#lingua creola
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Comunque secondo me i fratelli Thuram hanno origini asiatiche per parte di mamma perché soprattutto Khéphren ha un taglio degli occhi molto asiatico a mio parere (e lui assomiglia di più alla mamma rispetto a Marcus), perché se anche la mamma ha origini di una delle isole delle Antille francesi non sarebbero da escludere eventuali origini cinesi, visto che insieme ad alcuni popoli del subcontinente indiano costituiscono parte del makeup etnico (non mi viene in italiano ahah) di quelle isole. Vabbè long story short sono entrambi bellissimi 🩵
Sai che proprio l'altro giorno stavo vedendo foto della mamma perché non so se ce l'avessi presente e stavo pensando lo stesso, Khépren è UGUALE a lei mentre Marcus ha decisamente preso più dal papà. MA CHE BELLA LEI??? mamma mia. Belli entrambi!!!
Io per la tesi ho studiato la stratificazione del Patois, che è la lingua creola delle Antille (una sorta di lingua comune derivata dal francese ma con elementi misti, anche africani). Io immagino e credo, anche leggendo un po' in giro, che eventuali migrazioni dalla Cina o dal subcontinente asiatico facciano parte della storia più recente di queste isole e comunque costituiscono una percentuale piccina,mi verrebbe più da immaginare origini nere, creole e magari anche nativo-americane? Comunque la genetica è una cosa pazzesca davvero, chissà!!
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Martina Collu presenta il romanzo “Il gitano”
Martina Collu presenta il romanzo “Il gitano”
Il Taccuino Ufficio Stampa Presenta Il gitano di Martina Collu La scrittrice cagliaritana Martina Collu presenta “Il gitano”, un affascinante romanzo in cui si racconta la storia di Morea Blanco, un’anima fragile da sempre in lotta con sé stessa, in bilico tra la difficile accettazione della sua natura e il desiderio di un cambiamento drastico. Cresciuta entro limiti imposti da una madre…
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#accettazione#delitto#fanatismo#Gibilterra#Il gitano#il taccuino ufficio stampa#libri#lingua creola#Martina Collu#Nulla Die Edizioni#omertà#oppressione#passato#romanzo#scrittrice#segreti#violenza
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Li chiamano irã, che nella lingua creola della Guinea Bissau significa spirito o demone. È l'unico nome per molti bambini che nascono con una disabilità, dalla paralisi cerebrale all'epilessia, o che semplicemente sembrano averla. Gli anziani di alcune etnie animiste dicono che non sono umani e che devono tornare nel luogo da cui sono venuti, l'aldilà. O che devono essere eliminati perché sono capaci di atti malvagi di stregoneria. È così che giustificano l'infanticidio selettivo. . Il parto in casa è molto comune nel paese. E quando un bambino nasce con una disabilità, non solo non riceve le cure di cui ha bisogno, ma non gli viene dato un nome, non viene registrato e, nel peggiore dei casi, viene ucciso. Presso le strutture di riabilitazione di Aida, 188 bambini sono accuditi e altri 66 sono in lista d'attesa. "Diamo la priorità a chi soffre di epilessia perché non cura la sua malattia considerando che non è un essere umano", spiega il direttore del centro. Il secondo aspetto è l'età perché "più sono giovani, più è probabile che la terapia faccia effetto "." Vediamo anche le esigenze sociali dei genitori; andiamo a casa loro, valutiamo il sostegno che possiamo dare loro, ad esempio: un letto, un carrello, un aiuto per avviare un'impresa ", aggiunge. foto ALVARO GARCIA
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Leyla McCalla
https://www.unadonnalgiorno.it/leyla-mccalla/
La sua voce è cristallina e accattivante, la sua musica magnifica e trasparente racconta saghe familiari, malinconie, solitudine e l’inesorabilità del tempo, tutto narrato con il tocco più leggero che si possa immaginare.
Questa la recensione del New York Times sul disco di esordio di Leyla McCalla eclettica cantautrice e polistrumentista statunitense. Suona il violoncello, la chitarra e il banjo.
Profondamente influenzata dalla musica tradizionale creola, cajun e haitiana, come dal jazz e dal folk americano, la sua musica è elegante e piena di sentimento e insieme fresca, accattivante e contemporanea.
I suoi testi trattano di giustizia sociale e sviluppo di una coscienza e consapevolezza panafricana.
Leyla McCalla è nata a New York il 3 ottobre 1985, entrambi i suoi genitori sono attivisti nati a Haiti. Dopo aver studiato violoncello e musica da camera alla New York University, nel 2010 ha scelto New Orleans come sua città d’elezione.
Nelle strade polverose del quartiere francese, ha costruito la sua identità artistica; si è riconnessa alle sue origini creole e iniziato a praticare quell’intersezione tra musica, società e politica che contraddistingue l’isola caraibica.
Nei suoi testi, infatti, usa spesso il creolo, considerato la lingua della resistenza.
Dal 2011 ha fatto parte delle Carolina Chocolate Drops, la famosa band di archi vincitrice di un Grammy. Dal 2013 ha lasciato il gruppo per concentrarsi sulla sua carriera da solista.
Il suo album di debutto Vari-Colored Songs: A Tribute to Langston Hughes, realizzato grazie a un crowdfunding e subito acclamato dalla critica, per il forte messaggio sociale veicolato, è stato nominato Album of the Year 2013 dal London Sunday Times e da Songlines.
Il suo terzo disco The capitalist Blues, del 2019, è il manifesto della sua maturità artistica, insieme alla volontà di abbracciare temi ancora più universali.
“Questi brani sono le mie riflessioni intorno alla maternità, alla condizione femminile, all’attivismo politico e alla vita spirituale. Vedo molto chiaramente quale prezzo stia pagando l’umanità nel dare più valore al capitale piuttosto che all’uomo. C’è molta strada da fare e questo disco vuole essere il mio personale contributo”.
Leyla McCalla è un’artista dalla personalità unica, frutto di una feconda ibridazione culturale tra la tradizione haitiana e la velocità del mondo occidentale, che riesce a toccare e raccontare temi profondi senza perdere la leggerezza. Ci parla delle derive del mondo moderno mentre ci prende sottobraccio e ci invita a ballare.
Dal 2019 fa parte del gruppo Our Native Daughters e resta un astro splendente del firmamento musicale internazionale.
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Tanti auguri Dino! 100 anni fa un tribunale decise che Campana, il più grande poeta italiano, era pazzo. E lo rinchiusero in manicomio, sperando di ucciderlo
Il 20 agosto è il compleanno di Dino Campana. Campana è nato nel 1885. Quest’anno, però, l’anniversario è funesto. 100 anni fa, infatti, Dino Campana è accolto tra i matti, detto matto, cestinato a Castel Pulci. “12 gennaio 1918: per ordine del sindaco di Lastra a Signa è ricoverato d’urgenza all’ospedale psichiatrico di Firenze. Ammesso in via definitiva e dichiarato pazzo dal Tribunale in data 18 marzo, viene trasferito nei mesi successivi al cronicario di Castel Pulci, in comune di Badia a Settimo” (Sebastiano Vassalli).
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Il 9 marzo del 1931, al fratello Manlio: “…la mia vita trascorre monotona e tranquilla. Leggo qualche giornale. Non ho più voluto occuparmi di cose letterarie stante la nullità dei successo pratici ottenuti. Il mercato librario in Italia è assolutamente nullo per il mio genere…”. L’anno prima si lamenta dell’edizione Vallecchi dei Canti Orfici: “…potei notare i continui errori del testo che è così irriconoscibile”. Campana muore nel 1932, “il 10 marzo, alle ore undici e tre quarti”; così lo descrive lo psichiatra – e biografo – Carlo Pariani: “l’aspetto era di malato grave: viso terreo, lingua arida e impaniata, sudori, vomiti, diarrea, sensorio ottuso; le mani annaspavano, vaneggiava inquieto…”.
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Wikipedia italia, voce ‘Dino Campana’: “è stato un poeta italiano”. Wikipedia, versione english: “was an Italian visionary poet”. L’aggettivo, visionary, visionario, racconta l’attenzione dispari che si ha verso la voce poetica. L’Italia, il paese dove nasce la poesia moderna, uccide i poeti.
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Charles Wright è tra i grandi poeti viventi in lingua inglese. Americano, scopre la poesia a Verona, folgorato da Ezra Pound. Quando ottiene il Bollingen Prize, nel 2013, ha il coraggio di dire, “è l’unico premio che avrei voluto vincere perché è l’unico premio che hanno avuto il coraggio di assegnare a Pound”. Poi ricorda Dino Campana, il “visionario”. Charles Wright, il grande poeta americano – leggetelo: è tradotto da Crocetti, Jaca Book, Donzelli – ha tradotto gli Orphic Songs nel 1984. Pound e Campana – in forma più viscerale di Montale, che pure ha tradotto – sono i maestri di Wright.
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Nell’ultima antologia di Charles Wright tradotta da Moira Egan e Damiano Abeni per Donzelli, Italia, una poesia per Dino Campana, tratta da China Trace (1977):
Dopo le canzoni tristi sul dente di cane, la mandragola e il giusquiamo stellato – gigli di sangue che il cuore coltiva –, la tua bocca è la porta azzurra da cui passo, la lampada accesa, la tavola apparecchiata.
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Nel sito della Treccani resta, a indelebile memoria dell’idiozia italica, la nota di Arnaldo Bocelli del 1938: “non sempre, anzi di rado l’innesto di tali modi si risolve, nella pagina, in effettiva sintesi poetica (e meno si risolve nelle poesie che nelle prose): la tendenza visionaria spesso spinge il simbolo verso l’astrazione, l’ineffabilità verso un deteriore ermetismo, e la ‘frammentarietà’ propria del genere prescelto verso una frammentarietà che è mancanza di intima coerenza stilistica, saltuarietà di respiro lirico”.
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Finché la follia, il mattatoio dei matti, non diventa una griffe, una moda. Con la Merini ci sono riusciti – con Aldo no, elettrifica le candide pudenda dei poeti imbarbariti dal noto.
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Più di Rimbaud, mitologizzato, Dino Campana è il poeta lasciato solo, un colpo di coltello alla gola del sistema editoriale italico, amicale, alleato ai perbenismi anche quando si finge avanguardista. Campana è il poeta che chiede amore (cento anni fa, gennaio 1918, dal manicomio di S. Salvi, Firenze, ancora a Sibilla: “se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita”) e non lo trova.
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L’edizione che amo di più dei Canti Orfici è una modesta Garzanti del 1995, terza edizione (la prima è del 1989). Sono un feticista degli affetti. Era l’edizione che aveva in casa Marco Pesaresi, il grande fotografo riminese, che nel dicembre del 2001 ha deciso di volare, al porto di Rimini. Si è introdotto negli inferi dell’uomo, anche lui: uno con la poesia, l’altro con la macchina fotografica. Anche Pesaresi, come Campana, ha fatto il viaggio oltreoceanico, ebbro di esotismo. Importante, appunto, è lo sguardo: guardare allo splendore – e allo splendore del mostro.
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Amo tanto la Lettera aperta a Manuelita Etchegarray, perché mi ricorda la ‘straniera’ di Saint-John Perse, perché ha nervature esotiche, perché è una promessa. Ed ecco… la poesia non realizza, ci pone su un’attesa tormentata di tramonti, in equilibrio sul cristallo.
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Bisogna essere buoni – bisogna armarsi di bontà in questo mondo di feroci. Bisogna essere buoni perché l’uomo è brutale, è spietato. Bisogna essere buoni, non saprei come dirlo, fino all’idiozia, fino alla vergogna, fino allo sputo in faccia. Per me Campana è l’emblema della bontà. (d.b.)
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Dualismo
(Lettera aperta a Manuelita Etchegarray)
Voi adorabile creola dagli occhi neri e scintillanti come metallo in fusione, voi figlia generosa della prateria nutrita di aria vergine voi tornate ad apparirmi col ricordo lontano: anima dell’oasi dove la mia vita ritrovò un istante il contatto colle forze del cosmo. Io vi rivedo Manuelita, il piccolo viso armato dell’ala battagliera del vostro cappello, la piuma di struzzo avvolta e ondulante eroicamente, i vostri piccoli passi pieni di slancio contenuto sopra il terreno delle promesse eroiche! Tutta mi siete presente esile e nervosa. La cipria sparsa come neve sul vostro viso consunto da un fuoco interno, le vostre vesti di rosa che proclamavano la vostra verginità come un’aurora piena di promesse! E ancora il magnetismo di quando voi chinaste il capo, voi fiore meraviglioso di una razza eroica, mi attira non ostante il tempo ancora verso di voi! Eppure Manuelita sappiatelo se lo potete: io non pensavo, non pensavo a voi: io mai non ho pensato a voi. Di notte nella piazza deserta, quando nuvole vaghe correvano verso strane costellazioni, alla triste luce elettrica io sentivo la mia infinita solitudine. La prateria si alzava come un mare argentato agli sfondi, e rigetti di quel mare, miseri, uomini feroci, uomini ignoti chiusi nel loro cupo volere, storie sanguinose subito dimenticate che rivivevano improvvisamente nella notte, tessevano attorno a me la storia della città giovine e feroce, conquistatrice implacabile, ardente di un’acre febbre di denaro e di gioie immediate. Io vi perdevo allora Manuelita, perdonate, tra la turba delle signorine elastiche dal viso molle inconsciamente feroce, violentemente eccitante tra le due bande di capelli lisci nell’immobilità delle dee della razza. Il silenzio era scandito dal trotto monotono di una pattuglia: e allora il mio anelito infrenabile andava lontano da voi, verso le calme oasi della sensibilità della vecchia Europa e mi si stringeva con violenza il cuore. Entravo, ricordo, allora nella biblioteca: io che non potevo Manuelita io che non sapevo pensare a voi. Le lampade elettriche oscillavano lentamente. Su da le pagine risuscitava un mondo defunto, sorgevano immagini antiche che oscillavano lentamente coll’ombra del paralume e sovra il mio capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delle profondità meravigliose del destino. Dei ricordi perduti, delle immagini si componevano già morte mentre era più profondo il silenzio. Rivedo ancora Parigi, Place d’Italie, le baracche, i carrozzoni, i magri cavalieri dell’irreale, dal viso essiccato, dagli occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza ardente di un concerto infernale stridente e irritante. Le bambine dei Bohemiens, i capelli sciolti, gli occhi arditi e profondi congelati in un languore ambiguo amaro attorno dello stagno liscio e deserto. E in fine Lei, dimentica, lontana, l’amore, il suo viso di zingara nell’onda dei suoni e delle luci che si colora di un incanto irreale: e noi in silenzio attorno allo stagno pieno di chiarori rossastri: e noi ancora stanchi del sogno vagabondare a caso per quartieri ignoti fino a stenderci stanchi sul letto di una taverna lontana tra il soffio caldo del vizio noi là nell’incertezza e nel rimpianto colorando la nostra voluttà di riflessi irreali!
Dino Campana
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Nos morabeza Nos riqueza
"Cosa c'è a Santo Antão? È bellissima, c'è molta morabeza"
"Cosa c'è a S. Vincente? Morabeza"
Il termine Morabeza è proprio del creolo capoverdiano, è una di quelle emozioni intraducibili e indica quello speciale tratto di affabilità che contraddistingue i capoverdiani, seppur con una nota leggermente malinconica tipica delle isole.
A Capo Verde non c'era niente prima che la colonizzassero gli esploratori portoghesi. Non esisteva praticamente.
Dieci puntini gettati a caso in mezzo all'Atlantico qualcuno le definisce. Nella stessa Sal non c'era niente prima che diventasse turistica nel XIX secolo.
In tutto il paese gli abitanti sono originariamente schiavi importati da altre colonie. E sono creoli, come creola è la lingua capoverdiana: sono in pratica un miscuglio di recente genesi - almeno dal nostro punto di vista di europei - che però hanno trovato in qualche modo un'identità unica. Forse nell'appartenere ad un arcipelago lontano da tutto il resto, forse, nel lottare con la zappa e con le piogge - che è un problema sia quando non ci sono che quando ci sono (ma diciamoci la verità: se non ci saranno ancora per molto qui morirà tutto).
È davvero difficile "inquadrare" questo posto, perché non ne riconosci la radice, ma riconosci in ogni dettaglio tante infinite influenze. Di fatto però in chiunque riconosci quella gentile accoglienza, ferma e non servile, che è davvero eccezionale e squisitamente capoverdiana.
Quel fregio di cui vanno orgogliosi gli abitanti di queste isole tanto belle quanto diverse l'una dall'alte, che hanno tesori e ricchezze da mostrare anche se le loro genti in alcuni momenti di una storia poco lontana, erano costretti a emigrare per non morire di fame.
PS.
È in questo contesto, così intenso e genuino che ho letto alcune delle pagine d'amore più intense di sempre, tratte dal Romanzo Capoverdiano per eccellenza - Chiquinho. E che per me hanno un significato speciale. https://nicobrunettiproduction.tumblr.com/post/184491771018/non%C3%B2-cantava-una-morna-fatta-su-misura-per-me
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Le nostre Specialità Culinarie
PIATTI DI CARNE
ANTIPASTI:
Armadillos, un sottile strato di pasta sfoglia avvolge un trito di carni bianche, caramelle ripieni di formaggio striate di miele, bocconcini del ghiottone, pezzettini di carne cotti in una salsa agrodolce con pinoli e uvetta, Catalana di carne, dadini di carne conditi con verdure e salsa creola, Champignons farciti al pangrattato e prezzemolo, crostini vari della casa, gorgonzola e mascarpone alla salsa di Kren, lingua del diavolo, struzzichini di carne in spiedino da immergere in una salsa piccante e gustare con grappa gelata, terrine di prosciutto, torta di pere e gorgonzola, mele rosolate al quartirolo, prosciutto e melone, fichi e prosciutto crudo, pere e formaggi con miele di castagno, rustica di cipolle e pecorino. Fantasia di pizze alla pala.
Primi:
Calamarata ricotta e noci, farfalle salsiccia e arancio, spaghetti cacio e pepe in conchiglia di pecorino, fettuccine all’uovo fatte in casa e tirate a mano con ragù, mare e monti, funghi e panna, paccheri alla norma, paccheri tricolori con ricotta, rughetta e pomodorini, linguine al pesto e al pesto di rucola e pistacchi, rigatoni alla gricia e alla finanziera, tonnarelli al pesto di noci, trofie al ragù di cinghiale in bianco, alla crema di misto funghi, alle erbette di primavera,rigatoni ai quattro formaggi, rigatoni alla campagnola, reginelle fave e pancetta, reginelle salsiccia e funghi, reginelle melanzane e guanciale. Risotto agli asparagi, ai fiori di campo, alle fragole, alle rose, ai mirtilli, al limone, al parmigiano, al pomodoro, ai funghi, al vino rosso.
Secondi:
Abbacchio al forno con patate, in fricassea, scottadito, in umido. Coniglio lardellato,alla cacciatora, in porchetta e ripieno, arrosto al chimichurri, arrosto di maiale con purea di mele e prugne, arrosto di tacchinella al bergamotto, con salsa di mirto e ananas, arrosto tartufato della nonna, arrosto morto. Manzo in umido al vino rosso, brasato della nonna, cinghiale del ghiottone, cinghiale in scotti glia, cervo al pepe di caienna, filetto al pepe verde rosa, entrecote al misto di funghi, bollito misto all’italiana, anatra all’arancia, lepre al timo e profumo di passito, stinco stracotto, fantasia di polente; di ceci, taragna, gialla, di favetta, di castagne. Filetto mignon, al crostone, al vino rosso,filetto in salsa di pere, alla glassa di vino rosso,Petto di vitella alla fornara, maialino, glassato,prosciutto di maiale al forno, braciola di maiale ai funghi, involtini in bianco. Tagliata profumata, tagliata al parmigiano. Faraona al forno, petti di pollo al limone, pollo alla diavola.
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Jamaica Kincaid
https://www.unadonnalgiorno.it/jamaica-kincaid/
Jamaica Kincaid, scrittrice caraibica di lingua inglese con cittadinanza statunitense.
Il suo vero nome è Elaine Cynthia Potter Richardson, è nata a Saint John’s, Antigua il 25 maggio 1949.
A 16 anni si è trasferita a New York per lavorare presso una famiglia come ragazza alla pari. Successivamente ha studiato fotografia alla New York School for Social Research.
I suoi primi scritti sono stati pubblicati sulla rivista Ingenue.
Nel 1973 si è scelta il nome d’arte Jamaica Kincaid perché la famiglia disapprovava il suo lavoro.
Passata al The New Yorker, ha cominciato a scrivere le storie diventate At the Bottom of the River, il suo romanzo d’esordio del 1983.
Nel 1995 ha rinunciato al suo lavoro di giornalista per scrivere. Attualmente insegna scrittura creativa al Bennington College e studi afro-americani all’Università di Harvard.
Nei suoi romanzi la questione della lingua, doppia, imposta, non scelta, subita e del mondo di appartenenza, sono temi sempre presenti.
Ha scritto vari libri, saggi e narrativa, in cui ricorrono, in una prosa ritmica ed evocativa, i temi che costituiscono la sua cifra caratteristica: la rabbia per le ferite del colonialismo, i difficili rapporti intergenerazionali, la sofferta ricerca di una identità personale e culturale.
Ha ricevuto una laurea honoris causa in lettere dalla Wesleyan University.
Il suo sguardo acuto di scrittrice, oltre ad attingere dalla sua autobiografia, è tornato, a più riprese, sulle sue isole riguardo alle quali, con estrema lucidità associa il turismo al colonialismo.
Non ci sono i Caraibi idilliaci nella sua scrittura e tanto meno nei suoi racconti, pervasi sempre da un senso di fatalismo, da qualcosa di già avvenuto e di imprescindibile.
Nelle sue opere tocca sovente la questione del colonialismo e della rabbia impotente che questo ricordo sempre presente nella lingua, nei gesti, negli sguardi, nel senso di inferiorità indotto, le provoca.
Le sue sono storie di solitudine e di risentimento, di insofferenza per la “stanza nera del mondo”, di una donna diversa anche nel suo paese perché creola.
Un percorso nell’infelicità, dove le durezze del mondo si scontrano con il suo carattere roccioso e visionario.
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Cesária Évora
https://www.unadonnalgiorno.it/cesaria-evora/
Ai tempi dei coloni non ci era permesso di camminare a piedi nudi in certi posti, soprattutto quelli frequentati dalla gente altolocata. Coloro che non avevano le scarpe dovevano rimanere sulla strada e quelli che avevano le scarpe potevano passare sul marciapiede.
Forse è per questo motivo che Cesária Évora, la voce di Capo Verde, amava esibirsi scalza, tanto da meritarsi il soprannome di diva a piedi nudi. È stata la più famosa cantante di morna, la musica nazionale delle isole di Capo Verde. Uno stile che unisce le percussioni dell’Africa occidentale con il fado portoghese, la musica brasiliana e i canti di mare britannici. Una sorta di blues filosofico, un dialogo con la propria anima in cui l’interprete cerca risposte sul proprio destino, sul senso di assenza, di mancanza e di nostalgia che la pervade.
La sua voce impressionante e le toccanti canzoni eseguite le hanno donato la fama mondiale. Ha vinto un Grammy Award nel 2003 per il suo album Voz D’Amor.
Nata a Mindelo, il 27 agosto 1941 perse il padre quando aveva sette anni. Sua madre, che lavorava come cuoca, non riuscendo a mantenerla, l’affidò a un orfanotrofio. È stato proprio nel coro dell’istituto che la giovane Cesária ha cominciato a cantare.
A sedici anni, conobbe un marinaio che le insegnò la musica tradizionale, la coladera e la morna, cominciò allora a cantare nei bar, sulle barche e negli hotel. In breve tempo divenne la Regina della morna.
Cantava principalmente nella lingua creola locale ma anche in portoghese e francese. Nonostante la sua straordinaria voce e la grande presenza scenica, la sua carriera da cantante professionista è sbocciata molto tardi.
Vessata da problemi economici e personali, sommati alle serie difficoltà politiche del suo paese, l’artista rinunciò a cantare per dieci anni, che ha descritto come oscuri e durante i quali è stata vittima dell’alcol.
Riprese a esibirsi grazie all’incoraggiamento di un esule capoverdiano, il musicista Bana, che con l’associazione delle donne di Capo Verde la invitò a Lisbona per incidere qualche brano, ma nessun produttore discografico si mostrò interessato.
Il successo è arrivato molto tardi, quando più nessun produttore avrebbe scommesso su di lei, una povera donna nera, a malapena capace di scrivere, precocemente invecchiata dalle vicende della vita e troppo spesso sfruttata da manager disonesti.
José Da Silva, giovane francese originario di Capo Verde, le propose di recarsi a Parigi per incidere un album, dove registrò La diva aux pieds nus nel 1988.
La canzone Sodade che ha segnato l’inizio della sua fama all’estero, è stato il primo successo per una canzone non francofona in Francia. Parla della deportazione forzata del suo popolo con le “navi della vergogna” sulle quali i colonialisti portoghesi imbarcavano lavoratori per le piantagioni di caffè e di cacao praticando un sistema di lavoro coatto. L’album successivo Miss Perfumado, l’ha consacrata una stella della musica internazionale, aveva 47 anni.
L’album Cesaria del 1995 ha venduto milioni di copie e le ha portato la sua prima nomination ai Grammy e la sua carriera internazionale è straordinariamente decollata portandola a esibirsi in tutto il mondo. Con Voz D’Amor che ha venduto oltre 400.000 copie, ha vinto il Grammy Award come miglior album di World Music nel 2003.
Dal 1987 al 2010 ha registrato tredici album. Nel 2003 è diventata Ambasciatrice ONU del Programma alimentare mondiale, a cui ha contribuito con i proventi di una serie di dischi registrati in collaborazione con importanti musicisti di tutto il mondo.
Il 17 dicembre 2011, a 70 anni, è morta nella sua casa di Mindelo.
Il successo di Cesária Évora è stato decretato in Europa ma si è esibita in tutto il pianeta. Il pubblico l’ha acclamata, la critica ha fatto a gara per cercare di definire questa artista singolare, tanti sono stati i paragoni con Billie Holiday. Anche i colleghi l’hanno adorata, a cominciare da Caetano Veloso, col quale ha duettato spesso, che dichiarava di essere ispirato da lei. Al suo concerto al Bottom Line Sono corsi ad ascoltarla personaggi del calibro di Madonna, David Byrne e tutti i più grandi artisti di New York. Goran Bregovic le ha fatto registrare Ausencia per la colonna sonora di Underground, diretto da Emir Kusturica.
Cesária Évora è stata la prima donna africana a vendere così tanti dischi nel mondo. Innalzata al rango di ambasciatrice, presentata a volte nei termini di governatrice del suo Paese, è sempre rimasta una donna del popolo, che ha cantato l’amore e la sofferenza della sua gente.
Messa continuamente alla prova, sfruttata, dimenticata, ma sempre resistente, ha avuto tanti amori, vari figli, si è arrangiata come ha potuto, come tante donne africane.
La sua differenza l’hanno fatta la voce, la sua estrema sensibilità alla poesia e il suo modo di vivere e di frequentare i margini. Ha fatto pochi compromessi. Si è sempre espressa con concetti profondi, essenziali e con poche parole. Non ha mai tradito il popolo. È sempre appartenuta a se stessa e alle sue radici.
Ha portato la storia della sua gente sulle sue spalle, la povertà, l’emigrazione forzata, ma ha saputo anche raccontare l’orgoglio di quel popolo, sorridente, meticcio, amante della danza e della poesia.
Tanti sono stati gli aneddoti che sono andati a creare un’aura di leggenda intorno alla sua figura, il suo amore smodato per il cognac e per il tabacco, la vita dura in quelle isole dimenticate, i tanti amori e tanto altro ancora.
Il suo paese le ha intitolato l’aeroporto e innumerevoli sono stati i tributi che le sono stati dedicati in vita e dopo.
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Leyla McCalla
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La sua voce è cristallina e accattivante, la sua musica magnifica e trasparente racconta saghe familiari, malinconie, solitudine e l’inesorabilità del tempo, tutto narrato con il tocco più leggero che si possa immaginare.
Questa la recensione del New York Times sul disco di esordio di Leyla McCalla eclettica cantautrice e polistrumentista statunitense. Suona il violoncello, la chitarra e il banjo.
Profondamente influenzata dalla musica tradizionale creola, cajun e haitiana, come dal jazz e dal folk americano, la sua musica è elegante e piena di sentimento e insieme fresca, accattivante e contemporanea.
I suoi testi trattano di giustizia sociale e sviluppo di una coscienza e consapevolezza panafricana.
Leyla McCalla è nata a New York il 3 ottobre 1985, entrambi i suoi genitori sono attivisti nati a Haiti. Dopo aver studiato violoncello e musica da camera alla New York University, nel 2010 ha scelto New Orleans come sua città d’elezione.
Nelle strade polverose del quartiere francese, ha costruito la sua identità artistica; si è riconnessa alle sue origini creole e iniziato a praticare quell’intersezione tra musica, società e politica che contraddistingue l’isola caraibica. Nei suoi testi, infatti, usa spesso il creolo, considerato la lingua della resistenza.
Dal 2011 ha fatto parte delle Carolina Chocolate Drops, la famosa band di archi vincitrice di un Grammy. Dal 2013 ha lasciato il gruppo per concentrarsi sulla sua carriera da solista.
Il suo album di debutto Vari-Colored Songs: A Tribute to Langston Hughes, realizzato grazie a un crowdfunding e subito acclamato dalla critica, per il forte messaggio sociale veicolato, è stato nominato Album of the Year 2013 dal London Sunday Times e da Songlines.
Il suo terzo disco The capitalist Blues, del 2019, è il manifesto della sua maturità artistica, insieme alla volontà di abbracciare temi ancora più universali.
“Questi brani sono le mie riflessioni intorno alla maternità, alla condizione femminile, all’attivismo politico e alla vita spirituale. Vedo molto chiaramente quale prezzo stia pagando l’umanità nel dare più valore al capitale piuttosto che all’uomo. C’è molta strada da fare e questo disco vuole essere il mio personale contributo”.
Leyla McCalla è un’artista dalla personalità unica, frutto di una feconda ibridazione culturale tra la tradizione haitiana e la velocità del mondo occidentale, che riesce a toccare e raccontare temi profondi senza perdere la leggerezza. Ci parla delle derive del mondo moderno mentre ci prende sottobraccio e ci invita a ballare.
Dal 2019 fa parte del gruppo Our Native Daughters e resta un astro splendente del firmamento musicale internazionale.
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