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Omicidi in pausa pranzo di Viola Veloce: il thriller irriverente che svela il lato oscuro degli uffici. Recensione di Alessandria today
Un romanzo tra mistero e ironia, con la routine lavorativa trasformata in un teatro del crimine. “Omicidi in pausa pranzo”, scritto da Viola Veloce, è il primo capitolo di una serie di gialli che combina suspense e humor, ambientati in contesti quotidiani. La protagonista, Francesca Zanardelli, si trova coinvolta in una serie di delitti che trasformano un ufficio milanese in un campo di indagine…
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“ Nella mia camerata, che era la migliore e aveva due panorami, stettero per qualche giorno i capi fascisti, avvocati e dottori, dopo il 18 Settembre; qui vennero alcuni grossisti di olio e di grano negli anni delle leggi sui granai e sugli oleari del popolo: uno di questi, anzi, guardando fuori dalla finestra, comodamente perché la persiana un giorno si trovò asportata o cadde e le pratiche per rimetterla andarono per le lunghe, s’innamorò di una sontuosa fanciulla che si affacciava al suo balcone ad innaffiare le piante grasse sulle lastre di marmo, e che per la prima volta alzava gli occhi al nido dei serpenti, quando il giovane grossista cantava. Dopo pochi giorni si sposarono. Con i fascisti entrarono piatti in quantità, il maresciallo chiese aumento di forza, tanto le guardie erano occupate. “Uscirete presto, la galera non è fatta per voi”. Dicevano i comuni che s’ingrassarono in quei giorni. Io ero tenuto come quelli dai contadini e dagli altri: un calzolaio, un camionista, un ambulante, un piccolo proprietario. Il camionista che disse al commissario: «Non so niente. Sono stato chiamato a caricare paglia». La paglia se n’era caduta alla grande velocità che lui andava ed erano spuntate sul carro le corna dei buoi rubati, lui però non ne sapeva niente. Anche lui mi diceva: «Uscirai presto, la galera non è fatta per te!». Volevo che non fosse così. Non c’erano certi miei signori che avevano ucciso, sia pure per colpa, avevano rubato, violentato la servetta di dodici anni? Stavano protetti nel loro castello e ricevevano le autorità in salotto con la fotografia del genitore, il defunto senatore del Regno, secondo istruttore del processo Matteotti. Il maresciallo non sarebbe venuto qui per i suoi soprusi, i suoi reati, nemmeno il maresciallo del carcere se io l’avessi denunciato per concussione continuata offrendo le prove, l’Esattore mai più, che guadagnava cinque milioni all’anno per legge, i veterinari, che denunciavano l’afta epizootica quando avevano bisogno di soldi, i segretari comunali, il dottore delle prefetture, che, per un sopraluogo finito in un’ora, si faceva pagare tre giorni di trasferta e il segretario asseriva essere doveroso e solito da parte dei sindaci liquidare, il medico che non visitava il giovane, presunto omicida, ridotto con la carne nera in caserma per tre giorni fino alla scoperta del vero autore. E tanti, ma chi può nominarli? Degli Enti, dei Consorzi, degli Istituti, delle Banche. Se quelli commettono un reato, sono trasferiti di autorità con le spese di trasporto a carico del denaro pubblico: così girano anche l’Italia da una provincia all’altra. E se sono licenziati, prendono una liquidazione che li fa milionari. E se restano allo stesso posto, nella stessa città, prendono la tredicesima, la quattordicesima e la quindicesima mensilità perché l’anno lo allungano loro come vogliono. E, ripresi, sanno difendere la causa dei figli e della famiglia piangendo e furiosamente accusando le api regine, gl’intoccabili superiori d’ufficio. Quando quei signori sono colpiti, diventano tutt’al più comunisti per il tempo necessario a rimettere le cose a posto nella santità del lavoro, dello Stato, dello straordinario, della pubblica funzione. Ogni giorno, solo al paese mio, si dicono dieci messe nelle chiese nello stesso momento in cui la carovana dello Stato inizia la sua giornata di crimini e gli uomini forti calpestano le strade. “
Rocco Scotellaro, L' uva puttanella-Contadini del Sud, Laterza (collana Universale, n° 4; prefazione di Carlo Levi), 1977⁴, pp. 92-94.
[Prime Edizioni originali, postume: Laterza (collana Libri del tempo), 1956-1954]
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Il cuore di un’ape di Helen Jukes
Una colonia è nebulosa e mutevole; quando si alza in volo per sciamare può sembrare che appartenga all'aria, come nessun’altra cosa nel mondo fisico. È impossibile disegnarci un cerchio intorno; è impossibile vederci un corpo.
“Il cuore di un’ape” è il resoconto di un anno da apicoltrice in città di Helen Jukes edito in Italia da Einaudi Editore. Come non ho mai nascosto, il mio amore per le api si è riversato da tempo anche sulle mie letture e immergermi in questo volume mi ha regalato una bella prospettiva su cosa significa essere un apicoltore di città e soprattutto saltare nel vuoto e abbracciare davvero una passione più grande di noi.
A trent’anni la vita di Helen sembrava girare a vuoto: lavori precari e amori fragili, tanti ��contatti» ma pochi amici, città sempre diverse e nessun luogo da chiamare casa. Come tanti trentenni, in fondo. Poi un giorno, quando lo stress al lavoro è tale da svelare il suo vero volto di sfruttamento, Helen capisce che non puoi trovare una casa se non sei disposto a costruirtela tu. Decide così di procurarsi un’arnia e dedicarsi all’apicoltura urbana: forte degli insegnamenti di vecchi e nuovi amici, dei libri e di internet, tra passi falsi e preziose conquiste, impara a prendersi cura di una colonia di api. E, con loro, a prendersi cura di sé. In parte racconto della natura, in parte memoir, Il cuore di un’ape è una meditazione meravigliosamente sincera sulla responsabilità e sulla cura, sulla vulnerabilità e sulla fiducia, sulla creazione di legami e sul trovare nuove strade. Ma è anche una vera e propria guida pratica a come trovare il tempo e lo spazio, nella nostra quotidianità, nelle nostre città, per riallacciare un contatto con la natura attraverso questi animali così affascinanti e fondamentali per l’equilibrio dell’ecosistema.
La mia passione per le api ha origini abbastanza in là nel tempo, fin da quando ho avuto l’opportunità di vederle da vicino in una delle edizioni della mostra mercato di mieli e prodotti dell’alveare con cui ho collaborato per anni. Vedere la cura, la calma, la precisione con cui gli apicoltori si avvicinavano a questi microscopici insetti mi ha fornito il pretesto per studiarli e per farne un po’ il mio spirito guida. Accumulare letture a tema sta diventando una passione intensa e il volume nato dalle esperienze di Helen Jukes una prospettiva interessante da studiare. La Jukes vive in Inghilterra, immersa in un lavoro d’ufficio che non le offre grossi stimoli. Ma nel tempo libero si avvicina all’apicoltura grazie a quello che diventerà un po’ amico e un po’ mentore, quando decide di lanciarsi in questa nuova avventura. Alla periferia di Oxford, in una casa che non sente molto sua, la Jukes inizia a pensare a come sarebbe avere un’arnia nel suo giardino, come sarebbe prendersi cura di una colonia di api, come sarebbe veder crescere un intero sistema che dipende, anche, dalle sue cure. Mentre si sfogliano le pagine la Jukes fornisce aneddoti, racconti, spunti di riflessione, stille di informazioni che riguardano il mondo degli impollinatori e allo stesso tempo appunta la sua vita, i suoi incontri, le sue paure e la sua voglia di fare. Il parallelismo che si crea, tra scoperta di sé e scoperta dell’alveare, rivela ben presto la sua preziosità. La Jukes vive una vita costretta in un lavoro che non sopporta, con una coinquilina che non capisce a fondo e con una solitudine intima che deriva anche dalla sua incapacità di mostrarsi davvero al mondo, quella scorza che arriva dai traslochi frequenti e dal repentino ricollocarsi ogni poco tempo che deriva dalla precarietà del mondo lavorativo della generazione dei Millenials, sospesa tra il bisogno di radici e la volontà di gettarsi nel vuoto, quel tendere da un lato a sradicare le sicurezze dei propri genitori e dall’altro a temere di essere incredibilmente sperduti. Ed è per questo la Jukes decide, con una spinta da parte dei suoi amici, di prendersi cura di uno sciame di api, che con tanta difficoltà e tanta pazienza, diventa il centro di un intero anno, di una riscoperta di indipendenza, di passione, di cura, di felicità. La Jukes si interroga su cosa significa prendersi cura di un alveare, cosa significa prendersi cura di sé. Non è facile trovare l’equilibrio tra invasione e allontanamento, tra troppo e troppo poco, tra prendersi cura e sopraffare. E intanto si studia l’arnia, l’ape, la colonia, la regina, l’accoppiamento, il miele, mentre le stagioni ruotano e l’amore aumenta. E le operaie vanno in giro a bottinare e il favo si accresce.
Il particolare da non dimenticare? Uno vasetto di miele…
Il viaggio alla scoperta del mondo delle api, ma soprattutto della propria vita, in un caleidoscopio di esperienze e suggestioni, che appassionano e mostrano una nuova prospettiva. Se le api sono in pericolo, vuol dire che tutta la Terra lo è, in fondo gli impollinatori sono le sentinelle del nostro ecosistema.
Buona lettura guys!
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Milano, approvato il piano da oltre 16 milioni di euro per il Diritto allo studio
Milano, approvato il Piano di diritto allo studio per l’anno scolastico 2021/2022: più di 16,1 milioni di euro per garantire integrazione scolastica e successo formativo agli alunni con disabilità, libri di testo per le Scuole Primarie, il servizio di trasporto scolastico, anche per bambini con disabilità, le cosiddette funzioni miste del personale ausiliario tecnico amministrativo, i contributi per le spese d’ufficio e i progetti per ridurre la dispersione scolastica. “Ogni anno – commenta l’assessora all’Educazione Laura Galimberti – il Comune mette in campo importanti investimenti per garantire anche ai bambini e alle bambine in maggiore difficoltà il diritto-dovere all’istruzione. Anche nel 2021, nonostante le difficoltà dovute alla gestione della pandemia, l’impegno è quello di non tagliare i servizi, soprattutto quelli dedicati alle fasce più deboli della popolazione, come gli alunni con disabilità, per i quali sono stanziati i fondi più consistenti”. Per quel che riguarda gli interventi finalizzati all’integrazione scolastica e al successo formativo di bambini e bambine con disabilità, infatti, l’Amministrazione ha stanziato oltre 12,3 milioni di euro. Gli interventi, formulati in un piano educativo individualizzato, vengono realizzati nelle scuole di Milano attraverso soggetti del Terzo Settore accreditati, che garantiscono uno standard qualitativo omogeneo, anche attraverso la fornitura di materiale didattico e di attrezzature ad uso degli alunni. Durante lo scorso anno scolastico, i fondi stanziati dal Comune di Milano hanno permesso di assistere 3965 alunni con disabilità. Sono invece 2,3 milioni di euro i fondi che l’Amministrazione investe per la fornitura delle cedole librarie. La fornitura gratuita dei libri di testo agli studenti delle scuole primarie nell’anno 2020/2021 ha riguardato circa 58mila bambini. Altro capitolo del Diritto allo studio riguarda il trasporto scolastico dedicato agli alunni residenti a Milano che frequentano le Scuole Primarie o Secondarie di primo grado, nei casi in cui l’abitazione disti più di due chilometri dalla scuola di bacino e il percorso non sia adeguatamente coperto dalla rete del trasporto pubblico, e agli alunni con disabilità per raggiungere le sedi scolastiche e i luoghi di terapia. In totale lo stanziamento è di oltre 300mila euro per circa mille alunni. Lo scorso anno, a causa del covid, le richieste avevano subito una flessione e gli alunni trasportati erano risultati poco più di 900. 860mila euro vengono invece destinati alle 74 Autonomie scolastiche in città per le cosiddette Funzioni miste del personale ausiliario tecnico amministrativo (Ata) e per spese varie d’ufficio, attraverso l’erogazione di contributi assegnati in base al numero di iscritti. I fondi contribuiscono ad assicurare il servizio di apertura e chiusura dei locali scolastici e le relative pulizie per ogni sede di realizzazione delle attività di prescuola e giochi serali, il supporto per le procedure amministrative relative alle iscrizioni ai servizi comunali e l’acquisto di materiale di cancelleria per il funzionamento degli uffici di segreteria. Infine, il Comune di Milano supporta con un contributo di 125mila euro un progetto di “Scuola della seconda opportunità”, che offre ai ragazzi con storie di fallimenti nel sistema scolastico (ripetenze, abbandoni, frequenza irregolare, insuccesso formativo, difficoltà relazionali) percorsi paralleli o alternativi alla Scuola Secondaria di primo grado finalizzati al conseguimento della licenza media. Allo stanziamento deliberato dalla Giunta si aggiungono le risorse dell’avanzo vincolato destinate recependo le linee di indirizzo del Consiglio Comunale: 100mila euro per potenziare l’assistenza ai disabili e 120mila euro per la piccola manutenzione ordinaria. Read the full article
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Smart Worker, più ombre che luci e l'effetto isolamento
In prevalenza giovani, vivono nelle grandi città e appartengono a una classe sociale medio alta. Rispetto ai “colleghi d’ufficio” temono maggiormente di peggiorare lo stato della propria forma fisica, come ingrassare, e cercano di compensare questa paura svolgendo una più intensa attività sportiva. Leggono di più libri, fanno meditazione ma tendono a mangiare di più quando sono infelici o di cattivo umore. È l’identikit dello “Smart Worker” secondo l’Osservatorio ARIIX sul benessere degli italiani, commissionato dall’azienda americana specializzata in prodotti naturali per la cura della persona ad AstraRicerche, che dedica proprio al lavoro agile un focus ad hoc per analizzarne gli effetti sulle persone. Un esercito di lavoratori che da febbraio 2020 è cresciuto esponenzialmente, tanto da coinvolgere oltre la metà degli italiani (53%) da 18 a 70 anni, anche se con livelli differenti: se il 14% ha sperimentato questa modalità di lavoro raramente, ben il 40% ha trasformato la propria abitazione in ufficio per determinati periodi o in modo regolare e per molto tempo. Eppure, dietro al lavoro agile si nascondono anche molte ombre: lavorare da casa per lunghi periodi, infatti, non sembra avere portato grandi benefici, anzi, a livello generale ha contribuito al peggioramento del proprio aspetto e della propria forma, sia fisica sia mentale (e a subirne le maggiori conseguenze sono le donne). Read the full article
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ciao! chiedo a te perché mi sembri proprio la persona adatta. spero di non disturbarti e di non rubarti troppo tempo. questa estate andrò in russia in vacanza (tra san pietroburgo e mosca). hai una lista di libri/film assolutamente da guardare per prepararmi alla atmosfera? grazie mille!
weeee ma che splendida cosa! ti invidio! fai bene a pensare che un viaggio verso la cosiddetta anima russa non deve essere solo geografico ma soprattutto culturale.
sui film vado un po’ sullo scontato ma ecco cosa mi viene in mente di imprescindibile:
- Quando volano le cicogne di Mikhail Kalatozov
- Mosca non crede alle lacrime di Vladimir Men'šov
- Lo specchio e Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij
- Arca russa di Aleksandr Sokurov
- per riprenderti psicologicamente, i più famosi film di El'dar Rjazanov, come Avventura d’ufficio (Služebnyj roman), Ironia della sorte ( Ironija sud'by, ili S lëgkim parom!), Stazione per due ( Vokzal dlya dvoikh)
sui libri è più difficile perché la scelta è vastissima, e ovviamente non sto qui ad elencare cosine come Guerra e pace, Delitto e castigo o simili. Buttiamoci su:
- Un eroe del nostro tempo di Mikhail Lermontov, un vero capolavoro di psicologia e prosa poetica grazie al quale ti sembra di sentire in prima persona le atmosfere del Caucaso
- L’angelo sigillato, Il viaggiatore incantato e in generale i racconti di Nikolaj Leskov, per avere un assaggio della Russia più ancestrale e spirituale
- Le poesie di Anna Achmatova, spesso con riferimenti a Pietroburgo, che ad esempio puoi trovare in Italia nella raccolta Il bacio dell’icona
- Padri e Figli di Ivan Turgenev
- La morte di IvanIl'ič di Lev Tolstoj
- Mosca - Petuškì di Venedikt Erofeev per un tuffo negli ultimi decenni
e da qui è tutta una scoperta! Buon viaggio :)
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colorando si impara e qualche involontaria idea per i regali di Natale.
La musica ha spesso usato il mondo dell'infanzia per esprimere sé stessa. In modo concreto o simbolico, sono quasi infiniti i richiami nelle liriche ad attività ludiche talvolta distanti anni luce dal mondo di chi ne canta o, più in generale, degli adulti. I giochi con la palla, il salto della corda, i mattoncini Lego oppure nascondino: sono solo alcuni degli argomenti rintracciabili qui e lì. Discorso a parte andrebbe poi fatto da quei musicisti che hanno ripreso in mano quegli strumenti legati all’infanzia, uno per tutti la diamonica, per inserirli in contesti di tutt’altra natura. Ma, ritornando ai testi, si resta stupiti dalla quantità di canzoni che da oltre cinquant'anni fan riferimento ai libri da colorare. Dusty Springfield, Barbara Streisand, Sarah Vaughan, i Byrds, fino ai Pet Shop Boys, Pretenders, Cyndi Lauper, 1O.OOO Maniacs, e ancora i Marillion e poi Stan Ridgway, Vic Chesnutt, Freddie Mercury, Joni Mitchell, Eminem, i Dead Milkmen, i Blink 182, i Cure, i Twenty One Pilots… continuo? Sono solo una parte degli artisti che ne hanno fatto uso in almeno un loro brano. Come simboli di un'età ormai perduta. Come icone di un’epoca. Come semplici passatempo. Come strumenti identitari. Come immagini di acerbi talenti artistici o valvola di sfogo di precoci mali di vivere. Persino come fantasia erotica (...). Un concept, quello dei libri da colorare, che sembra non andare mai fuori moda e che qualcuno ha pensato di fare rivivere concretamente in nuove versioni per eterni bambinoni.
Da: The Punk Rock Fun Time Activity Book: Stories Inspired by the Music of Rush, 2OO9.
“Pronto con i pastelli? Comincia a colorarmi”, cantava la Streisand, prima di chiedere agli ascoltatori di riempire la loro vita sentimentale con tinte cupe e malinconiche. All’epoca in cui uscì la sua canzone (My Coloring Book, 1962), gli album da colorare permeavano la cultura pop. Nello stesso anno, il J.F.K. Coloring Book di Mort Drucker rimase per ben quattordici settimane in testa alla classifica dei best seller del New York Times, e le vendite di titoli analoghi a quello dedicato al celebre presidente arrivarono e superarono il milione di dollari. Oggi i libri per colorare non sono forse ancora così redditizi ma di sicuro negli anni sono diventati più eclettici. Il loro fascino attuale - gli appassionati dicono che siano un “fantastico antistress” - ha di certo poco in comune con quei libri da colorare andati a ruba negli anni Sessanta. Mentre i titoli di oggi offrono un pacchetto completo fatto di terapia, passione, evasione e nostalgia, in alcuni casi con un pizzico di feticismo e perversione, i vecchi album da colorare erano davvero sia nuovi che sovversivi. Se oggi potete disegnare sul fisico massiccio di Henry Rollins dei Black Flag i suoi svariati tatuaggi, come richiesto in uno dei vari disegni da completare contenuti in The Punk Rock Fun Time Activity Book di Aye Jay e Steven Blush, pensate che il primo libro, pubblicato sul finire del 1961, col meno accattivante titolo di Executive coloring book, ironizzava sulla vita d’ufficio. Come per insegnare a un bimbo il lavoro che fa suo papà. E se non ci vedete nulla di rivoluzionario, soffermatevi sulle didascalie, che danno le istruzioni per colorare le immagini. Sono inarrivabilmente feroci e tristissime. “Questo è il mio vestito, coloralo di grigio o perderò il mio lavoro”. La rara apparizione di un colore diverso dal grigio è ancora più inquietante: “Questa è la mia pillola. E’ rotonda. E’ rosa. Mi aiuta a non preoccuparmi”. Un gigantesco sarcastico j’accuse da far sembrare i Crass e mezza scena agit-prop nata già vecchia.
I libri da colorare che seguirono coprivano una vasta gamma di nevrosi tipiche di quel decennio: la sicurezza nazionale, il terrore comunista, la tecnologia, la malattia mentale, il sesso e la sessualità. Se fate un giro in rete potrete trovare il Count Coloring Book di Tee A. Corinne, un opuscolo del 1975 femminista e radicale che voleva permettere a chiunque, a prescindere dal talento artistico, di celebrare a suo modo la bellezza della vagina. Colorandola a proprio estro e piacimento. Niente insomma di che spartire con la pochezza dei vari libricini per adulti che a suon di Color My Boobs e Coloring Sex Positions intasano internet. Per non parlare dell’inutile abbondanza su Instagram di immagini di libri quanto meno opinabili riempiti con zelo da adulti in vena di relax ricreativo. Ok, tutte le persone che comprano questi album concordano sul fatto che l’atto di colorare gli spazi sia di per sé più rilassante della scelta del soggetto stesso. Colorare è terapeutico. O se non altro calma e rassicura. Ma da qua a passare giorni interi a colorare My Little Pony, palazzi di New York e maglioni - attualmente sul podio dei libri di genere più venduti - ce ne vuole. Queste però sono appendici tarde che solo da un punto di vista delle vendite ma non certo dell’impatto culturale possono competere con i loro illustri corrispettivi più terapeutici che decorativi.
Forse questo è il principale motivo per cui, tolta l’attivissima distribuzione queer più o meno amatoriale ma sempre coraggiosa, ai temi trattati un tempo si sono sostituiti altri più semplici, dove la musica in ogni sua sfaccettatura gareggia in pole position con tutto il resto - e veramente c’è di tutto - con buone possibilità di vittoria sia sul piano contenutistico e dell’intrattenimento che formativo.
Da: Executive Coloring Book, 1961
Ma perché questi album esercita(ro)no un fascino talmente potente su intere generazioni da perdurare e rinnovarsi nel tempo? I libri da colorare, un’attività da bambini dell’asilo fatta propria dagli adulti, rappresentano una versione che sia infantilmente semplice di un mondo corrotto, una pacifica uscita di sicurezza dal Mondo dalle tinte pastello ma anche il modo per ricordare come il bambino che è in noi è stato corrotto durante il processo di apprendimento. Non a caso, già negli anni Cinquanta, lo studioso di educazione artistica Viktor Lawenfeld, sostenne che i classici libri da colorare avessero “un effetto devastante sui bambini” perché gli impedivano di “sviluppare idee proprie”. Così, quando un adulto colora tutta la Summer of Love in The Rock ‘n’ Roll Coloring Book Vol 1 di Andrew Szava Kovats, il pubblico sottopalco degli Yeah Yeah Yeahs su The Indie Rock Coloring Book di Andy Miller o il compianto Dimebag Darrell dei Pantera sul The Heavy Metal Coloring Time Book di Mike Marciano, ricolora e ricolloca allo stesso tempo la sua stessa crescita che non lo ha portato affatto alle casette di marzapane e alle pignatte alla fine del arcobaleno ma a tutt’altro tipo di realtà sociale e individuale. Offre l’opportunità di rifiutare il sistema e aderire a principi del tutto nuovi. Anche se oggi questa messa in discussione di sicuro non contribuirà, come invece in passato ha fatto, a spronare movimenti per i diritti civili, pacifisti o femministi. Oramai si tratta solo (e solo nella migliore delle ipotesi, quando cioè il mondo degli album da colorare non è determinato dall’interesse per un passato idealizzato, più semplice e ricreativo) di piccole rivoluzioni individuali.
Tolto questo, è improbabile che questi libri possano essere sovversivi come un tempo. Del resto uno dei più famosi libri da colorare per bambini degli ultimi tempi è intitolato drasticamente The Day The Crayons Quit, ovvero “il giorno in cui i pastelli se ne sono andati”. Il che è tutto dire. Gliene facciamo una colpa? Assolutamente no: anzi lo proporrei ai Pearl Jam in sostituzione 2.O alla scritta sulla storica t-shirt del 1992 con la scritta “9 out of 1O kids prefer crayons to guns” che dovrei ancora avere da qualche parte.
La copertina di The Indie Rock Coloring Book
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Reggio Calabria: Operazione “Pedigree”
La Polizia di Stato di Reggio Calabria, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica, ha eseguito 12 misure cautelari nei confronti di elementi di vertice, luogotenenti e affiliati alle potenti cosche della ‘ndrangheta SERRAINO e LIBRI, ritenuti tutti responsabili di associazione mafiosa e, a vario titolo, di estorsione, intestazione fittizia di beni, danneggiamento, porto e detenzione illegale di armi da fuoco, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, illecita concorrenza con violenza o minaccia, incendio, aggravati dalla circostanza del metodo e dell’agevolazione mafiosa. I poliziotti della squadra mobile, coadiuvati dagli operatori dei Reparti Prevenzione Crimine della Calabria, stanno eseguendo anche numerose perquisizioni e il sequestro di alcuni esercizi commerciali. Impiegati circa 100 agenti della Polizia di Stato. I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle ore 11.00 in questura. #Pedigree #PoliziadiStato #ReggioCalabria Read the full article
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"Vedevo i miei bambini aggiogati a quella giostra mortale che comincia con una cartella piena di libri scolastici e finisce da qualche parte su una seggiola d’ufficio.“
-heinrich böll
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Reggio Calabria, maxi operazione della polizia contro la ‘ndrangheta REGGIO CALABRIA - È in corso dalle prime ore di questa mattina una vasta operazione della Polizia di Stato, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, finalizzata all’esecuzione di 17 ordinanze di custodia cautelare - 12 in carcere e 5 agli arresti domiciliari - emesse nei confronti di altrettanti soggetti, la maggior parte dei quali affiliati alla potente cosca LIBRI di Reggio Calabria, ritenuti responsabili, a vario titolo, dei delitti di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, turbata libertà degli incanti, porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo, con l’aggravate dell’agevolazione mafiosa, tentata corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio…
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19 GIU 2019 20:21
TOGA GIULIVA – GIANRICO CAROFIGLIO SI STRACCIA LE VESTI PER IL CASO CSM E I RAPPORTI MARCI TRA GIUDICI E POLITICA. MA È LO STESSO CHE SI INCONTRAVA CON L’ALLORA GOVERNATORE DELLA PUGLIA NICHI VENDOLA E IL GIUDICE CHE LO ASSOLSE DALL’ACCUSA DI ABUSO D’UFFICIO SUSANNA DE FELICE? – QUELLA VICENDA EBBE DEGLI STRASCICHI GIUDIZIARI, CON CAROFIGLIO CHE PROVÒ A BLOCCARE IL GIORNALISTA GIACOMO AMADORI, MA ALLA FINE...
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VIDEO | MAGISTRATURA E POLITICA, LO SCAMBIO DI OPINIONI TRA SALLUSTI E CAROFIGLIO : https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/quartarepubblica/magistratura-e-politica-lo-scambio-di-opinioni-tra-sallusti-e-carofiglio_F309457201024C09
Simone Di Meo per “la Verità”
Se, come sosteneva Oscar Wilde, la coerenza è l' ultimo rifugio delle persone prive d' immaginazione, possiamo ben dire che l' ex senatore-pm-scrittore Gianrico Carofiglio sia un uomo ricco di inventiva, e non solo per le articolate trame dei suoi libri. Ne ha dato dimostrazione lunedì sera, nel corso della trasmissione di Nicola Porro, Quarta Repubblica, commentando con alti lai lo scandalo delle toghe che sta terremotando il Pd e il Csm.
«Io sono un po' turbato da tutta questa discussione», ha detto Carofiglio battibeccando con la collega di partito Alessia Morani, che difendeva Luca Lotti, «perché la mia opinione è che, per esempio, l' onorevole Morani sia in buona fede e questo mi preoccupa parecchio, lo devo dire in modo franco, perché quasi quasi sarebbe meglio se non credesse a quello che dice».
Un attimo di suspense da consumato autore noir. «Io credo invece che ci creda e questo ci pone di fronte a un problema molto serio e cioè che noi tutti, collettivamente e individualmente, abbiamo perso una capacità che è fondamentale per la salute della democrazia, e cioè la capacità di vergognarsi». Per essere più diretto, l' ex magistrato spiega: «Dicevo l' incapacità () di vergognarsi di cose che sono vergognose.
Ed è vergognoso che un politico, senza alcun mandato del suo partito (chiaro il riferimento a Luca Lotti e a Cosimo Ferri, ndr), in una situazione chiaramente clandestina, vada a trattare di cose di cui non ha nessun titolo per occuparsi, è qualche cosa che è assolutamente fuori da qualsiasi prospettiva di tollerabilità».
Parafrasando il titolo di un suo bestseller, L' arte del dubbio, sarebbe interessante sapere se questa integerrima posizione di intransigenza tra politica e giustizia, peraltro giustissima, l' ex senatore-pm-scrittore di Bari l' abbia maturata a proposito degli ultimi fatti di cronaca o se facesse parte del suo patrimonio etico anche negli anni scorsi, quando un nutrito gruppo di uomini di legge pugliesi - egli compreso - transitò nelle fila dei Ds-Pd.
Magistrati come Alberto Maritati, senatore della Quercia dal 1999 e sottosegretario nei governi D' Alema I e II (1999-2000), o come Michele Emiliano, sindaco di Bari e attuale governatore della Puglia. Entrambi - Maritati ed Emiliano - nel corso delle indagini s' imbatterono (il primo nell' inchiesta «Operazione speranza», il secondo nel fascicolo «Missione arcobaleno») in esponenti politici del partito che, di lì a poco, li avrebbe candidati e fatti eleggere.
O se - continuiamo a esercitarci nell' arte del dubbio - questo rifiuto ideologico a relazioni improprie tra politici e magistrati, che possono essere non di competenza del codice penale ma del codice morale e deontologico, fosse presente in Carofiglio pure in occasione delle conviviali (nel 2007 e nel 2012, date che di certo conosciamo) a cui partecipò insieme all' allora governatore Nichi Vendola e al giudice che lo assolse dall' accusa di abuso d' ufficio, Susanna De Felice.
Il secondo incontro si tenne proprio a casa di Carofiglio, mentre il primo fu immortalato da una foto pubblicata nel febbraio 2013 dal settimanale Panorama. Di quest' ultimo episodio conviene ricordare gli strascichi giudiziari che videro coinvolti il giornalista autore dello scoop, Giacomo Amadori, lo stesso pm-scrittore e il cognato di Vendola, Cosimo Ladogana.
Dopo la pubblicazione dell' immagine, si attivò infatti un «sofisticato progetto» che provò a far cadere il giornalista in una trappola e a procurargli seri guai giudiziari. Ladogana, fingendosi un appartenente ai servizi segreti, contattò infatti Amadori proponendogli l' acquisto di foto asseritamente rubate dal pc della sorella di Vendola, Patrizia.
Scene tra Vendola, la donna e il giudice che aveva decretato l' innocenza del politico con l' orecchino. Il cronista non abboccò all' amo e, dopo un primo incontro, smise di rispondere alle sue pressanti mail. Allora, Ladogana, mosso da «vendicative e non proprio commendevoli intenzioni» (questo lo scrive il pm), pur di arrecare danno al giornalista, si autodenunciò del furto delle immagini e accusò Amadori di ricettazione. Facendolo finire per quasi due anni sotto inchiesta.
Dopo l' archiviazione di Amadori, considerato che nessuna foto ipoteticamente rubata era stata acquistata tanto meno pubblicata dal settimanale, la «macchina del fango» innestò la retromarcia e colpì chi, fino a quel momento, l' aveva guidata. Ladogana finì indagato per autocalunnia e Carofiglio, che aveva - secondo l' accusa - offerto un contributo per correggere e limare l' esposto dell' amico -, per omessa denuncia. Peraltro, nella scheda di registrazione del reato, è curioso constatare come l' allora pm dello stesso ufficio, Gianrico Carofiglio, fosse per la Procura di Bari «soggetto da identificare».
Il pm Pasquale Drago, il 3 ottobre 2017, archivierà anche questa tranche giudiziaria ritenendo che non ci fu calunnia nei confronti del giornalista autore dello scoop su Panorama perché non si era configurato il reato di ricettazione. Su questi spunti, magari, l' ex senatore-pm-scrittore pugliese potrebbe offrire una sua profonda riflessione in grado di aprire un ulteriore squarcio di consapevolezza all' interno del Pd e della galassia della giustizia. Non vorremmo restare, e qui citiamo un altro bestseller, con Ragionevoli dubbi.
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ᖇEᑕEᑎᔕIOᑎE de 𝔸𝕥𝕥𝕣𝕒𝕧𝕖𝕣𝕤𝕠 di @sonny_zanon Editore StreetLib Data di pubblicazione 13 nov 2017 Pagine 184 🅻🅸🅽🅺 🅿🅴🆁 🅰🅲🆀🆄🅸🆂🆃🅰🆁🅻🅾 🆂🆄🅻 🅱🅻🅾🅶 ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ 𝕋𝕣𝕒𝕞𝕒 Ben October decide di passare il fine settimana in una vecchia casa di montagna, di proprietà dei genitori, ma qualcosa di terribile accade: rimane intrappolato in una realtà alternativa, nella quale tutte le persone che ha incontrato al suo arrivo il giorno prima e i luoghi che ha visitato sono sostituiti da delle repliche. In un mondo dove manichini e marionette parlano e si muovono come esseri umani, Ben dovrà lottare per salvarsi dalla solitudine e dalla pazzia, senza sapere che il peggio deve ancora arrivare... "Attraverso" è un sorprendente thriller psicologico, ricco di suspence, dalla originale, cupa e inquietante ambientazione. ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ℝ𝕖𝕔𝕖𝕟𝕤𝕚𝕠𝕟𝕖 Ben, il protagonista arriva nel cottage di un paesino di montagna, nel quale è cresciuto, dove aveva deciso di passare il fine settimana durante un torrido mese di giugno, e staccare dal calore della città e da rumore del lavoro d’ufficio. A notte fonda, assetato, si sveglia, l’orologio segna le 3:03, prende una bottiglia dal frigo, beve e viene attratto in soggiorno, ritrovandosi a fissare uno specchio antico, stile barocco al centro della stanza. Vede la sua immagine riflessa, nota che ha qualcosa di diverso, si ritrova attratto e, senza capire quello che sta succedendo, il suo riflesso lo saluta con un cenno del capo ed esce dalla stanza. Da quel momento in poi una cupa nebbia andrà a ricoprire tutto, smorzando i colori e le luci, sia all’interno che all’esterno. Ben si ritrova catapultato in una specie di realtà parallela. Il tempo si è fermato, la sveglia segna sempre le 3:03 e tutto intorno a lui è diverso. ➡️➡️➡️CONTINUA SUL BLOG⬅️⬅️⬅️ • ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ #libro #leggere #ioleggo #collaborazioni #autoriemergenti #recensioni #lettura #libri #momfit4 #mamwithyou5 #bookstagrammer #gdl #mamimiele #samyecaty #dreamsofmum #bookstagramitalia 📚📚📚 (presso Rome, Italy) https://www.instagram.com/p/Btv-5Wro4em/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=186bnb1klhe2z
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#BlackLivesMatter: un mio punto di partenza informativo
Sono giorni difficili questi, giorni che ci sbattono di nuovo sotto gli occhi le fragilità del nostro sistema socio-economico, giorni che ci impongono di essere più vigilanti che mai. Non siamo nuovi ad episodi di razzismo estremo eppure l’omicidio di George Floyd avvenuto lo scorso 25 maggio a Minneapolis durante un arresto violento, ha messo in luce ancora una volta come nessuno dei nostri paesi sia immune al potere esercitato nei confronti di comunità più svantaggiate, più deboli, oppresse, non capite. Le immagini delle proteste che imperversano per le strade di molte città americane fanno il giro del mondo, contrastate da un Presidente, Trump, che sembra non avere nessun tipo di scrupolo, ma i cittadini protestano a sostegno della campagna che sta facendo ancora una volta il giro del mondo “Black Lives Matter”. Black Lives Matter (BLM, letteralmente "le vite nere contano") è un movimento attivista internazionale, impegnato nella lotta contro il razzismo, perpetuato a livello socio-politico, verso le persone nere. È stato fondato nel 2013 dopo l’assoluzione di George Zimmerman che ha sparato al diciassettenne afroamericano Trayvon Martin il 26 febbraio 2012. Negli ultimi anni il movimento è sempre intervenuto a sostegno di episodi di violenza e non solo perpetrati contro le comunità più colpite e discriminate.
Nel frattempo, a Washington DC, sono state spente tutte le luci della Casa Bianca, sembra ci sia stato un blackout delle comunicazioni e nessuna notizia/video è stato fatto uscire da Washington. E non si sa ancora nulla su quello che sta succedendo nella capitale americana. Vi lascio le tendenze di Twitter da cui sto cercando di reperire informazioni al momento.
Anche qui da noi non ci risparmiamo e anche se non se ne parla non è vero che non esiste. In Puglia, nel foggiano, imperversano le proteste dei braccianti per la raccolta dei pomodori e non solo. I migranti, uomini arrivati qui in cerca di fortuna e a cui in pochissimi pensano, lavorano ore e ore al giorno senza diritti e senza tutele. E non se ne parla abbastanza.
Più cerco di informarmi su queste questioni, più mi sento piccola e insignificante e più mi chiedo cosa possiamo fare noi nel concreto, noi che queste lotte non le viviamo direttamente sulla pelle, ma che indirettamente le viviamo tutte. Che cosa possiamo fare concretamente per essere d’aiuto? La prima cosa che mi è venuta in mente è naturalmente essere informati dei fatti, leggere, guardare, approfondire notizie, eventi, quello che insomma succede nel mondo. Sembra di dover fare la caccia al tesoro a volte per reperire le notizie, ma cercare giornali e/o notiziari che ci sembrano affidabili e uscire dalla confort zone dovrebbero essere un passo necessario. Più siamo consapevoli dei problemi più riusciamo a non essere impotenti perché non siamo a conoscenza dell’argomento. E poi fare da cassa di risonanza a chi di quelle questioni ne sa più di noi. Io mi rendo perfettamente conto che non se so abbastanza, che tutto questo post sembra un accumulo di nozioni scomposte e che non servono a niente. C’è gente che muore ogni giorno, è vero, però secondo me combattere la disinformazione può essere un buon modo per contrastare il razzismo dilagante che accompagna le nostre vite. Fare da rete di protezione nei confronti dei più deboli non è mai un gesto errato. Allungare una mano fa sempre bene. Donare alle famiglie in difficoltà, nei limiti del possibile, aderire a campagne, è importante, ce ne sono diverse in giro per il web, qui potete trovarne alcune raccolte.
Nello specifico in questo post del tutto sconclusionato volevo mettere un po’ di spunti su materiale da leggere che può essere interessante da recuperare. Un punto come un altro da cui partire, non ho nessuna verità in tasca, anzi, solo tanta voglia di fare qualcosa, anche se completamente impotente. L’idea è creare una lista di letture interessanti che trattano tematiche legate alla comunità nera e al razzismo, per capire meglio le problematiche che hanno affrontato o affrontano. Letture che io non ho ancora iniziato ma che vorrei prendere in mano per approfondire un tema che per me è importante. Questo non vuole che essere un punto di inizio, non smettiamo mai di studiare e cercare di comprendere meglio ciò che è distante da noi, più comprendiamo più riusciamo ad essere d’aiuto.
- Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie: la Adichie è una donna nigeriana che vive in America e in questo libro racconta la storia di Ifemelu che dal suo paese di origine si ritrova catapultata in America e deve fare i conti con ogni aspetto di sé.
- The Hate U Give di Angie Thomas (esiste anche la trasposizione cinematografica Il coraggio della verità): la protagonista di questo romanzo Starr vive a cavallo tra il perbenismo americano di una scuola prestigiosa e il quartiere malfamato e deve fare i conti con l’uccisione del suo migliore amico per mano della polizia.
- When They Call You A Terrorist: A Black Lives Matter Memoir di Patrisse Khan-Cullors e Asha Bandele: racconta la nascita del movimento Black Lives Matter. Non ho trovato traduzioni in italiano.
- Why I’m No Longer Talking to White People About Race di Reni Eddo-Lodge: Una raccolta di saggi nata dalla frustrazione provata nei confronti delle conversazioni su temi razziali, anche di questo non ho trovato la traduzione in italiano.
- La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead: «La ferrovia sotterranea» è il nome con cui si indica, nella storia degli Stati Uniti, la rete clandestina di militanti antischiavisti che nell’Ottocento aiutava i neri a fuggire dal Sud agli stati liberi del Nord. In questo la trasforma in una vera e propria linea ferroviaria operante in segreto, nel sottosuolo, grazie a macchinisti e capistazione abolizionisti.
- Il buio oltre la siepe di Harper Lee: Atticus Finch è incaricato della difesa d’ufficio di un afroamericano accusato di aver stuprato una ragazza bianca. Riuscirà a dimostrarne l’innocenza, ma questo non basta a salvarlo dalla popolazione che non lo accetta, perché ha la pelle di un colore diverso.
- Uomo invisibile di Ralph Ellison: la definizione della condizione di un intero gruppo, non solo un uomo.
- L'origine degli altri di Toni Morrison: Che cosa è la razza, e perché le diamo tanta importanza? Che cosa spinge gli esseri umani a costruire «un altro» da cui differenziarsi? Perché il colore della pelle ha avuto nella storia un peso così negativo? Perché la presenza dell'altro da noi ci fa così paura?
- Citizen: una lirica americana di Claudia Rankine: venire immersi completamente in cosa significa razzismo.
- Non dimenticare chi sei di Yaa Gyasi: quanto forti sono i legami di sangue? Una storia sulle infinite strade che può percorrere il destino. Una storia sulla ricerca delle proprie radici. Una storia sull’amore che dà il coraggio di trovare risposte. Perché il futuro nasce dal passato. E solo conoscendo le nostre origini possiamo incamminarci verso il nuovo giorno.
Se avete altri libri da tenere in considerazione e avete voglia di suggerirmeli mi farebbe molto piacere e li aggiungerò alla lista. Uniti siamo sempre più forti.
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10/11 Something Sweet L’appuntamento è all’una, davanti a un caffè ristorante della cittadina di Middletown, centoventi chilometri a nord di New York, chiamato Something Sweet, “qualcosa di dolce”. È stato il luogo del loro primo appuntamento. Lui mi ha annunciato al telefono che arriverà a bordo di una Toyota Corolla di colore rosso: “La stessa a cui ho attaccato i barattoli e la scritta JUST MARRIED il giorno delle nozze”. Sta per scoccare il primo anniversario e non ci sarebbe niente di strano se lui, Alvin, non avesse novantacinque anni e lei, Gertrud, non stesse per compierne cento. Ieri sposi. Per sempre. E ci mancherebbe altro. Avevo letto di loro sul “New York Times” e li ho cercati per guardarli in faccia mentre raccontavano la storia del loro ultimo amore, ma lui ha premesso, con dispiacere, che verrà solo, perché sua moglie è caduta pochi giorni fa e non se la sente di camminare. Ha aggiunto, con orgoglio, che il suo aspetto mi trarrà in inganno, perché dimostra “vent’anni di meno”. L’auto rossa ha un solo occupante: guida lui. Infilati con una stanghetta nello scollo della maglietta gialla, porta un paio di occhiali che non usa, comprati, mi spiegherà fiero, per ventisette dollari in un emporio, senza prescrizione dell’oculista. Attraversa rapido, indossa i pantaloni grigi di una tuta da ginnastica: è appena stato in palestra, quella dove ha conosciuto Gertrud nove anni fa. Ha molti capelli bianchi e quando finalmente lo vedo da vicino e gli stringo la mano noto una forte somiglianza con l’attore canadese Christopher Plummer, di sei anni più giovane, lui pure sposato tre volte. Aspettando Alvin a Middletown ho conosciuto un barista portoricano, un sarto italiano e una custode ucraina. Tutti ricordavano il matrimonio come l’evento dell’anno precedente. Lo aveva celebrato il sindaco. Aveva ereditato la carica da Gertrud, che lo era stata per due mandati, quando già aveva superato i settanta e si era impegnata a far costruire la biblioteca e ristrutturare il teatro. La conoscevano tutti e tutti l’amavano. C’erano cinquanta invitati alla cerimonia, ma l’intero paese in strada. Erano presenti sette figli, dodici nipoti e sette bisnipoti. Assente giustificato, ma non per questo meno rimpianto, il fratello maggiore di lei, anni centotré, residente sull’altra costa, in California, a sei ore di volo. La sposa era apparsa sulle note di Somewhere over the Rainbow. Rispettando ogni tradizione aveva lanciato il bouquet e mostrato la giarrettiera azzurra. Avevano ballato fino a tardi, se esiste un tardi. E adesso vivono felici e contenti? Alvin conosce già tutte le domande e ha pronte le risposte. Parte da lontano perché è da lontano che viene. Si è laureato in Storia a novantatré anni e ha detto: “Non è stato difficile, la maggior parte delle cose che dovevo studiare le avevo vissute”. Ma la maggior parte delle cose che ha vissuto non le ha studiate. Accade quasi sempre così: per noi, sono le nostre stesse vite il più irrisolto dei misteri. Affidiamo ad altri il compito di interpretare decisioni il cui senso tendiamo a fraintendere. A volte li paghiamo perfino, questi traduttori dalla nostra lingua. Altre volte semplicemente ci sediamo con loro al tavolino di un caffè e ordiniamo qualcosa di dolce. Non sempre ci azzeccano, molto dipende dalla fiducia con cui consegniamo a questi estranei quella catasta confusa di eventi, aneddoti, sovrapposizioni tra realtà e immaginazione che chiamiamo la memoria della nostra vita. Esponendola, perfino in scala 1:1, non la spieghiamo, perché non è nella riproduzione completa che si coglie la verità, ma in qualche passaggio, a volte in un particolare. È una presunzione dell’interlocutore quella di saperlo cogliere, attenuata dall’allenamento all’attenzione e dall’interesse per le vite altrui più ancora che per la propria. Nel caso mio e di Alvin credo che lui sia stato un narratore generoso, io un ascoltatore cauto, e che il nocciolo della questione, dopo quasi un secolo, si riducesse (si fa per dire) a una guerra e due gatti. Ma è il suo racconto a far fede. Alvin Mann, dunque, nasce nel 1923, da una famiglia in cui gli uomini muoiono regolarmente prima dei sessant’anni. Per questo farà una festa quando li compirà. E un’altra per i settanta. Gli ottanta. I novanta. E per i cento dell’ultima moglie, in attesa dei suoi. A vent’anni parte per la guerra, arruolato in marina. Ricorda una mattina in cui uscì sul ponte della sua nave e vide che tutte le altre salpate insieme erano state affondate da siluri nemici. Diversi cadaveri galleggiavano sull’acqua. Fu la prima volta in cui pensò: tutto quello che devi fare è sopravvivere. Se ci riesci, poi le cose cambiano. Puoi essere repubblicano, devi solo sopravvivere alla presidenza Obama. O essere democratico, e fare lo stesso con Trump. Sopravvivere e provare a rivivere. Nell’euforia del dopoguerra, tra i coriandoli nelle strade delle capitali e le possibilità nei cuori, Alvin si sposò per la prima volta. Lei era comunista e aveva la madre vedova a carico, ma nell’entusiasmo gli parvero dettagli. Erano invece idee diverse della vita in comune: quella di lei prevedeva piccole comunità e una terza presenza nella casa, quella di lui New York e la suocera in un altro appartamento. Divorziarono. Lui si trasferì nel Greenwich Village, dove negli anni sessanta poteva davvero accadere di tutto, perfino vedere un futuro Nobel per la letteratura provare accordi con la chitarra sulle scale antincendio del palazzo di fronte. O innamorarsi senza chiedersi se fosse di nuovo o per la prima volta. A una festa conobbe Maybelle e dopo cinque anni la sposò, “perché, anche nel Village, dopo cinque anni le cose dovevano diventare regolari”. Alvin Mann è di origini ebree, ma non è praticante. Ha sempre votato democratico, tendenza liberal. Fece parte del primo contingente di americani – erano cinquantadue – che visitò quella che allora si chiamava Unione Sovietica, senza ricavarne impressioni definitive. Non ha mai svolto attività rivoluzionarie o artistiche. Aprì una compagnia che forniva servizi d’ufficio a tempo determinato ed ebbe un discreto successo. Sua moglie Maybelle si dedicò alla storia dell’arte, scrivendo libri. A sessant’anni lui si ritirò dagli affari, chiusero casa e se ne andarono sei mesi in viaggio per l’Europa: Italia, Grecia, Francia, Spagna. Videro un’infinità di cose meravigliose, litigarono soltanto giocando a bridge, quindi buttarono le carte in mare. Ricordando quel periodo gli si illumina lo sguardo, posa il sandwich al tonno e dice una frase che tutti dovremmo poter dire della nostra vita, almeno di una fase della nostra vita: “We were deliriously happy”. Non credo di riuscire a tradurlo: “felici alla follia” non rende. Quando Alvin dice deliriously happy suonano le campane in un villaggio dell’Italia meridionale, la risacca del Mar Egeo si mescola con la risata di una donna che conosce i segreti delle sculture di Fidia, piove sul tetto di una casa in Provenza, con le finestre aperte sul giardino dove è sempre primavera. E tutto il resto non ha la minima importanza, né tempo né spazio. Di questo, esattamente di questo, non parlano – anzi, evitano di parlare – le religioni, la politica, l’educazione familiare, avvolte in un cilicio di aspettative e falsi obiettivi: di come lo scopo del gioco sia poter dire di essere stati nient’altro che così, deliriously happy. Poi Alvin e Maybelle tornarono a casa, presero due gatti, Saul e Molly, fecero la loro vita, tra l’appartamento di New York e una stamberga tra le alture dei Catskill che Alvin si mise ostinatamente a ristrutturare. Nel 2002 Maybelle morì. Tempo dopo ad Alvin toccò sopprimere il gatto Saul. Vedendolo rientrare solo, Molly lo guardò interrogativa, lo seguì con vana insistenza, poi rifiutò il cibo, si mise in un angolo dove restava ferma senza però dormire e dopo due settimane morì. Alvin si trasferì nella casa tra le alture, prese altri due gatti, Charlie e Susie, imparò a tagliare la legna, cominciò ad andare in palestra. Un amico gli disse: “Vorrei presentarti una ragazza, si sta allenando nell’altra sala”. Gertrud era nata a New York, dove aveva studiato da biologa. A ventitré anni aveva sposato un cardiologo. Da anziani si erano trasferiti più a nord, in quella cittadina dove tutti li conoscevano e li stimavano. Lei si era scoperta una passione matura per le attività sociali. Considerava la politica un modo per occuparsi degli altri con qualche possibilità in più di riuscirci. Già ottantenne, tentò invano di farsi eleggere al senato. Rimase vedova nel 2007, dopo sessantun anni di matrimonio. Cominciò ad andare in palestra. Due anni più tardi un amico le disse: “Vorrei presentarti un ragazzo, si sta allenando nell’altra sala”. Si guardarono, si diedero quel primo appuntamento a questo tavolo, da Something Sweet. Mangiarono poco e parlarono molto, decisero di rivedersi, con cautela. Lui le suggerì di vestirsi elegante per la loro seconda volta e aggiunse che sarebbe passato a prenderla alle cinque sulla sua Corolla rossa. Fu puntuale, in abito scuro, la portò a New York, al Metropolitan. Lei non era mai stata all’opera, ma fu conquistata, dal Trovatore e da altro. Divennero incontri regolari e regolari spedizioni nella grande città, che Alvin trovava insopportabilmente cambiata. Per lui anche Middletown era troppo. Preferiva la sua casa isolata tra i boschi, dove la condusse a cena una sera. Fu lei a decidere di restare. Ancora lei a scegliere di coricarsi al suo fianco. Sempre lei, otto anni più tardi, sulla strada del ritorno da New York, a proporre il matrimonio. Alvin non ebbe esitazioni: accettò. Considerò che avevano già fatto tanto separatamente: non restava loro che concludere insieme. Fece anche un calcolo tanto semplice quanto aleatorio: di solito le donne vivono di più, ma dato che Gertrud aveva cinque anni più di lui c’erano ottime possibilità, questa volta, di morire insieme risparmiando l’uno all’altra il dolore di un nuovo lutto. La cerimonia del maggio 2017 è stata raccontata da tutti i giornali d’America come una favola, quindi si è chiusa con le rituali parole “e vissero felici e contenti” che rappresentano, in realtà, una formula di pietosa omertà sul dopo. Quel che accadde, dopo, lo sa Alvin. Ed è la quasi perfetta equazione dell’amore, non solo ultimo. Non è consolante che per arrivarci occorra aver vissuto oltre novant’anni, commesso qualche errore, conosciuto un grande dolore, rifiutato di fare la fine del gatto, ma quel che devi fare non è soltanto sopravvivere, è anche imparare. Ad esempio, che l’ultimo amore ti arriva imballato con la scritta FRAGILE e devi maneggiarlo con cura, evitando gli sbagli già commessi. Se viviamo a lungo dobbiamo predisporci all’idea di relazioni interrotte – dal disamore, proprio o altrui, dal caso o dalle contingenze che cancellano un’altra vita. Si riparte, a trent’anni o a novanta, per concludere insieme a qualcun altro, perfino quando, come Alvin, si ama la propria solitudine. Si è imparato che un’unione non è una sovrapposizione, il cerchio bianco che si posa su quello nero soffocandolo, o viceversa. È piuttosto la congiunzione di due cerchi come quelli olimpici, che acquisiscono una parte comune e ne mantengono una separata, e così facendo risultano vincenti. Gertrud si è rivelata una “ragazza di città”. Nella casa tra i boschi si annoiava: nessun altro con cui parlare, troppo poco da fare, perfino troppo silenzio. Alvin invece si è scoperto un “ragazzo di campagna”: ama tagliare la legna, allevare animali, guardare un cielo più grande. Nessuno dei due ha costretto l’altro a cedere: lui scende in città il venerdì, riparte il lunedì. Dal martedì al giovedì si telefonano, anche tre volte al giorno, sempre e comunque la sera, per darsi la buonanotte. Nel romanzo di Kent Haruf Le nostre anime di notte, due anziani, Addie e Louis, si incontrano e decidono che sono stati soli troppo tempo. Lei gli propone: “Ti andrebbe di venire a dormire da me? E parlare? Sto dicendo di attraversare la notte insieme. Parlare di notte, al buio”. Lui accetta. Lo fanno. A ostacolare la loro particolare relazione, in nome della morale, sarà il figlio di lei. Crederà di essere riuscito a interromperla, ma così non sarà. Li terrà lontani, impedendo loro di vedersi. Riprenderanno però a fare la cosa che davvero li unisce: parlarsi, di notte. Sei in camera da letto? Sì, stavo leggendo. È un po’ come fare sesso telefonico? Siamo soltanto due vecchi che parlano al buio, rispose Addie. Di cosa vuoi parlare stasera? Fa freddo lì, tesoro? Abbastanza, Gertrud, sai come sono le notti quassù, ma io le amo così. Sei un ragazzo dei boschi, Alvin, lo sarai per sempre. I figli di Gertrud e Alvin, invece, erano al matrimonio. E alla festa per i cent’anni. Quando incontro Alvin sono in corso i preparativi. È stata anticipata di un mese per rispettare gli impegni di tutti i parenti sparsi per l’America. Cinquanta invitati, come alle nozze. Alvin non sa ancora che cosa regalerà a Gertrud. Vorrebbe farle scegliere qualcosa a New York quando, una volta al mese, ancora ci vanno, sulla Corolla rossa guidata da lui, per assistere all’opera. Ma più di tutto gli piacerebbe regalarle un ultimo viaggio in Europa, qualcosa che lei possa vivere e dimenticare, come un bagaglio nella cappelliera dell’aereo, che lui solo potrà andare a recuperare, ogni sera, per raccontarglielo al telefono prima di addormentarsi. Ha messo da parte una serie di storie: come si sono incontrati, la prima volta che hanno dormito insieme, il ballo alle nozze, fiabe della buonanotte per una ragazza che ha perduto la memoria e ritrovato il sonno. Alvin non ha bisogno di pillole per dormire: chiude gli occhi e sogna. Si addormenta sereno e si sveglia contento, non ha rimpianti, non ha ambizioni. Ha fatto tutto come si deve: ha staccato la spina al primo amore quando non c’era più corrente e sarebbe stata vita artificiale per entrambi, è stato deliriously happy quando i tempi lo consentivano, ha conosciuto il dolore, evitato la rovina, è sopravvissuto e ha continuato ad amare, fino in fondo, in un modo che definirei, letteralmente, raffinato, passato al filtro dell’esperienza e della conoscenza. L’ultimo amore di Gertrud e Alvin è una sintesi assoluta delle possibilità. Splende il sole sia sulla casa in cima alla collina sia su quella in città. Sono divisi e insieme. Sono quello che vogliono essere in ogni singolo istante, evoluti e liberi. Le loro anime congiunte prima della notte si parlano e continueranno a farlo per sempre. È un privilegio averle potute ascoltare. Nel documentario che Wim Wenders gli ha dedicato, papa Francesco racconta la storia di un bambino di otto anni gravemente malato a cui lui telefona quando è ormai stremato e da cui si sente dire: “Grazie. Grazie”. Ne conclude, con il sorriso che spesso lo accompagna, che è riuscito a “riconciliarsi con la morte”. Credo sia importante, ma ancor più lo sia, quando cala la sera sulla collina, riconciliarsi con la vita, con la propria vita, riconoscerla, amarla, perdonarla, accompagnarla prendendola per mano verso l’altra stanza.
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Eliot il legislatore. Eliot l’elitario. Eliot il Difensore della Fede. Eliot il sostenitore dell’establishment. Eliot l’editore. Eliot il presuntuoso intellettuale. Ecco perché Eliot resta un enigma ed è il poeta più grande
Nel 1917, T. S. Eliot pubblicò, in una tiratura di cinquecento copie che rimasero invendute per i seguenti cinque anni, il suo primo libro di poesie, Prufrock and Other Observations. Come molte prime pubblicazioni di giovani poeti, Prufrock aveva un che di vita vissuta in strada e di volutamente esagerato.
Il libro in realtà non era un libro, ma un opuscolo, e la casa editrice in realtà non era una casa editrice, ma un periodico londinese, The Egoist. Ad oggi The Egoist è apprezzato come effimera e straordinaria incubatrice di modernismo letterario. Allora era uno tra gli organi tribali di una piccola, giovanile cricca “innovativa” di intellettuali e artisti, sicuri di dare vita a qualcosa di nuovo, ma (a eccezione di James Joyce) probabilmente incerti su cosa fosse esattamente e inconsapevoli di quanto sarebbe diventato significativo.
Animava la rivista anche il co-cospiratore e amico di Eliot, Ezra Pound… Persuase il periodico a dare alle stampe Prufrock e inoltre ne sovvenzionò la pubblicazione con il denaro che ebbe dalla moglie. L’amore di Pound per la letteratura che gli piaceva era talmente intenso che forse gli pareva di esserne egli stesso l’autore. Annunciò, vagamente criptico, che Eliot si era modernizzato da sé (Pound era un grande modernizzatore) e si era autonominato suo manager, il quale, con la sua consueta passività – che era anche accortezza; Pound lo soprannominò Possum –sembrò lasciar pensare a Ezra di essere una sua invenzione.
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Uno dei primi critici di Prufrock, come spesso accade per i primi libri, era un amico del poeta, Conrad Aiken (che divenne anch’egli un grande poeta). Il biografo di Eliot, Peter Ackroys afferma che Aiken conosceva le intenzioni di Eliot meglio di Pound. Aiken aveva incontrato Eliot al college, ma la lunga amicizia non sembra aver compromesso l’oggettività nella valutazione. Nella recensione, dichiara che l’autore di Prufrock è un “uomo peculiare e intricato”. Tale personalità peculiare e intricata esordì nella carriera letteraria in un contesto che lo avrebbe reso radicalmente più peculiare – sebbene non ancor più intricato (termine che implica un problema ancora in cerca di una soluzione e una perplessità che alla fine potrebbe essere risolta), ma piuttosto ancora più enigmatico (termine che implica qualcosa di attivo e vivo, un mistero di cui non si può strappare il cuore).
L’Eliot che si potrebbe definire intricato era quello degli anni intorno al 1914, l’autore delle poesie di Prufrock, scritte prima della guerra e popolate da bostoniani. Era come il personaggio di una storia di Henry James, con un piede in America, un piede in Europa e un cervello ipertrofico introvabile nelle mappe. Era, quasi ironicamente, una versione rivista del ventesimo secolo del povero, sensibile gentiluomo della Gilded Age di James; lavoratore solerte, ma latitante negli studi, che salta le lezioni alla scuola di specializzazione, non vuole avere il fiato dei genitori sul collo, ma dipende dai loro sussidi; lezioso e immaturo. Nel 1917, però, passò dai paradigmi romanzeschi jamesiani ad altri, più strazianti (sebbene James possa essere alquanto straziante). Diceva di sé stesso “vivo in un libro di Dostoevskij”.
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Cosa era accaduto? Uno dei cambiamenti risiede nell’abbandono da parte di Eliot della maschera delle vanità che aveva insinuato nel personaggio di Prufrock; l’armatura satirica che nasconde un’insicurezza giovanile, la presunzione autocompiaciuta che il mondo sia comatoso, quando non assurdo, la falsa fiacchezza del simbolismo francese. E si immerse nel karma (un termine che egli avrebbe accettato, un’idea che non prevede ricompense o rivalse, ma definisce la forza circolare e le interazioni di un ecosistema morale e spirituale). Non era più disincarnato, disperso, bloccato, paralizzato, obsoleto – “un paio di ruvidi artigli che corrono sul fondo di mari silenziosi” – alle spalle il periodo ambiguo, indugiante della ricerca di sé stesso (che, a onor del vero, produsse grande poesia).
Aveva fatto un salto nel vuoto e andava incontro alle conseguenze karmiche. Scopriva anzi la consequenzialità stessa e si avvicinava a quelle prime significanti cognizioni dell’età adulta sulla natura del tempo e del cambiamento che, vent’anni dopo, sarebbero sfociate nelle bellissime, avvolgenti, eraclitee meditazioni dei Quattro quartetti. L’iniziale interesse di Eliot per i testi indiani, sebbene innocuo e molto più filologico che speculativo, è paragonabile a ciò che oggi possiamo definire orientalismo arretrato, per i nostri standard. (In seguito, sviluppando una predilezione per gli inni all’imperialismo come Recessional di Kipling – in cui le “stirpi minori non conoscono la Legge” – l’orientalismo assumerà sfumature perniciose). Tuttavia i suoi studi del Vedānta ebbero perlomeno il vantaggio di arricchirlo di una profonda comprensione dell’illusione e di un apprezzamento per i complessi e sottili principi di azione e reazione, di cambiamento e di permanenza. (In questo periodo pensò in realtà di convertirsi al buddismo).
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Si era sposato da poco, in modo impetuoso e con esiti disastrosi, con Vivienne Haigh-Wood, una ragazza inglese di quelle che allora si usava definire “nervose” (anch’egli poteva essere ritenuto tale) e che aveva conosciuto grazie a un amico americano. Eliot aveva delle responsabilità. Doveva portare il pane a casa; era un poeta pubblico, un critico e un saggista e arrotondava queste magre entrate con un impiego in banca. Frequentava Bertrand Russell e Virginia Woolf e altre straordinarie personalità, la cui raffinatezza aveva un che di efferato alla quale egli aveva l’obbligo di adattarsi. (Russell, sotto la parvenza dell’amicizia e della premura nei confronti della giovane coppia in crisi, finì col sedurre Vivienne). Aveva i piedi e la testa finalmente nello stesso luogo, a Londra, che era in Inghilterra, che era in Europa; e sperimentava le tensioni e le pressioni del mercato letterario, l’anomia del lavoro d’ufficio in una grande impresa capitalista (la Lloyd’s di Londra) e l’angoscia di un matrimonio che era presto diventato fonte di estenuanti, dolorosi e confusi dramma e complicazioni. (Riflettendo, dopo la morte di Vivienne del 1947, disse: “A lei il matrimonio non arrecò alcuna felicità… a me arrecò lo stato d’animo da cui emerse The Waste Land.”).
Tuttavia una risposta più significativa per quello stato d’animo di Eliot, più significativa delle sue agonie domestiche, più significativa dello sconforto della vita d’ufficio e della difficoltà di costruirsi una carriera fu, senza dubbio, la guerra, la Prima Guerra Mondiale, la guerra per porre termine a tutte le guerre. Per quanto sia possibile spiegare la grande arte, è la guerra a definire il dramma intrigante, destabilizzante, l’ironia pungente e accurata, il giudizio profetico, l’atmosfera nefasta, la crepuscolarità pervadente e nervosamente viva, allo stesso tempo malinconica, disperata, malevola, inquietante e vulnerabile di The Waste Land.
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Nella tradizione critica, in gran parte è ovvio che Eliot non può essere compreso o apprezzato senza la consapevolezza dell’effetto che la guerra ebbe su di lui. È in gran parte ovvio perché la guerra è usata per spiegare chiunque alla stessa età, o intorno l’età di Eliot l’abbia vissuta in qualche modo. Ma la specificità e l’intensità emotiva raggiunta da Eliot in The Waste Land, verosimilmente la poesia più influente della lingua inglese, non è del tutto colta, se è vista come un altro artefatto della Lost Generation. L’effetto che la guerra ebbe su Eliot è un argomento inestinguibile. Nessun’altra opera artistica occidentale dal peso di The Waste Land è così immediatamente e intimamente congiunta a un cardinale cataclisma storico, peraltro essendo allo stesso tempo radicale (nel significato originale del termine) abbastanza, vicina abbastanza ma anche distante abbastanza, immaginativa abbastanza, brillante abbastanza, non reminiscente e non solita abbastanza da riuscire a misurare una catastrofe umana di tale ordine. Forse Pound pensava a The Waste Land quando disse che la poesia è la novità che resta nuova.
La guerra industrializzata era un fenomeno iniziato già da cento anni o più, ma il mondo occidentale e il mondo della generazione londinese di Eliot si trovava ora di fronte a una rivalsa nella sua forma più evoluta, meccanizzata e inumana. Eliot fu un non-combattente. (Tentò, e fallì, per una serie di impedimenti burocratici, di arruolarsi dopo l’entrata in guerra dell’America, nel 1917). Ma nonostante non avesse assistito all’azione, vi era dentro quanto un poeta soldato come Wilfred Owen o Robert Graves (lo stesso non si può dire di Pound). La guerra non modificò solo, come potrebbe aver detto in un momento laconico, la sua sensibilità. La guerra lo invase e si impresse nei suoi più profondi strati psichici. The Waste Land è soverchiante nel suo senso di isolamento dello spirito, intrappolato in una materialità violenta. Tale senso non deriva da una predilezione del Vedānta per la visione della vita come un’illusione dolorosa, o da una avversione gnostica per il corpo (sebbene siano questi elementi funzionali nella poesia), ma è una reazione locale e particolare – per quanto tortuoso sia stato lo sviluppo, lunga la gestazione e indiretta la consapevolezza – alla testimonianza di qualcosa di molto vicino a una carneficina sistematizzata.
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Le testimonianze che Eliot riceveva nel 1917 erano raccapriccianti. Di seguito un esempio; la descrizione di un campo di battaglia tratta da una missiva di un soldato di trincea, allegata a una lettera di copertura scritta il 17 giugno 1917 e inviata alla rivista inglese The Nation, che la pubblicò il 23 giugno. “…una terra lebbrosa, cosparsa dei cadaveri gonfi e anneriti di centinaia di giovani uomini. L’orribile fetore delle carcasse marcescenti misto al nauseante odore di acido picrico e ammonio. Fango simile a porridge, trincee come crepe spioventi e poco profonde nel porridge – porridge che puzza al sole. Sciami di mosche e mosconi azzurri che si ammassano nelle cavità delle interiora. Uomini feriti che giacciono nei crateri dei bombardamenti tra i cadaveri in decomposizione: indifesi sotto il sole rovente e le notti aspre, sotto ripetuti bombardamenti. Uomini con le viscere uscite di fuori, i polmoni sparati via, con volti ciechi, fracassati, o arti esplosi nello spazio. Uomini che gridano e barbugliano. Uomini feriti appesi in agonia sul filo spinato, finché uno zampillo amico di fuoco liquido li avvizzisce come mosche su una candela. Ma queste sono solo parole e forse consegnano una frazione del significato a chi le ascolta. Che sussulta, e poi le dimentica”.
L’autore della lettera di copertura a The Nation era lo stesso Eliot. Quella che aveva allegato era stata scritta da suo cognato, Maurice Haigh-Wood, che era sul fronte da quando non aveva ancora compiuto diciannove anni. (Maurice Haigh-Wood sopravvisse alla guerra). Insieme al terrore e al tormento, alla compassione e alla rabbia che una descrizione del genere evoca, Eliot deve aver sperimentato reazioni proprie alla sua peculiare personalità. Una caratteristica dei suoi saggi è uno spiccato, sebbene perlopiù non esaminato, biologismo metaforico nel linguaggio che impiega riflettendo sull’arte e sulla cultura, oltre ad accenni di una percezione di fondo che gli effetti della letteratura possano essere meglio analizzati utilizzando un metodo di analogie tratte dalla scienza. Nel suo saggio più conosciuto, Tradizione e talento individuale, compara l’immaginazione poetica a un filamento di platino che catalizza una reazione chimica. Questo pensiero potrebbe benissimo essere frutto di una suscettibilità psicosomatica.
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Così profondamente sensibile alle atmosfere e alle impressioni com’era, così sensibile agli atti verbali, e così schiuso e vulnerabile alle immagini nate dalle parole, così irritabile, probabilmente Eliot reagiva al linguaggio che lo colpiva in un modo quasi fisico, era pervaso da sentimenti che lo avrebbero avvelenato, proprio nel modo in cui, disse nel suo saggio sulla tragedia, la vita di Amleto e la sua capacità di agire furono avvelenati da sentimenti che non riusciva ad articolare e oggettivare. Su Eliot una testimonianza come quella del passaggio citato sopra deve avere avuto gli effetti di una malattia. Per quanto possa essere strano, dato il tormento della sua poesia e l’amarezza della sua ironia, la cura a questa malattia, l’alleviamento dalla sua articolazione e concretizzazione, è stata la proteiforme, fitta di gravitazione, traslucida, ipnotica, bizzarramente irradiante sfera musicale che è The Waste Land.
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In vita, T. S Eliot godeva della stessa autorità in campo culturale di ogni altro autore di ogni altra epoca nella storia della lingua inglese. Tale autorità tende a occultare il poeta in crisi, dentro cui stava crescendo The Waste Land. Non è facile discernere quell’Eliot da tutti gli altri Eliot vissuti nel pensiero letterario e in quello pubblico dell’ultimo secolo. Eliot il normatore. Eliot il legislatore. Eliot l’elitario, amante della divisione in ceti e della gerarchia. Eliot il Difensore della Fede. Eliot il sostenitore dell’establishment (“classicista in letteratura, monarchico in politica, anglocattolico in religione”) Sporadicamente il deprimente, scoraggiante antisemita Eliot.
L’Eliot cristiano. L’Eliot dell’Identità Cristiana. Eliot l’incomparabile analista letterario, che generò un vero clima d’opinione. Eliot lo sdegnoso analista letterario che espresse irragionevoli (ma in perfetto tempismo), oltraggiosi giudizi en passant. (“Su Donne pende l’ombra del fine impuro”; “Hazlitt, la cui mente era forse la meno interessante tra tutti i nostri distinti critici”). Eliot l’editore. Eliot il guardiano. Eliot il drammaturgo. Eliot il premiato. Eliot lo snob. Eliot il presuntuoso intellettuale. Eliot, che all’età di cinquant’anni fu trasformato in una statua, messo su un piedistallo e seppellito fino al collo, come un personaggio di Beckett, sotterrato nella sabbia, sferzato da una tempesta di attenzione critica. Eliot la celebrità, l’amico di Groucho Marx.
Tuttavia, se anche potessimo vedere quel giovane poeta (giovane per quanto riguarda la poetica), probabilmente vedremmo solo l’enigma in modo più chiaro e non porteremmo alla luce niente di utile riguardo a lui (utile, ovvero atto a soddisfare una curiosità sul sentiero attraverso cui delle violente esperienze sono diventare arte, nel modo, ad esempio, in cui ci sono utili le lettere di Keats.) Il motivo: Eliot non condivide. Le sue lettere, o perlomeno quelle rese pubbliche ad oggi, sono, con rare eccezioni, simili a quella di cui l’estratto sopra (in cui citava qualcun altro), non danno informazioni, rispettano colui che ha orchestrato la propria assenza. Non per niente il critico Hugh Kenner intitolò il suo libro su Eliot The Invisible Poet. Con nessun altro grande autore della sua epoca abbiamo, come lettori, una relazione personale, un’identificazione emotiva così inconsistente. Con Eliot non ci si “immedesima”. Non ispira amicizia. È il più circospetto tra gli scrittori modernisti, il più vigile nel pattugliare la terra di nessuno tra sé e ciò che crea.
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Di questi altri scrittori abbiamo una conoscenza, presumibilmente, paragonabile a quella delle persone nella nostra vita. Conosciamo quelli riservati, “classici” come Kavafis e quelli che indossano una maschera o popolano una favola, come Pessoa o Kafka (tutti e tre hanno non poco in comune con Eliot, se si tratta di scelte retoriche), così come sappiamo di coloro che, come Proust o Lawrence, tendevano a essere autobiografici. Persino ammettere di non conoscerlo come conosciamo gli altri non appare un’affermazione vera o falsa, ma piuttosto il prodotto di un errore concettuale, un errore di categoria, un errore prevedibile. Il noto passaggio di Tradizione e talento individuale recita: “La poesia non è un modo di liberare l’emozione, ma una fuga dall’emozione; non è un’espressione della propria personalità, ma una fuga dalla personalità. Ma, naturalmente, solo coloro che hanno personalità ed emozioni sanno cosa significa voler fuggire da queste cose”.
Come il Dio di Flaubert, Eliot è ovunque presente nella sua opera, ma in nessun luogo visibile. Trasformò la rettitudine caratteristica della cultura puritana da cui proveniva in un principio mediante cui governare gli artefatti della sua immaginazione, applicando tale principio con una costanza impressionante. Eliot, la persona, funge da punto di fuga delle lunghe linee prospettiche della sua poesia. Persino quando pone sé stesso, invece di un personaggio enfatizzato, nelle proprie poesie, quel sé stesso è, quando non il mero soggetto grammaticale, o il sé esistenziale dei testi penitenti o la trascendente soggettività delle ultime meditazioni. L’ubicazione casuale di tale soggetto nella geografia e nella storia è la tinta fluorescente che ci permette di rilevare il moto del tempo e rivelare i contorni di una topografia spirituale.
Al posto della personalità, Eliot drappeggia le sue opere di un velo trasparente, con proprietà ottiche che allontanano, allungano o amplificano l’azione drammatica e simbolica racchiusa e vi trasmettono una limpidezza irreale (sebbene non semplicità; Eliot era un poeta “difficile”, la cui difficoltà è fondamentale). Al posto delle emozioni, ci viene donato ciò che egli notoriamente definì il loro correlativo oggettivo: “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare”. La forza di The Waste Land è indissolubile dall’impersonalità di tale correlativo. La sua impersonalità è cruciale per la sua aurea di perpetua freschezza, e le tracce che lascia sono permanenti. Infatti nella sua atmosfera distopica, post-apocalittica, nel suo travestitismo, nell’amara consapevolezza della violenza sessuale perpetrata sulle donne, The Waste Land non è solo una novità che rimane nuova, ma anche eventi attuali.
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The Waste Land suggerisce anche nuove idee sulla poesia, più incandescenti che mai. Il passaggio di apertura, con la prima, indelebile frase, è come la cadenza della tromba di Louis Amstrong che apre West End Blues degli Hot Five, mentre annuncia, con la stessa articolazione squillante, la nascita di una forma d’arte. La disincantata visione si oppone, e allo stesso tempo rinforza le transizioni, e ne viene rinforzata, dalla loro energia, imprevedibilità e gioia (una scelta insolita, ma appropriata del termine nel contesto di una così oscura opera). La giustapposizione è esaltante. Alla pubblicazione, il collage di The Waste Land, la sua multivocalità, il sistema di riferimento interculturale furono inedite quanto le sue transizioni.
Eliot smantellò la poesia della sua epoca. Smantellò non solo la poesia normativa edoardiana e vittoriana della sua epoca, bensì anche quella “d’avanguardia”. Testi quali The Comedian as the Letter C di Wallace Stevens e Il cimitero marino di Paul Valéry, pubblicati all’incirca nello stesso periodo, che allora venivano considerati radicali, ci suonano oggi tardo-romantici, come la musica di Elgar o di Richard Strauss, se comparati a The Waste Land. Più di Stevens o di Valéry, le personalità del suo tempo con cui Eliot ebbe, almeno negli anni antecedenti alla sua conversione all’Anglo-cattolicesimo, più elementi in comune furono forse (per quanto improbabile sembri) Duchamp e Brecht.
Un’ironia astratta, decostruzionista governa ogni cosa in The Waste Land, dalle azioni e transazioni fino alle sarcastiche note finali, che tolgono ai lettori la terra da sotto i piedi, che li “alienano” dall’esperienza appena vissuta. Gli elementi astratti, uniti all’impersonalità e allo scetticismo filosofico caratteristici di Eliot, anche nel suo periodo spirituale e apologetico cristiano (aveva una buona cultura di filosofia, come ogni altro poeta della storia occidentale), generano una separazione non solo tra poesia e poeta e tra poesia e lettore, ma anche dentro la poesia stessa.
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Le innovazioni di The Waste Land, sebbene concepite da Eliot, scaturirono dalla comune mentalità europea all’indomani della guerra. Il loro avvento non appare un mistero oggi. Di misterioso rimane il modo in cui le nuove idee radicali su movimento e sviluppo, sovrastrutture concettuali e apparato accademico danno adito a una più profonda unità e integrazione e accrescono e intensificano il potere rivelatore della poesia. In molti hanno imitato Eliot, ma nessuno è stato in grado di riassemblare su nuove linee e reintegrare così totalmente ciò che era stato così vigorosamente smantellato. In parte è dovuto alla brillante revisione di Pound (che Eliot mai smise di riconoscere), ma solo in parte. Qualcosa di innato nell’opera la rende completa. Qualcosa che ha origine nella sua atmosfera e nel suo ritmo.
Eliot era un maestro dell’atmosfera, la quale dona alla poesia un’energia di legame e riconcilia i suoi frammenti in un insieme emotivo. Possedeva un profondo senso della struttura musicale, che ovunque costantemente accresce e muta la dentellatura e ruvidità del dramma. The Waste Land è costellato da passaggi ed effetti in cui l’appagamento musicale è ricco e totale quanto quello letterario. Un esempio è il meraviglioso arpeggio a chiusura della prima stanza, che determina un cambio di forma grammaticale, dall’affermativa all’interrogativa dell’inizio della seconda stanza, un’incantevole scossa. Un altro mirifico esempio è il sostenuto – “Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate/ Attendevano pioggia…” – che dà inizio alla mostruosa favola del tuono con cui termina la poesia. La narrazione rallenta e la tensione si attenua, prima dell’esplosione del crescendo finale in una squisita fusione, come quella della poesia delle dinamiche e del ritmo con significato mito e immagine.
Si diceva che Ezra Pound avesse un orecchio sopraffino. Eliot lo superava. La sua dizione è il perfetto accordo tra demotico e aristocratico e la tensione tra questi due elementi la rende convincente, senza alcuna traccia dell’arcaico o del futuristico, tanto vicina o tanto lontana dalla dizione del ventunesimo secolo quanto da quella del ventesimo o del diciannovesimo.
I ritmi delle poesie, sia delle prime che delle ultime, sono sia locali sia globali. Un esitante metro scorre uniformemente appena al di sotto della superficie dei versi, un’amabilmente quieta, ma irremovibile presenza metrica. Una complessiva progettazione del suono disciplina e anima ogni sillaba della poesia. I simbolisti francesi, la prima influenza poetica di Eliot, volevano una poesia che non fosse solo musicale, ma che arrivasse alla condizione astratta della musica. La poesia di Eliot arriva a tale condizione, e ci arriva senza sacrificare a beneficio dell’astrazione, di un fine puramente musicale e di un significato intrinseco del testo, ciò che giudicava altrettanto essenziale: storie, personaggi, drammi, voci umane, significato concreto, stati psicologici, immagini del mondo.
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Eliot è un poeta americano. Come è già stato detto: solo un americano avrebbe potuto farsi venire in mente un’idea del genere sull’Europa quando è venuta in mente a lui. L’altro poeta americano, l’altro grande poeta americano, con un orecchio comparabile al suo non è Pound, ma Walt Whitman. L’educazione del suono di Whitman fu astorica e biblica, mentre quella di Eliot derivò direttamente dallo studio della prosodia inglese e dei suoi antecedenti classici. Whitman scriveva opere e sinfonie orchestrali. Eliot scriveva musica da camera, implicitamente all’inizio, ed esplicitamente alla fine, nei Quattro Quartetti. Ma come Eliot, Whitman possedeva una padronanza di ampi intervalli del suono, una magnifica abilità nel modulare tra effetti aurei di ampia e piccola scala, e una purezza meravigliosa, una delicatezza, e un controllo delicato del suono, una dizione naturale, sempre attuale. E sia in Eliot che in Whitman le note singole e gli accordi risuonano in una vasta camera d’eco in cui il suono stesso ha un significato spirituale.
Questa introduzione alle poesie di Eliot è stata scritta al bicentenario della nascita di Whitman. È allettante in questo contesto triangolare Eliot il poeta per mezzo di Whitman. È anche appropriato e utile. Una volta fatto il confronto, è impossibile liberarsene. Dice tanto dei poeti, della poesia, dell’America. I contrasti sono talmente netti che da soli giustificano il confronto. La retorica di Whitman è schietta e personale. Quella di Eliot è l’opposto. Whitman si ripete. Eliot mai. Dire che Eliot sperimentò anche solo un passeggero entusiasmo per la democrazia, rasenta l’incredulità. Whitman era un autodidatta. Eliot ebbe la migliore educazione istituzionale dell’America del suo tempo. Whitman è decisamente il poeta della felicità, quanto Eliot è il poeta dell’infelicità. Sono ai poli opposti della vita spirituale. Dio frequenta Whitman. Dio è amico di Whitman. Whitman presuppone Dio. Anche negli scritti più profondamente spirituali, Eliot infrequentemente e cautamente cita Dio.
L’unione mistica in Whitman è una funzione corporale, inevitabile come respirare. La poesia di Eliot, d’altra parte, da The Waste Land in poi, è la messa in scena di un viaggio lungo la via negativa, il sentiero della penitenza, dell’abnegazione, della sofferenza, delle buie notti dell’anima, il sentiero che si estende attraverso luoghi petrosi, passa da cisterne vuote e pozzi ormai secchi, da terre morte e terre di cactus, da valli di stelle morenti. The Waste Land pone un quesito a cui solo Dio potrebbe essere la risposta. Tutte le più grandi poesie di Eliot dopo The Waste Land sono eventi unici – definiti da invenzioni retoriche e metriche nate esclusivamente per quegli eventi – che documentano le fasi di una ricerca di quella risposta, una ricerca lancinante, portata avanti con speranze e dubbi. E, così ricca e circolare, così appagante per la mente, la visione beatifica, quando finalmente Eliot vi arriva nei Quattro Quartetti, è pacata, solenne, intellettuale e diffidente, persino nella sua estasi.
Amiamo Whitman, e non amiamo Eliot, o almeno, sembriamo non riuscire a stabilire con quest’ultimo quella relazione personale che sarebbe una condizione necessaria per amarlo. Whitman esige quella relazione personale. Eliot la vieta. Ma non leggiamo poesie per amore. Leggiamo poesie per la poesia. Per separarci dall’incanto e dal disincanto, questi due creatori della poesia americana si impongono su di noi, e osservarli solo nella la loro opera rende possibile riconoscere quanto in realtà abbiano in comune; la pretesa di Whitman dell’amicizia dei suoi lettori è un trucco retorico come lo è quella di Eliot di vietare quella stessa amicizia. Entrambi scompaiono nella propria poesia, come tutti i grandi poeti, qualsiasi sia il racconto con cui parlano al lettore. Eliot è considerato un poeta freddo, ma si potrebbe obiettare a ragione che anche Whitman lo sia. (Disdegniamo il credo politico di Eliot e vediamo in Whitman un rappresentante, eppure Whitman fu molto rallegrato nel vedere l’America appropriarsi di ampie porzioni del Messico e contemplò con imperturbabile neutralità l’estinzione degli Indiani d’America nel massacro del Destino Manifesto).
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E, al di là di ciò, un’ampia serie di somiglianze: furono entrambi rivoluzionari, ed entrambi originali – che non è la stessa cosa. Le tecniche e le possibilità della poesia sono state immensamente estese da entrambi. Furono tutti e due visionari, e personaggi pubblici, istruirono sulle proprie visioni. Ambedue vennero trasformati dall’esperienza di una guerra sanguinosa e terribile. La scala delle loro ambizioni era immensa e, esattamente allo stesso modo, entrambi realizzarono eccezionalmente tali ambizioni. Tutti e due devoti a uno scopo trascendentale, originato dalla loro comune anticonformista cultura religiosa americana. Entrambi credevano che la vita fosse un’esperienza spirituale e che la poesia dovesse simbolizzare tale esperienza. Possiamo vederli come buoni compagni. Ancora, leggiamo la poesia per la poesia, e sulla base di ciò, se per Eliot è lusinghiero essere visto come un buon compagno di Whitman, per Whitman lo è altrettanto.
Vanno di pari passo sotto aspetti importanti, sotto aspetti essenziali. Nell’influenza esercitata sugli altri e sulla cultura in generale, nessun poeta americano li eguaglia. Una tra le singolari idee che Eliot annotò in Tradizione e talento individuale riguarda il paradosso fenomenologico secondo cui il presente cambia il passato. Il nostro presente, il nostro presente lucido, democratico, consapevole, sensibile alle diversità, che esige almeno il gesto retorico della franchezza, della trasparenza, resta ancorato più a Whitman che a Eliot. Il nostro presente, tuttavia, conta molti elementi che Eliot comprese e Whitman no. Infatti, con sua angustia urbana, la sua coscienza apocalittica, il suo senso per i veri pericoli dell’esperienza, la sua consapevolezza che l’intuito spirituale non è una gioia, o almeno non solo, ma una terribile necessità, forse è proprio Eliot che si è fermato da qualche parte ad aspettarci.
Vijay Seshadri
*Pubblichiamo parte dell’introduzione di Vijay Seshadri a “The Essential T.S. Eliot”, Ecco 2020; la traduzione italiana è di Valentina Gambino
L'articolo Eliot il legislatore. Eliot l’elitario. Eliot il Difensore della Fede. Eliot il sostenitore dell’establishment. Eliot l’editore. Eliot il presuntuoso intellettuale. Ecco perché Eliot resta un enigma ed è il poeta più grande proviene da Pangea.
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MACERATA – Dal 24 al 26 gennaio torna a Macerata il piccolo Festival d’inverno “I giorni della merla”. L’iniziativa, che gode del patrocinio del Comune di Macerata, è giunta alla sua quinta edizione e si conferma come l’appuntamento più originale, unico nel suo genere, dedicato ai libri che scaldano l’inverno e alle grandi storie del freddo.
“Da cinque anni in pieno inverno Macerata si regala tre giorni dedicati ai libri, all’ascolto, alla conversazione, un dono di grande valore per la comunità civile. I Giorni della Merla – afferma l’assessore alla Cultura Stefania Monteverde – rappresentano un altro pezzo importante di Macerata città della cultura, Città che legge, città che sa incontrarsi .”
Loredana Lipperini e Lucia Tancredi, curatrici della rassegna, hanno individuato il tema che è chiave di lettura ed allegoria dei nostri tempi: il Castello d’inverno.
“Luogo archetipico di altezze impossibili, – dice Lucia Tancredi – segregazioni e appuntamenti fatali, il Castello reale o presunto è punto di dominio ed osservazione del mondo o, citando Kafka, imperscrutabile e dai molti ingressi, come la vita. A sperimentare ed esplorare passaggi, chiusure e possibili entrate quest’anno sono tre autori.”
I giorni della merla sono il pendant invernale di Macerata Racconta, festival dei libri e dell’editoria curato dall’associazione Contesto con il patrocinio del Comune di Macerata.
A causa dei lavori in corso nella Gran Sala dello Sferisterio, quest’anno gli incontri si terranno presso il Teatro della Filarmonica, in via Gramsci 30 a Macerata, il 24, 25 e 26 gennaio alle ore 17,30, con ingresso libero senza prenotazione fino ad esaurimento dei posti. Il programma prevede tre ospiti eccezionali, protagonisti di alcuni dei maggiori successi editoriali del 2019.
Venerdì 24 gennaio, I Castelli Assediati. Ospite Giacomo Papi, editor e docente di scrittura, con il romanzo del momento Il censimento dei radical chic gioca ironicamente con la distopia, raccontando un mondo grottesco e surreale in cui gli intellettuali vengono perseguitati e uccisi e la lingua italiana semplificata d’ufficio. E’ il castello assediato, narrazione che mima e prefigura una realtà già in atto.
Sabato 25 gennaio, Il Castello degli Antenati. Appuntamento attesissimo con Stefania Auci, trionfatrice nelle vendite, da sei mesi tra i primi posti in classifica, con I leoni di Sicilia, primo volume della saga dedicata alla famiglia Florio, grande affresco storico che cita la roba verghiana, i gattopardi, i parvenu di Balzac e Zola, i Buddenbrook di Thomas Mann.
E’ il castello degli antenati, in cui le genealogia familiari mettono radici e segnano destini, da cui bisogna saper entrare ed uscire per costruire un’identità.
Domenica 26 gennaio, Abbiamo sempre vissuto nel castello. Il gran finale del festival allude a Shirley Jackson, scrittrice amatissima da Loredana Lipperini. L’incontro è con uno scrittore di rara sensibilità narrativa come Marcello Fois. Il suo ultimo romanzo Pietro e Paolo inaugura la storia nel “rigido e impassibile cielo di gennaio”, con la vicenda di un’amicizia che trascende la provenienza sociale e la devastazione della prima guerra mondiale, preludendo il disincanto e i confronti con l’età adulta.
E’ il castello vischioso del passato dal quale non si esce mai, dove si sopravvive come in un sogno ( o un incubo), oppure quello che resiste nel tempo e ci richiama a sé anche quando pensiamo di esserne usciti.
I tre appuntamenti saranno ulteriormente impreziositi dalla partecipazione della pianista e direttrice d’orchestra Cinzia Pennesi, che interverrà con sue composizioni originali. La affiancheranno come voci narranti, Lucia De Luca, Laura Silvetti, Claudio Porzi, Giuseppe Riccardo Festa.
Le schede dettagliate degli incontri e altre informazioni possono essere reperite sul sito www.igiornidellamerla.it , o sulla pagina facebook di Macerata Racconta.
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