#narrativa su potere invisibile
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pier-carlo-universe · 2 days ago
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“Il Gioco della Manipolazione” di Attilio Giampaoli: un thriller psicologico che esplora il lato oscuro del potere. Recensione di Alessandria today
Un viaggio nei meandri della manipolazione, del controllo e della resistenza. Attilio Giampaoli costruisce un racconto avvincente e inquietante che lascia il lettore a riflettere sulle fragilità umane e sui pericoli del potere invisibile.
Un viaggio nei meandri della manipolazione, del controllo e della resistenza. Attilio Giampaoli costruisce un racconto avvincente e inquietante che lascia il lettore a riflettere sulle fragilità umane e sui pericoli del potere invisibile. La trama: una scoperta inquietante Francesca, giornalista ormai disillusa dal sistema, si imbatte in un misterioso manoscritto intitolato “Se fossi il…
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charlievigorous · 3 years ago
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I 5 PUNTI FONDAMENTALI CHE UN DITTATORE DEVE RISPETTARE
1) ISOLA LA TUA POPOLAZIONE
scredita sempre le informazioni su ciò che succede altrove nel mondo, e fai in modo che la tua popolazione ascolti solo i media del tuo paese, che dicono ciò che vuoi tu. Ignora che in Inghilterra e in Spagna il pass è stato tolto, ignora che ogni giorno una nuova nazione toglie le restrizioni anti-covid.
2) FAR CREDERE CHE RINUNCIARE AL VALORE FONDANTE SIA PEGGIO DELLA DITTATURA STESSA
Se smettiamo di tutelare la salute e lasciamo circolare il virus, ci saranno dei morti. Perciò pur di non morire dovete accettare tutto quello che vi facciamo.
3) RENDI IL TUO MESSAGGIO APPETIBILE
inserisci il tuo valore in una narrativa universale, fai credere che stai combattendo un nemico invisibile, fai credere che si è tutti uniti nella lotta, così che coloro che sono immersi in una routine priva di senso si sentono parte di una missione fondamentale per la storia.
4) TRASFORMA LA PAURA IN AMORE
le misure repressive, le limitazioni della libertà e l'ostracismo verso i ribelli porta ad un clima di terrore e di paranoia che si trasforma in eccitazione, e l'eccitazione in amore. Come fare? Crea un simbolo (il vaccino) e utilizzalo per riunificare i legami sociali distrutti. Rendi un rito la domanda "ma ti sei vaccinato?" prima di conoscere uno sconosciuto, così che la tua dittatura attraverso il tuo simbolo sarà il fondamento di una nuova società.
5) COMBATTI GLI ALTRI VALORI
Si deve parlare solo del potere. Si deve parlare solo di vaccini e green pass, non importa se a favore o contro, l'importante è che se ne parli. Soffoca tutto il resto del dibattito, sottolinea che il tuo valore assoluto (la salute) è prioritario rispetto a tutto, e usa il motto di Biden o di Mattarella con il quale si dice "certo, in condizioni normali la libertà è importate, ma in questo caso non si può tirare in causa". Fai percepire che è il tuo valore a permettere la libertà, fai percepire che esiste una gerarchia dei valori e che per difendere quello principale tutti gli altri possono essere sacrificati.
CONCLUSIONE
Lo schema che fonda una dittatura è questo: prendi un valore condivisibile, estremizzalo, adottalo per giustificare i soprusi e il controllo, e se accusato di essere un tiranno deresponsabilizzati: "va fatto ciò che si deve fare", attribuendo la necessità di ogni crudeltà alla necessità di superare una crisi, un'emergenza.
Poi il dittatore spiega che la crisi si può combattere solo appellandosi ad un valore che diventa totalizzante (ad esempio il valore della salute che schiaccia quello della libertà) , onnipresente e pervasivo, e assoggetterà ogni aspetto della vita sociale e privata dei cittadini.
ogni volta che qualcuno vi parla di valore "fondante" o di un valore più importante degli altri, già sapete che si sta andando a parare verso una dittatura..."
Anonimo
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pangeanews · 4 years ago
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“Chissà se tutto è assurdo come sembra vero”. Lorenzo Somelli: l’autobiografia in versi che va verso la dissoluzione
Un  racconto in versi, con l’io protagonista, senza volersi impelagare in probabili o improbabili genealogie, è quasi inevitabilmente un monologo, con sottaciuta vocazione teatrale; l’io apre a una dizione transitiva nella comunicazione, ma il paradosso del libro di Lorenzo Somelli, Le parole di nessuno (Arcipelago Itaca), è che racconta proprio l’impossibilità di comunicare con una dizione transitiva, perché le parole piane, semplici, del quotidiano, si rivoltano prima di tutto contro l’io, non offrendo quindi paragoni al lettore, alla sua esperienza. Il noi di lettori è così presupposto, chiamato a assistere e nello stesso tempo escluso dalla partecipazione. Del resto è proprio la impossibilità di condividere l’esperienza quello che accade al protagonista di questo racconto in versi, che pian piano è letteralmente deprivato dei sensi. Un uomo normale, che si muove in un mondo quotidiano e scontato. Che sia quello del lavoro o quello familiare e che non ci fornisce una biografia che vada oltre questo: è un everyman.
Lecito chiedersi cosa, allora, racconti e perché in versi. Intanto bisogna capire che la vera ‘storia’ di questo racconto o poemetto o comunque lo si voglia definire, è in che modo un io prosaico e deprivato diventi un io lirico, tracciando un percorso che va dalla deprivazione totale alla visione.
*
Una prima risposta: a ciò lo costringe la prosa del mondo che inizialmente appare restia a disporsi nei versi, dunque non la necessità di una sublimazione che cerchi il ‘poetico’, ma perché la perdita dei sensi del protagonista sperimenta la inaccessibilità del mondo quotidiano in cui è immerso, accorgendosi che le sue parole non designano più le cose e lascia spazio ai verba della mente che però, in tale condizione, non hanno nulla su cui esercitarsi, quasi si chiedesse non solo perché questo è accaduto proprio a me, che sarebbe una virata comunque tragica o elegiaca, ma perché non trova in quel che gli accade nulla che sia, non dico poetico, ma appartenente alla sua biografia, riferibile alla sua esistenza. Questo senso lo dovrà cercare solo svuotando tutto ciò che tramite una parola, un gesto, lo lega ancora a una cosa, un sentimento, un pensiero o un’astrazione.
Mi concentrai un istante, l’etichetta/ recava scritto aceto, ed era aceto/ dunque! Misi alla prova la parola/: niente! Svitato il tappo, la infilai/ nel naso. Niente! E lessi nuovamente/ più da lontano aceto, e riprovai…
Eppure da questa deprivazione, nasce il nucleo lirico del racconto, quando anche la memoria e i ricordi privi di riscontro con una realtà che vi si adegua in modo troppo aderente, si separano dal protagonista, che deve definirsi faticosamente tramite la scrittura, zona estrema e pericolosa del linguaggio: Anima e corpo, entrai direttamente,/ e per la prima volta, nel sistema/ della parola scritta, zona estrema/ del linguaggio: chi sbaglia, sbaglia e mente. L’oralità iniziale nell’aderire a quanto sta accadendo al protagonista, rischia di essere una recita, una finzione anche se fosse solo verso se stesso.
*
La zona estrema è dunque l’inizio di un altro viaggio, che si espone al rischio: chi sbaglia, sbaglia e mente.  Allora appare chiaro come la progressione narrativa, insomma la storia di un uomo qualunque che perde i propri sensi all’interno del proprio mondo banale e quotidiano, sia soprattutto un crescere della lingua e della sua tensione: più abbandona il rapporto con il mondo e più questa cresce. È l’unica via per dire la verità e non mentire, accettare fino in fondo la sfida di poter scrivere di ciò che non si riconosce più senza cadere nello sbaglio, accettare una incompiutezza della lingua, meta e raggiunto limite, che mantenga la promessa fatta a se stesso di dire il vero e non la menzogna.
*
Esercitare il gioco delle citazioni rinvenibili, sarebbe sterile, Somelli le fa talmente sue, inserendole in un contesto diverso, che si potrebbe pure sbagliare per difetto o per eccesso. Ma la metrica merita altra considerazione. Non è un dato meramente tecnico, è la sua importanza nella progressione narrativa, il suo essere un doppio nascosto quanto necessario delle parole, una loro trascendenza che non evade in misteriosi aldilà, ma è al loro interno; inizialmente sembra una forzatura, o meglio un contenimento forzato di ciò che accade, ma pian piano ne scopriamo la necessità; forse è qui che si trova la risposta alla domanda inevitabile, posta nell’introduzione da Alfano: perché scrivere in versi e non in prosa? La misura del verso conserva un ‘oltre’ delle parole, o almeno la sua memoria, solo questo permette una progressione, perché se all’inizio pare non coincidere con gli eventi o piegarsi passivamente al loro accadere, poi diventa lo spazio entro cui le parole respirano e il protagonista può cercare e trovare una visione.
*
Per restare, alla grossa, nel ‘genere’ scelto da Somelli,  ricordiamo come T.S. Eliot predicasse la necessità della estinzione della personalità; ecco, qui l’affermazione viene presa in senso letterale, non per dar vita a una oggettività più o meno riconoscibile o verificabile, una terra desolata che comunque tutti ci accoglie, ma per andare alla radici dell’io lirico, alla sua nascita e non a caso la visione finale termina con la parola ‘punto’; dove l’assurdo del quotidiano svela il non senso ma anche il suo essere nostro unico contatto con una possibile visione. Quel ‘punto’ è una contrazione dell’immagine, ma anche un inizio, coincidente con la fine.
Insomma assistiamo a un corpo a corpo tra istanze narrative e possibilità della poesia, e il richiamo alla Commedia che ho già preannunciato nel termine ‘visione’ non è arbitrario, i rimandi alla fine del viaggio dantesco sono chiari quanto mai delle citazioni, come l’avesse rivissuta e rielaborata o ci fosse arrivato per una sorta di inevitabilità.
*
Allora bisogna fare una breve ripresa riguardo l’importanza della metrica, o della sua ombra: la misura metrica è un sottofondo costante, l’ombra di endecasillabi o forme strofiche, sempre più evidenti nel loro nascondimento, suggeriscono che questo rimando è forse la necessità di scrivere in versi, come fosse un estremo referente, sfuggente ma in grado garantire il ‘vero’, costringere l’invisibile a farsi misura del mondo vissuto e sarebbe possibile leggere questa affermazione al contrario: costringere il mondo ad avere un invisibile che lo attraversa (la gloria che nell’universo penetra e risplende, non è poi il verbo divino?); forse è questo che permette il raccontarsi della storia e la necessità dei versi: la divaricazione tra parole e cose lascia scorrere una memoria metrica rendendole sempre l’approssimazione a una verità e dunque più fragili, più vere: finché si assomiglia a qualcosa non siamo disperati, siamo qualcosa di reale, imperfettamente reale.
Dunque siamo di fronte a un’autobiografia interiore che non va verso la crescita, ma verso la dissoluzione, perché quello è il punto in cui nasce la possibilità della autobiografia stessa, a voler essere irriverenti, è come se qui avessimo il percorso che fa entrare nella selva oscura, il voler sapere come vi si entra quando si è in quel sonno dove i sensi mancano o sono un’illusione. In questo smarrimento, al suo interno, Somelli trova infine la possibilità di una visione, che non è tanto l’uscirne fuori, quanto il rendersi conto di starci dentro, il dantesco mi ritrovai:
Ed era un po’ che non dicevo io. …. Ma voglio dirvi cosa ho visto ieri. Era una zattera, era in mare aperto. Nella bonaccia io remavo incerto. …Ed affondavo per metri e metri fino a un’altra luce. Un altro sole, e un nuovo mare aperto. Sceso per cerchi concentrici, i cerchi ora partivano da me, a me attorno fino all’ultimo orizzonte, si raddoppiavano, decuplicavano…. Finché non iniziarono a ritrarsi verso di me, con moto inverso, capro espiatorio di quella catarsi, l’uno nell’altro fino a farsi un punto.
*
È inevitabile il richiamo all’ultima visione dantesca quanto alle parole iniziali del Paradiso, anche perché inizio e fine coincidono nel regno senza tempo, la zattera di Somelli è il mio legno che cantando varca; tutto si avvicina e allontana dall’io recuperato che rifonda un mondo, pure Somelli in fondo ritrova la nostra effige come sommo mistero, lo trova in ciò che non ha voce e a cui bisogna darla, in quello che appare insensato ma è la realtà che ci circonda. Queste parole che parlano per altri che non possono, non faranno uscire dalla selva, ma ci permettono di abitarla, togliendoci dalla cecità della nostra vita e queste parole non possono che essere vere, la menzogna è stata evitata. Certo qui accade dopo un naufragio più che dopo una traversata, come se fosse riuscito a sopravvivere alla follia del mondo con la sua zattera, ma forse ogni viaggio deve partire da un disastro avvenuto.
*
Al termine, come nella Commedia, contenuto e contenente coincidono, non nello splendore dantesco certo, ma nella approssimazione inevitabile della lingua, nel suo essere sempre un accostarsi alla verità.
Chissà se mi sentite come vedo, se abbracciate i bambini e ne assaggiate il sale delle lacrime se piangono, se tutto è assurdo come sembra vero.
E forse in questa conclusione si può leggere una terzina camuffata, tre più uno, come nei finali di ogni cantica, ma, incastonata dal rimando vedo/vero è la conquista di una visione, di una comprensione.
E la forza di quel chissà apre una voragine e improvvisamente ‘io’ vuol dire ritrovare il noi, dunque ci coinvolge, ci interroga, costringe a riprendere da capo per capire come quel è successo ci riguarda o forse viviamo senza rendercene conto. Quelle parole di altri, il sale delle lacrime che ora i sensi percepiscono e ne fanno una propria esperienza, non possono che essere vere, la menzogna è stata evitata, e il vedere corrisponde alla verità.  Siamo smarriti in questo mondo e in questo mondo dobbiamo far parlare il dolore non comprensibile, che ci appare ingiustificato e inammissibile: l’unico ‘oltre’ delle nostre parole, diventate finalmente vere, perché, e comprendiamo il titolo, sono “Le Parole di nessuno”: sono le nostre parole.
Paolo Del Colle
*In copertina: Odilon Redon, “Armatura”, 1891
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pangeanews · 5 years ago
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“Faccio di tutto perché il lettore non si annoi. Fin da piccolo ho viaggiato nello spazio e nel tempo con la mente, come il personaggio di Jack London…”: Ippolita Luzzo cerca di ipnotizzare l’inafferrabile Gianluca Barbera (ergo: Marco Polo)
Marco Polo intorta meglio. Intervista del Regno della Litweb con Gianluca Barbera
Intortare: coinvolgere, compromettere. Imbrogliare, abbindolare, far opera di persuasione per convincere, sembra oggidì di grande attualità. Tutti intortati da fake news, tutti intortati e convinti a urlare, ad essere rabbiosi. Per fortuna esiste un altro modo di intortare ed è quello della letteratura sui viaggi immaginari nei libri, nel fantastico mondo della storia, e quel coinvolgimento ci porta non a urlare ma a vagare felici. Già con Magellano, tra i finalisti del Premio Acqui Storia, e poi con Marco Polo (Castelvecchi, 2019), Gianluca Barbera ci intorta felicemente. La prima domanda è proprio questa. Come e con che lievito si prepara una torta letteraria?
 Partirò dal terrore che ho di annoiarmi, nove romanzi su dieci mi tediano terribilmente e siccome voglio bene ai lettori faccio di tutto perché non si annoino, imparino qualcosa (ammesso che si possa insegnare qualcosa agli altri, visto come siamo difettosi noi stessi) e si pongano delle domande. Cerco dunque di creare mondi nei quali farli entrare quasi in uno stato di sogno, di dimenticanza: una dimensione mitica che ci rimanda alle narrazione primigenie, da Omero in poi: perché se la realtà diventa qualcosa di solido contro cui sbattiamo la testa nel presente, nel futuro ciò che resteranno sono le storie, i miti, le narrazioni, perciò io prendo Marco Polo, e alla maniera di Salgari lo faccio incontrare con il leggendario Vecchio della Montagna, capo della setta degli assassini, e vedo che succede; oppure lo trasporto al cospetto della mitologica Arca di Noè, sul monte Ararat, e scateno l’inferno.
Nel Regno Della Litweb Marco Polo è giunto il 30 maggio 2019 raccontandomi tutto con sincerità “A giorni ero atteso in una delle corti più blasonate d’Italia, dove sarei stato accolto come un re d’Oriente, altro che ortaggi! Da lì ripartirò, signori miei, poiché non c’è sviluppo che non sia già in potenza…”. Nel mio regno e da regina ho subito apprezzato il racconto dell’illustre ospite e d’altronde chi ero io a poter dubitare di un racconto? Se una cosa si racconta diventa vera, crediamo ciò in letteratura, e sono diventati veri tanti topos, da L’isola del tesoro al Regno Della Litweb, così veri da interagire e dialogare con personaggi storici veri o presunti tali. Nella delizia del racconto quali sono i topos che amiamo in un racconto? Quali quelli amati da Marco Polo?
Nel romanzo accadono centinaia di cose, almeno un paio ogni pagina, in un vorticoso susseguirsi che sfida la resistenza del lettore: miti pagani, racconti biblici, credenze sufi, teogonie, cosmogonie: e dunque pilastri che reggono templi senza poggiare sul pavimento, brocche di vino che si sollevano dal tavolo e come guidate da un filo invisibile giungono in volo nelle mani degli ospiti a banchetto, montagne che si spostano da sole, laghi nei quali non si va mai a fondo e sulle cui sponde una volta l’anno i pesci si ammassano per lasciarsi pescare, cascate poderose il cui frastuono rende sordi e ciechi, fate morgane ingannevoli, donne dalla pelle dura e dolce le cui carezze non si potranno mai più dimenticare, serpenti rivelatori, fulminee apparizioni come quella dell’araba fenice, ma anche storie legate a Gesù, a Maometto, a Buddha: perché in Oriente (così credevano gli uomini dell’epoca) tutto è possibile e la logica comune non vale più.
Sto leggendo Jonathan Gottschall L’istinto di narrare e lui ci dice a pagina 174 “La narrativa di una vita è un mito personale. Ogni resoconto è una narrativa accuratamente modellata, colma di dimenticanze strategiche e significati abilmente elaborati”. Una storia di vita è una finzione narrativa estremamente utile. Non a tutti riesce però. Ecco perché solo alcuni avranno il privilegio di andare lontano come Marco Polo o Magellano, come Gianluca Barbera o me da regina di un regno che non esiste, senza sfiorare il ridicolo ma convincendo gli altri, certi della costruzione letteraria. È un privilegio, vero? di sicuro un’abilità, costruire storia anche e soprattutto su noi stessi? Pochi riescono vero?
Ciascuno di noi possiede un dono, un talento: si tratta di avere la fortuna di scoprire qual è. Fin da piccolo io ho viaggiato nello spazio e nel tempo con la mente, come il personaggio del Vagabondo delle stelle di Jack London. Da grande ho cercato di sfruttare questa mia abilità, questo mio dono. Scrivo di ciò che mi riesce bene; e se qualcuno mi chiede di occuparmi di temi che non mi sono congeniali dico di no. Ma lo ripeto: tutti abbiamo un qualche talento, coltiviamo quello senza intestardirci in cose che non ci appartengono
Nel mio blog, nato nel 2012, in modo fortuito e giocando sul nome dal mito la regina delle Amazzoni, sono diventata la regina della Litweb ed è un personaggio che ha vita propria, quel giardino ben coltivato di cui parlava Tabucchi in Dietro l’arazzo. Qui, nel mio blog, Marco Polo è stato letto raggiungendo migliaia di visualizzazioni benché e forse proprio perché anche lui si trova a suo agio in un regno che non c’è. Vero? Così scrivo di lui nel blog “Sembrano Le mille e una notte, sembra Sherazade, sembra mia nonna narrare ogni sera storie lunghissime e che non finivano mai. Chi racconta ha già il potere di tenere incatenati tutti alla storia e questa è la bravura di Gianluca Barbera, del quale voglio leggere anche Magellano, suo precedente libro e atto teatrale interpretato in questi giorni da Cochi Ponzoni, a Milano, con successo. Poco importa se è un Marco Polo in crisi di identità, infatti a furia di narrare la sua storia lui perde i confini fra il vero e il falso e come succede spesso non sa più chi lui sia”. A dir la verità chi potrebbe dire con sicurezza chi lui sia?
Sì, tu hai creato un tuo mondo dotato di solida realtà, così come io ogni volta che scrivo un romanzo invento da capo un nuovo mondo: si tratta di fare in modo che quel mondo immaginario diventi particolareggiato, vivo, reale come quello in cui viviamo quotidianamente. Io cerco di creare mondi nei quali vorrei vivere, mettendo in scena personaggi che vorrei incontrare e situazioni nelle quali vorrei trovarmi: per lo più situazioni da sempre sognate, fin dai tempi della mia infanzia. Anche Stevenson era di questo avviso, anche lui andava in cerca di una tale reinvenzione del mondo: in questo e in molto altro sento di somigliargli. Così come quasi ogni libro che scrivo è un omaggio a Salgàri (anche se Marco Polo è prima di tutto dedicato a mia moglie).
Nel Regno Della Litweb applaudiamo ai bravi per davvero, nel segno di Boezio, nella consolazione della filosofia, nel vero che sarà vero anche in un racconto di dove tutto è possibile e come dici tu “la logica comune non vale più”. Sarà questo fuggire via con Marco Polo, sarà il bellissimo uso del nostro pensiero, come compagno, a non farci diventare monotematici, a non farci diventare sciocche macchine di comportamenti ripetitivi. Evviva dunque lo spazio che tu, Gianluca, abiti ed evviva il nostro regno della fantasia, il regno dove si trova la nostra più bella letteratura. Una letteratura amica. La meraviglia negli occhi di Aristotele e la meraviglia nei nostri occhi. Forti di tutto ciò questi tempi sguaiati non ci avranno. Evviva Salgàri, anche da me amatissimo e riscatteremo Salgàri. Hai letto Demetrio Paolin Non fate troppi pettegolezzi? Ecco noi non facciamo troppi pettegolezzi ma vogliamo di nuovo che i racconti di fantasia, come Marco Polo, siano il balsamo per questi tempi feroci.
Grazie per le belle parole, e ora se mi permetti io scompaio per lasciare il posto a Marco Polo (mio alter ego), che vi verrà incontro, vi prenderà per mano e vi porterà via con lui, in un altro mondo, ad anni luce di distanza. Buona lettura.
E dal Regno della Litweb è tutto. Vado via con Marco Polo
Ippolita Luzzo
*In copertina: una delle rarissime fotografie recenti di Gianluca Barbera, estorta a tradimento
L'articolo “Faccio di tutto perché il lettore non si annoi. Fin da piccolo ho viaggiato nello spazio e nel tempo con la mente, come il personaggio di Jack London…”: Ippolita Luzzo cerca di ipnotizzare l’inafferrabile Gianluca Barbera (ergo: Marco Polo) proviene da Pangea.
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pangeanews · 6 years ago
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“Scrivere è sollevare un microscopio e accudire un bambino”: dialogo con Tracy Ryan, la Sylvia Plath australiana
Non è un abuso giornalistico. Il paragone tra Tracy Ryan e Sylvia Plath ricorre un po’ in tutti i repertori critici. Lei, classe 1964, tra i poeti più originali e riconosciuti in Australia, non si tira indietro, riconosce il debito d’ispirazione con la Plath, ma anche quello con Ted Hughes e Rainer Maria Rilke, ad esempio, e marca delle rigorose distanze. D’altronde, è poesia rigorosamente australe, sghemba all’ovvietà narrativa, quella della Ryan, che procede per densità verbali, tenta la rabdomante anomalia del quotidiano. Poesia colta, che trafigge con oracoli meridiani, condotta da quasi 25 anni – la prima raccolta, Killing Delilah, è del 1994, l’ultima, The Water Bearer, “così piena di intima intensità, di limpidezza visionaria, sintesi lirica di uno dei poeti australiani viventi più noti e premiati” (Marion May Campbell), da cui provengono le poesie che abbiamo tradotto in calce all’intervista, è pubblica quest’anno – con ostinata coerenza formale e formidabile impeto ‘etico’. L’esperienza lirica della Ryan – che ancora attende un degno riconoscimento in Italia – attraversa le tradizioni, sia per la biografia dell’autrice – nata in Australia, ha lavorato a Cambridge e ha vissuto negli Stati Uniti, in Ohio – che per la natura della sua poesia. Spifferi di Emily Dickinson e barriti di Baudelaire, infatti, s’imprimono nella sua poesia, onnivora. “Non appartengo ad alcuna scuola di pensiero”, ha detto, in una riflessione del 2001, “in senso più ampio la mia scrittura è inestricabilmente legata al mio femminismo”. Alla sua femminilità, pare, leggendo Tracy. Anarchica, inafferrabile, virile.
Da dove proviene la tua ispirazione poetica? Sei ispirata da un fatto, un evento storico, un elemento naturale, un’illuminazione improvvisa… Che cos’è la poesia?
Può arrivare assolutamente da qualsiasi parte: è la sensazione che prendere e sorreggere un pesante microscopio assomigli a tenere in braccio e allevare un bimbo. Deriva dal riconoscere il rumore dei passi del tuo compagno sulle scale, un rumore che distingui minuziosamente dalla camminata di chiunque altro. Più lo tengo in considerazione, più mi rendo conto che ciò accade in modo specifico attraverso ciascuno dei sensi; a volte in più percezioni contemporaneamente… La certezza fisica che, per esempio, dopo la gravidanza continui a fare più spazio del necessario o senti la mancanza del peso del bambino sul tuo fianco, sul tuo braccio. Queste cose sembrano banalità ma non lo sono, dal momento che comportano connessioni psicologiche, sociali e anche spirituali. Tutto questo, scontrandosi con il lavoro altrui – perché l’ispirazione arriva anche da altre poesie, corre attraverso il vaglio (mescolare la metafora) delle tue stesse esperienze.
Ho letto che la tua poesia è stata avvicinata ai poemi di Sylvia Plath, una poetessa molto conosciuta in Italia. Ti intimidisce questo confronto, pensi sia corretto? Quali sono i poeti che ami di più? Quali poeti – vivi o morti – hanno contribuito alla tua crescita poetica?
Come molti altri poeti, sono profondamente debitrice nei confronti del lavoro della Plath. Non penso che il mio lavoro assomigli così tanto al suo, tematicamente quasi per niente, anche se nella tecnica e nel mestiere lei è per me un grande esempio. Questo non è insolito, specialmente nella mia generazione che le succede direttamente (lei appartiene all’era dei miei genitori). Sono stata influenzata da così tanti poeti che è difficile menzionarli tutti, ma in modo cruciale da entrambi, sia dalla Plath che da Ted Hughes, quanto, allo stesso modo da Theodore Roethke; ma anche dagli australiani Judith Wright, che ho studiato a scuola, e da Dorothy Hewett. Di epoche precedenti, ho imparato da John Donne, George Herbert e poi da Gerard Manley Hopkins. Ritorno continuamente a Emily Dickinson e a Emily Brontё. Per quanto riguarda i poeti non inglesi invece, assolutamente Rainer Maria Rilke e probabilmente Baudelaire, nonostante tutti i problemi con lui!
Pensi che esista una particolarità della scrittura ‘femminile’? Cosa c’è di diverso da quella ‘maschile’?
Non penso che l’originalità o la differenza sia assoluta. Penso si tratti piuttosto di un disposizione, una tendenza o un punto di vista – ma nessuno precipita ordinatamente in un ‘campo’ piuttosto che in un altro – il ‘genere’ non è così semplice, come le persone stanno finalmente iniziando a riconoscere! (alcune persone lo hanno sempre riconosciuto). Detto questo, penso che ci siano stati elementi che la scrittura delle donne abbia evidenziato per via di una differenza storica nell’esperienza, una esperienza spesso svalutata. Intendo gli standard di giudizio in base ai quali un particolare argomento era considerato banale o personale perché allineato con l’esperienza tipicamente ‘femminile’. Queste categorie sono state messe in dubbio già da molto tempo. Io sono una femminista, ma ciò non significa che accetti qualsiasi opinione le persone associano a quella parola.
Che rapporto tra etica ed estetica? Quando scrivi, risolvi solo un problema formale o ti preoccupi anche del fatto ‘politico’, sociale, ambientale?
Penso che etica ed estetica siano inscindibili, nonostante si tenda a separarli. Tuttavia, non so con chiarezza a quale posizione etica attingere. Risolvere un problema formale è semplicemente una piccola parte della scrittura, anche se a volte risulta essere la parte più difficile. Preoccuparsi riguardo ai problemi che hai menzionato è sempre un punto fisso per me, nonostante a volte sembri più uno ‘sfondo’ piuttosto che un argomento centrale, decisivo.
Ho letto che hai vissuto in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Australia. Quali sono le caratteristiche della poesia Australiana?
La questione è troppo vasta per poter generalizzare.
Su cosa stai lavorando ora, che libro stai scrivendo?
Ho un nuovo romanzo che uscirà quest’anno e la maggior parte delle mie energie le ho impiegate in questo. Allo stesso modo in cui gli attori amano dire, enfaticamente, che sono ‘nella parte’ o ‘tra impegni’, io sono ‘in mezzo ai libri’ al momento!
*
La settima nuotata
  Quando l’uomo con la barba bianca l’ho confuso con una maschera la scorsa settimana viene di nuovo, io scelgo di restare.
Senza parole, come una mezz’onda. mi muovo, lascio a lui la parte migliore mantenendo il passo.
Deve ricordare come sono fuggita, in quel momento, supponendo la modestia forse, ma così non è.
Terminato con il pigro galleggiante la rimozione del pensiero ora devo apparire una che nuota.
La compagnia designa perimetri linee invisibili tracciate pur non essendo te stesso.
Ineleganti, instabili noi fuggiamo dalla stessa fine come due che inaugurano l’atto del parlare
nel medesimo istante qualcuno deve sopraffare o l’altro soccombe.
Eppure mi basta solo il mio naturale languore, e anche se più giovane, la mia debolezza
per disporci in difficoltà senza sforzo. Saremo opposti prematuramente varcando il centro
tentando di duplicare lo spazio ma questo è superfluo: lui prepara una lunga bracciata
lasciando la sua scia al largo quasi al punto da soffocarmi insolito a questo altro ritmo
pone la sua faccia in profondità e prepara un polmone percorrendo l’intera lunghezza
Perfino lungo un fianco apparentemente mio, non posso competere. Se questa fosse una barca, sarebbe l’estremità.
*
Il Doppio Appuntamento
L’essenziale è invisibile agli occhi. St-Exupèry, Il Piccolo Principe
Prendendo ciascuno il proprio turno per entrare questo armadietto oscuro come se fosse un confessionale, solo gli errori sono oculari, ordinari e noi speriamo veniali non mortali; comunque
il computo di questo maestro non esenta alcun sacramento, soltanto prospettive. E scolpite immagini: una nuova macchina in grado di scrutare e penetrare negli occhi, alternandosi in tre dimensioni – osserva, la mia
macchia come dovrebbe essere, consolante , lui ti chiama dal panchetto per osservare, restituito all’intimità: tua moglie in vesti mai viste prima, non equivoca ma spiritosa, tracciando il modo in cui noi, così vicini, condividiamo la perdita
di escludere il mondo – una coppia di vecchie scarpe o pantaloni che si conservano insieme in declino come tutto il resto – eppure ancora ne faccio tesoro l’un l’altro e nientemeno. Guarda quella membrana fluttuante, staccata! Dice lui, staccata, e la tua
domanda balza ansiosa ma nulla è serio solo il mio vitreo invecchiare insieme al resto di noi, e adesso per settimane tu dovrai guidarmi, vai dove ho bisogno di andare, proprio come farei se fossi tu
questa impotenza, che estende i sensi l’un l’altro, simbiosi ossea della mia carne, fino quando il mio nuovo sarà pronto per essere raccolto, ed io sarò di nuovo praticante, esteriormente focalizzata, dimostrando di condurre tutto da sola Tracy Ryan
(le poesie sono tratte dal libro “The Water Bearer”, Fremantle Press, 2018; trad. it. dell’intervista e delle poesie di Matilde Casagrande)
*
Where does your poetic inspiration come from? You are inspired by a fact, an historical event, a natural datum, a sudden lighting… What is poetry?
It can come from absolutely anywhere: out of the sensation that picking up and supporting a heavy microscope resembles picking up and supporting a small baby. Or out of recognising your partner’s tread on the stairs as minutely distinct from anyone else’s footfall. The more I consider it, the more I realise it’s specifically happening through each of the senses; sometimes more than one sense at a time, of course. The spatial realisation that, for instance, after pregnancy, you keep making more room than you need – or missing the weight of the child on your hip, your arm. These things seem trivial but are not, since they entail psychological, social, even spiritual connections. All of it within the context of bouncing off other people’s work – because inspiration comes from other poetry too, run through the sieve (to mix the metaphor!) of your own experiences.
I have read that your poetry has been compared to Sylvia Plath’s poems, a well-known poet in Italy. Do you like this comparison, do you think it’s right? What poets do you love? Which poets — living or dead — have helped your poetic growth?
Like many other poets, I’m deeply indebted to Plath’s work. I don’t think my work resembles hers very much, thematically almost not at all, though in craft and technique she’s a huge model for me. This is not unusual, especially in my generation, since it came directly after hers (she’s of my parents’ era). I’ve been affected by too many poets to mention all, but crucially both Plath and Ted Hughes, as well as Plath’s great influence Theodore Roethke; also the Australians Judith Wright, whom I studied at school, and Dorothy Hewett. From earlier times, I’ve learned from John Donne, George Herbert, then Gerard Manley Hopkins. I return again and again to Emily Dickinson and Emily Brontë. For non-English poets, absolutely Rainer Maria Rilke and probably Baudelaire, despite all the problems with him!
Do you think there is a specificity of ‘feminine’ writing? What is different from that of the ‘males’?
I don’t think the specificity or difference is absolute. I think it can in some cases be detected as a disposition, tendency, or a way of seeing – but nobody falls neatly into one “camp��� or the other – gender just isn’t that simple, as people are finally starting to recognise! (Some people always did recognise it.) Having said that, I do think there have been elements that women’s writing has highlighted because of historical difference in experience, sometimes devalued experience. I mean the standards of judgement whereby a particular subject matter was previously considered “trivial” or “personal” because it was more aligned with typically “female” experience. Those categories have been questioned a long time now. I am a feminist, but that doesn’t mean I accept every viewpoint people associate with that word.
What is the relationship, in your opinion, between ethics and aesthetics? When you write you only solve a formal problem or do you also worry about a ‘political’, social, environmental problem?
I think ethics and aesthetics are inseparable, even if we intend to separate them. Even if we don’t quite know when we have drawn on an ethical position. Solving a formal problem is just such a small part of writing, even though sometimes it feels like the hardest part. Worrying about those problems you mention is always there for me, despite sometimes seeming more of a “backdrop” rather than a front-and-centre topic.
I read that you lived in the UK, USA, Australia. What are the characteristics of Australian poetry?
It’s probably too diverse to characterise.
What are you working on now, what book are you writing?
I have a new novel coming out this year and a lot of my energies have gone into that. In the way that actors like to say, euphemistically, they are “between roles”, or “between engagements”, I’m “between books” at the moment!
  L'articolo “Scrivere è sollevare un microscopio e accudire un bambino”: dialogo con Tracy Ryan, la Sylvia Plath australiana proviene da Pangea.
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