#Cesare Teofilato
Explore tagged Tumblr posts
fondazioneterradotranto · 5 years ago
Photo
Tumblr media
Nuovo post su https://is.gd/CIWTAN
Ritrovamenti messapici e greci a Sava
SAVA, 1889: I RITROVAMENTI MESSAPICI E GRECI, LA VISITA
DEL PROF. VIOLA E L’INDAGINE ARCHEOLOGICA OMESSA
  di Gianfranco Mele
In un articolo apparso su “La Voce di Maruggio” ho parlato esaustivamente del manoscritto di Achille D’Elia “Sava e il suo feudo”, della storia antica di Sava raccontata dal D’Elia (ma anche dall’ Arditi e dal Coco), e della figura del D’Elia stesso fornendo una biografia dell’autore che mostrava la serietà e il peso culturale del personaggio.[1]
Con questo scritto intendo dimostrare come alcune annotazioni dello studioso circa l’archeologia e la storia savese siano assolutamente da rivalutare, sulla base di una serie di interconnessioni con le vicende che coinvolgono la ricerca storico-archeologica nel territorio in quegli anni ed i protagonisti di quella ricerca.
Dobbiamo prendere in considerazione due diversi aspetti dell’analisi fornita dal D’Elia in merito alla Sava antica: le certezze documentarie, e le congetture, senza accavallare e confondere tra loro questi suoi due distinti e distinguibili contributi.
Ora, il D’Elia fornisce, per ciò che concerne le certezze, una serie di dati fondamentali: 1) l’esistenza, in Sava, di quelli che egli chiama “Castelli Castrum Munitum Messapici”; 2) i rinvenimenti di “ monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive”; 3) l’esistenza, ancora all’epoca in cui scrive, delle “fondamenta d’epoca evidentemente ciclopica”; 4) il rinvenimento di una serie di reperti visionati anche nell’agosto del 1889 dal “chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto”; 5) l’esistenza di un sepolcreto messapico a 500 metri dal rione Castelli.
Vedremo più avanti, nei dettagli, per quale motivo le notizie suddette sono da considerarsi certezze. Per quanto riguarda le congetture, invece, il D’Elia finisce con l’identificare il territorio di Sava con la mitica “Sallentia urbs messapiorum”, e qui entriamo sicuramente nel campo dell’ indimostrabile, sebbene lo storico savese Gaetano Pichierri riprenda con slancio e passione nelle sue ricerche, arricchendole di ulteriori speculazioni, queste ipotesi affascinanti ma un po’ visionarie del D’Elia.[2]
A causa di queste conclusioni (che peraltro lo stesso D’Elia presenta come dato ipotetico, quasi fantasioso, e non come convinzione), sia il Coco che storici successivi non prendono troppo sul serio l’opera del D’Elia. Ma c’è di più: ciò che viene considerato veramente inspiegabile e perciò contribuisce a non dar troppo credito a tutto l’impianto del manoscritto è la notizia che il D’Elia fornisce circa le parole attribuite al professor Viola durante la sua visita a Sava: ciò che il Viola vede, lo dichiara, stando a quanto riportato dal D’Elia, “di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene“. Come mai, ci si è chiesto spesso, se Viola resta così stupefatto dei reperti rinvenuti in Sava, non ne raccoglie e diffonde documentazione, non li prende con sé esponendoli al Regio Museo, non pubblica un report, non cita e non pubblicizza la scoperta?
La risposta sta proprio nella figura del professore e nella sua biografia, costellate di imbarazzanti contenuti ed episodi. Nel corso di questa esposizione ci soffermeremo a lungo sulla storia del personaggio e su alcuni momenti-chiave del suo operato.
Andiamo ora per ordine, riportando 1) quanto esposto nel manoscritto del D’Elia, 2) i dati e le evidenze a supporto dei contenuti del manoscritto, 3) la questione della visita del Prof. Viola a Sava e della omissione della rendicontazione di quanto osservato.
Contrada Agliano, Sava: un ritrovamento dagli scavi condotti nel 2008 dalla Cooperativa Museion
  La copertina del libro di Evans nel quale son citati i ritrovamenti numismatici avvenuti a Sava
  Il manoscritto del D’Elia
La più esaustiva fonte descrittiva dell’ agglomerato antecendente l’attuale Sava e denominato Castieddi, sullle rovine del quale quale viene fondata Sava, consiste in un manoscritto del 1889 di Achille D’ Elia andato perduto ma del quale Primaldo Coco fornisce vari stralci nella sua opera “Cenni storici di Sava”. Il Manoscritto aveva per titolo “Sava e il suo feudo, storia paesana”.
Prima del D’Elìa sarà l’Arditi a parlare, seppur fugacemente, dei “Castelli”, e successivamente, oltre al Coco, ne parleranno il Del Prete e il Pichierri che forniranno ulteriori descrizioni.
Riporto a seguire i più importanti passaggi dell’opera del D’Elia:
“La storia di Sava non è gran che negli annali civili di questa provincia; essa è circoscritta alla più esigua cronaca militare di una rocca. Non potrebbe però convenevolmente parlarne chi trascurasse rifarsi e discutere dei Castelli Castrum Munitum Messapici, o Salentini ora distrutti e ridotti in un bel giardino ad Oriente della novella Sava […] Ch’essi Castelli fossero costruzione vetustissima – non ben accertato se messapica o salentina per mancanza d’ iscrizioni – lo attestano le monete della vecchia Orra quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero; la irregolarità delle forme nei massi tufacei delle fondamenta ancora visibili – d’epoca evidentemente ciclopica e certi cocci di una tal terraglia pesante come ferro del color della ghisa è bastante che il chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto in una breve visita fattavi nell’ultimo agosto (1889) dichiarasse di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messena.”[3]
Come si è visto, qui il D’Elia cita la visita in Sava del Prof. Viola, argomento sul quale torneremo nel seguito di questo scritto per chiarire cosa accadde dopo quella visita. Da notare che il manoscritto è redatto nello stesso anno della visita di Viola, presumibilmente pochi mesi dopo. Il D’Elia prosegue:
“Questi Castelli erano in comunicazione sotterranea con un piccolo fortino sito in contrada Specchiodda e forse anco con quello di Uggiano Montefusco, e di Manduria: ciò che prova che essi rappresentar dovessero un intero sistema di fortificazioni di confini dei due regni Messapico e Tarantino. […]Tale sarebbe la versione più modesta che potrebbe darsi alle dicerie corse sui nostri Castelli. Ci sarebbe dell’altro però. Dalla lunghezza della via sotterranea di forma poligonale, visibile anche oggi in casa Testa e nel giardino Melle, ci sarebbe da arguire che essa servisse alle comunicazioni segrete fra i vari forti.
Dai sepolcri messapici – con la facciata del cadavere sempre rivolto ad Oriente – trovati in gran numero a mezzo chilometro dai vecchi Castelli e ad un metro di profondità in quel tratto di terreno che va dal convento di S. Francesco sino alla via provinciale, ci sarebbe da inferirne che qui fosse un sepolcreto da quelli dipendente.”[4]
Sin qui, il resoconto obiettivo del D’Elia. Con poche righe successive e conclusive entra poi nel campo della congettura:
“Ora ditemi: non potrebbe per un momento venire in mente all’erudito di vecchie cronache che qui davvero – sul confine dei tre regni Messapico, Salentino e Calabro – fosse stata edificata la città di Sallenzia Urbs Messapiorum ?” [5]
  I dati a supporto delle tesi del D’Elia
Dell’antico casale Castelli fornisce per primo alcune notizie Giacomo Arditi:
“Il territorio si appoggia sul sabbione e sul calcare di varia specie; nel predio Castelli, appo l’abitato, sogliono scavando rinvenirsi delle monete di tipo greco […] Qui d’appresso esisteva una volta il casale appellato Castelli, e ne fan fede il nome che ancora dura nella contrada, le due vecchie vie che esistono e che chiamano Vetere o Portoreale, e i ruderi e le monete accennate di sopra. Distrutto Castelli nel sec. XV, o per vecchiezza, o per incidenza delle guerre e dei conflitti allor combattuti tra Spagnuoli e Francesi, i suoi abitanti eressero vicin vicino quest’altro appellato Sava […] “ [6]
Copertina dell’opera di Arditi
  Il Coco a sua volta riprende la maggior parte delle descrizioni dell’antica “Castelli” dal manoscritto del D’Elia, accettandone la ricostruzione dei fatti, ma rigettando l’ipotesi della identificazione di “Sava-Castelli” con la antica e leggendaria Sallenzia, però conclude :
“Quanto poi riferisce l’autore circa la forma dei Castelli, la via sotterranea, i sepolcreti e le monete trovate, merita fede avendo io – le stesse cose – sentite narrare da altri testimoni oculari” [7]
Del resto, sempre il Coco cita alcuni ritrovamenti avvenuti alla sua epoca:
“ Salvatore Schifone trovò in un suo podere non lungi da Sava una grande quantità di monete greche in bronzo.
Sotto l’abitazione del sig. Pietro Schifone furono rinvenuti alcuni antichi vasetti in un sepolcro scoperto a caso. Alcune tombe sono state scoperte nella contrada del paese detta “Castelli” mentre si cavavano le fondamenta di alcune case e vi si trovarono non poche monete di vaolre e oggetti preziosi. Quivi e nei dintorni della masseria di Pasano si osservano tuttora dei cunicoli e dei grandi recipienti scavati nel masso, che i proprietari adibiscono a depositi d’acqua”.
Ad Aliano poi, nel luogo ove sorgeva l’antico paese, oggi di proprietà del sig. Giovacchino Spagnolo, si osservano tuttora molti rottami di argilla, di vasi, di tegole, piccoli idoletti, amuleti, giocattoli per fanciulli, lucerne di creta di varie forme, monete, e altre cosette. Fino a poco tempo fa si osservavano anche avanzi di un antico edificio a ferro di cavallo dai grossi macigni, che divisi e suddivisi in 18 parti sono stati adibiti per nuove fabbriche.
Pare, da ciò che ne riferisce l’attuale proprietario, che dovesse essere un antico tempio pagano.
Altri avanzi di antichi edifici vi erano ai principi del secolo XVIII e furono abbattuti dal feudatario signor Giuseppe De Sinno, che, nella speranza di trovar tesori, intraprese degli scavi, che certo gli fruttarono qualche cosa.
Tutto quanto però si è trovato nei detti casali e dintorni e quanto era rimasto dell’antico è andato soggetto a vandalica distruzione per ignoranza, oper ingordigia”. [8]
Il libro di Primaldo Coco
  Riguardo alle vie sotterranee esiste poi un resoconto di Pasquale Del Prete[9] e altre testimonianze raccolte da Gaetano Pichierri, mentre rispetto a tombe, ritrovamenti e sepolcreto c’è un’ampia ricostruzione del Pichierri stesso corredata da testimonianze, e anche da foto di reperti trovati in una tomba.[10]
Della Sava messapica parla anche lo studioso francavillese Cesare Teofilato, laddove nel suo scritto su Allianum la descrive come caratterizzata da una cinta megalitica distrutta:
“Quell’ antico braccio della Via Traiana che partendo da Taranto costeggiava il Sinus Tarantinus prende tuttora, nel tratto che attraversa gli agri di Sava e Manduria, il nome tradizionale di Via Consolare. Quivi, lungo il suo percorso, toccava tre stazioni di vita messapica: Allianum, la cinta megalitica di Sava, barbaramente distrutta o seppellita, e la più celebre muraglia di Mandurium.”[11]
Sava, via S.Filomena: Skyphos a vernice nera del IV sec. a. C. rinvenuto in una tomba (foto G. Pichierri)
  Fondamentali, rispetto alla documentazione sulle monete ritrovate, una serie di testimonianze di Attilio Stazio e altri ricercatori che riassumo a seguire. Abbiamo già citato l’opera del 1879 dell’Arditi, nella quale, a proposito di Sava, riferisce di ritrovamenti di antiche monete “di tipo greco” nel rione Castelli; dieci anni dopo, come abbiamo visto, il D’Elia sempre parlando dei Castelli riferisce i ritrovamenti di “monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute, miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero”. E’ molto probabile che entrambi gli autori siano a conoscenza e si riferiscano – tra l’altro – ad una scoperta sensazionale avvenuta alcuni decenni prima dell’uscita dei loro scritti, che fece scalpore nel mondo della ricerca archeologica e numismatica dei tempi (sino ad essere citata ancora oggi nel Notiziario del Portale Numismatico dello Stato[12] ).
Difatti, in un testo editato nel 1863 Sambon riferisce con dettagliata descrizione in merito a ritrovamenti avvenuti in Sava pochi anni prima, nel 1856: monete incuse di Sibari, Crotone, Metaponto, Siris, Taranto.[13] Il ritrovamento, di grande importanza, viene citato successivamente da Evans nel suo “The Horsemen of Tarentum” edito nel 1889[14] . Riprende la citazione della scoperta Attilio Stazio, specificando:
“Quando, sul finire del sec. VI a.C., Taranto dette inizio alle sue emissioni monetali, nella tecnica “incusa” caratteristica della Magna Grecia e secondo il sistema ponderale in uso nell’area achea di Sibari, Crotone, Metaponto e Caulonia, nessun altro centro della regione Puglia coniava moneta. Tuttavia sin dall’inizio del secolo successivo in alcune zone della Puglia è documentata la presenza di monete della Magna Grecia, giuntevi evidentemente per il tramite di Taranto, la cui costante rivalità con le popolazioni indigene confinanti non impedì certamente rapporti di scambio, come non impedì – e in un certo senso, anzi, favorì – influssi culturali spesso profondi e determinanti sul piano linguistico, religioso, artistico, ecc. “[15]
A tutt’oggi le monete rinvenute a Sava sono tra le più antiche tra quelle ritrovate. Difatti lo Stazio così prosegue:
“E a questo proposito può essere significativo ricordare che i più antichi tesoretti monetali della regione sono stati rinvenuti a Sava e a Valesio, cioè lungo quella naturale via istmica di collegamento tra il mar Ionio e il mar Adriatico, che poi, in età romana, sarà la via Appia”.[16]
La pagina del testo di Sambon che fa riferimento alle monete ritrovate in Sava nel 1856
  Non mi dilungo, in questo scritto, con le citazioni dei ritrovamenti ben più documentati e frequenti nella contrada savese di Agliano, distante pochi km dal centro abitato di Sava,[17] nonché nella vicina altra contrada di Pasano[18] (ne ho parlato in altri scritti e a quelli, qui inseriti nelle note, rimando), e sul monte Magalastro situato tra feudo di Sava e Torricella.[19] Rispetto ad Agliano, è interessante notare come il Teofilato la inserisca all’interno di una triade insediativa comprendente Manduria, Sava e la stessa “Allianum”; in occasione di una sua indagine sul campo, lo studioso vi scorge inoltre una iscrizione messapica segnalata al Prof. Ribezzo e “al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco”. Il Ribezzo parlerà difatti di questa iscrizione nel Nuovo Corpus Inscriptionum Messapicorum, citando il Teofilato, ma senza aggiungere note di rilievo e interpretazioni in quanto non aveva visionato di persona l’opera.[20]
Teofilato scorge in Agliano anche i resti di un antico tempio citato anche dal Coco, e resti di costruzioni consistenti in “ enormi massi squadrati, come quelli delle mura di Manduria”.[21]
La cosa curiosa è che gli storici locali, ad eccezione del Teofilato, hanno tenuto separati gli studi e la storia di queste località dell’agro di Sava da quelli riguardanti Sava-Castelli, attribuendo a quest’ultima presenza messapica, e a quegli altri siti magno-greca. Si tratta in realtà di siti che distano pochissimi km dal centro abitato di Sava, e che sembrano parte di una storia antica comune e coerente non solo per questioni di datazioni dei ritrovamenti e per prossimità geografica, ma anche perchè, quand’anche il territorio di Sava fosse stato spaccato in due, in un dato momento storico, da una espansione della Chora tarantina sino a queste terre, prima della presunta espugnazione di parte del territorio ad opera dei tarantini, si sarebbe trattato comunque di una unica comunità messapica insediata, appunto, tra l’attuale centro storico di Sava, la sua periferia, e le vicinissime contrade di Agliano, Pasano, Magalastro, Tima,[22] ed altre. Devono aggiungersi a questi siti anche quelli di contrada Petrose[23] e contrada S. Giovanni, ancor più prossimi al centro del paese, e si deve tener presente che la distanza tra il cosiddetto sepolcreto messapico e la zona indicata come di insediamento magnogreco non supera i 2 km.
Corredo tombale in contrada Agliano, Sava (foto G. Pichierri)
  Monte Magalastro, frammento di vaso a figure nere e terracotta figurata (foto P. Tarentini)
  Luigi Viola e la ricerca non divulgata
Sebbene vi siano precedenti importanti e significativi, la ricerca archeologica sistematica e continuativa in area ionico-tarantina inizia nel 1880 con l’invio in Taranto, da parte ministeriale, del professor Luigi Viola, professore di greco ed esponente della Scuola Italiana di Archeologia.[24] Già nel 1881 Viola pubblica resoconti delle sue attività in quest’area nella prestigiosa rivista “Notizie degli scavi di Antichità” della Regia Accademia dei Lincei, e dal quel momento e per una serie di anni successivi continuerà a pubblicare dettagliate relazioni. Nel 1882 viene istituito un Ufficio speciale per le Antichità e nel 1884 il comune di Taranto stipula grazie a Viola una convenzione per l’istituzione di una collezione museale tarantina. In precedenza tutti i reperti ritrovati erano stati inviati, depositati ed esposti presso il Museo Nazionale di Napoli. Tuttavia l’invio di materiali a Napoli non cessò neanche negli anni successivi, poiché tra il 1891 e il 1898 la Direzione del Museo di Napoli annesse a sé la Direzione scientifica ed amministrativa del Museo di Taranto.[25]
Luigi Viola (1851-1921)
  Il Viola è ricordato come personaggio competentissimo ma anche assai discusso, e vedremo perchè.
Intanto è bene ricordare che a quei tempi l’acquisizione museale dei reperti era condizionata da leggi non ancora adeguate alla situazione attuale. Tutto ciò che si ritrovava nei terreni di proprietà privata, era considerato di appartenenza del proprietario del suolo, che poteva liberamente vendere qualsiasi anticaglia rinvenutavi, previo un nulla osta dello Stato, la qual clausola però era, tra l’altro, facilmente e sistematicamente elusa.[26]
Si creò il fenomeno della caccia ai reperti e del loro traffico e vendita incontrollati.
Nel 1885 Luigi Viola sposa Caterina Cacace, figlia del latifondista Carlo Cacace, il quale si ritrovava nella stessa posizione di molti altri uomini del suo status: i ricchi latifondisti dell’epoca e della zona erano tacciati di speculare sui reperti ritrovati nei numerosi suoli che possedevano. Di più, il Viola inizia a collaborare con il suocero in questo genere di attività.[27]
Difatti, Luigi Viola iniziò a subire diverse critiche all’epoca, per i suddetti motivi e perchè improvvisamente dedito più alla politica che alla professione (nel 1889 divenne anche Sindaco), ma soprattutto, per quel che ci riguarda, perchè era accusato di disattenzioni nel suo operato di archeologo: testualmente, Fedele, Alessio e Del Monaco riportano che
“gli veniva infatti rimproverato non solo di non dare più notizie al mondo scientifico delle notevoli scoperte di cui era fortunato spettatore, ma anche di non documentare in maniera sufficiente gli scavi fatti, dei quali non registrava l’ubicazione, non traeva disegni dei monumenti, non teneva separati i materiali”.[28]
Questo periodo particolare e discusso del Viola coincide con la sua visita a Sava, che, come riportato dal D’Elia, risale al 1889. E’ esattamente il periodo delle “distrazioni” del professionista e della sua elusione dalla rendicontazione di osservazioni e scoperte.
A seguito di questi motivi e delle critiche e accuse subite, pare, nel 1891 il Viola viene trasferito a Napoli, ma nel frattempo il rapporto con il Ministero si inasprisce sempre di più e nel 1895 rassegna le sue dimissioni. Da questo momento diviene un dichiarato e accanito antagonista del Museo, e addirittura si dedica apertamente e ancor più intensamente, a quanto riportato, al commercio di reperti archeologici per conto del suocero e di altri privati:
“Da quel momento Viola divenne un accanito antagonista del Museo, collaborando con il suocero in attività poco chiare di reperimento e di commercio di oggetti archeologici e svolgendo inoltre il ruolo di consulente di privati in contrattazioni di vendita con il Museo, nell’interesse dei quali, e per proprio tornaconto, giocava sempre al rialzo delle valutazioni”.[29]
A questo punto è chiaro il motivo per il quale pur avendo dichiarato Il Viola nella sua visita a Sava insieme al D’Elia di aver visto cose interessanti “ di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene”, non vi fu un seguito a livello di trasparenza, documentazione e ricerca archeologica ufficiale in merito a quanto osservato. E forse, a seguito di ciò si spiega anche il motivo per il quale il manoscritto del D’Elia non fu mai dato alle stampe. Il D’Elia era un autore particolarmente prolifico e proprio in quel 1889 edita difatti ben due opere per i tipi della Parodi di Taranto e Lazzaretti di Lecce, e a distanza di soli 2 anni ne edita altre tre sempre per Parodi.[30] Qualcosa o qualcuno dunque dovette indurre l’erudito a desistere dal completare e pubblicare “Sava e il suo feudo”: l’impossibilità di provare gran parte dei contenuti dello scritto, o una qualche pressione a non divulgare più di tanto?
Sta di fatto che di sicuro il Viola non compie disinteressatamente la sua visita a Sava, proprio negli anni del suo maggiore invischiamento in operazioni di ricerca non istituzionale, e sta di fatto che della visita e delle scoperte fatte in Sava da parte del Viola non viene fatta menzione alcuna in articoli, riviste, documenti. Questo riserbo certamente non è da imputare al caso, quanto alla coerenza con quell’atteggiamento di commerciante di oggetti archeologici e di consulente di privati.
Nel 1895 il Museo di Taranto è diretto dal prestigioso archeologo Paolo Orsi, il quale in una relazione dell’anno successivo pubblicata in “Notizie degli Scavi di Antichità” lancia un feroce j’accuse al Viola scrivendo:
“…E’ stata una vera jattura per l’archeologia in genere, e specialmente per la topografia tarentina, che delle frequentissime scoperte dell’ultimo ventennio non siasi tenuto un diario minuzioso ed esatto…”[31]
  Note
[1] Gianfranco Mele, “Sava e il suo feudo”: il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale, La Voce di Maruggio, sito web, febbraio 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-e-il-suo-feudo-il-contributo-di-achille-delia-alla-storia-antica-locale.html
[2]    Gaetano Pichierri, I confini orientali della taranto greco-romana, in: Omaggio a Sava, raccolta postuma di saggi a cura di Vincenza Musardo talò, Edizioni Del Grifo, 1994, pp. 251-256; si veda anche: Gianfranco Mele, Sulle tracce dell’antica Sallenzia: le ipotesi di Achille D’Elia e Gaetano pichierri concernenti l’agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, marzo 2019, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-e-il-suo-feudo-il-contributo-di-achille-delia-alla-storia-antica-locale.html
[3]    Achille D’Elia, Sava e il suo feudo, Storia paesana, Mss. di f.3, 1889, citato e trascritto da Primaldo Coco in Cenni Storici di Sava, Stab. Tip. Giurdignano, LE, 1915 ( ristampa a cura di G.C.S., Marzo Editore, 1984), nota (1) pp. 58-60
[4]    Ibidem
[5]    Ibidem
[6]    Giacomo Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’ Otranto, 1879, pp. 548-549
[7]    Primaldo Coco, Cenni storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdignano, Le, 1915 – ried. Marzo Editore, Manduria, 1984, nota a pag. 60
[8] Primaldo Coco, op. cit., nota 1 a pag. 16. Laddove riferisce di “Aliano”, trattasi di contrada savese altrimenti detta Agliano, a pochi chilometi dal centro di Sava. Agliano fu anche fattoria romana e casale medievale. [9] Pasquale Del Prete, Il Castello federiciano di Uggiano Montefusco, Archivio Storico Pugliese,Bari, Società di Storia Patria per la Puglia a. XXVI, 1973, I-II, pp. 41-42; vedi anche Gianfranco Mele, Sava: “Li Castieddi” e i camminamenti sotterranei, La Voce di Maruggio, sito web, novembre 2018, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-li-castieddi-e-i-camminamenti-sotterranei.html
[10] Per un riepilogo dei vari e numerosi scritti di Gaetano Pichierri in merito ai camminamenti sotterranei savesi e ai ritrovamenti effettuati nell’area, si veda: Gianfranco Mele, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, Terre del Mesochorum, Storia, Archeologia e Tradizioni nell’ area ionico tarantina, sito web, luglio 2015, https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/07/19/sava-castelli-la-citta-sotterranea-e-la-necropoli-documenti-tracce-e-testimonianze-di-un-antico-centro-abitato-precedente-la-sava-del-xv-secolo/
[11]  Cesare Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi. Allianum, in Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII, pag. 2
[12] Notiziario del portale Numismatico dello Stato – Ministero per i Beni e le Attività Culturali: “Contributi/Vetrine e Itinerari/Dossier n. 1, 2013, pag. 36: “… Sambon aveva potuto dare notizie di un ritrovamento di monete della Magna Grecia avvenuto a Sava nel 1856, fornendo l’elenco delle monete scoperte e disperse solo sulla base di una notizia ricevuta “par un tèmoin oculaire” ed entrando peraltro solo in possesso di pezzi scelti”. [13] Arthur Sambon, Recherches sur les anciennes monnaies de l’ Italie meridionale, Neaples, Cataneo, 1863, pag. 11
[14] Arthur Evans , The Horsemen of Tarentum – a contribution towards the numismatic history of Great Greece, London, 1889, pag. 2, nota 4
[15] Attilio Stazio, Per una storia della monetazione dell’antica Puglia, in Archivio Storico Pugliese, 28, 1972, pag. 42
[16] Ibidem
[17] Per brevità qui riporto due miei articoli, nei quali sono citati tutti gli altri studi compiuti sul sito di Agliano: Gianfranco Mele, Agliano al confine tra Magna Grecia e Messapia. Un sito ancora da indagare, in: Cultura Salentina, Rivista di pensiero e cultura meridionale, sito web, ottobre 2014, https://culturasalentina.wordpress.com/2014/10/15/agliano-al-confine-tra-magna-grecia-e-messapia-un-sito-ancora-da-indagare/ ; Gianfranco Mele, Allianum cittadella messapica, avamposto di Sava e Manduria, Fondazione Terra D’Otranto, sito web, settembre 2016, https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/30/allianum-cittadella-messapica-avamposto-sava-manduria/
[18]  Gianfranco Mele, Pasano e dintorni: aspetti storico-archeologici, La Voce di Maruggio, sito web, marzo 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/pasano-e-dintorni-aspetti-storico-archeologici.html ;
Gianfranco Mele, Sava: tombe e rinvenimenti in Pasano e contrade limitrofe, La Voce di maruggio, sito web, maggio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-tombe-e-rinvenimenti-in-pasano-e-contrade-limitrofe-camarda-grava-ecc.html
[19]  Paride Tarentini, Torricella. Itinerari storico-archeologici a sud-est di taranto, Museo Civico di Lizzano,Quattrocolori studio grafico, luglio 2018, pp. 14-28
[20]  Francesco Ribezzo, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 105
[21]  Cesare Teofilato, op. cit.
[22]  Gianfranco Mele, Per una ricostruzione della storia della masseria Tima in agro di Sava e luoghi circostanti, La Voce di Maruggio, sito web, maggio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/per-una-ricostruzione-della-storia-della-masseria-tima-in-agro-di-sava-e-luoghi-circostanti.html
[23]  Gianfranco Mele, Antichi insediamenti in contrada Petrose, in agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, febbraio 2019, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/antichi-insediamenti-in-contrada-petrose-in-agro-di-sava-di-gianfranco-mele.html
[24]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, Archeologia, civiltà e culture nell’area ionico-tarantina, Banca Popolare Jonica, Grottaglie, 1992, pag. 307 e nota (2) a pag. 326
[25]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, op. cit., pp. 307-308
[26]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, op. cit.,pp.309-310
[27]  Ibidem (pag. 310)
[28]  Ibidem
[29]  Ibidem
[30]  Gianfranco Mele, “Sava e il suo feudo”: il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale, op. cit.
[31]  Paolo Orsi, Relazione sopra alcune recenti scoperte nel Borgo Nuovo, Notizie degli Scavi di Antichità, 1896, pag. 107.
1 note · View note
fondazioneterradotranto · 5 years ago
Photo
Tumblr media
Nuovo post su https://is.gd/wQzL50
Francavilla e il culto della Madonna della Fontana
di Mirko Belfiore
L’origine della città di Francavilla Fontana, si perde nelle pagine della storia fra mito e realtà. Alla mancanza di fonti documentarie coeve, leggenda e tradizione concorrono a colmare le croniche lacune storiografiche che ancora oggi permangono. Ciò che sopravvive senza affievolirsi, è la devozione di una popolazione che, il 14 settembre, continua a riunirsi festante sotto la statua lignea della sua Santa protettrice, la Madonna della Fontana.
Maria SS. della Fontana (Statua Lignea, XVIII secolo, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)
  La leggenda del cosiddetto “Rinvenimento dell’icona”, rimanda al ritrovamento fortuito, durante una battuta di caccia, di un’icona, forse bizantina del XIV secolo o molto probabilmente un affresco del XVI secolo, che riproduce una Vergine Hodighitria, ancora oggi conservata gelosamente in una cappella della Collegiata del Santissimo Rosario.
Basilica of SS. Rosario. Francavilla Fontana
  Ecco la descrizione che dell’avvenimento, secondo le parole dell’autore locale Pietro Palumbo: “Allettato dalla natura selvaggia del paesaggio, nella mattina del 14 settembre del 1310 (anche se lo stesso in una delle prime edizione menziona il 14 agosto), il principe Filippo, da Casivetere si spinse a caccia nel largo bosco che si spandeva a nord della Villa del Salvatore fin verso Grottaglie e Ceglie. Lo accompagnavano patrizi tarentini e molti signorotti dei casali vicini. Sellati i cavalli e tolto il guinzaglio ai cani l’ingordigia della preda fè diramare per ogni verso la compagnia dei cacciatori. Mastro Elia Marrese, secondo la tradizione pedone di Casavetere e secondo alcuni storici, di Taranto snidò un cervo e rallegrato dalla buona fortuna armò la balestra e seguitate le peste, lo raggiunse nel seno di una folta boscaglia. Subito scoccò il dardo. Ma in punto fu preso da un sacro terrore alla vista di un fenomeno che alla sua mente grossolana parve strano. La freccia, che aveva balestrata contro il cervo, era tornata in un lampo contro di lui con grave pericolo di vita. Che poteva essere? Immantinente si avvicinò al cespuglio, e più ancora stupito, vide che il cervo non era fuggito ma tranquillamente beveva nell’acqua di un laghetto. Meravigliato suonò il corno a richiamo degli altri cacciatori i quali in un attimo corsero sul luogo. Il Principe stesso sceso da cavallo diè ordine si tagliassero i rami della boscaglia e si facesse un po’ di largo. Allora si scopersero tra gli sterpi e i roveti le fondamenta screpolate di un’antica muraglia e su di questa dipinta a mezzo busto una Madonna col bambino tra le braccia, di proporzioni naturali e che si credè di pennello greco, e nascosta là indubbiamente ai tempi delle persecuzioni contro le immagini. A tal vista proruppero tutti in gradi di allegrezza e il principe Filippo nella piena superstiziosa gridò di essere ciò avvenuto per espresso volere di Dio il quale sarebbe servito di un cervo per condurli colà dove posava negletta l’immagine veneranda.”
Il Ritrovamento dell’icona bizantina (Domenico Carella, 1778, olio su tela, Francavilla Fontana, chiesa Matrice).
  Secondo la cronaca ufficiale quindi, il principe di Taranto Filippo I d’Angiò (1278-1332), immediatamente dopo l’eccezionale ritrovamento, diede l’ordine di edificare un tempio a memoria dell’accaduto. Egli fece incorporare nell’edificio, il muro con l’effigie della Vergine, per evitare che questa costruzione, posta a poca distanza dal casale del Salvatore, all’epoca popolato, rimanesse fuori dal centro abitato. Promettendo terreni ed esenzioni da franchigie, per alcuni anni, il Principe tentò di incoraggiare gli abitanti dei casali vicini a popolare la zona. Decretò, inoltre, che il casale mutasse il proprio nome in “Franca Villa”, e a esso fu dato per simbolo l’albero d’ulivo posto fra le lettere F e V.
Stemma cittadino di Francavilla Fontana
  Non si contano gli studi e i saggi sull’argomento: gli autori francavillesi P. Palumbo e Padre P. Coco, l’abate romano G.B. Pacichelli, l’Albanese nella sua storia del casale di Oria, il Marciano, il Tasselli che narra per l’appunto “dell’Invenzione del Ritrovamento dell’Icona” , P. Bernardino Da Lama, il Carducci, e soprattutto Domenico de Santo che insieme a P. Salinaro (entrambi frati cappuccini) fra il 1632 e il 1687, in pieno clima di riforma cattolica, confermarono e riscrissero la leggenda mariana.
Detto ciò, prima di analizzare le parole del testo, è giusto capire quanto abbia inciso nel territorio, il culto della Vergine della Fontana.
Secondo P. Primaldo Coco, fra i secoli XII e XIV, il culto della Madonna, sotto il titolo della Fontana, era ben presente in Meridione; esempi se ne trovano nella cattedrale di Brindisi dove vi era l’altare dedicato alla Madonna della Fonte e in un’importante iscrizione lapidea di epoca romana proveniente da un tempietto suburbano del brindisino dedicato al culto della Vergine, che dopo varie vicissitudini venne murato nella chiesa dei Cappuccini a Brindisi.
Non mancano importanti esempi a Roma o a Napoli, dove vicino al Castel Nuovo, residenza angioina, si trovava ubicata intorno al XIV secolo, una chiesetta dedicata a Santa Maria della Fontana. È presumibile, ma non pienamente documentabile, che il principe d’Angiò abbia denominato l’immagine sacra francavillese e il complesso religioso, con l’appellativo della Fontana, in continuità con la sua grande devozione per la Vergine Maria.
Madonna della Fontana (Icona bizantina, XIV secolo, affresco, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)
  Voce fuori dal coro è quella di Cesare Teofilato, insigne scrittore locale e sindaco della città durante i primi anni del XX secolo. Dalle sue opere si può desumere la sua più completa avversione, sia alla tesi sul culto della Madonna della Fontana, che definisce una denominazione forestiera, sia alla leggenda del rinvenimento dell’icona, mito popolare che secondo lui, prese piede a Francavilla solo dal XVI secolo.
Egli sottolinea quanto il culto mariano della Fontana sia addirittura estraneo alla tradizione meridionale e rimandi invece a culti tipici dell’Italia settentrionale (lombarda o milanese) e introdotto nell’area dalle dominazioni straniere, come ad esempio quella dei Borromeo o degli Spinola. Il vero appellativo, quindi, rimane una scelta autoctona, da rimettere a una spontanea dedica popolare del tempio cristiano, al culto della Vergine Maria.
La chiesa, inoltre, venne eretta con rito greco, ormai vera rarità, vista la diffusione del rito latino per opera dei monaci benedettini fra il XI e il XV secolo, a discapito del rito ortodosso, già presente in area salentina.
Il Teofilato aggiunge che la chiesa del borgo si ergeva sui ruderi di un tempio di rito pagano, dedicato alla dea Flora, le cui rovine avrebbero dovuto estendersi fra le attuali chiese del Salvatore e la chiesa Matrice stessa. Ed è proprio in questo luogo che bisogna ubicare il leggendario laghetto e la cripta basiliana, dove venne ritrovata l’icona, riproducente l’effigie di S. Maria di Costantinopoli. Il culto della Vergine Hodighitria poi, doveva essere ben radicato, se nella piazzetta accanto al Duomo, si dette la denominazione di Largo Costantinopoli.
Da rilevare, infine, l’invocazione mariana che tutt’ora permane in un cartiglio tufaceo sulla facciata settecentesca della ricostruita Collegiata, “SITIENTES VENITE AD AQUAS”, presumibilmente in riferimento alle primitive consuetudini battesimali basiliane.
La decorazione che conclude il frontespizio e l’invocazione mariana “SITIENTES VENITE AD AQUAS”
  Poco chiaro quindi come o in che tempi l’attributo “della Fontana” abbia preso piede a svantaggio del culto originale della Madonna di Francavilla, attestato comunque con certezza nel 1361, nel 1458 e nel XVI secolo, con il titolo di Madonna dei Miracoli e festeggiata il 24 gennaio.
Analizzando le parole tramandateci dal Palumbo e leggendo fra le righe del racconto si può scorgere una serie di simbologie attinenti sia alla storia sacra quanto a quella pagana.
L’immagine del cervo, per esempio, può essere accostata alle anime che vanno ad abbeverarsi alle acque della grazia che scaturiscono dalla Vergine SS.ma, chiamata spesso “Fons Aquarum viventium”.
Per la topografia francavillese, questo accostamento Acqua/Madre ben si confà con le condizioni “altimetriche, planimetriche e del suolo” dei terreni, dei boschi, dei laghi e delle risorgive, che in maniera copiosa caratterizzavano la pianura e che si fondono perfettamente con gli antichi riti di purificazione di origine pagana e paleocristiana.
Una lettura più profana potrebbe ricondurre l’avvenimento alla simbologia Cervo/Diana. La dea della caccia, portatrice di vita e protettrice delle fiere potrebbe essere una simbologia accettabile, vista la presenza nei dintorni di boschi e selve di ogni tipo, che verosimilmente potevano dare rifugio ad animali di ogni specie.
Insomma, le chiavi di lettura sono molteplici, ma un dato di fatto che possa mettere un punto certo sulla discussione può venire dallo studio e l’analisi di alcuni “rinvenimenti iconologici” analoghi a quello francavillese, come per esempio il ritrovamento della Madonna del Sagittario nella città di Francavilla a Sinni in Basilicata. Il racconto, riferibile all’autore Giorgio Lauro, e incentrato sulla vita del beato Giovanni da Caromo, sembra una riedizione in calce del “rinvenimento francavillese”: “veduta una bellissima Cerva, la quale come a diporto se ne andava: […] cavato dal turcasso, che giusta il costume di quei tempi alla spalla gli suonava, cavato dico un finissimo quadrello su l’arcol’adattò, e fino all’orecchio la corda tirando così dirittura la spinse fuora, che alla Cerva giunse, ma da Divina virtù, addietro rimandata per la via medesima il valente arcadore, senza ferirlo, colpì. […] senza punto badarvi caricò di nuovo l’arco, e tirollo e ‘l colpo questa seconda fiata ebbe il successo medesimo”.
Simili episodi poi, si notano anche in altre tradizioni: come quella della Madonna della Scala di Massafra, della Vergine di Cerrate o Cervate, di San Umberto, di San Eustachio o di San Manuflo, ritrovamenti che mostrano molte affinità con la leggenda francavillese. In conclusione, la possibilità dello sviluppo di un mito diciamo in serie, con simbologie polivalenti, e l’aggiunta di una serie concessioni come franchigie e agevolazioni potrebbe avere come fine ultimo il ripopolamento di zone abbandonate. Tramite questo espediente, i D’Angiò, avrebbero favorito la ricostruzione e l’incremento di nuovi nuclei abitativi.
Protagonisti di questo fenomeno furono soprattutto quei borghi situati in aree caratterizzate da favorevoli condizioni geografiche e climatiche; come sostiene Donato Palazzo: “privilegi e franchigie perciò vanno considerati […] come strumenti politici per legare alla terra i contadini, sollecitandone la concentrazione in comunità meno disperse e meno dispersive”.
In conclusione, un’analisi comparata fra l’origine di Francavilla e gli altri centri sorti nello stesso periodo, sotto la spinta di eventi simili simbolici e portentosi, porta a non escludere quest’ultima tesi.
Per quanto riguarda la data di fondazione il parere non è unanime. Non v’è certezza sulla data tradizionale del 14 settembre 1310, e le varie ipotesi proposte dai diversi storici e autori, fanno oscillare la fondazione dal 1308 al 1324, in alcuni casi collocandola nel secolo precedente.
L’indicazione relativa al giorno 14 settembre, pare sia stata introdotta posteriormente al XIV secolo, e più precisamente intorno al 1565. In quell’anno, non si celebrava ancora una festa patronale e l’Arcivescovo di Brindisi e Oria, Giovanni Carlo Bovio, compì la sua visita pastorale nella chiesa Matrice proprio in quel giorno, senza che vi fosse pronunziata nessuna liturgia solenne.
Un nodo cruciale e pieno di interrogativi, è rappresentato dalla Bolla o Breve sulle “Indulgenze concesse il 29 agosto 1330 da frate Marco De Castro Fiorentino dell’ordine di S. Giacomo De Altopasso, sostituto dell’Arcivescovo di Otranto e Commissario del Papa Giovanni XXII, al popolo di Francavilla, quando venne a predicare la crociata in favore di Gualtiero IV Brienne”, concesse in perpetuum ai fedeli francavillesi che il 14 settembre avessero visitato la sacra immagine della Madonna della Fontana di Francavilla.
Litografia del XVIII secolo raffigurante la leggenda del ritrovamento dell’icona bizantina.
  La storia ci tramanda che la pergamena venne rintracciata e restaurata, intonro al 1785, dal Vescovo di Oria Monsignor Alessandro Maria Calefati, sospetto falsificatore.
Dal punto di vista storiografico, la pergamena è contestualizzabile nelle vicende dell’epoca, visto che fu bandita realmente una crociata, nel XIV secolo, per riconquistare i territori greci conquistati dai Catalani. Allo stesso modo, le figure di Gualtiero di Brienne, Duca di Atene e Conte di Lecce, e Giovanni XXII, Papa dal 1316 al 1334, sono documentabili con certezza.
Teofilato, accusa di falsificazione il Vescovo di Oria, il quale operò con la compiacenza del notaio Giuseppe Maria Imperio, autenticatore della pergamena.
Per onor di cronaca, a difesa di Monsignor Calefati si pose P. Primaldo Coco, che rigettò le accuse e innalzò il prelato a grande conoscitore e studioso delle vicende storiche francavillesi, il quale avrebbe avuto come unico scopo il rinverdimento della devozione alla Beata SS. Vergine Maria senza dietrologie, che essa fosse caratterizzata da un titolo o da un altro. Concentrandoci, invece, sulle fonti storiche accessibili e documentabili la “data di nascita” di Francavilla viene inevitabilmente retrodatata. Come afferma il Teofilato, a complicare la vicenda provvedono i rapporti di sangue fra la Corte angioina napoletana, i Principi di Taranto e i Conti di Lecce, tutti imparentati tra loro.
Il protagonista della leggenda francavillese Filippo I d’Angiò (1278-1332), divenuto principe di Taranto nel 1294, dopo la prigionia aragonese in Sicilia terminata il 19 marzo 1302, sposò nel 1313 Caterina, figlia di Balduino, contessa di Fiandra e imperatrice di Costantinopoli. Secondo il Coco, Filippo I fu in Puglia, dal settembre 1309 fino al 1311, incappando in un tentativo di congiura sistematicamente stroncato. Questo avvenimento, in parte secondario, viene utilizzato dal padre cappuccino per affermare con certezza perlomeno la presenza in loco del nobile angioino, visto che la sentenza di morte del capo della congiura, tale Siginulfo, “fu notificata al principe di Acaia e Taranto in qualità di Capitano generale a Guerra del regno”.
Naturalmente il documento non pone fine alla querelle sul “rinvenimento” ma aggiunge un altro pezzo al puzzle dei tradizionalisti. Dopo l’avvenimento, quindi, si creò una “zona franca” dove andarono a riunirsi gli abitanti di ogni casale vicino, richiamati da concessioni e privilegi raccolti in una pergamena che, secondo alcuni (Palumbo, De Simone e P. Salinaro), si presentava vergata con lettere d’oro e che rimase conservata fino al 1623 a Francavilla, per poi scomparire.
Di queste franchigie si conservò memoria a lungo e i successori del principe angioino non mancarono di confermarli; in primis re Ferdinando d’Aragona (1424-1494). Simili concessioni, verso la fine del medioevo, furono fatte un po’ ovunque all’interno del Regno di Napoli.
I feudatari dichiaravano luoghi di rifugio i posti dove si raccoglievano gli abitanti che fuggivano da oppressioni baronali e lotte civili, concedendo franchigie. Queste località divennero borghi franchi e più tardi città libere. Di parere opposto, tuttavia, è ancora Cesare Teofilato, il quale afferma “che le franchigie, come è noto, non ci furono mai, perché i feudatari riscossero sempre le decime su tutto l’agro francavillese e dei dintorni; né il vantato Editto principesco fu reso ostensibile, da chi avanzava i desiderati diritti di franchigie. Anche questo Editto è un enigma fumoso, di cui gli stessi cronisti della tardissima tradizione non sanno dar conto preciso. Tra essi c’è contradizione, incertezza, sbandamento: quell’impreciso, che annunzia il vuoto”.
Ciò di cui ormai siamo certi è che, il sito di Francavilla quindi, andò a svilupparsi durante il XIV secolo, in una pianura rigogliosa, ricca di colture cerealicole, all’interno della cerchia di alcuni importanti casali che via via andarono a spopolarsi per ingrossare il nuovo insediamento. Esso, in pochi secoli, divenne il punto nevralgico di tutta la regione convergendo tutte le arterie di collegamento con le città e gli insediamenti più importanti dell’area. Raccolse buona parte delle famiglie feudatarie della zona, desiderose di pace e sicurezza, e la gente povera dei dintorni la cui vita si era sviluppata vicino alle Specchie fortilizie messapiche e le numerose necropoli romano-cristiane.
A tutto ciò aveva già posto la sua attenzione l’abate Giovan Battista Pacichelli, il quale già a suo tempo, sottolineò la centralità di Francavilla nel XVIII secolo: ”Dal Mezzo dove hoggi è posta la Collegiata insigne di Francavilla, fino al promontorio di Japigia, dove sta situata la chiesa di Santa Maria di Finibus Terrae, vi sono sessanta nove miglia, et altro tanto dal mezzo di detta Colleggiata sino alla riva del Fiume Bradano, che divide la Provincia d’Otranto dalla Basilicata, nove miglia distante da Matera. Per traverso poi dal Mare Jonio, o Adriatico sino al Mare Tarentino, dal mezzo di detta chiesa sino a Taranto sono venti miglia, e venti altre sino a Brindisi, di modo, che il luogo dove fu trovata la Santa Immagine rimane per centro di tutta la Provincia d’Otranto, quasi ella sia il Soccorso, e Protettione di tutta la Provincia”.
Insomma, la questione rimane aperta.
0 notes
fondazioneterradotranto · 4 years ago
Photo
Tumblr media
Nuovo post su https://is.gd/sLeowG
Confini, strade, contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare
Morgincap o “mar’a a ci ccappa”?
Toponimi di confini, strade, contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare
  In agro di Latiano è presente il toponimo Malcicappa; in agro di Francavilla Fontana, similmente, Maraciccappa, entrambi fatti derivare da diversi studiosi dal vocabolo morgincap o mongergabe, che si traduce con “dono del mattino”, un istituto dell’antico diritto germanico consistente nel dono che il marito faceva alla sposa in una cerimonia mattutina in presenza di amici e parenti.
La contrada Malcicappa a Latiano si trova nella zona individuata da tali stessi studiosi come attraversata dal cosiddetto Limitone dei Greci, e precisamente a nord del limitone, nel territorio ipotizzato come longobardo. Allo stesso modo, Maraciccappa nel francavillese si troverebbe in prossimità del confine tra longobardi e bizantini.
  Agro di Latiano, nei pressi della località Malcicappa: cippo con croce incisa
  Latiano, strada vicinale Malcicappa, cripta detta di Sant’Angelo o di San Giovanni (XI-XII sec.)
  Maracicappa e Malcicappa vengono dunque considerate località poste sul confine tra longobardi e bizantini, più o meno a ridosso del famoso Limes. Ma la questione dell’origine, del percorso, della storia e della stessa reale esistenza di un “Limitone dei greci” in Terra d’Otranto è un gran rompicapo, ed oggetto di dispute tra storici ed archeologi.[1] Nella intricata e dibattuta storia di questa opera (detta in gergo il “Paretone”) o di questa serie di opere (i “paretoni” presenti, appunto, a tratti – e in vari tratti del Salento e più in generale della Puglia) si avvicendano, insieme alle interpretazioni degli studiosi, le leggende e la tradizione popolare che attribuiscono a queste strutture ed ai luoghi circostanti altre origini, simbologie e significati.
Così, a Sava “Lu Paritoni di li Sierri” che è un tratto di muraglia presente nei dintorni del monte Magalastro, già descritta dagli storici come delimitazione facente parte del percorso del mitico Limitone, insieme con il tratto ancora presente in zona Pasano (nelle contrade Camarda, Morfitta, Curti di l’oru), secondo la versione popolare è stato invece “costruito dai diavoli in una sola notte”, come mi racconta Cosimo Schifone, un informatore depositario di molte delle più antiche tradizioni orali del posto. Tale paretone difatti è detto anche, sempre secondo il resoconto dell’intervistato, “Parete del Diavolo”. Allo stesso modo, tratti di antiche muraglie presenti in altre località son dette “Paretone del diavolo”: è il caso di Mottola (San Basilio), Gioia del Colle, Noci, e altre località.
In competizione con le ipotesi dotte attorno alle origini e alla paternità della costruzione del Limitone si insinua anche la questione delle presunte derivazioni dal termine longobardo morgincap delle già citate località in territorio di Francavilla e di Latiano. Anche qui, la spiegazione fornita dalla tradizione orale si discosta assai da quella derivata dalle teorie dei ricercatori: Maraciccappa è un posto maledetto, e, povero appunto chi ci capita: tra fantasmi, malombre e occhiature che fanno morire o sparire le persone, nell’ immaginario popolare di un tempo si guardavano con timore e diffidenza questi posti.
Francavilla Fontana, interno masseriola in località Maraciccappa
  Nel 1933 Giovanni Antonucci pubblica su “Japigia” un articolo dal titolo “Il Limitone dei Greci”, dal quale riporto il seguente passo (il corsivo è mio per evidenziare la parte nella quale parla di Malcicappa in territorio di Latiano):
“Nel febbraio del 1915 io e l’amico Cosimo De Giorgi visitammo gli avanzi del Limitone esistenti nella masseria Scaloti e insieme constatammo che la grande muraglia era ridotta alle più meschine proporzioni: pietre informi ammassate le une sulle altre per un’altezza di circa un metro, coperte di terra e di erbe selvatiche, di rovi di scille di asfodeli. A tanta distanza di tempo ricordo benissimo che il muretto ad un certo punto subiva un’interruzione decisa e recisa, sena la minima traccia di continuità: originaria tale interruzione, o derivata da asportazione del materiale? Ipotesi l’una e l’altra ugualmente attendibili.Rileggendo oggi il bozzetto che nell’occasione fu steso dal De Giorgi e poi pubblicato nella Rivista storica salentina (an. X, pag. 5 e segg.), mi torna chiaro alla memoria il sorriso di compiacenza che animò il volto dell’illustre amico quando io richiamai a proposito della tradizione salentina i perduranti toponimi di due masserie in territorio di Mesagne, la Camarda e la Camardella, immediatamente a sud del Limitone, accennanti, secondo il Racioppi, ad accampamenti greco-bizantini. Il De Giorgi non tacque, e, osservata la carta dell’Istituto geografico militare che teneva stesa fra le mani, mi segnalò subito il toponimo Morgingappa (da Morgengabe) tradotto erroneamente in Malch’incappa, e che designa una masseria a nord del Limitone in territorio di Latiano; nonché l’altro Campi dei Longobardi, oggi Campi distrutto, a nord di Mesagne, verso S. Vito.”[2]
Copertina della rivista Japigia
  Del Morgincap francavillese parla invece Cesare Teofilato, in un suo articolo del 1947[3], e il Rholfs, nel suo Vocabolario dei Dialetti Salentini inserisce il vocabolo Maru-c’incappa così definendolo: “nome di una masseria tra Francavilla e Sava (‘povero chi ci capita’, deform. dal longob. morgangaba ‘dote’?)”. [4]
Maraciccappa è in effetti una località in agro di Francavilla Fontana, attraversata dalla strada provinciale Sava-Francavilla Fontana e dalla strada comunale San Marzano-Oria. Qui si trovano la Masseria Maraciccappa e la Masseria Trentavagliuni, la Specchia Tarantina con la sua grotta carsica, e nelle contrade circostanti sorgono altre suggestive masserie, edicole votive e antiche case rustiche.
Del toponimo Maraciccappa, definendolo di origine longobarda in quanto derivato da morgengabe (o morgengab, morgingab, morgincap) parlano anche la Uggeri Patitucci[5] e lo storico locale savese Gaetano Pichierri,[6] inserendolo in una lista di toponimi presenti in diverse località situate appunto sul confine tra Longobardi e Bizantini. Tra Torre Santa Susanna, Mesagne e Latiano esistono “Camarda” e “Camardella” (tende, accampamenti bizantini) , “Farai” (guarnigioni di militari), “Maraciccappa” (doni della prima notte). A Francavilla Fontana Maraciccappa (detto anche Mali a ci ccappa e Marucincappa) e Guardiola (warta in longobardo), a Sava Camarda.
Tuttavia, nel suo saggio “Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale”, il Sabatini va cauto nella attribuzione del toponimo Marucincappa ad un etimo longobardo: lo inserisce difatti in una lista di toponimi dalla incerta derivazione.[7]
  targa incassata nel muro del cortile di una masseriola sulla strada Maraciccappa
  Come abbiamo già detto, secondo gli assertori della derivazione longobarda del toponimo, Maraciccappa o Maruciccappa, Marucincappa, Malicicappa (e varianti similari) deriverebbe da mongergabe (morgengab, morgingab, nei documenti latini spesso morgincap, morgincapitis) che sta a significare “dono del mattino”, ed era il regalo che il marito faceva alla sposa il giorno dopo la prima notte di nozze. Questo dono, oltre a sancire l’unione coniugale, veniva concepito anche come risarcimento alla donna della verginità perduta (per questo motivo, era detto anche pretium virginitatis).
Abbiamo visto però che il Sabatini mette in dubbio la derivazione di Maraciccappa da morgengabe, e certamente il toponimo attribuito a queste località dalla tradizione popolare sottende qualcosa di più che un mero “erore di traduzione” come lo definisce l’ Antonucci. Che si tratti del riadattamento o della rielaborazione di un termine e di un toponimo più antico o che sia semplicemente il toponimo coniato in origine non possiamo affermarlo con certezza, ma la tradizione attribuisce alla località e al toponimo stesso ulteriori significati. In occasione di alcune interviste da me condotte sulle credenze popolari locali alcuni anni fa, Cosimo Schifone, contadino savese (condussi la mia intervista nel 2014, e Cosimo, oggi scomparso, all’epoca aveva 84 anni), mi racconta della “strada di mar’a ci ccappa” o “mali a ci ccappa”, situata tra Sava e Francavilla Fontana, in prossimità di Francavilla: “Dalle parti della strada Sava-Francavilla c’è la “strada di mali a ci ccappa”. La chiamavano così, perchè si dice che ci fossero le malombre: potevi uscirne morto, da quella strada, si raccontava …”. Nella prosecuzione del racconto, Cosimo, dopo aver abbozzato un sorrisetto imbarazzato, mi dice, razionalizzando: “… ma io non ci credo: la spiegazione è nel fatto che da lì passavano i briganti, e assalivano la gente che si avventurava in quelle strade”. Mi espone però, anche , un antico detto popolare: “Alla strata ti mali a ci ccappa, si mori pi la fami e pi la secca”. “Perchè questo detto ?”, gli chiedo. – “ Perchè, appunto, là ti assalivano le malombre e non ti lasciavano più andare, secondo la diceria”.
Se trattasi dunque di rielaborazione popolare, è assai originale; c’è da chiedersi, deriva da una attribuzione toponomastica dei luoghi fondata su altre, slegate leggende? Oppure prende spunto dal “morgincap” e affonda fantasiosamente le sue radici nella storia dei luoghi rievocando i fantasmi dei suoi antichi abitatori?[8] Dunque “è tutto vero”, nel senso che la tradizione popolare ha arricchito di fantastiche simbologie e leggende la storia di questi posti, tanto intrisi di magia quanto le vicende che li hanno caratterizzati? Sono luoghi che in effetti trasmettono e suscitano inquietudine, curiosità e senso di mistero: caratteristica e inquietante al tempo stesso è un antica masseriola situata lungo la strada Maraciccappa (tra la masseria Trentavagliuni e la masseria Monte Ciminiello), all’interno della quale vi è una targa numerata con la denominazione della contrada. La costruzione, in cattivo stato di conservazione e attualmente piena all’interno di cumuli di rifiuti e di residui di eternit là abbandonati, è assai suggestiva ed è dotata di un muro di cinta di antichissima fattura.
  Mura di cinta masseriola in località Maraciccappa
  Masseriola in località Maraciccappa, particolare
  Masseriola in località Maraciccappa
  La masseria Trentavagliuni (detta anche Trentavagnuni) situata nei paraggi, è citata nel 1893 nella Rivista delle Tradizioni Popolari italiane curata da Angelo De Gubernatis. Chi ne parla è, con lo pseudonimo di Duchessa D’Este, Caterina Barbara Forleo (1874-1935), nobile napoletana trapiantata a Francavilla Fontana.
Caterina Barbara Forleo
  La Forleo fu apprezzata poetessa, giornalista e scrittrice con una grande passione per l’etnografia. In un articolo dal titolo Usanze, credenze e superstizioni pugliesi scrive:
“si sa che nella masseria Trenta vagnuni (ragazzi) vi è una grotta chiamata grotta del cane; le si da questo nome perchè – si dice – che nemmeno un cane resiste ad avvicinarsi all’imboccatura di essa senza morire. Un signore, amico nostro, asserisce ch’esso vi è entrato, quando era piccolo, e che la volta è ornata tutta di stalattiti. I contadini dicono che là dentro vi è lu contra jentu (contra vento) e nessuno osa entrarvi”.[9]
Nei paraggi le cavità naturali abbondano, e probabilmente la grotta alla quale la Forleo si riferisce è una diramazione della nota “Grotta Tarantina” o “Grotta Specchia Tarantina” situata a poca distanza dalla masseria.
Imboccatura Grotta Tarantina, immagine tratta da Catasto Grotte e cavità Artificiali FSP – Federazione Speleologica Pugliese
  Masseria Trentavagnuni o Trentavagliuni
  La masseria Maraciccappa invece è una struttura in buona conservazione, risalente al XVII-XVIII secolo sul cui lato frontale è inglobata una imponente cappella in stile tardo-neoclassico. Qui, è interamente ambientato il testo di una canzone popolare nota tra Francavilla Fontana, San Marzano, Sava e altri paesi della zona. La canzone è intonata su una melodia di pizzica in minore e si apre con la citazione, nella prima strofa, del detto popolare di cui abbiamo già parlato (“alla strata ti mara a ci ccappa si mori pi la fami e pi la secca”: in questo caso, varia leggermente riferendosi alla masseria “questa è la masseria ti mara a ci ccappa, si mori ti la fami e ti la secca”). Le strofe seguenti raccontano di un giovane lavoratore della masseria vessato dai suoi gestori, e si configura da una parte come canto di dileggio, e al tempo stesso di malizioso corteggiamento da parte del giovanotto verso la sua datrice di lavoro. Si tratta di una versione locale della nota canzone “Mamma la rondinella”. L’intero testo differisce completamente dalle versioni eseguite dai moderni gruppi di pizzica e musica popolare, eccetto che nel ritornello “mamma la rondinella, mamma la rondinà”, mentre la melodia è identica in questa e in tutte le altre versioni. Lo riporto a seguire (ringrazio Corina Erario per averlo rintracciato e avermelo fornito):
“Questa è la massaria mara a ci ccappa
si mori ti la fami e ti la secca
ninà ninà ninà l’ora è rrivata
allu patrunu li mu fattu la sciurnata
antera antera facci ti galera
fa scapulà li femmini ca è sera
e ci cu me uè canti aza la voci
ca lu palazzu è iertu e no si senti
e ci lu palazzu è iertu fallu bbasciàri
ca voci no ni tegnu pi cantari
com’aggia fa lu pani crammatina
mi manca lu luatu e la farina
ninà ninà ninà tu non la vinci
pani ti casa mia tu no ni mangi
lu pani ti casa tua aggià mangiari
e allu liettu tua m’aggià curcari
mamma la rondinella mamma la rondinà
mamma la rondinella gira e vota e se ne va”
    Masseria Maraciccappa, Francavilla Fontana
  Piantina zona Maracciccappa, tratta dalla cartografia PUG Francavilla Fontana
    Note
[1]  Via via, nelle ipotesi e negli studi dei vari eruditi, storici, ricercatori ed archeologi salentini e non, “il Paretone” è passato da Magnus Limes eretto dagli abitanti della Magna Grecia, a opera difensiva messapica, da Limes bizantino a muro di confinamento tra il Principato di Taranto e la Foresta Oritana, sino al negazionismo di chi la identifica come “muraglia immaginaria” eretta come un fantasioso puzzle dagli stessi studiosi che avrebbero “messo insieme” e in un (più o meno) unico (ma anche cangiante) percorso, grosse muraglie originate dalla spartizione tra feudi. Vedi: Giovanni Stranieri, Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del “limitone dei greci”, in “Archeologia Medievale, XXVII, pp. 333-355
[2]  Giovanni Antonucci, Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933, pp. 79-80
[3]  Cesare Teofilato, Confine Longobardo di Terra d’Otranto e ‘Morgincap’ Francavillese nel secolo VIII, in: Libera Voce, Lecce 1947 (V, 20-21-22). Ho rintracciato note su questo scritto ma non sono riuscito a visionarlo.
[4]  Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) Volume Primo, Accademia bavarese delle scienze di Monaco di baviera, 1956, ristampa a cura di Congedo Editore, Galatina, 2007, pag. 322
[5]  Stella Uggeri Patitucci, La necropoli longobarda di Gennarano sul confine bizantino di Terra d’Otranto, Università degli Studi di Lecce, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1974, pp. 5-31
[6]  Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese, I, Contributi per la Carta Archeologica e per il censimento dei Beni Culturali, Brindisi, 1978, pag. 152
[7]  Francesco Sabatini, Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale”, in: Carlo Ebanista e Marcello Rotili (a cura di), “Aristocrazie e società fra transizione romano-germanica e alto medioevo”, Atti del Convegno internazionale di studi Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 14-15 giugno 2012 , Tavolario Edizioni, S. Vitaliano (NA), 2015, pag. 407
[8]  Angelo Sconosciuto (pseud.), Là dove San Pietro ferma il tempo, Alceo Salentino, luglio 2005 http://www.alceosalentino.it/l-dove-san-pietro-ferma-il-tempo.html
[9]  Caterina Barbaro Forleo (pseud. Duchessa D’Este), Usanze, credenze e superstizioni pugliesi, in “Rivista delle Tradizioni Popolari italiane diretta da Angelo De Gubernatis”, Anno I, fasc. I, Forni Editore, Bologna, 1893, pag. 319.
0 notes
fondazioneterradotranto · 6 years ago
Photo
Tumblr media
Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/12/97211/
Le costruzioni a secco del Salento, patrimonio dell'umanità. Se ne discute il 13 a Nardò
Dopo il rinvio dello scorso 4 gennaio a causa delle avverse condizioni metereologiche viene rinnovato l’appuntamento voluto dalla Fondazione Terra d’Otranto, con il patrocinio della Città di Nardò, che avrà per tema “Le costruzioni a secco del Salento, testimoni del nostro sentire più intimo e del nostro passato, patrimonio dell’umanità”.
L’incontro – dibattito avrà inizio sempre alle 19.30, nella chiesa di Santa Teresa a Nardò, su Corso Garibaldi.
Confermate le presenze di Cristian Casili, agronomo e consigliere regionale, di Don Francesco Marulli, Direttore dell’Ufficio Diocesano per la Pastorale sociale e il lavoro, di Mino Natalizio, assessore all’Ambiente del Comune di Nardò, di Fabrizio Suppressa, architetto, e di Pier Paolo Tarsi, docente nei Licei.
La novità, rispetto a quanto già pubblicizzato, è la partecipazione di Glauco Teofilato, che sarà portavoce per gli studi condotti da suo padre Cesare sulle Specchie salentine, testimonianze delle epoche primitive che corrono tra l’Età della pietra e quella dei metalli, che si trovano nell’archivio di materiale edito ed inedito che lo studioso ha ereditato. Modera Marcello Gaballo, presidente Fondazione Terra d’Otranto.
Nel corso della serata è prevista la proiezione di numerose slides, partendo dai monumenti megalitici particolari di Terra d’Otranto, sino alle costruzioni più moderne con le pietre informi che i nostri contadini aggregavano per liberare dai sassi l’area dei loro lavori agricoli.
0 notes
fondazioneterradotranto · 8 years ago
Photo
Tumblr media
Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/30/allianum-cittadella-messapica-avamposto-sava-manduria/
Allianum cittadella messapica, avamposto di Sava e Manduria
  Il territorio di Sava nella ricerca e nelle ipotesi di Cesare Teofilato:
Allianum cittadella messapica, tempio di frontiera e avamposto della scomparsa cinta megalitica di Sava e delle mura di Manduria
  di Gianfranco Mele
Cesare Teofilato (1881-1961), originario di Francavilla Fontana, fu uno storico, bibliotecario, giornalista e politico.
La figura di quest’uomo è particolarmente legata a Sava in quanto vi trascorre gran parte della sua vita, a partire dal 1910, anno in cui riceve in questo paese una cattedra di insegnamento nelle scuole elementari. Il legame con Sava è determinato sia dalla sua carriera di insegnante, che ivi svolge per oltre un ventennio, sia da un suo matrimonio con la savese Ermelinda Caraccio. In ambito storico-archeologico si occupò del territorio pugliese con una vasta produzione di reports, ricerche e saggi molti dei quali incentrati sullo studio di specchie e megalitismo.[1]
Ritratto di Cesare Teofilato
  Nel 1935, con un articolo apparso sul Gazzettino – eco di Foggia[2], si occupa della storia antica di Agliano, contrada savese, da lui reputata una antica cittadella messapica, sulla scorta di studi sul campo effettuati sin dagli anni ’20.
Il contributo e l’analisi del Teofilato alla storia di Agliano sono importanti e poco noti, poiché prevalgono, nella ricostruzione e nelle citazioni effettuate nei moderni reports storici e archeologici, le osservazioni, le scoperte e le interpretazioni fornite dallo storico savese Gaetano Pichierri, entusiasta studioso di Agliano, il quale intravede in questo sito una facies magnogreca, dedotta da una serie di ritrovamenti e da una sua personale ipotesi circa l’espansione tardiva della Chora tarantina sino a parte del territorio di Sava.[3] Sulla stessa scia del Pichierri si muove un altro storico locale, Annoscia, pur contestandogli alcuni punti, in particolare, in merito all’interpretazione del culto di Agliano come dedicato a Demetra e Kore: in ogni caso, anche l’ Annoscia intravede Agliano come un luogo di culto magnogreco.[4] In questi autori e negli altri contemporanei che si sono occupati di Agliano, anche con semplici citazioni[5], non viene mai citato il lavoro del Teofilato.
Oggi è largamente accettata la tesi del Pichierri su Agliano come luogo di culto dedicato a Demetra e Kore[6], ma l’ identificazione del sito come Santuario di frontiera magnogreco è frutto, come si è detto, di una ipotesi del Pichierri presa per buona dai vari autori senza troppo scandagliare nel merito della “grecità” del luogo e della effettiva estensione dei confini magno-greci.
Agliano, frammenti-coroplastici, foto G. Pichierri
  Di fatto, il complesso dei ritrovamenti presenti in Agliano presenta nella coroplastica sicuramente influssi di tipo tarantino, ma è anche del tutto simile alle tipologie presenti presso Monte Papalucio ad Oria[7], santuario demetriaco di origini messapiche.
Se si prendesse per buona l’analisi del Teofilato i parametri si invertirebbero: Agliano sarebbe stato sì un Santuario di Frontiera, ma messapico, situato all’interno di una vera e propria cittadella-avamposto, a sud della quale si estendevano, secondo lo storico francavillese: a) una cinta megalitica negli immediati paraggi della attuale Sava, della quale si è persa ogni traccia (in quanto“barbaramente distrutta o seppelllita”, asserisce il Teofilato)[8]; b) le mura manduriane.
In questa prospettiva, potremmo aggiungere, Agliano si inserirebbe coerentemente lungo l’asse di una linea strategico-difensiva all’interno della Messapia, che comprende tutto l’insieme dell’ambiente circostante Sava, ovvero le alture del monte Masciulo, già descritte per le sue caratteristiche di sito funzionale all’avvistamento[9], e quelle del monte Magalastro con analoghe funzioni[10].
Ai tempi del Teofilato esistevano ancora in Agliano tracce di costruzioni consistenti in “enormi massi squadrati come quelli delle mura di Manduria”, cosa che non hanno potuto notare i ricercatori successivi (in quanto asportati o divelti sin dall’epoca delle ricerche del Pichierri) .
Altro particolare fornito dal Teofilato: “In un sito, presso la Masseria, l’edificio si presentava a pianta circolare, sostenuto da colonne pure circolari di oltre un metro di diametro”. Questa osservazione coincide con parte delle descrizioni del Coco, il quale pure vi intravede i resti di costruzioni e di un antico tempio[11].
Lo storico francavillese intravede in Agliano un insediamento che doveva costituire notevole importanza e consistenza, poiché, come afferma, “nella Masseria Spagnolo resistettero a lungo le rovine della antica Allianum, consistenti in terme, in acquedotti, in templi, in sepolcri”. La descrizione è particolareggiata e più precisa e ricca di informazioni rtispetto a quella del Pichierri, che si ritroverà 40 anni dopo a scandagliare i resti di un sito ulteriormente violentato, distrutto e saccheggiato, tanto che il ricercatore savese, pur entusiasta delle sue scoperte, è molto cauto nelle affermazioni circa l’estensione, l’importanza e le caratteristiche del sito: lo definisce un santuario di frontiera, ma non intravedendovi costruzioni né rovine, rimanda ai risultati di auspicati lavori di scavo una descrizione circa le dimensioni dell’insediamento e dello stesso santuario.[12]
Agliano, Oscillum foto G. Pichierri
4.Agliano, corredo tombale, foto G. Pichierri
  Il Teofilato ha anche occasione di presenziare a un saggio di scavo, sui risultati del quale fornisce precise descrizioni.
Un altro importante dato che ci fornisce il Teofilato riguarda il tratto del Paretone che passava per Agliano. Di questo, il Pichierri non dubitava l’esistenza ma non potè scorgerne resti in quel tratto specifico (li trovò in contrada Camarda, nei pressi di Pasano), mentre lo storico francavillese può constatare nei pressi della masseria di Agliano l’esistenza dei “massi poligonali uniti senza cemento”.
Agliano, un ritrovamento recente (2008) dagli scavi condotti dalla Coop. Museion
  Agliano, frammento decorativo, foto G. Pichierri
  Il Teofilato ci offre anche una importante descrizione del Paretone come “in rapporto con un sistema di specchie ignote al De Giorgi fa cui si elevava la specchia interna savese denominata specchia Mariana”. Dell’esistenza di questa specchia e del suo rapporto con il Paretone abbiamo effettivamente notizia da vari documenti, a partire dal cosiddetto inventario orsiniano redatto tra il 1420 e il 1435. Allo stato attuale sfugge la localizzazione della suddetta specchia[13], poiché evidentemente il toponimo ha subito, nel tempo, dei cambiamenti[14].
Ai tempi del Teofilato deve essere ancora popolare la denominazione “Paretone del Diavolo” come   nome popolare del cosiddetto “Limitone dei Greci” in quanto egli stesso la utilizza: questo toponimo dialettale trova riscontro nel racconto fornito al sottoscritto da un anziano contadino savese che, in una intervista del 2015, ha memoria di una curiosa leggenda tramandata da generazioni nell’oralità contadina: “Lu paritoni lu fècira li tiauli ‘ntra ‘na notti” (il paretone fu costruito dai diavoli in una notte).
Oltre alla descrizione particolareggiata della Agliano messapica, il Teofilato offre indizi circa la presenza bizantina in loco, peraltro ripresa nel 1975 dal Lomartire con ulteriori osservazioni.[15] L’autore riferisce anche del periodo romano[16], deducendo che anche in quell’epoca Agliano doveva rivestire notevole importanza a giudicare da tracce che testimoniano la presenza di riti nuziali, di sacerdoti officianti culti (flamini), di pontefici e di famiglie della nobiltà romana.
Infine, il Teofilato scopre in Agliano un’iscrizione che segnala all’emerito studioso Prof. Francesco Ribezzo, e “ al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco”. Il Ribezzo parlerà difatti di questa iscrizione nel Nuovo Corpus Inscriptionum Messapicorum, citando il Teofilato, ma senza aggiungere note di rilievo e interpretazioni in quanto non aveva visionato di persona l’opera[17].
una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto
    APPENDICE
da Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII, pag. 2
  Segnalazioni Archeologiche Pugliesi
ALLIANUM
Questa breve nota aspirerebbe ad aprire la via alla migliore e più larga conoscenza di una zona archeologica troppo trascurata.
I prossimi fascicoli della Rivista Indo-Greco Italica diretta dal prof. Francesco Ribezzo della R. Università di Palermo recheranno la puntata del Corpus Inscriptionum Messapicorum per tutto il Capo di Leuca e la relazione dell’iscrizione subpicena della statua del «Guerriero» presabelico scoperto a Capestrane (Pòpoli).
Le premure del Ribezzo, e le mie, non hanno potuto ottenere ancora il calco o la fotografia del frammento d’iscrizione messapica savese rinvenuta da me nel 1921, poi fatta osservare a mio cugino dottor Ettore Caraccio del Ministero dell’ Educazione Nazionale e infine segnalata allo stesso prof. Ribezzo, al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco.
Dopo tre lustri, la segnalazione assume pubblica forma e si rivolge alla R. Sovrintendenza alle Antichità di Puglia. Credo inutile dire che detta iscrizione, a suo tempo, fu pure annunziata, ma solo verbalmente, al comm. Quintino Quagliati, già R. Sovrintendete in Taranto, ora defunto.
Per una più chiara informazione del luogo da cui essa proviene, e della sua importanza archeologica, estraggo qualche notizia dai miei appunti di trovamenti.
Quell’ antico braccio della Via Traiana che partendo da Taranto costeggiava il Sinus Tarantinus prende tuttora, nel tratto che attraversa gli agri di Sava e Manduria, il nome tradizionale di Via Consolare. Quivi, lungo il suo percorso, toccava tre stazioni di vita messapica: Allianum, la cinta megalitica di Sava, barbaramente distrutta o seppellita, e la più celebre muraglia di Mandurium.
La contrada o masseria di Aliano, a circa tre chilomertri da Sava, direzione W, su la Via Consolare, conserva la toponomastica dell’antico oppido e appartiene all’agro savese. Alla distanza indicata si trova, su la sinistra, una vecchia strada, che mena ai fondi interni.
Questa lascia a destra un vecchio caseggiato con arcate cieche, che è la Masseria dei Fratelli Spagnolo e che è pure il centro delle rovine di Allianum. Sotto una delle arcate che rasentano la strada, trovasi inserita nel muro una iscrizione messapica che sembra retrograda e che letta da destra a sinistra offre i seguenti approssimativi elementi alfabetici disposti sopra un unico rigo:
Asta verticale (lettera j ?);
Lambda? (Angolo acuto con vertice in alto percorso da varie linee orizzontali);
R latina;
Asta verticale (lettera j ?);
Segno simile a epsilon minuscolo retrogrado, cioè rivolto a sinistra, ma che sembra avere un occhio centrale dove le curve si toccano (lettera N ?);
Segno simile al numerale 1;
Asta verticale (lettera j ?);Non potetti mai controllare detta iscrizione, che è corrosa dagli agenti atmosferici, in favorevoli condizioni di luce. Non posso quindi garantire l’esattezza del testo.Questo megalite, nel medioevo, segnò col Paretone del Diavolo il confine del Principato di Taranto.Nella Masseria Spagnolo resistettero a lungo le rovine della antica Allianum, consistenti in terme, in acquedotti, in templi, in sepolcri.E’ un errore cronologico ritenere Allianum una villa del periodo romano, sorta nel III secolo av. Cr. con la deduzione delle colonie nell’agro tarantino. In Aliano la colonizzazione romana si sovrappose certamente ad un remoto centro di anteriore vita messapica.Vi notai la esistenza di molte ceneri, dei noti massi isodomi, di ossa umane, di frammenti di vasi grezzi o dipinti, grandissimi o piccolissimi. Il materiale appariva rimescolato da antiche e recenti violazioni e riportai l’impressione di un vasto incendio dovuto a saccheggio saraceno o a demolizioni e a distruzioni cristiane.Probabilmente, nell’epoca bizantina, il luogo ospitò una comunità di monaci greci, come deducesi da croci incise sui massi di carparo, in tutto simili a quelle osservate da me stesso su le pareti delle Cripte.Venivano poi i resti di pavimenti e d’intonachi, o stucchi, dipinti in rosso, gli usuali vasetti di periodo più tardo e alcuni assi sconservati dalla penultima riduzione al peso (A. 217 – 89 av. Cr.). Penso, per averne trovato alcuni esemplari, che quivi circolò un asse sestantario, o contorniato, commemorativo di Roma, senza segno del valore, con la solita testa di Giano Bifronte sul D), la prora sul R), e, su la prora, la Lupa che allatta i Gemelli. Sotto, ROMA.Per questo dovrebbe ammettersi in Aliano l’uso del matrimonio sacro tra famiglie nobili, e la presenza di Pontefici, di Flamini e di Patrizi.  8. la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l’articolo del Teofilato
7. una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci “i confini del territorio di Taranto…”
   Cesare Teofilato
Notevole il rinvenimento di impronte fittili per focacce sacre e di coppe a pareti spesse con canaletti di scolo, adatte alla preparazione del panis farreus, che occorreva al rito nuziale della confarreatio.
Il materiale documentario più antico che vi potetti raccogliere è costituito da amuleti cuoriformi di pietra con foro, da piramidette di terracotta di varie fogge e dimensioni, dalle piccole alle grandi; da collane fittili (fuseruoli) e da frammenti ceramici a figure rosse del IV secolo av. Cristo.
Mia cognata signora Bice Caraccio-Spagnolo mi favorì una piccolissima lucerna a vernice nera e un medaglione funerario di terracotta, provenienti dalle solite tombe rettangolari a cassettone.
Nell’ aprile 1922, per cortesia di mio cognato sig. Giovacchino Spagnolo, podestà di Sava e comproprietario della masseria omonima, presenziai ad un saggio di scavo, che raggiunse la profondità di circa due metri dal piano di campagna.
Le costruzioni di cui resta qualche traccia sono enormi massi squadrati, come quelli delle mura di Manduria. In un sito, presso la Masseria, l’edificio si presentava a pianta circolare, sostenuto da colonne pure circolari di oltre un metro di diametro.
Le specchie e il Paretone, come altrove, si riconnettono al costume dei primitivi limiti di territori, indicati nei documenti locali con l’appellativo improprio di Limitone dei Greci e ritenuti ingenuamente, dai vecchi scrittori, come opera di epoca longobarda.
Da Aliano si diparte un interessante tratto del Paretone del Diavolo a massi poligonali uniti senza cemento, che si congiungeva con l’ oppido di Pasano, scendendo a sud, e poi risaliva a N.E., fin verso l’inizio della via per Torricella, presso Sava. Il Paretone era in rapporto con un sistema di specchie ignote al De Giorgi, fra cui si elevava la specchia interna savese denominata Mariana.
Lettura probabile di tutta l’iscrizione: IRINI (?).
la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l’articolo del Teofilato
  Note
[1]N.M. Ditonno Jurlaro, Cesare Teofilato (1881 – 1961), note biografiche e bibliografiche, Studi Salentini 1986-87, pp. 165-182
[2]C. Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi – ALLIANUM Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII
[3]G. Pichierri, Agliano nella storia della Magna Grecia, in: Sava nella storia a cura di G. Lomartire, Cressati, Taranto, 1975, pp. 98-11
[4]M. Annoscia, Indizi del culto di Dioniso e dei Dioscuri in un insediamento di sud-est della chora tarantina, in Sava – schede di bibliogrtafia ed immagini per una storia del territorio e della comunità, Del Grifo Ed., Lecce, 1993, pp. 97-112. L’ Annoscia presenta in questo testo foto di frammenti raffiguranti testine di cavallo e criniere, e da qui ipotizza l’esistenza di un culto dei Dioscuri. Inoltre, rinviene una testina in terracotta che identifica in una raffigurazione di Dioniso, ma molto più probabilmente si tratta della rappresentazione di Hades o di un defunto.
[5]Cfr.: M. Osanna, Chorai coloniali da Taranto a Locri: documentazione archeologica e ricostruzione storica – Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Libreria dello Stato, 1992, pag. 33
(Agliano: pag. 33)
[6]Ibidem
[7]v. G. Mastronuzzi, Il luogo di culto di monte Papalucio ad Oria, Edipuglia, 2013
[8]Riferimenti ad una antica cinta muraria e ad un insediamento di origini messapiche precedente la Sava del XIV secolo si trovano nel manoscritto di A. D’Elia Sava e il suo feudo, storia paesana (1889) andato perduto ma ampiamente citato dal Coco nella sua opera “Cenni Storici di Sava” (note a pp. 58-60). Per approfondimenti: G. Mele, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, in “Terre del Mesochorum”, luglio 2015 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/07/19/sava-castelli-la-citta-sotterranea-e-la-necropoli-documenti-tracce-e-testimonianze-di-un-antico-centro-abitato-precedente-la-sava-del-xv-secolo/ ; v. anche G. Mele, “Sava e il suo feudo” : il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale in “Academia.edu”, https://www.academia.edu/11884984/_Sava_e_il_suo_feudo_il_contributo_di_Achille_DElia_alla_storia_antica_locale_con_a_margine_cenni_sulla_produzione_letteraria_dellautore_
[9]C. Desantis, Sava – Monte Maciulo – torre classica e strutture medievali, in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese I, Quaderni del Museo Archeologico Provinciale F. Ribezzo di Brindisi, 1978, pp. 148-151
[10]M. Annoscia, Sava, Monte Magalastro – resti preistorici e fortificazione classica in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese I, Quaderni del Museo Archeologico Provinciale F. Ribezzo di Brindisi, 1978, pp. 151-152
[11]P.Coco, Cenni Storici di Sava, Lecce, Stab. Tip. Giurdignano, 1915, nota (1) a pag. 16. Questa la derscrizione del Coco: “Ad Agliano, poi, nel luogo ove sorgeva l’antico paese, oggi di proprietà del sig. Giovacchino Spagnolo, si osservano tuttora molti rottami di argilla, di vasi, di tegole, piccoli idoletti, amuleti, giocattoli per fanciulli, lucerne di creta di varie forme, monete, e altre cosette. Fino a poco tempo fa si osservavano anche avanzi di un antico edificio a ferro di cavallo dai grossi macigni, che divisi e suddivisi in 18 parti sono stati adibiti per nuove fabbriche. Pare, per ciò che riferisce l’attuale proprietario, che dovesse essere un antico tempio pagano. Altri avanzi di antichi edifici vi erano ai principi del secolo XVIII e furono abbattuti dal Feudatario Signor Giuseppe De Sinno, che, nella speranza di trovar tesori, intraprese degli scavi, che certo gli fruttarono qualche cosa.”
[12]G. Pichierri, op. cit., “note aggiuntive” pp. 109-11: l’autore si preoccupa (per difendersi dalle critiche degli scettici e dei suoi detrattori) di giustificare la mancanza, già ai suoi tempi, di tracce visibili di edifici, con la spiegazione che la presenza di un culto può anche essere resa possibile dall’ esistenza di una piccola ara. Tuttavia la consistenza del sito e la presenza di edifici adibiti a luoghi di culto sono rilevate già nel citato lavoro del Coco. Il Teofilato ne riprenderà la descrizione osservando altri particolari, e nel 2008 due saggi di scavo intrapresi dalla Coop. “Museion” riporteranno alla luce alcuni resti di edificazioni: frammenti decorativi e massi squadrati di grandi dimensioni (cfr. F. Carrino, Una campagna di scavi per scoprire le bellezze della nostra storia, in: Sportello Aperto – periodico di economia, cultura e sociale, BCC San Marzano di San Giuseppe, Luglio 2009, anno IV, n. 2).
[13]Cfr. Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Società di Storia patria per la Puglia sez. di Taranto, Mandese Editore, pag. 66
[14]Coerentemente con la linea confinaria indicata nei vari documenti rintracciati dal Carducci, si potrebbe ipotizzare che la Specchia Mariana, altrimenti detta Muryanam, Muriana e Majorana, coincide con la zona in agro di Sava denominata “San Giovanni”, situata in prossimità delle contrade Agliano, La Zingara, Le Monache, Tima. Queste ultime sembrano avere una relazione sia con la antica Agliano che con il “Paretone”, mentre la località “San Giovanni” iniste in un punto strategico (su una altura dalla quale si domina una vasta parte del territorio circostante), ed è caratterizzata dall’emergere di numerosi frammenti di varie epoche a partire da quella neolitica, e dai resti di cumuli di pietrame proprio intorno all’area di maggior intensità di presenza dei suddetti frammenti.
[15]G. Lomartire, Sava nella storia, Cressati, Taranto, 1975, pag. 18: l’autore riferisce e mostra le foto di una scultura ritrovata in Agliano, una Madonna con Bambino a suo avviso di epoca bizantina. Dettagli su questo argomento e più in generale sulla presenza bizantina nel territorio savese sono rintracciabili nel seguente articolo: G. Mele, Presenze bizantine nel territorio savese: il mistero dell’antica chiesa di San Nicola, i resti della chiesa di S. Elia, e altre note in: Terre del Mesochorum, agosto 2016 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2016/08/13/presenze-bizantine-nel-territorio-savese-il-mistero-dellantica-chiesa-di-san-nicola-i-resti-della-chiesa-di-s-elia-e-altre-note/comment-page-1/
[16]Del periodo della colonizzazione romana, nonché dello stesso toponimo di derivazione romana, parla diffusamente P. Coco nella citata opera “Cenni storici di Sava”, pp. 9-16.
[17] F. Ribezzo, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 105
  Le foto di questo articolo sono tratte dai seguenti testi:
Pichierri, Agliano nella storia della Magna Grecia, in “Sava nella storia” a cura di G. Lomartire, Tip. Cressati, Taranto, 1975;
Carrino, Una campagna di scavi per scoprire le bellezze della nostra storia, in: Sportello Aperto – periodico di economia, cultura e sociale, BCC San Marzano di San Giuseppe, Luglio 2009, anno IV, n. 2;
Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Società di Storia patria per la Puglia sez. di Taranto, Mandese Editore, 1993
Il ritratto del Teofilato e la pagina del Gazzettino-Eco di Foggia sono tratti rispettivamente da www.brindisireport.it e www.internetculturale.it
0 notes