#mito di Ulisse
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pier-carlo-universe · 4 months ago
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Recensione di "Il Ritorno di Ulisse" di Mirella Ester Pennone Masi. Recensione di Alessandria today
Un viaggio poetico tra nostalgia, amore e attesa nella riscoperta di sé
Un viaggio poetico tra nostalgia, amore e attesa nella riscoperta di sé. “Il Ritorno di Ulisse” di Mirella Ester Pennone Masi è una poesia intensa e evocativa che ripercorre il tema classico dell’attesa e del ritorno, ispirandosi al mito di Ulisse e Penelope. Il testo, intriso di malinconia e speranza, esprime la forza di un amore in attesa, paziente e resiliente, che supera le difficoltà e il…
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lunamarish · 8 months ago
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Vi ricordate le sirene del mito Ulisse? È uno passi più belli e famosi di tutta l’Odissea. Ma perché? Perché dietro questo mito è racchiusa una grande verità.
«Nessuno è mai passato di qui senza fermarsi ad ascoltare il dolce suono del nostro canto,» dicono le sirene ad Ulisse. E non gli stanno mentendo: con il loro canto seducono i marinai e li spingono a gettarsi in mare. Ulisse però adotta uno stratagemma per sopravvivere: si fa legare all’albero maestro della sua nave e copre le orecchie dei suoi uomini con la cera, così che non sentano il loro canto. Ecco, che cosa vi sta dicendo Omero? Che l’uomo è facile da ingannare. Chi parla con sincerità viene spesso deriso e frainteso e la massa da la sua preferenza a chi invece lo seduce e lo lusinga con un dolce canto, tanto dolce quanto velenoso e fatale.
Ma perché le sirene riescono ad incantare i marinai? Perché le loro parole sono così persuasive che riescono ad ingannare gli uomini. Ricordate il latinorum di Don Abbondio, il linguaggio forbito dell’Azzeccagarbugli? Tutti questi personaggi hanno una cosa in comune: distraggono, sviano, ingannano. Sono come le sirene di Ulisse. Ma riescono ad avere la meglio sugli altri perché sanno parlare.
Fateci caso, gli uomini più potenti del mondo che cosa fanno? Parlano! Vi persuadono a sostenere le loro idee soltanto con le parole. Non vi puntano un fucile contro la testa, non vengono nelle vostre case, non vi fanno assolutamente nulla, si limitano a parlare! Conoscono le parole giuste e sanno come usarle!
Dietro i momenti più importanti e più significativi della storia umana, la distruzione di Cartagine, il concilio di Nicea, la riforma protestante, l’ascesa di Hitler, non vi furono le armi ma delle parole! «Carthago delenda est», disse Catone. Furono queste piccole, semplici parole a segnare la fine di uno degli imperi più grandi del mondo antico. E ricordatevi sempre, come diceva Don Milani, un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone.
Guendalina Middei
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parmenida · 9 months ago
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𝗠𝗜𝗧𝗢𝗟𝗢𝗚𝗜𝗔 𝗘 𝗣𝗦𝗜𝗖𝗛𝗘: 𝗖𝗟𝗜𝗧𝗘𝗠𝗡𝗘𝗦𝗧𝗥𝗔 𝗘 𝗟'𝗔𝗥𝗧𝗘 𝗗𝗘𝗟𝗟𝗔 𝗩𝗘𝗡𝗗𝗘𝗧𝗧𝗔
Per chi è convinto che le famiglie disfunzionali siano un’invenzione moderna e per chi si ostina a irrigidirsi quando si dice gli antichi Greci – per carità, tanto bravi a fare sculture e scrivere poemi e altre cosucce come la democrazia – erano dei misogini maledetti, eccovi il mito di Clitemnestra.
La famiglia, dicevamo, roba che al confronto la “Family” di Charles Manson pare quella degli spot del Mulino Bianco. Clitemnestra è sorella di Elena e di Castore e Polluce. Tanto per cominciare bene, alla nascita Afrodite scaglia su di lei e sulla sorella una maledizione: sarebbero diventate - Oh mio Dio! - adultere. E capirai, fossero questi tutti i guai le due se ne andrebbero in giro facendo la ruota.
Anche perché le cose all’inizio sembrano girare per il verso giusto: Clit si sposa con Tantalo, re di Pisa (un regno greco, non quella della torre che pende). Quando entra in scena quel violento basta*do di Agamennone le cose vanno a rotoli. Aga è re di Micene e muove guerra a Pisa così, perché s’è svegliato con le balle girate.
Tantalo viene fatto secco e Agamennone, che si è invaghito di Clitemnestra, per fare colpo le prende il bambino che stringe in grembo – figlio suo e di Tantalo – e lo sbatte sulle rocce, dimostrando di essere un vero duro. Che idea si sarà fatta Clitemnestra di Agamennone? Bene, è costretta a sposarlo.
Perché? Ma perché quella volta le cose vanno così, è l’uomo che sceglie.
Passa il tempo e la donna mette al mondo quattro figli: Oreste, Elettra, Ifigenia e Crisotemi. Ora, se un paio di questi danno il nome a celebri complessi della psicologia, capirete che la famiglia di Clitemnestra avrebbe avuto bisogno dei servizi sociali, più che del virilone Agamennone che se ne va in guerra a Tr*ia per coprirsi di sangue e gloria.
Prima di partire, però, Agamennone ne combina un’altra delle sue: quella che gli costerà la pellaccia. Artemide ce l’ha con lui, il motivo? Fate voi, c’è sempre un motivo per avercela con un fesso del genere. Fatto sta che Artemide fa calare il vento e le navi non possono salpare per andare in guerra. Calcante, un indovino celebre per non farsi i ca**i suoi, lo avvisa: “Per farti perdonare, devi fare un sacrificio alla dea!”
Quello pensava a un gallo nero di peluche, ma Agamennone vuole strafare: tra le preghiere e i lamenti di madre e figlia, il re sacrifica alla dea Ifigenia, “carissima doglia di parto” di Clitemnestra. E stavolta quella gliela giura per davvero. E sapete quanto può essere profondo l’odio di una persona che ha abbozzato troppo a lungo.
Passano gli anni. Agamennone fa quello che sa fare meglio: picchia, ammazza, intriga e – quando torna – immagina che la moglie lo aspetti come la manna dal cielo, stendendogli il tappeto rosso. Effettivamente, “rosso” è una parola da tenere a mente, in questo caso. Con sé, porta come bottino di guerra Cassandra, un’altra costretta a subire le avances di quel seduttore da balera. Tanto per capire l’aria che tira, Cassandra è pure lei alla base di un celebre complesso, quello della profezia autoavverante.
Clitemnestra, intanto, libera per anni dal suo carnefice domestico, di cui non prega la morte in guerra solo perché spera di fargli fare la fine del tacchino a Natale con le sue mani, si è trovata l’amico, Egisto, e ha continuato a progettare un “bentornato” indimenticabile per il suo sposo. Un atteggiamento opposto a quello di Penelope, che rimane a filare mentre Ulisse si dà da fare con tutte le ninfe che gli dèi hanno mandato sulla Terra. Lei no, Clitemnestra se la spassa e aspetta Agamennone al varco.
La donna tiene fissa una sentinella fuori dall città e quando finalmente il marito torna, si fa trovare preparata. Gli destina tutti gli onori, anche quando vede che quello si è riportato pure l’amante. Cassandra, come suo costume, avvisa Agamennone: “Guarda che qua ti fanno la pelle!” Quello non le crede e lei gli dice di fare un po’ come gli pare: è abituata.
Agamennone si rilassa e si fa un bel bagno. Mentre sta nella Jacuzzi, però, Clitemnestra si prende la sua soddisfazione e con l’ascia bipenne lo colpisce una, due volte. Quando quello è a terra in un lago di sangue, per sicurezza, cala un altro colpo e poi si presenta ai sudditi, orgogliosa della sua vendetta, di cui fa le spese anche l’incolpevole Cassandra.
C’è un meraviglioso dipinto di John Collier che la ritrae, con l’ascia insanguinata, il portamento fiero e gli occhi spiritati di chi ha fatto quello che doveva fare e ha ancora in circolo la botta di adrenalina.
Per gli antichi Greci, Clitemnestra è il mostro per eccellenza e Agamennone la povera vittima. Inutile dire che, con occhi moderni, non è difficile empatizzare con la donna, portatrice di giustizia, creatura condannata a essere sempre vittima che a un certo punto si ribella. Un comportamento che, allora come oggi, manda in tilt certi uomini, convinti che la donna debba subire e subire, senza mai alzare lo sguardo.
Agammennone fa in tempo a proprie spese a capire che non è così.
Eschilo ci consegna il vibrante monologo di Clitemnestra, vero manifesto della vendetta con buona pace di Kill Bill:
“Io pensavo da tempo a questo cozzo | d'antica lite; e pure tardi, è giunto. | Dove ho vibrato il colpo ora mi accampo. | È stata opera mia, né la rinnego, | che non si scrolli o scampi al suo destino. | Ho stesa, come a squalo, immensa rete | su di lui: il fasto lugubre d'un manto. | Io gli vibro due colpi e in due lamenti | lui s'accascia: gli assesto il terzo, a terra, | in grazia all'Ade, scampo dei defunti. | Agita così l'anima caduto | e soffiando uno sprazzo acre di sangue | m'investe d'una funebre rugiada, | che mi rallegra come la semente | granisce al nembo, che largisce Giove. | Così stanno le cose, cittadini | venerabili in Argo; e ne godrete | voi, se vi piace; io me n'esalto in me. | Si potesse libare sui cadaveri, | qui sarebbe giustizia, alta giustizia – | di tanti mali e maledizioni | costui colmò la coppa in questa casa, | che ora, al ritorno, s'è vuotata solo.”
Il dipinto di John Collier
[Mitologia e Psiche]
#MitiALR
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diceriadelluntore · 2 years ago
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Aggettivi Perversi
@popolodipekino​ mi ha scritto un commento al post dell’altro giorno sulla briciola di mascuotto che assomigliava alla Sicilia chiedendosi se esista, da Trinacria, l’aggettivo: probabilmente il suo trinacre è sbagliato, e dovrebbe essere trinacrio la forma corretta. 
Ma colgo l’occasione per spendere due parole sul leggendario simbolo dell’altrettanto leggendaria  (e da me tanto amata) isola del Mediterraneo.
Trinacria vuol dire “dai tre promontori”, e deriva dal greco τρεῖς (tre) e ἄκρα (promontorio). C’è un chiaro riferimento alla forma triangolare dell’isola. Molti invece pensarono che fosse derivante da  ‛tris' e ‛nacros', cioè dai tre monti  Peloro, Pachino e Lilibeo, ma questo è un errore etimo-filologico.
Fu Omero che fa dire ad Ulisse, al cospetto della maga Circe, che dopo aver attraversato Scilla e Cariddi allora incontro ti verran le belle / spiagge della Trinacria isola dove / pasce il gregge del Sol, pasce l’armento (Libro XII, vv 165-166).
La Trinacria, in quanto araldo, è rappresentata da una testa gorgonica, con serpenti intrecciati a delle spighe al posto dei capelli, da cui partono a raggiera tre gambe piegate, sottoposte a due ali laterali; figura che prende il nome di Triscele dall’aggettivo greco triskelés (tri e skélos), letteralmente con tre gambe. Le tre gambe rappresentano i tre punti estremi dell’Isola: Capo Peloro conosciuto anche come Punta del Faro in direzione Nord-Est, Capo Passero in direzione Sud e Capo Lilibeo noto anche come Capo Boeo in direzione Ovest.
Sulle spighe di grano, basta dire che sin dal tempo dei Romani, la Sicilia è nutrix plebis Romanae, letteralmente «nutrice della plebe romana», in quanto primo produttore di grano anche in tempo imperiale.
Sulle Gorgoni, il mito è molto itneressante: figlie di Forco e di Ceto, abitavano nell'estremo occidente del mondo conosciuto dai greci, o il Giardino delle Esperidi (che corrisponde più o meno all’attuale Mauritania) oppure in un’oasi della Libia. Nella maggior parte dei miti sono tre: Steno, Euriale e Medusa, tutte e tre dal corpo mostruoso, dalla forza selvaggia e divoratrici di uomini. Avevano tutte serpi per capelli, artigli di leone alle mani, il corpo di bronzo e lo sguardo pietrificante. Steno e Euriale erano immortali, Medusa no.
Steno rappresentava la perversione morale, Euriale la perversione sessuale, Medusa la perversione intellettuale, e delle tre è la più famosa per lo scontro con Perseo, che la decapitò.
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Esiste una specie di coralli che per le ramificazioni tipiche che ricordano i capelli di serpenti delle mitologiche sorelle, vengono chiamati Gorgonia (in foto sopra).
Cosa può scatenare una briciola di pane.
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1solone · 2 years ago
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ELENA DI SPARTA
(Elena di Troia - Elena)
Elena fu allevata in casa di Tindaro e ancora giovinetta fu al centro di numerosi miti di seduzione: Teseo la rapì che era ancora fanciulla.
Elena infatti era ritenuta la donna più bella del mondo, e poiché i pretendenti erano numerosi, Tindaro, sotto consiglio di Ulisse, lasciò che ogni decisione fosse della ragazza, onde evitare che una sua interferenza potesse causare una guerra.
La scelta cadde su Menelao, principe di Micene, che sposandola divenne re di Sparta. Dalla loro unione nacque Ermione.
La sorella Clitennestra sposò invece Agamennone, fratello di Menelao.
I pretendenti e il «giuramento di Tindaro»
«E molte vite sono morte per me sullo Scamandro,
e io, che pure tanto ho sofferto, sono maledetta,
ritenuta da tutti traditrice di mio marito
e rea di avere acceso una guerra tremenda per la Grecia.»
Quando fu in età da marito tutti i capi Greci pretesero la sua mano. Siccome la loro rivalità rischiava di generare un conflitto, su suggerimento di Ulisse, Tindaro sacrificò un cavallo sulla cui pelle fece salire i pretendenti per farli giurare che, chiunque fosse stato il fortunato sposo, tutti avrebbero dovuto accorrere in suo aiuto nel caso qualcuno avesse tentato di rapirgli la sposa.
Quando era ormai moglie di Menelao Elena venne rapita dal principe troiano Paride e il patto di solidarietà stipulato tra i pretendenti alla sua mano spinse gli stessi, con a capo Agamennone, a dichiarare guerra a Troia.
Elena sui bastioni di Troia, nella quale Gustave Moreau raffigura una Elena inespressiva, con una faccia vuota o angosciata.
Per vendicare il rapimento di Elena da parte del principe troiano Paride (al quale Afrodite aveva promesso la più bella delle donne) Menelao e suo fratello Agamennone organizzarono una spedizione contro Troia chiedendo aiuto a tutti i partecipanti al patto di Tindaro.
Nell'Iliade Elena è un personaggio tragico, obbligata a essere la moglie di Paride dalla dea Afrodite.
Nessuna colpa le può essere rinfacciata, data la sua incolpevole bellezza, anche se le si dà la colpa della guerra che insanguina Troia e se lei stessa si rimprovera continuamente di essere la causa di tanti mali, sebbene sia consapevole che, in definitiva, quanto accaduto è dovuto al Fato.
Non è una donna felice, disprezza Paride ed è invisa a molti troiani: solo Priamo ed Ettore si mostrano gentili con lei, e in occasione della morte di quest'ultimo, Elena proverà un sincero dolore.
Alla morte di Paride Elena è costretta a sposare il fratello Deifobo.
I greci fanno irruzione nella camera da letto trovando Deifobo addormentato e ubriaco.
Le versioni a questo punto divergono: sia per quanto riguarda l'identità dell'uccisore di Deifobo (Menelao, Ulisse o entrambi) sia sul fatto se il troiano si fosse risvegliato o no.
Nel secondo libro dell'Eneide, durante l'incendio di Troia, Enea vede da lontano Elena ed è preso dall'impulso di ucciderla, ma ne viene dissuaso dalla madre Venere, che lo esorta a fuggire dalla città con i familiari.
Nell'Odissea Elena appare riconciliata con il marito e tornata a Sparta per regnarvi al suo fianco, anche se malvista dai sudditi.
Si narra anche che Oreste avesse cercato di ucciderla.
Secondo altre versioni ebbe una fine misera. Altre ancora la divinizzano insieme ai fratelli Castore e Polluce.
Venere salva Elena dalla furia di Enea, Jacques Sablet, 1779.
Un'altra versione vuole che, dopo la morte di Menelao, due figli naturali di costui cacciassero Elena e la costringessero a rifugiarsi presso Rodi, dove Polisso la fece impiccare per avere causato la morte di tanti eroi sotto le mura di Troia, fra cui suo marito Tlepolemo.
Il mito di Elena è descritto nell'Iliade e nell'Odissea, ma molti poeti successivi a Omero modificarono il personaggio e la sua mitologia. Alcune leggende la indicano figlia di Nemesi, la dea della vendetta e della giustizia. Euripide, nella tragicommedia Elena, segue quel filone mitico secondo cui Elena non fu mai rapita da Paride né visse a Troia né fu ripresa da Menelao, ma sempre visse nascosta in Egitto, costretta da Era che mise al posto suo, a Sparta, un'immagine d'aria, un simulacro vivente, per ingannare Paride e vendicarsi di non essere stata scelta al posto di Afrodite.
Così sono esistite due Elena, una in Egitto e una a Troia.
Inoltre, secondo altri miti, le anime di Elena e Achille, dopo la morte e la discesa nel Tartaro, furono assunte nell'Isola dei Beati (o Campi Elisi) per i loro meriti, e lì ebbero un figlio, Euforione.
Secondo una variante del mito, fu Elena, divenuta dea dopo la morte, a discendere negli Inferi attratta dall'ombra di Achille per giacere con lui generando il semi-dio Euforione.
I personaggi di Elena ed Euforione, seppure con molte varianti, sono ripresi da Goethe nel suo Faust.…‿ℒℴνℯ⁀❣🌹
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isoleminori · 4 months ago
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Ventotene, Fred Boissonnas, 1912
Insieme allo scrittore francese Victor Bérard, il fotografo svizzero Boissonnas ha realizzato un progetto fotografico nel Mediterraneo, ripercorrendo le orme di Ulisse e le varie tappe del mito.
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circeipertestodelmito · 8 months ago
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Il 14 giugno 2024 è uscito "Circe", il nuovo album di Simone Alessandrini
"Sono cresciuto a San Felice Circeo, e per mio zio Rocco “Papillon”, sopraffino esperto di epica, era consuetudine raccontare a noi nipoti l’Odissea, attraverso le gesta di Ulisse, le terre dei ciclopi e in particolar modo, il mito di Circe.
Una figura a cui sono molto legato e che ho ritrovato qualche tempo fa in un libro poco conosciuto, dall’omonimo titolo: La Circe, dello scrittore Giovan Battista Gelli, pubblicato nel 1549.
Nel testo, l’autore immagina che Ulisse ottenga da Circe la facoltà di conversare con i suoi greci trasformati in animali, i quali inaspettatamente si pronunciano a favore della propria condizione ferina e oppongono un netto rifiuto all’offerta di recuperare le fattezze umane, sostenendo la superiorità̀ etica degli animali rispetto alle debolezze, ai vizi e alle miserie che caratterizzano l’esistenza degli uomini. Questo libro è stato lo spunto che ha dato vita a “Circe”, il terzo album di Storytellers, con cui chiudo la mia piccola trilogia. Per l’occasione, ho ampliato la formazione a 12 elementi che hanno suonato in un modo incredibile e che non finirò mai di ringraziare.
Sto parlando di:
Laura Giavon, (nel ruolo di Circe) Federico Pascucci, (nel ruolo del vitello) Anto Sor, (nel ruolo del cavallo) Mariasole De Pascali, (nel ruolo della serpe) Federico D'Angelo, (nel ruolo del leone) Giacomo Ancillotto, (nel ruolo della cerva) Marcella Carboni, (nel ruolo della lepre) Nazareno Caputo, (nel ruolo dell’ostrica) Simone Pappalardo, (nel ruolo del cane) Riccardo Gola, (nel ruolo della talpa) Riccardo Gambatesa, (nel ruolo del capro)"
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cinquecolonnemagazine · 8 months ago
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Il Parco Vergiliano: un'oasi verde tra storia e natura a Napoli
Ai piedi del suggestivo Posillipo, immerso nella quiete di Piedigrotta, si trova il Parco Vergiliano, un'oasi verde ricca di storia, cultura e bellezze naturali. Spesso oscurato dalla fama del più noto omonimo di Posillipo, questo gioiello napoletano merita di essere scoperto e ammirato per i suoi tesori inestimabili. Parco Vergiliano: un luogo intriso di storia Il parco deve il suo nome al celebre poeta latino Virgilio, a cui la tradizione attribuisce un sepolcro proprio all'interno dell'area. Un'edicola seicentesca, voluta dal viceré Pietro d'Aragona, custodisce due iscrizioni che ne celebrano la memoria. Ma il parco non si esaurisce nel mito virgiliano: qui si intrecciano le vicende di personaggi illustri come Giacomo Leopardi, le cui spoglie riposano qui dal 1939, e del filosofo Giambattista Vico, che vi trovò ispirazione per la sua opera. Un viaggio tra arte e natura Percorrendo i viali del parco, il visitatore si immerge in un'atmosfera di quiete e bellezza. Sentieri ombrosi si snodano tra alberi secolari, offrendo scorci panoramici sul Golfo di Napoli e sulla città. Un susseguirsi di monumenti e opere d'arte impreziosisce il paesaggio: la Fontana della Gigantea, con le sue sculture allegoriche, la settecentesca Casina di Fuga ed il suggestivo Mausoleo di Leopardi, opera di Giulio Ulisse Arata. Un'oasi per il tempo libero Il Parco Vergiliano non è solo un luogo di memoria e cultura, ma anche un'oasi verde perfetta per il relax e il tempo libero. Un'ampia area giochi attrezzata accoglie i più piccoli, mentre panchine e zone picnic invitano a godersi un pranzo al sacco immersi nella natura. Il parco è inoltre teatro di eventi culturali durante tutto l'anno, con concerti, spettacoli e rassegne cinematografiche che ne animano l'atmosfera. Un tesoro da scoprire Il Parco Vergiliano rappresenta un tesoro spesso sottovalutato di Napoli. La sua atmosfera tranquilla, i suoi tesori storico-artistici e la bellezza del paesaggio lo rendono un luogo ideale per una passeggiata rilassante, un tuffo nella storia o un momento di svago con la famiglia. Un'oasi verde da scoprire e riscoprire, a due passi dal caos cittadino, che regala emozioni e suggestioni a chiunque abbia la fortuna di visitarla. Foto di Mirko Bozzato da Pixabay Read the full article
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Cuntami, docu di Giovanna Taviani
(di Francesca Pierleoni) (ANSA) – ROMA, 30 MAG – Il “primo e l’unico cuntista e puparo vivente”, il maestro assoluto di queste arti, Mimmo Cuticchio e’ il filo rosso che unisce la “nouvelle vague” di narratori orali siciliani, impegnati sia nel raccontare il mito e la grande letteratura, da Ulisse a Orlando, sia nel testimoniare il loro impegno civile anche contro la mafia, in Cuntami,…
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amicidomenicani · 2 years ago
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Quesito Carissimo Padre Angelo mi sono ritrovato per caso la sua risposta con la sua Benedizione. Vi ringrazio; una benedizione “regalata” fa sempre piacere. Colgo il piacere non a caso e Vi invito a leggere su quanto detto da me a mia figlia Lina Maria sul mito di Ulisse, che in sostanza supera gli Dei, perché la “sete di conoscenza di sapere cosa c’è dopo la morte” gli consente di rifiutare l’immortalità di proposta da Calipso, cosa che appunto agli Dei gli è negata in quanto condannati ad “essere sopra gli uomini”, ma nel contempo di interessarsi sempre delle cose terrene. (seguono alcuni passaggi della questione). Risposta del sacerdote Carissimo, 1. qualcosa di analogo al mito di Ulisse che rifiuta la proposta della ninfa Calipso di diventare immortale e che con questo mostra di saperne più degli dei perché conosce quello che non è loro ammesso di conoscere, e cioè la morte, e che pertanto la sua sorte è migliore della loro che sono condannati a essere immortali vivendo una vita monotona, ripetitiva e alla fine insopportabile, lo troviamo anche in una pagina molto bella di papa Benedetto XVI nell'enciclica Spes salvi (30 novembre 2007). 2. Benedetto XVI non prende lo spuntino dall’Odissea da Sant'Ambrogio, il grande vescovo di Milano e dottore della Chiesa. Ecco che cosa scrive Papa Ratzinger: “Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: «È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio [...] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L'immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia» (De excessu fratris sui Satyri, II, 47). Già prima Ambrogio aveva detto: «Non dev'essere pianta la morte, perché è causa di salvezza...» (Ibid, II, 46)” (SS 10). 3. Prosegue Benedetto XVI: “Qualunque cosa sant'Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole – è vero che l'eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l'umanità in una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio. Ovviamente c'è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall'altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»?” (SS 11). 4. A chi ha proposto la speranza dell'uomo nel progresso scientifico e nelle risorse della tecnica, come a suo tempo aveva detto Ernst Bloch, Benedetto XVI risponde: “Non è la scienza che redime l’uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore. Ciò vale già nell'ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un grande amore, quello è un momento di «redenzione» che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l'amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte.  L'essere umano ha bisogno dell'amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: «Né morte né vita, né angeli n
é principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore»  (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l'uomo è «redento», qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha «redenti». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che non costituisce una lontana «causa prima» del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno può dire: «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20)” (SS 26). 5. E conclude: “La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione.  E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora «viviamo» (SS 27). 6. Ecco ciò che Ulisse non conosceva ed ecco anche quanto molti uomini del nostro tempo non conoscono. Solo la comunione con Dio, solo la comunione con Gesù Cristo sazia il cuore dell’uomo. Non è una comunione solipsistica tra noi e Dio, tra noi e Gesù Cristo, ma tra noi e Cristo “che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi” (cfr 1 Tm 2,6). In lui pertanto troviamo la comunione con tutti. Con l'augurio che questa pienezza di vita sia incoativamente di qua e nella sua pienezza nella vita eterna, ti benedico e ti ricordo nella preghiera. Padre Angelo
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tempi-dispari · 2 years ago
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Scuorn, epica epopea black partenopea
Gli Scuorn sono tornati più volte nelle segnalazioni delle playlist per TD Radio. Incuriositi, li abbiamo ascoltati meglio. Folgorati! Fantastici! L’unione di black metal sinfonico con la tradizione napoletana è quanto di più interessante e stimolante ci possa essere. Soprattutto, fatto ai livelli dei partenopei. Un disco che colpisce, sia per impatto sonoro sia per narrazione. Il dialetto napoletano incredibilmente si presta alla base black sinfonica dei nostri.
La musicalità del dialetto dona atmosfere intriganti, diverse dal solito. Senza nascondersi dietro un dito. Il black metal troppo spesso è troppo monolitico, autoreferenziale. Gli Scuorn sono usciti da questo pantano per proiettarsi verso orizzonti inesplorati. Non che l’unire il dialetto al black sia cosa nuova, ma in napoletano ci sono pochi esempi. Ancor meno ce ne sono di unione di strumenti e musica tradizionale. Neppure i Contropotere di Nessuna speranza nessuna paura, o gli Jacula, anche se in contesto differente, erano arrivati a tali vette.
Il disco degli Scuorn è un lavoro fortemente visivo, evocativo. Le orchestrazioni, i corsi, il cantato trasportano l’ascoltatore in un film. Un lungometraggio oscuro, notturno, animato da figure sinistre, lune piene, acquitrini. Parthenope, questo il titolo del disco, ha una collocazione temporale ben precisa. Si rifà al mito delle sirene trasformate in scogli per non essere riuscite a fermare Ulisse. La musica crea esattamente quel tipo di atmosfere. In modo crudo, diretto, rabbioso, come genere impone. Ma anche ‘ambient’. Il termin in questo caso ha un significa letterale più che musicale. Le atmosfere variano grazie a continui cambi di tempo. Non è tutto un blast beat.
Arpeggi sinistri si insinuano in sfuriate black costruendo scene dalle tinte forti. Tutti i canoni del genere sono si rispettati, ma in maniera del tutto personale. La formula espressiva è stata scelta proprio perché ben si sposa ai testi e alla narrazione. Come avviene all’interno di un film, si passa da sequenze di battaglia, a momenti di pura tensione. Da passaggi più strettamente descrittivi a fasi concitate. Si ascolti Megaride per avere un’idea precisa di questi passaggi. Se si dovesse un brano che spicca sugli altri, citerei senza ombra di dubbio la title track e Averno.
La prima per l’incedere e il ‘cantato’ che non esiste. È tutto recitato. Diverse le voci in campo. La scena descritta è il climax narrativo. Ulisse che si fa legare all’albero maestro per ascoltare il canto della sirena. Tutto recitato in vernacolo. È un brano molto intenso, coinvolgente, struggente. Ascoltandolo si ha la netta sensazione di essere presente allo svolgimento dei fatti. Il secondo brano, Averno, strumentale, spicca perché è una canzone praticamente folk. Un folk oscuro, teso, tribale.
Un brano che ‘appesantisce’ le atmosfere in vista del finale brutale. Per avere un riferimento stilistico si deve pensare alle migliori opere delle band di black sinfonico. Dai primi Credle of Filth, passando dai Dimmu Borgir, Old man’s child e Bal Sagoth. Solo indicativamente. Devono essere tenuti presenti tutti gli aspetti caratteristici sopra citati per farsi un’idea. Ma più che le parole è l’ascolto ciò che può far capire in maniera esauriente. Non è un disco adatto a tutte le orecchie. Se non si è abituati a determinati suoni può risultare un ascolto disagevole. Oltre a ciò si deve possedere un forte amore anche per la musica classica, sinfonica. Se questo manca, manca buona parte della chiave di lettura.
Concludendo. Grand bel disco. Non immediato, duro, senza compromessi. Questo non deve però ostacolare l’ascolto. Non conoscerlo farebbe perdere una grande musicale, letteraria se vogliamo. Un lavoro veramente ben fatto, ottimamente strutturato, perfettamente suonato e prodotto. Una menzione va proprio alla produzione. Riuscire a tenere i suoni distinti in un contesto così complesso non deve essere stato facile. Il risultato è un full lenght potente, senza tentennamenti, senza pecche o impasti sonori caotici. Anche nei frangenti più veloci gli strumenti si riescono a distinguere tutti. Come primo approccio sulla lunga distanza un operazione perfettamente riuscita. Ora non resta altro che gustarlo ad libitum, e ogni ascolto non farà altro che stimolare ancora di più la fantasia, e aiutare a scoprire anfratti sempre più profondi ed inquietanti.
Da non perdere.
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silviotodisco · 6 years ago
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Controllo comportamentale: Ulisse e la Metacognizione Il controllo comportamentale: ULISSE E LA METACOGNIZIONE Perché è così importante mentalizzare? Come possiamo accrescere la nostra capacità di metacognizione?
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lartespiegataaitruzzi · 2 years ago
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Esce il 2 Dicembre "La mitologia spiegata ai truzzi" di Paola Guagliumi. 
"Se i truzzi hanno imparato ad apprezzare l’arte, perché non introdurli a un altro affascinante aspetto della cultura, ossia il mito?Gli amorazzi extraconiugali di Zeus, le gare musicali di Apollo e Marsia versione “X Factor”, le sfighe di Edipo, i viaggi di Ulisse turista controvoglia e quelli di Enea rifugiato, la rappresentazione maschilista delle donne e quella sorprendente della fluidità dei generi: il mito classico è storico e insieme eterno, sembra lontano ma ci è più vicino di quanto pensiamo. Con una buona dose di libertà e ironia, la mitologia greca e romana viene qui rivisitata, criticata, commentata, ma soprattutto raccontata in modo semplice e divertente. Il pubblico è quello dei non esperti di ogni età e provenienza; lo scopo farci sorridere ma anche sfiorare i grandi temi universali che ci rendono umani."
Sarà disponibile in libreria, sul sito di Mimesis Edizioni, e nei principali store online. Daje che v'ho risolto er Natale.
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isoleminori · 1 year ago
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L'isola di Nisida, Fred Boissonnas, 1912
Nella foto, lo scoglio di Levante.
Insieme allo scrittore francese Victor Bérard, il fotografo svizzero Boissonnas ha realizzato un progetto fotografico nel Mediterraneo, ripercorrendo le orme di Ulisse e le varie tappe del mito.
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artide · 2 years ago
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Festeggio il quattordicesimo natale da emigrato. Se lo sei paghi il dazio. Lavori come tutti gli altri ma il 23 sera o 24 mattina anzichè mettere le pantofole sul divano e rilassarti, prendi un treno, un autobus, un aereo, spendi soldi, ti imbottigli nel traffico, nelle code dei gate e ritorni a casa. Sei andato via, quattordici anni fa, devi tornare. Inconsciamente sopravvive un tradimento, uno strappo che si cuce debolmente in quei chilometri per poi allentarsi in una rivoluzione. Non posso venire io da te, io sto bene qui è il sotteso di genitori, fratelli e sorelle che sono piantati nel luogo in cui tu hai deciso di sradicarti. Hai piantato altre radici altrove: hai una casa in cui vivi, magari hai persone speciali accanto, dei figli, eppure eppure ci si sposta verso una casa che conserva la memoria di ciò che eri in oggetti, sguardi ed etichette. Difficile svincolarsi da questo rito che affonda radici nel mito del viaggio dal figlio al prodigo, ad Ulisse. Sembra non ci sia famiglia se sei solo e ti piacerebbe che qualcuno riscaldasse la tua casafamiglia per le feste. Non meritiamo anche noi di essere visitati e di poter accogliere, perché essere accolti, un po' sottilmente come ospiti? Ti muovi sette ottocento chilometri per pochi giorni, fermarsi nel traffico, poi c'è una poltrona per due il viaggio di ritorno che valida esattamente questo, l'impossibilità di essere famiglia soli
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susieporta · 3 years ago
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Circe, una delle più affascinanti donne della mitologia greca. Potente incantatrice, donna determinata, amante passionale, implacabile proto-stregha dell’era antica.
La bellissima maga è figlia, secondo alcune versioni del mito, del sole, Elios, e di Ecate, essa regnava sui morti e sui fantasmi, sulla luna e sulla notte, sulla necromanzia e sulle arti magiche. Circe è una maga bellissima, che però fa una serie di scelte di vita assai discutibili. Come una sequenza di intercorsi amorosi a dir poco disastrosa: trasformò un principe in picchio per il delitto di averla corteggiata, e quando il dio del mare Glauco le preferì la sorellastra Scilla, la trasformò in un mostro marino per il risentimento...Ho come Trasformare esseri umani in animali pare fosse uno dei suoi hobby preferiti, perchè quando Ulisse arrivò sull’isola di Eea, dimora della maga, Circe convinse i suoi uomini a bere un potente filtro che li trasformò in maiali. Circe incanta Ulisse… ma non come aveva previsto di fare! Perché per sua fortuna, Ulisse venne aiutato da un suo fan di primordine: il Dio Ermes, che lo rese in grado di resistere alle magie della donna, ecco perché divenne così immune agli incantesimi di Circe abbastanza a lungo da arrivare a minacciarla con la spada. Per aver salva la vita, la donna scoppiò in un pianto drammatico e gli promise un’esistenza sull’isola all’insegna della passione e del piacere. Ulisse, che forse era eroico ma di certo non era uno stinco di santo, si fece convincere a passare con lei un anno intero, con buona pace di Penelope che lo aspettava a casa. In quell’anno, dalla loro passione sarebbero nati uno o più figli, tra cui un maschio chiamato Telegono o Telemago (da non confondere con Telemaco, il figlio legittimo di Ulisse e Penelope).
La loro storia fini che quando l’eroe decise di partire, Circe la prese piuttosto bene, almeno considerati i suoi precedenti, e gli diede anche qualche pratico consiglio salva vita, ad esempio su come superare l’insidioso canto delle sirene. Circe provava dell’affetto per Ulisse, perchè ne parlò bene al figlio Telegono che una volta cresciuto volle partire per Itaca, desideroso di conoscere suo padre. Tuttavia, la sua nave sbandò durante una tempesta e il giovane finì per confondere Itaca con un’altra isola, che saccheggiò per sfamare i suoi uomini. Quando Ulisse scese sulla spiaggia per difendere il suo popolo, il figlio non lo riconobbe e lo trafisse con una lunga lancia, uccidendolo. Compreso l’errore, Telegono pianse il padre e decise di condurre con se a Eea sia Penelope che il fratellastro Telemaco. Cosi Circe rese tutti gli abitanti dell’isola immortali.
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