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Kindle Verde Matcha: il regalo perfetto per un Natale all'insegna della lettura. Un dispositivo innovativo per un’esperienza di lettura unica
Un dispositivo innovativo per un’esperienza di lettura unica
Con l’avvicinarsi del Natale, arriva anche il momento di pensare a regali speciali che sappiano sorprendere e appassionare. Kindle, il celebre e-reader di Amazon, si presenta in un inedito colore Verde Matcha, un tocco di eleganza che richiama la magia delle feste e la bellezza della natura. Disponibile su Amazon.it al prezzo di 109,99 €, il Kindle Verde Matcha è il compagno perfetto per gli…
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Riflettevo con @alecattelan e la @fo5ca: il tiro è alto.
Dai dubbi piccoli e grandi [“Mio figlio ha 2 mesi e vuole stare solo in braccio, è normale? (SÌ!) “Mia figlia ha preso un brutto voto a scuola e le ho vietato di andare al compleanno della sua migliore amica, ho fatto bene?” (NO!)] siamo passati a camei ricchi di ombreggiature.
Il momento ha slatentizzato una crisi che gli adulti attraversavano già da tempo.
Non è stato il Covid-19. Il re era già ignudo, il Coronavirus l’ha “solo” portato nelle nostre case e i più, ovviamente, non hanno più potuto ignorare le sue chiappe sul divano.
È così che si sono delineati quadri in cui gli adulti sentono di non sapere che pesci pigliare, i figli non danno mai loro retta, le famiglie implodono, si resta al palo, si diventa violenti, non si sa cosa fare, si ignorano i sintomi. E intanto, quei figli crescono. E non va meglio. Nemmeno noi, stiamo meglio.
A quel punto succede una cosa sdrucciolevole: si chiede un consiglio, la ricetta del Come fare.
Puntualmente, non funziona.
Ci si racconta allora di averci provato, ma non è servito a niente.
Lì, ci si è condannati all’Ormai: Ora e Mai.
Ora sono in difficoltà, ma Mai passerà.
NON È VERO.
Solo, le cose difficili non possono essere risolte in modo facile.
Vi auguro di trovare sotto l’Albero il coraggio e la salute per chiedere aiuto, perché se vostro figlio di 8 anni ha sviluppato una dipendenza da videogames o vostra figlia di 15 ha smesso di mangiare, non basterà una “dritta”. Se avete smesso di guidare perché soffrite di attacchi di panico o non sapete più come relazionarvi con vostro padre depresso da sempre, non si potrà risolvere grazie ad una lettura motivante.
Trattate bene le vostre storie.
Trattatevi bene.
Trattate bene chi vi ama, non solo chi amate.
Io continuerò a farlo nel mio piccolo, meglio che posso, offrendovi il mio paio di occhiali, con le lenti anti appannamento, la pezzuola di daino a portata di mano.
Dott.ssa Stefania Andreoli
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LE ISTRUZIONI
Non è il caso di aspettare, mi dicevi. Ora, tutto e subito.
Perché non mi hai mostrato che scappare sarebbe stato bellissimo?
Dimmi, dove saremmo andati?
Gli ingressi non mi escono tanto bene, ho cercato di ricordare come fosse la casa dei nostri sogni. Senza ascensore, per allenare i polmoni.
Rovesciamo il bidone?
Ecco!
Ogni mattoncino si unirà all’altro, come due nobili amanti senza senso di colpa.
Non si staccheranno fino a quando non sarà qualcun altro a decidere.
Entreremo accolti da un grande poster vintage, di quelli che ti portano indietro nel tempo, quando tutto sembrava più semplice: le relazioni, il cibo persino il burro faceva bene.
Potremmo fermarci qui e ballare fra zuppiere bianche e bilance anni sessanta, pesare il nostro cuore e scoprire di avere lo stesso destino.
Abiteremo in alto, perché è meglio per spegnere le stelle, proprio quelle che ci hanno rotto con le loro storie di marinai e grandi carri pieni di niente.
Le istruzioni dicono di andare avanti.
Mi piace la cucina. Non servirà la televisione, credimi avvelena il cervello. Avremo così tante cose da dirci durante la cena. Imbratteremo i muri di farina, bruceremo torte, sbaglieremo ingredienti, ma nessuno potrà dirci che non ci abbiamo provato.
Non siamo cuochi perfetti.
Ci aiuteremo con una miriade di elettrodomestici, collezioneremo tazze da tutto il mondo e non avremo pace finché non sforneremo qualcosa che ricordi un’Apple Pie. Tu in cucina fai salti mortali, io invece sono un po’ impacciato. Però m’impegno. Credo di avertelo dimostrato.
D’estate accenderemo ventilatori, raffredderemo il caffè e di sera ci illumineremo con le candele. Anche da lontano potremo vederci.
“Vieni di là, sparecchieremo dopo!”
Il letto sceglilo tu. Anche il mobile per i vestiti.
Non mettere libri intorno a me. Non voglio che la lettura mi distragga dal tuo volto. Aspetterò che tu chiuda gli occhi per leggere.
Non difenderti. Commuoviti. E lasciati andare. Ma stai tranquilla…a pagina 3 le istruzioni prevedono un pacchetto di fazzoletti da usare quando disferemo l’Albero di Natale.
Non mi faccio trovare impreparato.
Una finestra di fronte a noi ci farà da oblò. Ogni giorno l’alba entrerà scorretta ed invadente. Le tende non serviranno: la luce è più forte del buio.
Ti piace qui? Vuoi anche uno specchio? Una lampadario? Magari di quelli pieni di cristalli, così da cambiare ogni volta le ombre sul muro.
Farò tutte le forme che vuoi. Sono bravissimo a muovermi fra il chiaro e lo scuro. Nessun Peter Pan verrà a chiedere il riscatto per l’ombra. Lo lasceremo fuori.
Polyanna usava i piccoli cristalli per riflettere la luce dell’arcobaleno sui muri. Sai che esiste una sindrome con il suo nome? È la tendenza a ricordare oggetti ed eventi piacevoli più accuratamente di quelli spiacevoli.
Ecco io di te ricordo solo cose belle. Ho la lista.
Le parole non servono più mi hai detto. Eppure io so fare solo questo. Creo mondi perfetti, dove siamo fottutamente felici, dove tua madre e tuo padre ci invitano a pranzo e il ricordo più bello che hai è la mia faccia da cazzo.
Le istruzioni dicono di voltare pagina.
Scegli pure i mattoncini che vuoi. Il blu, l’arancio o il bianco? Dai sfogo alla creatività. Non avere budget. Ogni sogno è previsto in questo gioco.
Dammi una piccolo armadio per i vestiti. Non innervosirti per le calze spaiate. Prepara le magliette da stirare e tira un sospiro di sollievo. Ci penserò io alla lavatrice, ho previsto un terrazzo gigante con vista mare e una cuccia per due cani. Ti può bastare?
Siamo solo a metà. Ma basterebbe questo non credi? Non voglio perdermi in questa casa.
Vorrei che i miei occhi fossero sempre vigili su di te. Pareti invisibili nasconderanno i miei giocattoli, i trucchi del mestiere e se vuoi anche un’ asse da stiro. Per il bagno, pensaci tu! Dammene uno con una finestra sul tramonto.
Ho tanti mattoncini quante ferite.
Ti disegnerò una mensola grandissima.
Lì ci abiteranno i tuoi ricordi: Pinocchio, la Maga Magò, Bambi.
Mi racconterai del tuo dolore, come abbiamo fatto la prima volta.
Ci accarezzeremo le cicatrici ed i brividi faranno tutto il resto. Niente profumi. Mi basta il tuo odore.
Espandi il nostro mondo, almeno fino al ristorante giapponese, ma non lasciarmi solo, non adesso!
Uno scalino per ogni promessa, un passamano per il fiato corto, un tavolino con le rotelle e un libro di Tamara de Lempicka.
Le istruzioni dicono di mettere una televisione grandissima. Che palle. Però ci tocca seguirle. L’amore si costruisce piano piano, ci vuole dedizione, intuizione nella scelta, un paracadute e una serie extra di fallimenti.
Sei andata ovunque tranne da me.
Ti ho aspettato sotto casa, ma non sei arrivata.
Guarderemo sempre gli stessi film fino alla nausea e ci addormenteremo sul più bello. In mezzo a centinaia di cuscini ci terremo la mano. Comodi. Fortunati. Felici.
Felici.
Le piante sul terrazzo faranno il loro corso. Aspetteremo la Primavera per vedere se riusciranno a rinascere.
Non stancarti subito… Cerca di conoscere la parte più ludica di me.
Scegli il personaggio che vuoi essere, ma non recitare a braccio: si vedrebbe che menti.
Di pure le bugie agli altri, ma tieni la testa al suo posto, svita il tuo corpo, aggiungi un sorriso di circostanza, butta gli occhiali, agganciati alla wireless di qualcuno, connettiti al mondo e perditi subito, magari scaricati un’applicazione per gli incontri proibiti, dicono che lì sia facile trovare pessimi esempi.
Io sono uno stronzo. Nel senso che piuttosto che la via facile, prendo quella più contorta, ma credimi la vista alla fine è qualcosa di superlativo. Dovresti saperlo.
Lo stendino portalo in giro per la casa, a seconda della posizione potrà diventare un tavolo o un umidificatore.
Lo so che vorresti un’asciugatrice per tenere al caldo le mutande straziate dai tuoi incontri, ma io preferisco uno specchio per ripetere “Dove sei?”
Ti darò un tetto come si deve, che suonerà con il rumore della pioggia. Avrai luce quanto quella di un deserto. E se avrai ancora fame…ritorneremo a mangiare il sushi.
Non abbiamo il coraggio di sentirci, ci attacchiamo a messaggi e a rancori. Eppure quelli non erano previsti nella scatola.
Ti ricordi quando ci siamo sentiti la prima volta?
Ti ricordi quando mi sono preoccupato dove passassi il Natale?
Hai ballato anche ieri sera? Chi c’era in fila alla porta?
A loro dirai le stesse cose che dicevi a me, ma non credere che non riuscirò a stupirti.
Dal passato farò arrivare colorati destrieri e mobili antichi, svuoterò i cassetti dai sogni per metterci lenzuola di emergenza. Ti porterò un vaso di Murano colorato e una nuova catena per la bicicletta. T’insegnerò come a guidare e a superare tutte le paure.
Ti darò la forza per tornare felice, ti mostrerò come gestire la rabbia e l’attesa.
E se poi andrai via io mi terrò L’Amore. E le sue istruzioni.
Il Portinaio
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La pittura di PAOLO SALVATI
Un caso particolare della storia artistica di Roma è quello di Paolo Salvati (1939-2014), superficialmente connotato pittore di strada, senza avere l’accortezza, prima di adeguarsi a giudizi del volgo, di approfondirne la pittura.
In effetti affiancò alla ricerca pittorica, principalmente paesaggistica, l’attività di ritrattista a piazza Navona per qualche decennio finché lo storico dell’arte e collezionista, il principe Agostino Chigi Albani della Rovere rinverdendo il mecenatismo degli antenati lo sottrasse alla strada. Pittore autodidatta abbandonò all’inizio degli anni settanta la professione di geometra per dedicarsi interamente alla pittura tanto impellente sentiva il richiamo dell’arte. Nel 1973, appartato come un monaco medievale, Salvati con grande coraggio, sebbene assillato da difficoltà economiche, inizia un personale percorso artistico a partire dal quadro Albero blu.
Albero blu, 1973
L’aspro paesaggio dell’interno sardo, rimasto nella memoria - la figlia Francesca ricorda che il padre era stato suggestionato da un sughereto vicino Tempio Pausania -, riaffiora a distanza di anni: un albero secco e isolato si erge in una desolata radura dove non compare figura umana, caratteristica questa per lo più ricorrente nei paesaggi. Il colore dell’albero non è naturalistico, come anche i colori del pianoro: sono astratti, sono colori dell’animo. L’albero tende i rami secchi e spigolosi verso il cielo prefigurando un uomo che implora e lotta con indicibili forze. Alla drammaticità dell’allusa lotta si contrappongono i colori caldi, gai e vivaci della spianata denotanti la luce della speranza, in lui fervente cattolico sempre viva. Lo anticipa una piccola tela del 1970, intitolata semplicemente Albero, che dimostra, non solo nel tocco, la comprensione della pittura di fine Ottocento.
Albero, 1970
Il tema è ripreso, di lì a pochi mesi, in un dipinto, di maggior formato, dal medesimo titolo (Albero blu 1973) : un albero ora più imponente e articolato, anch’esso senza foglie, e con radici emergenti si staglia nel lato sinistro della tela mentre dall’altro si vede una roccia azzurra con una cavità, forse riferimento alla caverna di un san Girolamo quattrocentesco; i blu anche qui, come in tutte le successive versioni di questo soggetto, hanno per contrappunto nella distesa di terreno squillanti colori caldi e solari, mediterranei, fino alle azzurrognole montagne che la delimitano. In questo dipinto ad una attenta lettura si intuisce la caparbia ricerca di un accordo cromatico o un tono che, ne sono testimone, impegnava l’artista per lungo tempo. Una tonalità azzurra tendente al viola il giorno dopo, o a distanza di tempo, era modificata; a volte, addirittura, i ripensamenti erano stati talmente numerosi da costringerlo a ripianare per mezzo di spatole e bisturi la superficie del dipinto. Fino a che non era soddisfatto non desisteva, anche a distanza di anni, dal ritornare su un’opera: atteggiamento questo di antica moralità intellettuale in un periodo di superficialità e sciattezza. Per il lungo lavorio questa opera diviene sommamente cara a Salvati, come lo è alla madre il figlio che ansia e sofferenza maggiore le procurò nel parto, tanto da identificarsi in essa e a riformularne l’immagine in altre versioni e tecniche artistiche. L’albero e il blu vengono, così, a caratterizzare lo stile dell’artista, ne sono l’icona; essi sono la “costituzione d’oggetto”, come le boccette di Giorgio Morandi sempre riformulate, e come il celeberrimo bolognese sempre in novellate immagini.
Albero blu, 1973
Il colore blu scrive Andrea De Liberis: << è il colore della calma, della tranquillità e dell’equilibrio ovvero proprio il carattere del Maestro>>. Di questi sofferti e duri anni di vita, ma artisticamente fecondi, è Pietra blu (1973 – 74) : una massiccia pietra è collocata nel centro del quadro sotto un cielo leggermente infiammato verso l’alto. Il soggetto è una pietra – montagna che si stacca, venendo in avanti, da una catena montuosa azzurra; si tratta di una pietra, caduta forse dal cielo, non completamente greggia che si presenta con un piano inclinato, fra due strapiombi, alludente a una possibilità di ascesa o riuscita. Di nuovo la parte inferiore del dipinto contrasta con la superiore e con la pietra blu per i gialli, i rossi e gli arancioni risplendenti del terreno pianeggiante, colori, come sempre caldi, di tanto in tanto intervallati da piccoli inserti azzurri. Vedendo i colori della spianata il pensiero va alla pittura dei Fauves, ma a meditare un poco e approfondendo l’analisi non individuandovi una linea contornante alla Gauguin, ci si rende conto che l’artista ha visto con profitto la stesura impressionista.
Pietra blu, 1973-74
Tralasciando per il momento analisi iconologiche ed esistenziali, entrambe sostenibili, risulta immediatamente evidente che si tratta di paesaggi di fantasia in cui, seppure si palesi lo studio approfondito dei valori pittorici di grandi artisti, Cézanne, Monet, Turner, Van Gogh, il periodo blu di Picasso e i Macchiaioli, l’elemento qualificante lo stile dell’artista risiede nella visione incantata che in questi dipinti aleggia. Salvati, attento osservatore della pittura francese di fine Ottocento e lettore di poesia, non ne replica sterilmente la lezione, la comprende, la interiorizza giungendo a una personale espressione artistica di cui l’assoluto protagonista è il colore. L’artista fa sua la lezione cromatica degli impressionisti, i bruni e i grigi sono banditi dalla tavolozza, ma la gamma cromatica non è al servizio del positivismo dei francesi va nella direzione espressiva indicata da Van Gogh, di cui non accetta però il tratto nervoso, preferendo il tocco morbido e soffuso. I colori dell’arcobaleno cantano, così, una visione interiore che si formalizza in immagine. Differentemente dagli impressionisti i colori esprimono sentimenti, stati d’animo soggettivi, da ciò il suo definirsi pittore espressionista. Mentre per gli impressionisti il colore è un elemento, un mezzo che, in concorrenza con la scienza, vuole cogliere, fermare sulla tela un momento di luce, il fenomeno di un repentino passaggio di nuvole occludente il sole, e quindi esterno all’artista; per Salvati il colore è espressione della luce interiore dell’artista.
Il quadro impressionista rappresenta un fenomeno luminoso, il quadro del Nostro emana luce spirituale: è esso fenomeno che si dà in “astanza”, realtà pura. Un colore spirituale come quello di Kandinskij che non veste forme astratte essendo ancora sussistente la riconoscibilità degli elementi rappresentati. Né ci si appelli per sminuire questa pittura che le composizioni sono semplici, direi banali; è una scelta necessaria per dare maggiore rilevanza al colore e alla profonda poesia delle piccole cose, del sentimento: nelle manifestazioni della natura, muta, che si trasforma si nascondono grandi verità, questo il senso di questa profonda arte. Senso dell’esistere, trovato dall’artista nelle piccole cose e nel rito della pittura, lentezza e sapienza artigianale sono al fondo di questa arte in controtendenza e ultima testimonianza di umanità in una società che non la considera. Artista colto Salvati, il cui stile, oltre alla comprensione della pittura dei maestri dell’Ottocento, soprattutto francesi, è il risultato di una fusione in crogiolo di tante assimilazioni culturali: ascolto di musica classica sinfonica e lirica, buone letture di poesia e conoscenza delle sacre scritture.
Non è da dimenticare il suo amore per la Natura che concepisce, non so se avesse letto Goethe, come una totalità dinamica, vivente e divina; nella sua prassi artistica, a mio avviso, si rispecchia l’azione organica della natura: il suo dipingere è un fare che in continuazione inventa il modo di fare.
Sogno di primavera d’alta montagna, 1974
Salvati, che spesso citava Benedetto Croce, è fautore di un’arte pura e umana imperniata sulla natura, ma non completamente mimetica e realistica, e sul sentimento, elemento questo centrale nella sua pittura che insieme all’intuizione permette l’espressione lirica di uno stato d’animo. Splendido esempio di questo modo di concepire la pittura è il quadro del 1974 Sogno di primavera d’alta montagna, il paesaggio si presenta semplicemente con una spianata, alcuni cespugli e montagne che si con-fondono con il cielo; gli elementi figurativi rappresentati sono evanescenti a segnalare lo stato del sogno e la visione che in esso nasce. Talmente soffusi, ovattati, sono i passaggi da un elemento all’altro del paesaggio che a malapena li si possono individuare tanto da lasciar pensare che lo sviluppo più prossimo da questa opera si potrebbe dirigere verso l’astrazione totale.
Sogno d’estate, 1975
Dell’anno successivo è il simile Sogno d’estate: una nostalgica visione di un giardino d’infanzia perduta, un rifugio dalle asprezze della vita, dai rimproveri che la società disumana rivolge a chi non si allinea. Come intendere altrimenti le parole dell’artista:<< i colori non mi rimproverano mai>> se non come consolazione e salvezza in essi! Tornando all’analisi del dipinto, l’immagine interiore è espressa con colori tenui. L’estate è suggerita tramite il cenno di un barlume di luce che dal centro della tela si irradia e si riflette su alcune pozze azzurrognole; così con estrema semplicità nel dipinto l’artista presenta l’atmosfera estiva colta nella sua essenza come sa fare solo la pura poesia. Con questi dipinti Salvati è pervenuto a uno stile inconfondibile rimanendo fedele a valori tradizionali e senza farsi ammaliare dalle sirene dell’originalità a tutti i costi; le immagini, che ci dona, pur portando le stimmate del soggetto si oggettivano e testimoniano un’arte mossa da una grande speranzosa fiducia cattolica e da un profondo sentimento che allontana ogni intellettualismo. L’immagine è il portato di una trama sentimentale, legata a ricordi, a condizioni emotive, momentanei stati d’animo sempre relazionati al mondo naturale a cui l’artista si sente intimamente legato. L’artista è in sintonia con la natura e agendo come essa formalizza paesaggi intuiti attraverso il suo terzo occhio sicché si tratta di un’arte visionaria che in parte debitrice della lezione impressionista ne rifiuta però la percezione ottica.
Cesare Sarzini
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Oggi Leopardi compie gli anni. Insieme agli auguri, sveliamo l’autore che il divo Giacomo ha “plagiato” per scrivere “L’infinito”. Ovvero, modesta proposta per una storia della letteratura italiana alternativa
Senza Amore, sottotitolo L’ultimo capitolo della letteratura italiana, è l’ultimo testo scritto da Andrea Sciffo, insegnante di liceo, poeta, novellista e saggista, edito dalla rivista digitale sui generis Il Covile, cui l’autore monzese contribuisce regolarmente con meditazioni che hanno in due viennesi, Hofmannsthal e Illich, in due lombardi, Corti e Quadrelli, e in Simone Weil, i puntelli di un pensiero radicalmente altro – cristiano, cattolico, dunque fedele all’intuizione poundiana per cui il sentire (per esempio: il potere della musica) unisce, col cuore, nella carne, mentre il pensare (per esempio: il vuoto cerebralismo) divide, nella mente, nelle idee, o meglio nelle ideologie, quindi negli ideologismi, nonché all’et-et asburgico, tardobarocco e antimoderno – insomma controcorrente rispetto alla letteratura e alla critica gnostica, e a-gnostica, del XX e XXI secolo.
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Lui è Andrea Sciffo
Senza Amore, sottotitolo L’ultimo capitolo della letteratura italiana, perché tale è secondo la sua tesi la storia delle patrie lettere, da intendersi come letteratura post-unitaria (l’equazione di base è proprio questa e vale a dire che tutto ciò che è post-unitario si colloca in un ambiente decisamente post-amoroso) ossia della falsa patria di nome “Italia” e non delle sue singole parti – le quali soffrono tuttavia di una falsa “identità” che si fonda appunto sulla totale mancanza d’amore, da cui deriva, e che deriva, da una storia anch’essa “senza amore” che abbraccia – o meglio strangola –, soffocandola in una stretta mortale tutta la letteratura italiana – o meglio italofona –, a partire dal cronologismo (“la crudeltà di Chronos”, ovvero “il male radicale”, scriveva il leibniziano Gilles Deleuze a proposito del naturalismo di Émile Zola) che limita le scuole e la scuola.
Si tratta ovviamente dello storicismo e dello scuolismo dei Tiraboschi prima e poi dei De Sanctis, dei Croce, e infine dei Ferroni, dei Sapegno, contro i quali Sciffo scrive in quello che si direbbe un piccolo pamphlet, non fosse che quello pamphlettario è un tono che non appartiene alle sue sue corde, cor–cordis, al suo cuore, libero dal grottesco gioco delle parti di cui è vittima un paese preso tra Commedia dantesca (cf. Inf.) e quotidiana commedia farsesca – “senza amore”.
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“Se esiste una definizione sintetica che possa abbracciare la letteratura italiana nella sua interezza, […] è proprio questa endiadi che consta delle due sole parole che non andrebbero mai accostate. Se è senza amore la storia delle patrie lettere, a maggior ragione lo sono anche le storie individuali dei singoli che popolano la cultura italica, cresciuti nel suo cono d’ombra come tanti arlecchini senza arte né parte”.
Così esordisce Sciffo puntellandosi, o meglio, come scrive egli stesso facendo eco a una massima apocrifa metà anni Cinquanta di Noventa, che denunciava come tutta la cultura ufficiale italiana fosse fondata sugli errori della scuola torinese, e così la scuola di Stato, lo stato delle cose delle stantie scuole “scuolastiche” ancora e sempre deamicisiane (Cuore) basate a loro volta sulla continua coscrizione degli studenti e cittadini (senza amore e ormai senza civitas) e sul disamore quale condizione forse irrimediabile in assenza della parola-chiave che è summa di tutti gli affetti e aspetti (eros, agàpe, filìa, storghé, dilectio) del sommo affetto – per rilanciare poi l’idea di un apprendimento più libero – non meno impegnato – con mezzi propri – magari più essenziale – anche in povertà – anarcronistico nel senso di libero dal potere del tempo – come Pinocchio.
“[…] E poi verrebbe la grande amorosa agnizione, un ritrovarsi in armonia con l’altro da sé, una catarsi purificatrice del gran difetto del soggetto moderno: l’ipocrisia. La vecchia pagliacciata sarebbe finita e soltanto i suoi estremi attori fingerebbero di non accorgersene: il trucco scivolato dalle guance e i costumi logori; le battute del copione prevedibili e comunque i guitti ne dimenticano ogni volta una o due”.
Come Pinocchio con un libro trovato quasi per caso, o con la convivialità, tema fondamentale del pensiero di Illich, oppure nella natura, o nello spazio rurale, come fece la Weil, due ambiti quasi del tutto assenti tra gli autori “italiani” del XIX e XX secolo – certo con qualche eco nella Brianza di Manzoni, nella Padanìa della Scapigliatura, nel Veneto di Comisso, di Zanzotto, ma di norma declinati in senso atrocemente negativo come sul Vesuvio di Leopardi, nella Sicilia di Pirandello, di Verga, in Cristo si è fermato a Eboli, e nella Roma di Moravia, di Pasolini, tanto per citare degli esempi d’altri universi etnici e letterari.
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Senza Amore, sottotitolo L’ultimo capitolo della letteratura italiana, e le ultime pagine sono proprio quelle di Manzoni, e soprattutto di Leopardi, alle quali non è corrisposto secondo Sciffo nessun rinascimento – essendo stato il cosiddetto risorgimento politico la fine, – quanto un trionfo – sancito dalle istituzioni, dagli scuolismi, e dalla scuola, – di una serie d’istanze tipicamente leopardiane come il senso del dolore e della noia, tra erudizione e freddezza, e della figura del “letterato” denunciato dalla Weil, proprio a proposito del poeta recanatese cui Sciffo oppone il dalmata Tommaseo, che considera ben superiore.
Dietro c’è una vera e propria censura, ovvero l’ostilità verso tutta la letteratura del Seicento, parallela a quella ancor più dichiarata dei Savoia e di tutto il risorgimento nei confronti del Barocco, del Tardo-Barocco, con la sua Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte “totale” che va dalla figurazione pittorica alla parola alla musica alle figure architettoniche che negli esiti del movimento controriformista trovò un altro ultimo capitolo (nel 1866 nel monastero cretese di Arkadi, unico esempio greco ortodosso di Barocco, dava rifugio a dei martiri resistenti agli ottomani – nel mentre da cinque anni gli “italiani” inneggiavano al fatto di essersi cinti il capo con l’elmo pagano appartenuto a Scipione l’Africano)… – e nelle lettere autori come Filicaia, Magalotti, Maggi, Menzini, Redi, Salvini… – e De Lemene, che secondo Sciffo fu plagiato proprio dal poeta de L’infinito…
“Riempie il tutto, e se fingendo io penso / oltre al confin de’ vasti spazij, e veri, / deserti imaginati…”.
Questi versi sono tratti da una raccolta di poesie sacre edita a fine Seicento, e che per Sciffo “quasi certamente Leopardi plagiò per poi rifonderli forse inconsciamente nel più celebre dei suo i Canti”. Così come nel libro Sette giornate del mondo creato (1686) “per esempio […] le due terzine con cui Giuseppe Girolamo Semenzi immortalò Il passero solitario [sic]”, con queste melodiose parole: “Sto poetando al ciel ne l’erma cella / talora e far godo la vita anch’io / selvaggia quanto più, tanto più bella, // Passero solitario è detto pio. / Gloria però del solitario è quella, / onde un bruto non è ma quasi un Dio”.
Come si può evincere dalla lettura del volume Arcadia edificante, edito da ESI a Napoli nel 1969 e curato da Carmine Di Biase, prima di Leopardi e della letteratura unitaria ovvero “senza amore” l’universo italofono era ben altro, dal “controcanto” lombardo a quello partenopeo con poeti che cantano il Creatore, le Creature, la loro creaturalità, e infatti un terzo esempio che egli cita è una strofa – “strofa che espone il legame psicobiologico del poeta tardobarocco con la ‘natura’ sentita come simbiotico altro-da-sé con cui però è inevitabile la pulsione fusionale: in un processo di integrazione tra organico e inorganico che mi pare di una limpidezza mai più ottenuta in tempi recenti, per la quale il ‘creante’ viene chiamato ‘autore’ delle cose che un individuo sente come maggiormente intime e personali”.
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L’entità chiamata “Italia” – come ha fatto con la cultura di alcune sue regioni – come ha fatto recidendo l’albero che costituivano – che tali erano sotto occupazioni non più estranee – come sotto quelle cristiane spagnole e austriache – ha annichilito, annullato, o meglio emarginato, questo suo possibile “controcanto” che dice di un mondo del tutto differente, radicato nella creaturalità, d’uomini connessi col Creato come lo sono i passeri, e gli alberi, e in cui l’autore, il poeta, non canta soltanto del suo dolore, della sua noia, ma anche e soprattutto della sua “comunione” con Dio, per tramite di ciò che è “altro-da-sé”.
In questo Sciffo è allievo della scuola-non-scuola della Weil, di Quadrelli, e dunque erede della vera tradizione, quella del Cristianesimo, della poesia di Hölderlin, del Tardo-Barocco, e della censurata “Arcadia edificante” di cui ha voluto testimoniare: non senza ma con amore.
Marco Settimini
L'articolo Oggi Leopardi compie gli anni. Insieme agli auguri, sveliamo l’autore che il divo Giacomo ha “plagiato” per scrivere “L’infinito”. Ovvero, modesta proposta per una storia della letteratura italiana alternativa proviene da Pangea.
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Matera, proseguono le eventi al Christmas Village
Matera, proseguono le eventi al Christmas Village. Fino all’8 gennaio, in Piazza Vittorio Veneto, mercatini, laboratori, musica, animazione e spettacoli nella città dei Sassi. Centrali una serie di progetti di solidarietà per sostenere le associazioni locali. Giovedì 22 dicembre è attesa la calata dei Babbi Natali. La seconda edizione del Matera Christmas Village sta continuando a deliziare i numerosi turisti che stanno colorando la città dei Sassi per le festività natalizie. Un calendario fitto per godersi Matera passeggiando attraverso le bancarelle tra tipici, dolci e artigianato, ma anche partecipando alle innumerevoli iniziative collaterali, il tutto innaffiato da un’animazione vivace e coinvolgente. Fino a domenica 8 gennaio, tutti i giorni dalle ore 10 a mezzanotte, l’atmosfera natalizia sarà amplificata da una serie di progetti di solidarietà messi in campo dall’Associazione Italia Eventi, aggiudicatrice del bando comunale per realizzare l’evento. Allestito in legno ecosostenibile, il Matera Christmas Village è concretamente a basso impatto ambientale. L’iniziativa, a ingresso gratuito, è patrocinata dal Comune di Matera e dall’UNOE Unione Nazionale Organizzatori di Eventi, in collaborazione con la Pro Loco Matera. I due contributi sociali istituiti da Italia Eventi saranno consegnati ufficialmente venerdì 23 dicembre, alle ore 18, sotto l’albero natalizio in Piazza Vittorio Veneto e vicino al presepe in cartapesta realizzato da Uccio Santochirico con la Cooperativa Oltre l’Arte. Il primo sarà destinato alla Parrocchia di San Rocco e il secondo alla Rete Donna Comunale, entrambi attraverso dei buoni spesa. Alla consegna prenderanno parte il primo cittadino di Matera Domenico Bennardi, gli assessori Tiziana D���Oppido e Michelangelo Ferrara, Don Angelo Tataranni, una referente di Rete Donna e il presidente di Italia Eventi Giuseppe Lupo. "Un evento che dura un mese non può non sostenere il territorio in cui si svolge", racconta il presidente Lupo, "ecco perché non solo abbiamo istituito due contributi solidali, curato un’area verde della città, commissionato un presepe in carta pesta realizzato da artigiani locali, ma abbiamo anche pensato di destinare uno spazio alle associazioni cittadine al fine di incentivare le loro attività". Una casetta in legno di 12 metri quadrati, difatti, messa a disposizione gratuitamente di tutte le associazioni materane, coordinata dalla Pro Loco di Matera come capofila. Un aspetto proposto e progettato sin dall’inizio all’interno del Bando Mercatini Enogastronomici del Comune di Matera. Centrale e gettonatissima la Casa di Babbo Natale, riferimento per spedire letterine e realizzare foto ricordo con Santa Claus. Non mancano appuntamenti di lettura per i più piccoli, ma anche giochi collettivi e tornei. Per i più golosi la meta è rappresentata dalla Casetta "Matera di Gusto". Qui, grazie alla collaborazione tra Pro Loco di Matera, Slow Food Matera e l’Associazione Cuochi Materani, numerosi gli show cooking dedicati alla cucina tipica delle feste a laboratori volti alla conoscenza di prodotti tipici, come l’appuntamento in programma venerdì 23 dicembre alle ore 19 a cura dell’Associazione Cuochi Materani dedicato alla preparazione di un piatto tipico locale. Il mercatino natalizio, come da tradizione, unisce artigiani e piccoli produttori provenienti da diverse zone d’Italia. È possibile non solo acquistare e degustare prodotti tipici ed eccellenze locali e non, ma anche realizzare regali originali grazie alla presenza di presepi, articoli in ceramica e idee home made. All’interno del ricco programma del Matera Christmas Village ci sono una serie di appuntamenti imperdibili che accompagneranno cittadini e turisti fino al lungo weekend della Befana. Tra i momenti più emozionanti c’è attesa per la calata di Babbi Natali a cura di Ediliziacrobatica, in programma giovedì 22 alle ore 18. Giovedì 22 dicembre Dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 21 Casa di Babbo Natale Ore 18 Calata di Babbi Natali Ore 19 Artisti di strada Lacaposciuc di Matera Venerdì 23 dicembre Dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 21 Casa di Babbo Natale Ore 17 Banda di Babbo di Natale e Majorette Ore 19 Lo chef Valerio Panaro presenta il baccalà fritto della tradizione materana Sabato 24 dicembre Dalle 10 alle 16 Casa di Babbo Natale Ore 11 Schiaccianoci & Ballerina Lunedì 26 dicembre Dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 21 Casa di Babbo Natale Ore 11 Gruppo musicale Itinerante Bassa Musica "L’Armonia Molfettese" Dalle 16 alle 20 Attività e degustazione di pettole fritte con il Gruppo Scouts AGESCI Matera1 Ore 18:30 Ragnatela Folk Band 4ET Venerdì 30 dicembre Dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 21 Casa di Babbo Natale Ore 11 Musica popolare materana con un gruppo con canti, fiati e tamburi Ore 18 Spettacolo di giocoleria di Mr. Distratto con EDC Circus Sabato 31 dicembre Dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 21 Casa di Babbo Natale Ore 11 Artisti di strada Lacaposciuc di Matera Infoline 375.5643840... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Segnalazione ... Il mistero dei sei tiramisù
Segnalazione … Il mistero dei sei tiramisù
Un libro da mettere sotto l’albero e da leggere… Buona lettura a tutti 🙂 https://mariacristinabuoso.blogspot.com/2022/10/segnalazione-il-mistero-dei-sei_0901511264.html
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Cos’è l’uomo?
Da quando si ha traccia di ciò che un tempo era l’uomo (o un suo antenato gobbo e peloso), il nostro obbiettivo è stato sempre quello di trovare cibo, riparo e un appetibile membro dell’altro sesso. In tal modo abbiamo garantito benessere e sopravvivenza a noi stessi e, inconsapevolmente, all’intera specie. Cosa c’è sopra quell’albero? E dentro quella grotta? Cos’è quella cosa rossa che scotta e perché brucia? Perché sembra tanto importante? Queste le domande che probabilmente ci ponevamo in forma istintiva, spinti dalla curiosità e dalla necessità di una prospettiva migliore. Tentare, mettersi in gioco, combattere, allora il più curioso scopriva qualcosa di nuovo, diventando il maschio alfa poiché portava un futuro più roseo all’intera specie. Ma non è forse vero che il motore delle nostre azioni è lo stesso di un tempo?
Abbiamo cercato il passato del mondo, il nostro luogo natio e l’origine dei tempi, dando anche spiegazioni mitologiche, quando per altre specie non è che esistito sempre e solo il presente; ci siamo imbarcati per lunghi viaggi alla volta di nuovi continenti, per veder cosa c’era dietro l’oceano, per sapere se andando avanti si tornava al punto di partenza. Tutt’ora guardiamo oltre i confini dello spazio, per cercare qualcuno di simile a noi, per avere una via di fuga da un mondo che prende fuoco.
L’astronomia, la fisica, la medicina, la storia, nascono tutti dalla curiosità e da dove viene questo sentimento? Dalla meraviglia; anche se già conosciamo la vita, vogliamo continuare a stupirci mentre la viviamo e, citando Aristotele, da tale stupore nasce la filosofia.
O quindi, cosa siamo? Uno spermatozoo, uno tra tutti, il più deciso ad esplorare quella grotta umida, si può dire, sotto un certo punto di vista, il più curioso. Entra, mentre ogni altro passaggio si chiude, e diventa l’essere dominante perché permette il proseguimento della specie; a lui gloria (quasi) eterna, agli altri il nulla, non che prima avessero una gran vita, fatta da quel po' di ATP (adenosina trifosfato o energia) che ne muoveva la coda mentre sguazzavano in quel liquido fonte di nutrimento.
Non abbiamo allora risposto alla domanda? Siamo esseri che hanno bisogno di un rifugio e di cibo e che cercano in fondo alla Fica (in senso letterario) quel qualcosa capace di renderci felici. Allora chi non avesse la curiosità di cercare non potrebbe trovare la felicità e se qualcuno sostenesse che l’uomo non è uno spermatozoo, ribatteremmo che un tempo, seppure per poco, ne era la metà. Insomma, siamo curiosi, c’è poco da fare, d’altronde se non lo fossimo, non saremmo neanche qui.
Usando il linguaggio della Fisica, siamo un sistema chiuso, definito come parte dell’universo, che cerca di scoprire l’universo; nessuna sorpresa allora se proviamo stupore anche quando conosciamo noi stessi.
Tutto molto interessante, ora però parliamo di cose serie, ovvero se volete avere un buon ricordo di questa lettura, fermatevi subito e non andate avanti, fate qualsiasi altra cosa per riempire il vuoto della vostra vita ma non continuate a leggere, se volete mantenere l’illusione di essere allegri. Dico illusione perché anche se avete scoperto qualcosa di nuovo, ovvero che la vostra vita gira intorno alla Scoperta, ciò vi ha reso tristi, perché avete realizzato quanto la curiosità ha dilaniato questo mondo, quanto il desiderio di scoprire l’essenza dorata in fondo alla grotta d’oro ci ha danneggiato; più cose hai e più le capisci, più ne possiedi e più soddisfi la tua curiosità ma una volta soddisfatta, la curiosità smette di essere tanto bella e allora meglio avere una curiosità in potenziale, che non si soddisfa ma rimane, la quale però si ha il potere di soddisfare; meglio avere i soldi e averne tanti, così se dovrai soddisfare quell’irrefrenabile impulso, quell’insaziabile curiosità, tu si che lo potrai fare, tu si che sarai colui che ce l’ha fatta, il maschio dominante, il re del mondo, di questo mondo che cade a pezzi perché tutti, al mondo, ci siamo venuti allo stesso modo; tutti aspiriamo a dominare e a conquistare tutti i regni e se ora conquistare vuol dire comprare, allora siamo disposti anche a quello.
L’uomo mangia tutto.
Il verme mangia l’uomo, l’albero mangia il verme, il passero mangia il frutto, il gatto mangia il passero, l’uomo mangia solo ciò di cui ha bisogno e nel caso anche il gatto, la trota scorre nel fiume, il figlio del passero è libero nel cielo, non è forse l’armonia la nostra vera realizzazione?
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Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein)
Quanto a lei stessa, in diverse occasioni dichiara che col Battesimo si era sentita nuova, “rinata”. Ricevendo i certificati di nascita e di Battesimo necessari per l’ingresso in monastero scriverà: «È bello poter dimostrare in modo ufficiale che si è nati e rinati!»[18]. Con la conversione e il Battesimo, ella ha «trovato il luogo in cui c’è riposo e pace per tutti i cuori inquieti»[19], si sente come se le fosse stata tolta una benda dagli occhi[20]; i suoi lavori e i suoi scritti, che erano stati prima il centro focale della sua vita, per lei sono ormai «come può essere per un serpente la pelle vecchia che si è sfilata di dosso»[21]. Il passo sulla lettura della Vita di S. Teresa, sopra citato, continua così: «Quando, nel Capodanno del 1922, ricevetti il Santo Battesimo, ritenevo che esso fosse semplicemente la preparazione al mio ingresso nell’Ordine»[22]; non fu così, e dovette attendere più di 12 anni (anni operosi, al servizio della Chiesa) prima che si compisse il suo desiderio, o, piuttosto, prima che potesse trovar realizzazione la chiamata di Dio. Scrive però in Scientia Crucis – e si pensi al suo nome religioso: «Sotto l’albero della Croce all’anima umana viene ridonata la vita. Il fidanzamento sotto la Croce […] è stato compiuto nel Battesimo una volta per tutte».
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Aiutiamo i nostri figli ad amare la lettura tradizionale, quella in cui si girano le pagine di carta. Ecco per voi le migliori idee di libri per bambini da mettere sotto l’Albero di Natale
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Tutto pronto in #feltrinelli ad #assago. Mettete sotto l’albero un libro autografato dall’autore 😊 ‘ ‘ ‘ ‘ ‘ #libridaleggere #libri #librichepassione #librisulibri #libribelli #bookstagram #leggeresempre #romanzo #romanzi #letturatime #librodelgiorno #leggere #libri #librichepassione #librisulibri #libribelli #bookstagram #leggeresempre #romanzo #scriverechepassione #letturatime #leggere #lettura #consiglidilettura #letturaincorso #libriovunque #elvioravasio https://www.instagram.com/p/CGcAln6g8KL/?igshid=1oi78f0i98c0o
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Duecentoquarantottesimo giorno. Settant’anni. Quale miglior regalo per il compleanno. Ma questo in verità è il regalo più bello che un nonno possa fare ai nipoti. Loro adesso sono piccoli e ci vorrà tanto tempo perché diano il gusto valore alle cose. Un giorno si ritroveranno questa foto tra le mani, la guarderanno insieme e sorrideranno nel vedere quanto fossero buffi da bambini e quanto i loro corpi e i loro volti saranno cambiati nel tempo. Ricorderanno quel prato, sotto l’albero dei limoni, dove la casetta in cui erano appoggiati serviva da ripostiglio per la bici e gli attrezzi da lavoro. Non potranno dimenticare che un tronco di quell’albero li aveva quasi tenuti in braccio, sostenendo il loro peso con una piccola altalena. Ma poi come capita, gireranno la foto, cosa che non si può fare con le immagini digitali, probabilmente in cerca di un riferimento, una data, in ricordo del perché di quella foto. E li saranno travolti da un’altro valanga di ricordi. Il loro cervello lavorerà al contrario, rievocando attraverso la lettura immagini in ricordo di quel giorno. E ricorderanno che era da poco finito il lockdown. Che la fase due permetteva nuovamente contatti tra partenti che per mesi erano stati vietati. Che nonostante fosse Maggio non si andava a scuola perché furono chiuse con l’inizio della pandemia. Ricorderanno che quel giorno abbiamo mangiato tanti cibi rotondi, tanti pomodori, olive, polpette e profitterol bianco. Ma sopratutto che quel giorno era importante perché era il primo della famiglia ad aver compiuto settant’anni. Che quella foto riuniva il più grande ed i più piccoli della famiglia e che sessantasette anni di vita che li separavano sarebbero diventati racconti per tutte le notti d’estate avvenire. Notti passate a riguardare e a raccontare anche di quella fotografia scattata un lontano venticinque Maggio del duemilaventi. Cin cin (presso Quartu Sant'Elena) https://www.instagram.com/p/CApzBMAo48_/?igshid=q9xa2vya8w66
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Francavilla e il culto della Madonna della Fontana
di Mirko Belfiore
L’origine della città di Francavilla Fontana, si perde nelle pagine della storia fra mito e realtà. Alla mancanza di fonti documentarie coeve, leggenda e tradizione concorrono a colmare le croniche lacune storiografiche che ancora oggi permangono. Ciò che sopravvive senza affievolirsi, è la devozione di una popolazione che, il 14 settembre, continua a riunirsi festante sotto la statua lignea della sua Santa protettrice, la Madonna della Fontana.
Maria SS. della Fontana (Statua Lignea, XVIII secolo, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)
La leggenda del cosiddetto “Rinvenimento dell’icona”, rimanda al ritrovamento fortuito, durante una battuta di caccia, di un’icona, forse bizantina del XIV secolo o molto probabilmente un affresco del XVI secolo, che riproduce una Vergine Hodighitria, ancora oggi conservata gelosamente in una cappella della Collegiata del Santissimo Rosario.
Basilica of SS. Rosario. Francavilla Fontana
Ecco la descrizione che dell’avvenimento, secondo le parole dell’autore locale Pietro Palumbo: “Allettato dalla natura selvaggia del paesaggio, nella mattina del 14 settembre del 1310 (anche se lo stesso in una delle prime edizione menziona il 14 agosto), il principe Filippo, da Casivetere si spinse a caccia nel largo bosco che si spandeva a nord della Villa del Salvatore fin verso Grottaglie e Ceglie. Lo accompagnavano patrizi tarentini e molti signorotti dei casali vicini. Sellati i cavalli e tolto il guinzaglio ai cani l’ingordigia della preda fè diramare per ogni verso la compagnia dei cacciatori. Mastro Elia Marrese, secondo la tradizione pedone di Casavetere e secondo alcuni storici, di Taranto snidò un cervo e rallegrato dalla buona fortuna armò la balestra e seguitate le peste, lo raggiunse nel seno di una folta boscaglia. Subito scoccò il dardo. Ma in punto fu preso da un sacro terrore alla vista di un fenomeno che alla sua mente grossolana parve strano. La freccia, che aveva balestrata contro il cervo, era tornata in un lampo contro di lui con grave pericolo di vita. Che poteva essere? Immantinente si avvicinò al cespuglio, e più ancora stupito, vide che il cervo non era fuggito ma tranquillamente beveva nell’acqua di un laghetto. Meravigliato suonò il corno a richiamo degli altri cacciatori i quali in un attimo corsero sul luogo. Il Principe stesso sceso da cavallo diè ordine si tagliassero i rami della boscaglia e si facesse un po’ di largo. Allora si scopersero tra gli sterpi e i roveti le fondamenta screpolate di un’antica muraglia e su di questa dipinta a mezzo busto una Madonna col bambino tra le braccia, di proporzioni naturali e che si credè di pennello greco, e nascosta là indubbiamente ai tempi delle persecuzioni contro le immagini. A tal vista proruppero tutti in gradi di allegrezza e il principe Filippo nella piena superstiziosa gridò di essere ciò avvenuto per espresso volere di Dio il quale sarebbe servito di un cervo per condurli colà dove posava negletta l’immagine veneranda.”
Il Ritrovamento dell’icona bizantina (Domenico Carella, 1778, olio su tela, Francavilla Fontana, chiesa Matrice).
Secondo la cronaca ufficiale quindi, il principe di Taranto Filippo I d’Angiò (1278-1332), immediatamente dopo l’eccezionale ritrovamento, diede l’ordine di edificare un tempio a memoria dell’accaduto. Egli fece incorporare nell’edificio, il muro con l’effigie della Vergine, per evitare che questa costruzione, posta a poca distanza dal casale del Salvatore, all’epoca popolato, rimanesse fuori dal centro abitato. Promettendo terreni ed esenzioni da franchigie, per alcuni anni, il Principe tentò di incoraggiare gli abitanti dei casali vicini a popolare la zona. Decretò, inoltre, che il casale mutasse il proprio nome in “Franca Villa”, e a esso fu dato per simbolo l’albero d’ulivo posto fra le lettere F e V.
Stemma cittadino di Francavilla Fontana
Non si contano gli studi e i saggi sull’argomento: gli autori francavillesi P. Palumbo e Padre P. Coco, l’abate romano G.B. Pacichelli, l’Albanese nella sua storia del casale di Oria, il Marciano, il Tasselli che narra per l’appunto “dell’Invenzione del Ritrovamento dell’Icona” , P. Bernardino Da Lama, il Carducci, e soprattutto Domenico de Santo che insieme a P. Salinaro (entrambi frati cappuccini) fra il 1632 e il 1687, in pieno clima di riforma cattolica, confermarono e riscrissero la leggenda mariana.
Detto ciò, prima di analizzare le parole del testo, è giusto capire quanto abbia inciso nel territorio, il culto della Vergine della Fontana.
Secondo P. Primaldo Coco, fra i secoli XII e XIV, il culto della Madonna, sotto il titolo della Fontana, era ben presente in Meridione; esempi se ne trovano nella cattedrale di Brindisi dove vi era l’altare dedicato alla Madonna della Fonte e in un’importante iscrizione lapidea di epoca romana proveniente da un tempietto suburbano del brindisino dedicato al culto della Vergine, che dopo varie vicissitudini venne murato nella chiesa dei Cappuccini a Brindisi.
Non mancano importanti esempi a Roma o a Napoli, dove vicino al Castel Nuovo, residenza angioina, si trovava ubicata intorno al XIV secolo, una chiesetta dedicata a Santa Maria della Fontana. È presumibile, ma non pienamente documentabile, che il principe d’Angiò abbia denominato l’immagine sacra francavillese e il complesso religioso, con l’appellativo della Fontana, in continuità con la sua grande devozione per la Vergine Maria.
Madonna della Fontana (Icona bizantina, XIV secolo, affresco, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)
Voce fuori dal coro è quella di Cesare Teofilato, insigne scrittore locale e sindaco della città durante i primi anni del XX secolo. Dalle sue opere si può desumere la sua più completa avversione, sia alla tesi sul culto della Madonna della Fontana, che definisce una denominazione forestiera, sia alla leggenda del rinvenimento dell’icona, mito popolare che secondo lui, prese piede a Francavilla solo dal XVI secolo.
Egli sottolinea quanto il culto mariano della Fontana sia addirittura estraneo alla tradizione meridionale e rimandi invece a culti tipici dell’Italia settentrionale (lombarda o milanese) e introdotto nell’area dalle dominazioni straniere, come ad esempio quella dei Borromeo o degli Spinola. Il vero appellativo, quindi, rimane una scelta autoctona, da rimettere a una spontanea dedica popolare del tempio cristiano, al culto della Vergine Maria.
La chiesa, inoltre, venne eretta con rito greco, ormai vera rarità, vista la diffusione del rito latino per opera dei monaci benedettini fra il XI e il XV secolo, a discapito del rito ortodosso, già presente in area salentina.
Il Teofilato aggiunge che la chiesa del borgo si ergeva sui ruderi di un tempio di rito pagano, dedicato alla dea Flora, le cui rovine avrebbero dovuto estendersi fra le attuali chiese del Salvatore e la chiesa Matrice stessa. Ed è proprio in questo luogo che bisogna ubicare il leggendario laghetto e la cripta basiliana, dove venne ritrovata l’icona, riproducente l’effigie di S. Maria di Costantinopoli. Il culto della Vergine Hodighitria poi, doveva essere ben radicato, se nella piazzetta accanto al Duomo, si dette la denominazione di Largo Costantinopoli.
Da rilevare, infine, l’invocazione mariana che tutt’ora permane in un cartiglio tufaceo sulla facciata settecentesca della ricostruita Collegiata, “SITIENTES VENITE AD AQUAS”, presumibilmente in riferimento alle primitive consuetudini battesimali basiliane.
La decorazione che conclude il frontespizio e l’invocazione mariana “SITIENTES VENITE AD AQUAS”
Poco chiaro quindi come o in che tempi l’attributo “della Fontana” abbia preso piede a svantaggio del culto originale della Madonna di Francavilla, attestato comunque con certezza nel 1361, nel 1458 e nel XVI secolo, con il titolo di Madonna dei Miracoli e festeggiata il 24 gennaio.
Analizzando le parole tramandateci dal Palumbo e leggendo fra le righe del racconto si può scorgere una serie di simbologie attinenti sia alla storia sacra quanto a quella pagana.
L’immagine del cervo, per esempio, può essere accostata alle anime che vanno ad abbeverarsi alle acque della grazia che scaturiscono dalla Vergine SS.ma, chiamata spesso “Fons Aquarum viventium”.
Per la topografia francavillese, questo accostamento Acqua/Madre ben si confà con le condizioni “altimetriche, planimetriche e del suolo” dei terreni, dei boschi, dei laghi e delle risorgive, che in maniera copiosa caratterizzavano la pianura e che si fondono perfettamente con gli antichi riti di purificazione di origine pagana e paleocristiana.
Una lettura più profana potrebbe ricondurre l’avvenimento alla simbologia Cervo/Diana. La dea della caccia, portatrice di vita e protettrice delle fiere potrebbe essere una simbologia accettabile, vista la presenza nei dintorni di boschi e selve di ogni tipo, che verosimilmente potevano dare rifugio ad animali di ogni specie.
Insomma, le chiavi di lettura sono molteplici, ma un dato di fatto che possa mettere un punto certo sulla discussione può venire dallo studio e l’analisi di alcuni “rinvenimenti iconologici” analoghi a quello francavillese, come per esempio il ritrovamento della Madonna del Sagittario nella città di Francavilla a Sinni in Basilicata. Il racconto, riferibile all’autore Giorgio Lauro, e incentrato sulla vita del beato Giovanni da Caromo, sembra una riedizione in calce del “rinvenimento francavillese”: “veduta una bellissima Cerva, la quale come a diporto se ne andava: […] cavato dal turcasso, che giusta il costume di quei tempi alla spalla gli suonava, cavato dico un finissimo quadrello su l’arcol’adattò, e fino all’orecchio la corda tirando così dirittura la spinse fuora, che alla Cerva giunse, ma da Divina virtù, addietro rimandata per la via medesima il valente arcadore, senza ferirlo, colpì. […] senza punto badarvi caricò di nuovo l’arco, e tirollo e ‘l colpo questa seconda fiata ebbe il successo medesimo”.
Simili episodi poi, si notano anche in altre tradizioni: come quella della Madonna della Scala di Massafra, della Vergine di Cerrate o Cervate, di San Umberto, di San Eustachio o di San Manuflo, ritrovamenti che mostrano molte affinità con la leggenda francavillese. In conclusione, la possibilità dello sviluppo di un mito diciamo in serie, con simbologie polivalenti, e l’aggiunta di una serie concessioni come franchigie e agevolazioni potrebbe avere come fine ultimo il ripopolamento di zone abbandonate. Tramite questo espediente, i D’Angiò, avrebbero favorito la ricostruzione e l’incremento di nuovi nuclei abitativi.
Protagonisti di questo fenomeno furono soprattutto quei borghi situati in aree caratterizzate da favorevoli condizioni geografiche e climatiche; come sostiene Donato Palazzo: “privilegi e franchigie perciò vanno considerati […] come strumenti politici per legare alla terra i contadini, sollecitandone la concentrazione in comunità meno disperse e meno dispersive”.
In conclusione, un’analisi comparata fra l’origine di Francavilla e gli altri centri sorti nello stesso periodo, sotto la spinta di eventi simili simbolici e portentosi, porta a non escludere quest’ultima tesi.
Per quanto riguarda la data di fondazione il parere non è unanime. Non v’è certezza sulla data tradizionale del 14 settembre 1310, e le varie ipotesi proposte dai diversi storici e autori, fanno oscillare la fondazione dal 1308 al 1324, in alcuni casi collocandola nel secolo precedente.
L’indicazione relativa al giorno 14 settembre, pare sia stata introdotta posteriormente al XIV secolo, e più precisamente intorno al 1565. In quell’anno, non si celebrava ancora una festa patronale e l’Arcivescovo di Brindisi e Oria, Giovanni Carlo Bovio, compì la sua visita pastorale nella chiesa Matrice proprio in quel giorno, senza che vi fosse pronunziata nessuna liturgia solenne.
Un nodo cruciale e pieno di interrogativi, è rappresentato dalla Bolla o Breve sulle “Indulgenze concesse il 29 agosto 1330 da frate Marco De Castro Fiorentino dell’ordine di S. Giacomo De Altopasso, sostituto dell’Arcivescovo di Otranto e Commissario del Papa Giovanni XXII, al popolo di Francavilla, quando venne a predicare la crociata in favore di Gualtiero IV Brienne”, concesse in perpetuum ai fedeli francavillesi che il 14 settembre avessero visitato la sacra immagine della Madonna della Fontana di Francavilla.
Litografia del XVIII secolo raffigurante la leggenda del ritrovamento dell’icona bizantina.
La storia ci tramanda che la pergamena venne rintracciata e restaurata, intonro al 1785, dal Vescovo di Oria Monsignor Alessandro Maria Calefati, sospetto falsificatore.
Dal punto di vista storiografico, la pergamena è contestualizzabile nelle vicende dell’epoca, visto che fu bandita realmente una crociata, nel XIV secolo, per riconquistare i territori greci conquistati dai Catalani. Allo stesso modo, le figure di Gualtiero di Brienne, Duca di Atene e Conte di Lecce, e Giovanni XXII, Papa dal 1316 al 1334, sono documentabili con certezza.
Teofilato, accusa di falsificazione il Vescovo di Oria, il quale operò con la compiacenza del notaio Giuseppe Maria Imperio, autenticatore della pergamena.
Per onor di cronaca, a difesa di Monsignor Calefati si pose P. Primaldo Coco, che rigettò le accuse e innalzò il prelato a grande conoscitore e studioso delle vicende storiche francavillesi, il quale avrebbe avuto come unico scopo il rinverdimento della devozione alla Beata SS. Vergine Maria senza dietrologie, che essa fosse caratterizzata da un titolo o da un altro. Concentrandoci, invece, sulle fonti storiche accessibili e documentabili la “data di nascita” di Francavilla viene inevitabilmente retrodatata. Come afferma il Teofilato, a complicare la vicenda provvedono i rapporti di sangue fra la Corte angioina napoletana, i Principi di Taranto e i Conti di Lecce, tutti imparentati tra loro.
Il protagonista della leggenda francavillese Filippo I d’Angiò (1278-1332), divenuto principe di Taranto nel 1294, dopo la prigionia aragonese in Sicilia terminata il 19 marzo 1302, sposò nel 1313 Caterina, figlia di Balduino, contessa di Fiandra e imperatrice di Costantinopoli. Secondo il Coco, Filippo I fu in Puglia, dal settembre 1309 fino al 1311, incappando in un tentativo di congiura sistematicamente stroncato. Questo avvenimento, in parte secondario, viene utilizzato dal padre cappuccino per affermare con certezza perlomeno la presenza in loco del nobile angioino, visto che la sentenza di morte del capo della congiura, tale Siginulfo, “fu notificata al principe di Acaia e Taranto in qualità di Capitano generale a Guerra del regno”.
Naturalmente il documento non pone fine alla querelle sul “rinvenimento” ma aggiunge un altro pezzo al puzzle dei tradizionalisti. Dopo l’avvenimento, quindi, si creò una “zona franca” dove andarono a riunirsi gli abitanti di ogni casale vicino, richiamati da concessioni e privilegi raccolti in una pergamena che, secondo alcuni (Palumbo, De Simone e P. Salinaro), si presentava vergata con lettere d’oro e che rimase conservata fino al 1623 a Francavilla, per poi scomparire.
Di queste franchigie si conservò memoria a lungo e i successori del principe angioino non mancarono di confermarli; in primis re Ferdinando d’Aragona (1424-1494). Simili concessioni, verso la fine del medioevo, furono fatte un po’ ovunque all’interno del Regno di Napoli.
I feudatari dichiaravano luoghi di rifugio i posti dove si raccoglievano gli abitanti che fuggivano da oppressioni baronali e lotte civili, concedendo franchigie. Queste località divennero borghi franchi e più tardi città libere. Di parere opposto, tuttavia, è ancora Cesare Teofilato, il quale afferma “che le franchigie, come è noto, non ci furono mai, perché i feudatari riscossero sempre le decime su tutto l’agro francavillese e dei dintorni; né il vantato Editto principesco fu reso ostensibile, da chi avanzava i desiderati diritti di franchigie. Anche questo Editto è un enigma fumoso, di cui gli stessi cronisti della tardissima tradizione non sanno dar conto preciso. Tra essi c’è contradizione, incertezza, sbandamento: quell’impreciso, che annunzia il vuoto”.
Ciò di cui ormai siamo certi è che, il sito di Francavilla quindi, andò a svilupparsi durante il XIV secolo, in una pianura rigogliosa, ricca di colture cerealicole, all’interno della cerchia di alcuni importanti casali che via via andarono a spopolarsi per ingrossare il nuovo insediamento. Esso, in pochi secoli, divenne il punto nevralgico di tutta la regione convergendo tutte le arterie di collegamento con le città e gli insediamenti più importanti dell’area. Raccolse buona parte delle famiglie feudatarie della zona, desiderose di pace e sicurezza, e la gente povera dei dintorni la cui vita si era sviluppata vicino alle Specchie fortilizie messapiche e le numerose necropoli romano-cristiane.
A tutto ciò aveva già posto la sua attenzione l’abate Giovan Battista Pacichelli, il quale già a suo tempo, sottolineò la centralità di Francavilla nel XVIII secolo: ”Dal Mezzo dove hoggi è posta la Collegiata insigne di Francavilla, fino al promontorio di Japigia, dove sta situata la chiesa di Santa Maria di Finibus Terrae, vi sono sessanta nove miglia, et altro tanto dal mezzo di detta Colleggiata sino alla riva del Fiume Bradano, che divide la Provincia d’Otranto dalla Basilicata, nove miglia distante da Matera. Per traverso poi dal Mare Jonio, o Adriatico sino al Mare Tarentino, dal mezzo di detta chiesa sino a Taranto sono venti miglia, e venti altre sino a Brindisi, di modo, che il luogo dove fu trovata la Santa Immagine rimane per centro di tutta la Provincia d’Otranto, quasi ella sia il Soccorso, e Protettione di tutta la Provincia”.
Insomma, la questione rimane aperta.
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Segnalazione: Ancora un altro sbaglio di Chiara Della Monica
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Ciao, che ne dite di questo libro da mettere sotto l’albero? Buona lettura 🙂 Scheda libro Titolo: Ancora un altro sbaglio Autore: Chiara Della Monica Pubblicazione: Self Publishing Genere: Contemporary Romance Serie: Autoconclusivo Pagine: 300 circa Data Uscita: 10 dicembre 2021 (presunta) Trama…
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Winter Wonderland TBR: cosa leggere durante le vacanze di Natale
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Le vacanze di Natale sono sempre state tra i miei periodi di lettura preferiti e, tra la TBR del 2019 da chiudere e quella del 2020 da iniziare, ho già grandi piani in mente anche perché, devo dirlo, nulla è più bello che leggere sotto l’albero di Natale.
Tuttavia questa non è una lista per me, questi sono libri che ho deciso di consigliarvi per le vostre letture sotto l’albero anche se,…
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