede. Una schiera strepitante di cani abbaia, latra e ulula intorno alle ruote”.
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Il poeta è totalmente sincero e totalmente fasullo, ama all’improvviso, poi dimentica, non è lui, è sempre fuori di sé, l’incoerenza lo smania, si snatura nel verso, profetizzando il volto. In questa lettera al produttore e sceneggiatore Ralph Keene, in appendice alle Favole di cinema, una confessione dell’eludere. (d.b.)
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27 luglio 1948
Caro Bunny
grazie per la tua lettera e per la scaletta riveduta di “Io e la mia bicicletta”. Ho scritto a Sydney, raccontandogli ogni cosa e aggiungendo che se crede posso mettermi a lavorare per lui da agosto e non da settembre, come stabilito. Se è d’accordo, potrei cominciare da “Io e la mia bicicletta” quasi immediatamente. Tengo infinitamente alla “Bicicletta”. Per me, come scrittore immaginativo, ha delle possibilità meravigliose ne sono più che entusiasta. Il fatto che Sydney mi dia carte blanche per il dialogo non realistico, i voli di fantasia, le canzoni, la musica eccetera, è quanto mai incoraggiante.
Ho una quantità di cose da fare: devo giudicare (che Dio mi perdoni) dei Festival di poesia, inoltre, questa settimana parteciperò al terzo programma. Il primo lunedì d’agosto, giorno festivo, lo dedicherò alle volgarità. Ma dopo mi metterò immediatamente al lavoro. Non ho idee preordinate, ma sono così entusiasta dell’intera faccenda che spero proprio di tirar fuori un copione come piace a noi.
Mi farò viva appena succede qualcosa, tuo Dylan.
L'articolo “Con la sua faccia di cherubino dissoluto”: quando Dylan Thomas scriveva per il cinema proviene da Pangea.
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[ UOMINI CON LO MALTO: ECCO IL NUOVO TREND ]
Non è da ieri che gli uomini amano le borse, e qualche mese fa eravamo inorridite pure dinanzi a collant maschili e chignon posticci. Se pensavate che fosse finita, amiche, vi sbagliavate.
Già, perché in queste ultime settimane l’icona fashion statunitense Marc Jacobs, stilista noto per aver lanciato tendenze innovative nel corso degli anni, ha presentato via social la sua creatura all’ultimissimo strillo della moda: una perfetta manicure con tanto di smalto per uomo.
Lo stilista, infatti, ha postato sul suo profilo social personale suoi ritratti in cui mostra ogni settimana un diverso stile di manicure, talvolta stringendo tra le dita gli ultimi sbuffi di una sigaretta.
Le foto pubblicate da Marc Jacobs hanno dato il via all'”Insta-fenomeno” ribattezzato “Mani Mondays”, ossia i lunedì delle mani, giornata in cui gli uomini sono chiamati a sfoggiare i loro perfetti lavori di manicure rendendoli identificabili con l’hashtag #MalePolish.
Contro ogni aspettativa, la nuova tendenza – che scardina una sorta di tabù parecchio radicato nella popolazione maschile – è diventata virale e sta progressivamente contagiando altre piattaforme social come Twitter e Facebook.
Altri uomini famosi che si sono messi lo smalto sono la rockstar Marilyn Manson (che in realtà non è nuovo a trovate di questo tipo) e l’istrionico Jared Leto, oltre a uno dei nostri attori di Hollywood preferiti, Johnny Depp. In fin dei conti, nemmeno per Marc Jacobs questa è una novità assoluta.
Che ve ne pare, amiche?
Come la prendereste se il vostro uomo si presentasse a casa con un manicure impeccabile, decisamente migliore della nostra?
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Joy: 10 cose che non sia sul film
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/joy-10-cose-che-non-sia-sul-film/
Joy: 10 cose che non sia sul film
Joy: 10 cose che non sia sul film
Joy: 10 cose che non sia sul film
Joy è uno di quei film che cercano di raccontare fatti veramente accaduti senza restare ancora alla biografia vera e propria, servendosi di interpreti stellari. Questo film racconta la storia di colei che inventò il cosiddetto mocio, il panno per lavare il pavimento auto-strizzante, semplificando la vita di milioni di persone in tutto il mondo. Ecco, allora dieci cose da sapere su Joy.
Joy film
1. Non è una vera biografia. La sceneggiatura originale di Annie Mumolo era basata su Joy Mangano, un’italo-americana, inventrice ed imprenditrice nota per le invenzioni come il Miracle-Mop. Quando David O.Russell è entrato nel progetto, ha aggiunto molti altri personaggi di supporto e ha intrecciato la biografia originale di Mangano con storie di altre donne che hanno cambiato la loro vita. Russell ha ammesso di non aver avuto alcuna fretta nell’incontrare l’inventrice nella vita reale, perché voleva fare il film a modo suo, parlandoci solo per telefono.
2. Per O. Russell è stato il film più ambizioso. Secondo il regista, Joy è stato anche uno dei film più difficili, per il semplice fatto che tutti si sono ammalati, Jennifer Lawrence compresa. Paradossalmente, tutto ciò ha fatto in modo di dare un tono ulteriore di vulnerabilità alla protagonista, con un film reso più formale e audace.
3. Il primo del regista con una donna protagonista. O. Russell ha sempre rappresentato sul grande schermo donne forti, eppure questo è il primo film in cui una donna è protagonista assoluta e in cui viene raccontata quasi la sua intera vita.
Joy streaming
4. Il film è disponibile in streaming digitale. Chi volesse vedere o rivedere questo, è opportuno sapere che è possibile farlo grazie alla sua presenza sulle varie piattaforme di streaming digitale legale come Rakuten Tv, Chili, Google Play, Infinity, iTunes e Tim Vision.
Joy cast
5. Jennifer Lawrence ha indossato delle parrucche. Per la maggior parte delle riprese, l’attrice ha indossato parrucche e altri articoli per capelli. Durante la scena del taglio di capelli, la Lawrence si è accidentalmente tagliata dei suoi capelli insieme a quelli posticci.
6. È la quarta collaborazione tra Cooper e Lawrence. Questo film ha visto di nuovo insieme Bradley Cooper e Jennifer Lawrence. I due, infatti, avevano già collaborato per Il lato positivo – Silver Linings Playbook (2012), American Hustle – L’apparenza inganna (2013) e Una folle passione (2014).
7. Joan Rivers è interpretata da sua figlia. In questo film, Rivers ha il volto di sua figlia Melissa. Il regista David O. Russell ha chiesto a Melissa degli input per il dialogo scritto per sua madre, in particolare nelle scena in cui dà il feedback sull’abbigliamento di Joy.
Joy trailer
youtube
8. Un trailer pieno di aspettative. Prima di vedere il film, potrebbe essere opportuno dare un’occhiata al trailer, anche per capire se possa essere adatto ai propri gusti cinematografici.
Joy trama
9. La creazione di un impero. Joy racconta la storia di una donna e della sua turbolenta famiglia, partendo dall’adolescenza fino alla creazione di un impero. Joy dovrà affrontare numerosi ostacoli lungo la strada per poter realizzare i propri sogni, diventando imprenditrice di successo ed inventrice di prodotti per la casa atti a semplificare i lavori domestici.
Joy frasi
10. Un film dalle frasi significative. Era inevitabile che un film come Joy contenesse delle frasi davvero indimenticabili ed incisive. Ecco qualche esempio:
Non pensare mai che il mondo ti debba qualcosa, perché non è così! (Joy Mangano)
Io credo che l’ordinario incontri lo straordinario ogni singolo giorno. (Neil Walker)
Sei una fuga di gas, non ti vediamo, non sentiamo il tuo odore ma ci stai uccidendo in silenzio. (Rudy)
Quando ti nascondi sei al sicuro perché le persone non ti vedono, ma la cosa buffa del nascondersi è che sei nascosto anche a te stesso. (Joy Mangano)
E ti accorgi che l’unica cosa che avrai è quello che crei… (Joy Mangano)
Fonti: IMDb, Deadline,
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Joy: 10 cose che non sia sul film
Joy è uno di quei film che cercano di raccontare fatti veramente accaduti senza restare ancora alla biografia vera e propria, servendosi di interpreti stellari. Questo film racconta la storia di colei che inventò il cosiddetto mocio, il panno per lavare il pavimento auto-strizzante, semplificando la vita di milioni di persone in tutto il mondo. […]
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Mara Siviero
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LA SCORTA DI SAVIANO IL CIARLATANO Certi personaggi totalmente immaginari girano sotto scorta di polizia armata. Perché? Semplicissimo, per rendere seria la prospettazione delle fandonie che raccontano. Quando si presentano al pubblico di stampa e Tv delle balle grosse ma inconsistenti, e normalmente si tratta di calunnie scandalosissime, si cerca di costruire attorno ad esse circostanze e fatti posticci per trasformare le infamità in frottole credibili, perlomeno probabili o verosimili. La scorta dei finti giornalisti e dei finti scrittori serve a rendere verosimile la leggerissima ragione di vita dei calunniatori, ed è tutta roba che si paga con denaro pubblico, lo stipendio dei ruffiani milionari che vanno in Tv e quello degli sbirri che vanno a cena con loro. RUFFIANI SOTTO SCORTA Se si hanno a disposizione dei nomi di personaggi o di eventi criminali del passato, si possono tranquillamente associare ai pettegolezzi presenti, e quando vengono avanti testimoni psicologicamente instabili e manipolabili, si dà loro stipendio e benevolenza, perché anche quelli contribuiscono al danneggiamento dell'immagine dei bersagli prescelti. Tutto può essere smentito durante il processe e però si ottiene comunque lo sputtanamento delle vittime calunniate, la loro persecuzione e persino la loro condanna. Degli elementi coreografici prescelti per rendere più vera la commedia, come per esempio la scorta armata di polizia, si può anche dire e dimostrare al processo tutta la loro inutilità, come avviene nel fatto del noto ciarlatano Roberto Saviano. E però la scorta armata malamente utilizzata non basta per dimostrare l'artificiosità delle calunnie in sé. Vale invece ad imprimere nell'immaginario collettivo, che influenza anche i giudizi in tribunale, l'immagine retorica dei finti eroi, dei martiri che si sacrificano nella finta lotta alla criminalità organizzata. Le fandonie possono essere rese più credibili, e certamente sono prese sul serio, quando sono ripetute contemporaneamente e costantemente da mezzi di comunicazione diversi e assai distribuiti. Le calunnie e gli scandali venduti ai mass media a livello internazionale sono certamente prodotte dalle agenzie di stampa e quindi è ragionevole dedurne che chi si avvantaggia di quelle calunnie ha dei piani a lungo raggio e uffici collocati all'estero. Come spiegare altrimenti l'esagerazione dello scandalo fabbricato attorno alle patatine bollenti di Berlusconi, sui quali si fanno pettegolezzi per un paio d'anni su tutti i rotocalchi del pianeta Terra, o il calibro di certi protettori nel caso di Saviano il ciarlatano, il quale, oltre ad essere sponsorizzato da ruffiani milionari come Santoro, Fazio, Benigni, Bertinotti e compari, si fa intervistare addirittura da Al Gore (45º vicepresidente degli Stati Uniti d'America). Cosa c'entra tutto ciò con "economia, finanza e lavoro"? Queste operazioni di depistaggio evidentemente costano e chi paga, in ultima analisi, è lo stesso contribuente che osanna i finti eroi della finta guerra alla criminalità organizzata. Michele Santoro, per dire quelle scemenze, è pagato decine di milioni dalla televisione di stato e le dozzine di carabinieri che scortano ogni giorno ciarloni calunniatori come Saviano, Lirio Abbate e Capacchione, sono retribuiti con denaro pubblico. In tempi di ristrettezze economiche, di politiche restrittive, austerità e aggiustamenti strutturali, sarebbe cosa buona e giusta eliminare perlomeno gli sprechi più vistosamente inutili.
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PIERA MAGGIO SENTITA TELEFONICAMENTE DALL'ADNKRONOS
Caso Denise, spunta nuova foto
“E’ giusto che vengano fatti tutti gli accertamenti e occorre aspettare. Io, però, resto cauta. E’ inutile alimentare false speranze, anche perché sull'autenticità di quella foto ho qualche dubbio”. A dirlo all'Adnkronos è Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, la bimba scomparsa da Mazara del Vallo, nel Trapanese, il primo settembre del 2004 quando non aveva ancora quattro anni. Una foto che ritrae una bimba con una forte somiglianza a Denise è stata inviata alla trasmissione ‘Chi l'ha visto?’, alla famiglia della bimba e all'avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta. Immediata la segnalazione alla Polizia postale e alla Procura di Marsala. Lo scatto, infatti, che ritrae “una bimba che non ha più di 12 anni” spiega Piera Maggio, si trovava in un sito pedopornografico.
“E’ una foto che sembra manipolata - dice adesso mamma Piera -, i capelli appaiono finti, posticci. In ogni caso non corrisponde all'età attuale di Denise, ritrae una bimba poco sviluppata. In questi anni ho ricevuto tantissime segnalazioni, che si sono rivelate tutte infondate. Non mi illudo e resto cauta, anche se non perdo la speranza di poter riabbracciare la mia Denise”, conclude.
Nel frattempo la Procura di Marsala ha disposto nuovi accertamenti su alcune impronte rilevate dagli investigatori, in vari luoghi e su diverse auto, dopo la scomparsa della piccola. Toccherà al Ris di Messina rilevare eventuali tracce di Dna riferibili a Denise. “Siamo impantanati in una verità nascosta. Dopo 13 anni di sofferenze, di rabbia per la mancata giustizia e di lotta continua che a volte mi ha tolto le forze resto con i piedi per terra. Aspettiamo gli esiti delle indagini. Certamente è un fatto importante, il mio auspicio è che possa arrivare finalmente una svolta decisiva”, sottolinea Piera Maggio.
“Si tratta di una tecnica che esisteva già nel 2004, non affinata come adesso - prosegue mamma Piera -, ma che certamente poteva essere impiegata dall'ex procuratore Di Pisa e prima che si arrivasse alla sentenza della Cassazione”. La Suprema Corte lo scorso lo scorso 19 aprile, infatti, ha confermato l'assoluzione, già avvenuta in primo e secondo grado, di Jessica Pulizzi, sorellastra per parte di padre di Denise e all'epoca dei fatti ancora minorenne. Quella che sembrava una svolta nelle indagini arrivò nel 2005. Dopo aver seguito la pista del rapimento da parte di zingari, sotto accusa finì proprio Jessica Pulizzi. Secondo l'accusa era stata lei a rapire la bambina per 'vendicarsi’ di Piera Maggio e della sua relazione con il padre, Pietro Pulizzi, dalla quale era nata Denise.
“Nessun estraneo da chissà dove - dice adesso Piera Maggio - è venuto in una qualsiasi periferia di Mazara del Vallo per sequestrare Denise. O vogliamo pensare che siano stati gli alieni?”. Insomma per mamma Piera “i colpevoli vivono a Mazara” anche perché “durante questi 13 anni non ci sono state fornite ulteriori piste investigative”. “Un po’ tutti sanno come sono andati i fatti - dice con amarezza -, durante le indagini iniziali sono stati compiuti molti sbagli, alcuni anche evidenti e grossolani”.
Un esempio? “La perquisizione nella casa sbagliata”. Subito dopo la scomparsa della piccola Denise, infatti, i carabinieri si recarono a casa di Anna Corona, la mamma di Jessica Pulizzi. Furono accolti, però, in un appartamento che anni dopo si è scoperto essere quello sbagliato. “Non fu mai disposta la videosorveglianza nella casa di quelli che all'epoca dei fatti erano i sospettati” dice ancora mamma Piera, che agli investigatori denunciò “le minacce e le ritorsioni subite da chi indicai da subito come coinvolto nella sparizione di Denise. La mia vita, come è giusto, fu rivoltata come un calzino e non emerse nulla di insolito. Tutte le altre piste vennero presto escluse”.
Resta il fatto che a distanza di 13 anni da quel primo settembre del 2004 per la scomparsa di Denise non ci sono colpevoli. “E’ l'ennesima vergogna italiana - dice mamma Piera -, l'ennesimo fallimento da parte della giustizia. In tutta questa vicenda ci sono state persone che hanno dato anima e cuore per arrivare alla verità, altre, invece, che potevano fare di più e non lo hanno fatto”. Eppure Piera Maggio non si arrende. “Non demordo e continuerò sempre a chiedere giustizia per la mia Denise” conclude.
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Musicista, illustratore, architetto. Tutto questo è Gianni Puri. Tre anime che convivono e si influenzano nella personalità di un solo artista, affetto, per sua stessa ammissione, da «un disturbo tripolare». Gianni, 35 anni, ha studiato architettura e vive e lavora a Roma presso “La Macchina Studio“, di cui è cofondatore. A questo accompagna una grande passione per l’illustrazione che nella realizzazione è influenzata dalla sua multiforme personalità: «Seguo con molto interesse la scena dell’illustrazione italiana contemporanea e adoro gli stili e le tecniche di rappresentazione architettonica, ma mi faccio influenzare da qualsiasi cosa: la copertina di un disco, l’immaginario fotografico, un’inquadratura di un brutto film, una scena vista per sbaglio dalla macchina tanto quanto le piccole-grandi ossessioni del momento, il ritratto, gli animali a collo lungo». I suoi lavori sono rappresentazioni poliedriche che spaziano tra stili e linguaggi differenti e che trovano ispirazione nelle esperienze quotidiane: «Non amo fissarmi su uno stile o un linguaggio univoco, mi piace sperimentare e, nel farlo, cerco sempre di mantenere viva e di trasmettere quella magia che è racchiusa nelle poche parole e pagine di un album illustrato. Del resto, chi mi conosce sa che basta regalarmi un buon album illustrato per farmi felice. Si, anche quella è roba che ti segna».
Oggi per Millennial abbiamo selezionato la collezione “Signs”, una rielaborazione dei 12 segni zodiacali, simboli allegorici delle differenti varietà dell’animo umano, tema molto caro alla vita e all’arte di Gianni: « Credo molto nelle energie vitali, nei caratteri invisibili delle persone e nelle loro dinamiche; in un certo senso l’astrologia credo ci parli di questo. Con la serie “Signs” ho voluto rappresentare i 12 segni zodiacali dal punto di vista dell’individuo stesso, dietro lo specchio. Ho attinto dalla tradizione ritrattistica dell’800 per immortalare, come un Dorian Gray, l’atto del guardarsi. È in quel momento che ciascun segno posa di fronte a se stesso e rivela aspetti intimi e a volte mostruosi della propria identità. Come il backstage di un bellissimo freakshow. Per scegliere alcuni dettagli, i colori o le simbologie mi sono basato sull’idea che ho io di ciascun segno; mi sono fatto ispirare dalle persone che conosco, da chi mi sta intorno piuttosto che da quello che si legge quotidianamente sui segni zodiacali. Il tema che mi interessava mostrare è la bellezza e l’eleganza innate che ciascuno di noi ha dentro; segni meravigliosi che, a volte, non mostriamo neppure a noi stessi. Per sottolineare questo aspetto, ho scelto di lavorare nel modo più grezzo possibile, ritagliando foto di bassa qualità e legandole con segni posticci, un po’ come fece il dr. Frankenstein per cucire la sua creatura. Perché, in fondo, siamo dei bellissimi mostri».
“Signs” By Gianni Puri Musicista, illustratore, architetto. Tutto questo è Gianni Puri. Tre anime che convivono e si influenzano nella personalità di un solo artista, affetto, per sua stessa ammissione, da…
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La solitudine e Beethoven
La premessa è che non mi sono mai lamentata né mai mi lamenterò del lockdown, in quanto - in mancanza di vaccino o di scafandri anti-contagio con annesse maschere antigas, ovvero di test per tutti - questa è l’unica la strategia per salvarsi. Non facciamo gli schizzinosi, o gli inutilmente ribelli. Non sappiamo se siamo simpatici o antipatici al virus - che pare molto stocastico e volubile - pertanto, possiamo difenderci solo isolandoci. Pagheremo dazi psicologici, cambieranno usi e costumi, ma così è, se vi pare.
Facciamoci i conti, a cominciare dal capire più a fondo certi sentimenti venuti alla ribalta.
Da un po’ di settimane, nelle mie differenziate sortite editoriali cerco di analizzare le variazioni degli umani sentimenti ed emozioni, così come li abbiamo vissuti fino all’ordine di chiuderci nelle nostre case.
Cambia il concetto e l’uso di paura, di nostalgia, di resistenza, di resilienza e di pazienza. Cambia la nozione di affetto, costretti ad aggettivarlo per necessità sanitarie ed amministrative. Cambia anche quello di solitudine. Abbiamo, pure e finalmente, imparato che famiglia non è solo quella regolata dal codice civile.
Indubbiamente, il distanziamento fisico (perché è questo il termine esatto) per chi viveva già in solitudine e ne soffriva (specialmente le persone anziane e/o quelle lontane - per diversi motivi - dagli affetti stabili) diventa, col tempo e l’abitudine ad esso, distanziamento sociale, il quale a sua volta innesca grandi e piccoli problemi psicologici, nonché accresce il disagio mentale o patologie psichiche preesistenti.
(E comunque - come ho letto da qualche parte - gli affetti stabili sono quelli che galleggiano ai primi dieci posti delle vostre chat su uozzàpp.)
A chi si trova nella parte fortunata del digital divide, le reti telematiche danno un certo vantaggio nell’attenuare i rischi psicologici dell’isolamento forzato e della solitudine, a patto di non farne cattivissimo uso. (Mi riferisco all’ingurgitamento sconsiderato di qualsivoglia notizia senza vagliarla nella sua veridicità.)
Ma danno parimenti fastidio certe letture snob (di cui si son riempiti gran parte dei quotidiani e degli allegati settimanali blasé), tipo i diari degli intellò, i quali fanno la figura di poires fraîches tombées (‘pere appena cadute’), sgomentandosi davanti ad una quotidianità che ricomprende le code al supermercato, la defezione delle colf, l’annullamento dei vernissage e delle presentazioni librarie, l’irreperibilità dei coiffeurs (con annesso manifesto alla libera ricrescita quale nuovo simbolo di indipendenza intellettuale).
Ho letto sui giornali di mezzo mondo delle proposte (talune anche bislacche) per mantenerci fisicamente lontani, come individui, quando dovremo ripartire per non morire di fame e di PIL inverso.
Ma come persone, come la mettiamo?
(Individuo e persona non sono sinonimi, ci sono fondamentali differenze. Se sbagliamo ad usare i termini, ci allontaniamo dalla realtà. O la trasformiamo, e ciò non è sempre a nostro vantaggio. Un individuo è un entità numerabile, buona per statistiche. La persona è sìnolo di mille e mille prospettive: chiamasi ‘sindrome di Pirandello’.)
Per quanto, all’inizio, sembri che nelle emergenze prorompa una sorta di riserva segreta di fiducia ed affetto cosmico (tuttavia inutile per scriverci l’autocertificazione), ci stiamo saziando di alcuni sentimenti/emozioni/carinerie divenuti spiazzantemente posticci - quali solidarietà, commozione, gentilezza, cortesia - costretti a coniugarli con la solitudine, dei singoli ovvero delle singole famiglie. Così come ci stiamo saziando di questi giorni.
E ciò che ci sta aspettando - alla fine del lunghissimo tunnel - non sarà nessuna euforia post-bellica da ricostruzione: arriveremo stanchi, delusi, diffidenti, per aver dovuto rimpicciolire ogni orizzonte, fisico, mentale, cognitivo o sociale che sia. Anche un bel po’ egoisti, per la lunga privazione di confronto con l’altro. (Non illudiamoci, provare televisivo cordoglio per le vittime da COVID-19, o incontenibile miocardico orgoglio per le - già anacronistiche - sortite canore sui balconi non ci vaccina dall’egoismo.)
Lo que se pierde, cantava Machado. Si canta quel che si sta perdendo. Per noi tutti è l’illusione di essere una comunità. Ci riscopriamo inchiodati senza scampo a indefettibili coorti di individui (vecchi, giovani, settentrionali, meridionali, immunizzati, asintomatici, contagiati, morti, intubati, estubati, cassintegrati, disoccupati, connessi, e così via), cui il virus ha segnato con precisione le sorti, ma nulla di più.
Succede pure che l’isolamento e il distanziamento stiano continuamente svelando l’ipocrisia di molte relazioni umane, la quale, come un gel vischioso, aveva ricoperto l’essenziale, nonché la verità sui molti rapporti: eravamo molto soli già da prima. La mascherina sanitaria ha sostituito la maschera d’ipocrisia.
E Beethoven? Semplice: la musica per solitari (tipo Schroeder dei Peanuts) è quella di Beethoven, come già intuì Charles Schultz.
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Rileggiamo Guido Ceronetti per capire che D’Annunzio con Trieste non c’entra nulla (piuttosto, sono due le statue che la città merita: per Slataper e Cergoly)
È controvento, non resistendo alla bora bensì alle vanesie eppur violente arie della greve politica priva di cognizione della storia, e della realtà, che soffia tenue ma non per questo inascoltata dai pochi che la sanno udire, la voce delle tre statue dei poeti – Saba, Svevo, Joyce – adagiate per le vie di Trieste; e quella del molo San Carlo; e quella della Piazza Grande; e quella della Cattedrale di San Giusto (dove già di troppo è il marmo con incisi i versi di Carducci); e quella elegiaca dello spirito di Rilke, dal Castello di Duino; e quella della giovinezza di Ungaretti, dalle doline del Carso; tutte a mormorare come un esorcismo i nomi di due scrittori triestini contro l’idea di un simulacro di D’Annunzio nella piazza della Borsa, D’Annunzio figura antropologicamente aliena alla città giuliana, poliglotta, multietnica, cosmopolita, i cui luoghi e la cui poesia mormorano: “Carolus Cergoly e Scipio Slataper … Carolus Cergoly e Scipio Slataper… Carolus Cergoly e Scipio Slataper…”
*
Non per anti-fascismo, ma per a-fascismo (ognuno sogni ciò che vuol sognare); né per anti-dannunzismo, ma per a-dannunzismo (ognuno legga ciò che vuol leggersi); né per anti-italianismo, ma per a-italianismo (ognuno sia libero d’essere ciò che è); o meglio ancora – visto che tutto ciò che termina in “ista” è per questo condannato (come ha scritto Pierre Drieu La Rochelle in Intermezzo romano) – per poter discernere e stare non con la politica ma con la poesia (e D’Annunzio a Trieste, è unicamente politica e per nulla poesia) – per ascoltare il Genius Loci che dice che non una ma due sono le ulteriori statue che la città merita: una per Cergoly (anti-italiano), e una per Slataper (filo-italiano), secondo l’alta, asburgica ergo cattolica logica della conciliazione, l’et-et opposto a quella della fazione, di cui Trieste, città in cui è fondamentale andare, e restare, o tornare, per capire la storia, e la realtà, non ha necessità alcuna, perché, una volta levàti i posticci politici veli, c’è la verità.
*
E se la voce delle tre statue dei poeti triestini – Saba, Svevo, Joyce – e quella dei luoghi rischia d’essere o apparire a sua volta di parte, faziosa, si può ascoltare quella di un piemontese che visse in Toscana e molto viaggiò–albergò in Italia cogliendone le grazie come i guasti – “specialità” unitaria – con quello sguardo lucido e penetrante che è richiesto a chi posa gli occhi su Trieste. Guido Ceronetti. Di cui bisogna tornare a sfogliare alcuni libri fondamentali. Il vate Ceronetti. Per capire perché D’Annunzio con Trieste non c’entra nulla.
*
“Il pensiero dell’Italia terrifica” – a Trieste bisogna tornare con Guido Ceronetti, Per le strade della Vergine sul comodino e i Pensieri del tè in tasca – per le sue vie sospese tra Adriatico e Carso.
“Cammini su un terreno sacro” – avrebbe potuto scrivere Guido Piovene, in Viaggio in Italia e invece no, già non era e forse non sarà più possibile – grazie agli italici le sue parole sono ben altre.
“Entro su un terreno che brucia” – perché fu un vero e proprio poligono di fuoco, per dirla col Ferruccio Fölkel di Trieste provincia imperiale: splendore e tramonto del porto degli Asburgo.
Così il vicentino in una città che dice d’amare molto ma che stava vivendo l’“inizio di una nuova sofferenza”, dovuta come spiega Ceronetti al riaggancio al treno nazionale a metà Cinquanta.
Per Claudio Magris la sua città è “diversa, imprecisa, incompresa”, e tale di sicuro è rimasta gli italici. Con i libri Ceronetti in tasca e sul comodino, in realtà non è così difficile da capire, tutto si evidenzia. Piovene vede non si sa dove un idillio, ma soprattutto un dramma, perché la città vive la sua tragedia. Con un titolo non nuovo… Con un titolo tutto greco… Che Ceronetti rende chiaro… Edipo a Colono.
(Fölker: “Trieste alla ricerca di un padre oltreché di una madre, Trieste orfana. Trieste agonizzante”).
(Ceronetti: “L’irredentismo ha un fondamento nel parricidio. Oberdan vorrebbe la morte del padre”).
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Venne l’epoca degli eruditi, dantisti, massoni, col ghiribizzo di dimostrare che l’Istria fosse italiana. Venne il tempo delle trincee e quello dei catafalchi con obici, gladî, fasci, scudi, eroi dai torsi nudi. Venne in una città di destra vivifica, e conservatrice, liberale, e imperialregia, una destra mortifera. Venne una seconda guerra esito chiaro della prima e poi la mancata attuazione del Territorio Libero. Niente fregata Radetzky regalo dei commercianti della città. Niente clamorose batoste rifilate agli invasori come a Lissa. Tutto è finito il 2 luglio 1914 quando il Viribus Unitis giunse al molo San Carlo con le salme di Ferdinando erede al trono e della moglie Sofia uccisi a Sarajevo, spoglie di un mondo alla fine, di un Continente di cui Trieste era uno dei simboli… Segue l’epoca degli italici. Segue il tempo di un popolo geloso anche quando non ama. “Questa Italietta abitata da gente isterica, altezzosa e futile”, sentenzia Carolus Cergoly… Segue il tempo di Roma al cui nome Ceronetti basta pensare per provare uno schifo indicibile. Per le strade della Vergine: tra Torino e Palermo – sono soltanto “tutti vuoti spirituali, santuari della Morte di Dio” – ecco pertanto “la cloaca materialistica è legge, pianifica, decide” – il tremendo mostro romano, “un istupidito calcolatore elettorale” – l’Italia come barbarie. È il tempo della decadenza.
Ma Trieste è differente a un punto tale che nel 1999 un sondaggio rivelò che – saggezza degli ignoranti? – sette italiani su dieci ignoravano che ne facesse parte. Così l’italoslavo Enzo Betizza in Sogni di Atlante non può che rimproverarli – ignoranti senza sapienza? – per quanto poco conoscano l’altra riva del loro mare.
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Della tragedia di Trieste l’enigma non è affatto difficile, figurarsi per l’acuto vate del Tragico – che rifiuta di considerare “il patriottismo falso di un corruttore” – Gabriele D’Annunzio –, cui oppone e predilige un “patriota senza macchia di fanatismo” – Alessandro Manzoni –, e che con le sue parole permette di cogliere la verità sulla tragica vicenda della città giuliana.
Trieste sta in Italia come Edipo fu a Colono: Trieste che gattona – bambina figlia di Maria Teresa d’Austria. Trieste poi in piedi – adulta e felice, perché fedele, tutta K.u.K. Trieste poi vecchia – invasa e occupata, decrepita, col bastone. E Ceronetti è netto riguardo Edipo a Colono: “Chi va in cerca di una patria, in vecchiaia, trova lei e la morte.” E tale fu il suo destino.
Trieste morì quindi secondo l’autore di Tragico tascabile nel mese di novembre del 1918. Trieste morì nel momento in cui si scopri vecchia e cieca perché aveva trovato una patria. O meglio, per giunta, somma di tragiche disgrazie, perché aveva scoperto una finta patria. Con tutto ciò che di tremendo ne conseguirà… “Incalzò presto il disonore fascista, altro che greco e latino di quegli onesti irredentisti! […] Stuparich racconta l’incendio dell’hôtel Balkan, esplosione di bestiale odio antislavo degli squadristi: […] fumo e fuoco già d’incendium mundi”, l’incendio della Grande Guerra appiccato tra gli altri dal vate abruzzese (“guerra perduta […] perché perdette l’umanità: perduta e […] creatrice di perditrici guerre future” – “guidata con scelleratezza, si è saldata in un disfacimento morale dalle più cancellate conseguenze”).
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Le pene di Trieste simili a quelle di Gerusalemme. Trieste pertanto come una moderna Gerusalemme. Sempre Ceronetti. 1) “Era nulla, Gerusalemme: si è voluta sacra, centro del mondo, casa di Dio, patria delle patrie. Trieste era nulla, un benestante nulla, prima di darsi alla sua strana devozione, l’italofilia, una passione furiosa, di quelle che alterano, che non lasciano vivere in pace”. 2) “Può essere una degenerazione della religione biblica, questo irredentismo giuliano e trentino che nel passaggio da un governo che sta sul Danubio, imperialregio, a uno che sta sul Tevere, regio, faceva consistere tutta la redenzione di alcune città e popolazioni?”
Insomma, di nuovo la storia scambiata per Messia, follia del secolo XIX che colse alcuni popoli europei, e per primi gli stessi ebrei in quel di Vienna, e che prosegue, in absentia Christi, di fronte alla Sfinge, l’entità detta “Italia” – del risorgimento sabaudo – romanizzata dal fascismo – e alla fine rimbecillita dal dopoguerra – che è tutta quanta storcere strangolare – che è tutta distorcere strozzare – “Storto x’el dritto / El dritto storto // […] / Disordine contemplo / E me dispero // Vita de bosco / Solo me conforta” (Cergoly) – e la ragione è tutta nel Tragico: 1) “l’irredentismo ha un fondamento nel parricidio. Oberdan vorrebbe la morte del padre Franz Joseph”; 2) “Sfinge e sfintere hanno il medesimo etimo, strozzatura, strozzare. La Sfinge era ed è strangolatrice”; nella tragica vicenda di Trieste: 1) All’anagrafe, Guglielmo Oberdan, terrorista, era in realtà Wilhelm Oberdank, un triestino austriaco. 2) “Non si può amministrare con mentalità ordinaria ciò che la natura e la storia rendono eccezionale”.
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E poi. Ricorda Ceronetti: “L’Italia profonda è una creazione del medioevo, che disfaceva le patrie e unificava il mondo nel segno della croce […]. La cosa più idiota del Risorgimento è stato credere che la più storica delle città […] fosse anche la più indicata per essere la capitale italiana”.
E poi. Il Meridionalismo: “quasi tutto meridionalizzato: addio patria, solo un mare di funzioni, di disfunzioni, di funzionari e di criminali”.
E poi – “La patria non è una nazionalità, non è un passaporto. È la coscienza limitata di un destino comune, ravvivata da presenze simboliche”: così Ceronetti, ma la presenza e il simbolo non sono i monumenti, i catafalchi, gli altarini, un errore e un orrore dopo l’altro…
E poi – “L’italiano da solo è incapace di sopravvivere. Parliamo una lingua malata, scriviamo per dei cretini con la lingua e le radici tagliate”: una patria potrebbe esser la lingua ma anche a riguardo non è molto ottimista Ceronetti, perché finta patria uguale finte radici.
E poi – dopo tanto girovagare per Trieste – ci si potrebbe sentire i piedi gonfi – si potrebbe voler tornare in patria – la si potrebbe persino non trovare – si potrebbe voler rimanere con gli esuli – con Joyce, Rilke, Zweig, e Joseph Roth – si potrebbe voler restare nostalgici – con Cergoly, d’imperatori, e amori – si potrebbe voler viver nel mondo di ieri – si potrebbe volere andar controcorrente – “Lasseme andar / Oggi no go giornada / De ciacolar con voi / Lasseme andar / Solo col mio tormento / Far e disfar / Son sabbia controvento” (Cergoly).
Marco Settimini
L'articolo Rileggiamo Guido Ceronetti per capire che D’Annunzio con Trieste non c’entra nulla (piuttosto, sono due le statue che la città merita: per Slataper e Cergoly) proviene da Pangea.
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