#la valle dei fiori
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Io penso che non le è successo nulla. Penso che purtroppo, semplicemente, non era fatta per vivere, come tanti altri. Dico soltanto che alcune persone non sono brave a vivere come le altre, e può darsi che fosse solo questo, che lei non appartenesse a questo mondo, che non le andasse di vivere, mormoro, in preda al panico.
Niviaq Korneliussen, La valle dei fiori
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi geni ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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Vorrei che tu venissi da me una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d’essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti “Che bello!” Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello!”, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E’ inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
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Willy: Ciao Luna. Luna: Ciao Willy. Willy: Sai, oggi ho camminato a lungo, tutta la mattina, fino alla valle dei salici. Luna: Davvero? Willy: Sì, lo so che è molto lontana, ma avevo voglia di camminare. Luna: È una bella cosa camminare. Willy: Poi, raggiunta la valle, mi sono addormentato sotto un grande albero. Ero proprio stanco. Luna: E hai dormito molto? Willy: Oh sì, moltissimo, tutto il pomeriggio. Quando poi mi sono svegliato, mi è sembrato di sentire una voce. Luna: E chi era? Willy: Luna, so che tu mi puoi credere, quindi te lo dirò; era il Grande Salice che parlava! Luna: E cosa ti ha detto? Willy: Mi ha salutato, mi ha detto che era molto contento di avermi potuto fare ombra e che potevo tornare a dormire lì sul prato quando volevo. Luna: Che gentili che sono gli alberi. Willy: Abbiamo iniziato a chiacchierare di tante cose. Sai Luna, non avevo mai parlato con un albero, quindi ne ho approfittato. Luna: Hai fatto benissimo, Willy. Parlare con la Natura è importante. Willy: Perché dici che è importante? Luna: Perché in essa ci sono le opportunità per intuire le risposte. Willy: E se domani facessi una domanda a un fiore, dici che mi risponderebbe? Luna: Certamente! Willy: Non saprei proprio che chiedere a un fiore. Luna: Per prima cosa potresti chiedergli come si chiama, e poi tutto ciò che ti viene in mente. Sappi però che i fiori sono specialisti nel parlare della bellezza. Willy: Allora gli chiederò se sono bello. Luna: Saranno felicissimi di rispondere alle tue domande, anche a questa. Inoltre, dato che è primavera e loro sono tanti, vedrai che ti risponderanno in coro. E c'è una cosa fondamentale da fare quando si parla con i fiori, con gli alberi, con i boschi e i suoi abitanti, e con la Natura in tutte le sue forme. Bisogna saper ascoltare. Altrimenti risulta impossibile intuire le risposte.
E Willy, salutando la Luna, si avviò verso la sua cuccia, curioso di sapere come avrebbero risposto i fiori alla sua domanda. tratto da Willy e la luna WEB *********** Willy: Hi Luna. Moon: Hi Willy. Willy: You know, today I walked a long way, all morning, to the valley of the willows. Moon: Really? Willy: Yes, I know it's a long way away, but I wanted to walk. Luna: It's a good thing to walk. Willy: Then, having reached the valley, I fell asleep under a big tree. I was really tired. Luna: And did you sleep a lot? Willy: Oh yeah, very much, all afternoon. Then when I woke up, I thought I heard a voice. Moon: And who was it? Willy: Luna, I know you can believe me, so I'll tell you; it was the Great Willow speaking! Luna: And what did he tell you? Willy: he greeted me, he told me that he was very happy to have been able to shade me and that I could go back to sleep there on the lawn whenever I wanted. Luna: How kind the trees are. Willy: We started talking about many things. You know Luna, I've never talked to a tree before, so I took advantage. Luna: You did very well, Willy. Talking to Nature is important. Willy: Why do you say it's important? Luna: Because in it are the opportunities to intuit the answers. Willy: And if I asked a flower a question tomorrow, do you think it would answer me? Moon: Of course! Willy: I really don't know what to ask of a flower. Luna: First you could ask him what his name is, and then anything that comes to mind. But know that flowers are specialists in talking about beauty. Willy: Then I'll ask him if I'm handsome. Luna: They will be delighted to answer your questions, even this one. Also, since it's spring and there are many of them, you'll see that they will answer you in chorus. And there is one fundamental thing to do when talking to flowers, trees, woods and their inhabitants, and to nature in all its forms. You have to know how to listen. Otherwise it is impossible to guess the answers.
And Willy, greeting the Moon, went towards his dog's bed, curious to know how the flowers would answer his question. taken from Willy and the moon WEB
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FIRENZE MUSEO UFFIZZI - LA PALA STROZZI DI GENTILE DA FABRIANO
il dono più grande non è il prezioso l’oro, l’aromatico ed etereo incenso, l’eternità della mirra che ti porta chi ti è vicino, o chi viene da lontano. Il dono più prezioso, non sono le ricche vesti o la responsabilità del potere, l’illusione della forza, la corruzione della ricchezza, l’arroganza del comando, la fragilità di ogni amicizia, la fedeltà e tenerezza di un cane, la luce dell’alba, l’immensità del mare, la ricchezza dei campi di grano, la vita silenziosa e infinta di un bosco. Per quanto ti dicano, il dono più grande non è nelle carezze del vento o nel fiorire dei fiori, nella danza delle nuvole candide nell’azzurro assoluto del cielo o nella luce del lampo che illumina l’oscurità della valle. Non è il dono più grande nella danza delle stelle, nella forza del sole, nelle leggi che regolano e guidano le galassie come le gocce d’acqua, non sono i complicati ingranaggi di un orologio o la mente di chi lo ha costruito. Il dono più grande è nella radice da cui tutti questi altri regali nascono, nel seme di luce che ha vinto le tenebre è nell’origine di ogni inizio, nell’invisibile grandezza che tutto dona da cui tutto trova senso e ragione.
the greatest gift is not the precious gold, the aromatic and ethereal incense, the eternity of the myrrh that those people close to you bring you, or those who come from afar have with them. The most precious gift is not the rich clothes or the responsibility of power, the illusion of strength, the corruption of wealth, the arrogance of command, the fragility of every friendship, the fidelity and tenderness of a dog, the light of dawn, the immensity of the sea, the richness of the wheat fields, the silent and infinite life of a wood. No matter how much they tell you, the greatest gift is not in the caresses of the wind or in the blooming of flowers, in the dance of the candid clouds in the absolute blue of the sky or in the light of the lightning that illuminates the darkness of the valley. It's not the greatest gift in the dance of the stars, in the strength of the sun, in the laws that regulate and guide the galaxies like drops of water, it's not the complicated gears of a clock or the mind of whoever built it. The greatest gift is in the root from which all these other gifts are born, in the seed of light that has conquered the darkness it is in the origin of every beginning, in the invisible greatness that gives everything from which everything finds meaning and reason.
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Cose che movimentano l'autunno giapponese
Così come la "caccia alle foglie rosse" (紅葉狩り, momijigari) è il divertissement più atteso della stagione autunnale, uno dei film d'animazione più attesi di questo autunno 2022 era sicuramente Suzume no Tojimari (スズメの戸締り, Suzume's Door-Locking ), l'ultima pellicola di Shinkai Makoto, regista che negli ultimi anni si è fatto un nome in tutto il mondo con successi come Kimi no na wa (君の名は, Your name.) e Tenki no ko (天気の子, Weathering with you). Con Shinkai non è stato amore a prima vista, devo ammettere: l'ho conosciuto inizialmente tramite Byōsoku go senchimētoru (秒速5センチメートル, 5 cm al secondo), un lungometraggio che mi ha annoiato a morte e mi ha fatto anche incazzare perché avevo pure comprato il DVD di tasca mia, ascoltando il parere di chi me lo spacciava per il nuovo Miyazaki (parentesi: in quest'ultimo film Shinkai ha usato una canzone che era già stata utilizzata da Miyazaki in "Kiki's Delivery Service", sarà stato un omaggio ma dentro di me ho pensato "ma come ti permetti?" lol). L'elenco delle ragioni per cui avrei trovato più divertente guardare la vernice che si asciuga al sole sarebbe lungo, ma sostanzialmente: magari ero io a non essere già più nel target, ma che palle 'ste storie di sospirosi adolescenti che non riescono a confessarsi i propri sentimenti e si struggono per cercare di capire cosa pensi l'altro ma non si parlano e fanno i timidini che soffrono in silenzio perché non vogliono disturbare e non succede niente, solo i petali di ciliegio che cadono alla velocità di 5cm/sec (la stessa delle palle degli spettatori) sulle loro giovani esistenze già così infelici, ma poi un topos meno abusato dei fiori di ciliegio non c'era? Non dico che bisognasse per forza essere Sakaguchi Ango e trasformarli in un elemento orrorifico che fa da sfondo a una vicenda sanguinolenta come quella descritta in "Sotto la foresta dei ciliegi in fiore", però mo' neanche a fa' così. Altro punto di demerito: il contrasto tra i fondali iperrealistici superdettagliati e l'approssimativa stilizzazione con cui sono disegnate le figure umane mi faceva cringiare tantissimo, poi per carità, io ero anche in un momento intestinalmente poco felice durante la visione, ma penso di non poter dare a questo tutta la colpa lol
Succede però che qualche anno fa sono intrappolato per dodici ore su un volo intercontinentale e ho finito di guardare tutti i film che mi ispiravano, quand'ecco che nell'elenco vedo Kimi no na wa. In Giappone aveva avuto un successo strepitoso, al punto che la colonna sonora oltre ad aver raggiunto i primi posti tra le canzoni più cantate al karaoke era stata passata persino in tutti i convenience store della nazione, ma avendo bocciato Shinkai me ne ero naturalmente tenuto lontano. Non avendo letteralmente nient'altro da fare per ammazzare il tempo durante la traversata decido di dargli una seconda possibilità e 107 minuti dopo sono in una valle di lacrime. Intanto noto con piacere che lo stile dei disegni per quanto riguarda i personaggi è molto migliorato, ma a parte quello, l'aspetto che davvero mi colpisce è la presenza di diversi richiami allo scintoismo, per esempio il kuchikamizake (口噛み酒), bevanda alcolica prodotta durante le cerimonie scintoiste dalle sacerdotesse che masticavano il riso ammorbidito e ne innescavano la fermentazione grazie agli enzimi presenti nella saliva. La scelta di recuperare un elemento così particolare dello shintō (che, inutile dirlo, non conoscevo prima di questo film) rielaborandolo all'interno di un blockbuster mi intriga molto, forse per la stessa ragione per cui amo le reinterpretazioni del folklore del Tōhoku da parte di Miyazawa Kenji, e sebbene il suo film successivo, Tenki no ko, sia a mio parere più debole (lo riassumerei con una sola frase: Tōkyō diventa Venezia), il processo di creazione di un mito dietro l'espressione hareonna (晴れ女, donna che porta il sereno), non più una semplice ragazza sempre accompagnata dal sole ovunque vada ma una creatura semidivina in grado di arrestare la pioggia al prezzo però della propria vita che va via via accorciandosi, risulta altrettanto interessante. Ma è con Suzume no Tojimari che Shinkai si supera. Il film dovrebbe uscire in Italia a inizio 2023 quindi non ne parlerò troppo nel dettaglio per evitare spoiler, ma la vicenda si dipana dall'incontro tra Suzume, una studentessa di liceo, e Sōta, un misterioso ragazzo con il compito di chiudere le "porte del disastro" da cui fuoriesce una sorta di gigantesco blob chiamato "il lombrico" che se arriva a schiantarsi al suolo provoca terremoti e devastazione. L'opera di Sōta e dei "serratori di porte" come lui non è tuttavia sufficiente da sola a evitare sismi epocali: è necessario ricorrere anche a due "chiavi di volta" (要石, kanameishi) piantate nelle due estremità del lombrico.
Anche se ci sono dei punti nella trama che non mi sono chiarissimi e avrei bisogno di una seconda visione per capire se fossero buchi di sceneggiatura o semplicemente cose che non ho collegato, la lista dei motivi per cui ho amato questo film batte quella delle ragioni per cui "5 cm al secondo" non mi era piaciuto: dalla presenza di un richiamo ai tragici eventi dell'11 marzo 2011, di cui mi ero marginalmente occupato durante la laurea magistrale, che credo sia importante vengano trattati da un blockbuster di successo nazionale e come è facile prevedere internazionale, agli elementi mutuati da antichi miti e leggende, e sono davvero molti. Qualche esempio: la formula magica che Sōta recita quando chiude una porta è ispirata ai norito (祝詞), solenni preghiere rituali indirizzate alle divinità scintoiste di cui fanno parte alcuni dei documenti scritti più antici pervenutici, e comincia infatti con una delle frasi d'apertura classiche di questi testi (かけまくもかしこき, "se mi è concesso pronunciarlo"); il lombrico che provoca i terremoti è una rielaborazione della credenza popolare secondo la quale a provocare i sismi sarebbe un enorme pesce gatto sotterraneo (prima del periodo Edo era un drago-serpente, come in altri miti asiatici, ma durante quest'epoca si consolida la versione secondo cui sarebbe invece il namazu 鯰, "pesce gatto" appunto); le "chiavi di volta" sono due pietre realmente esistenti, custodite in due santuari dove tengono ferma una la testa e l'altra la coda del namazu.
Nel 1855, Tōkyō viene colpita da un sisma di magnitudine 7 che passerà agli annali come Grande Terremoto Ansei. Pochi giorni dopo la tragedia, si sviluppa un fiorente mercato di stampe ukiyo-e raffiguranti il pesce gatto e denominate appunto "namazu-e" (鯰絵, immagini del pesce gatto), che avrebbero dovuto proteggere chi le acquistava dai terremoti. Quella qui sopra mostra anche la "chiave di volta" (要石, kanameishi) conficcata sulla testa del namazu per tenerlo fermo.
Dopo aver quindi scoperto che mi era sempre mancato un pezzo del mito del pesce gatto (che tra parentesi oggigiorno trovate raffigurato pure nei cartelli stradali a indicare la corsia di emergenza dove parcheggiarvi in caso di terremoto lol) non potevo far altro che correre ai ripari, e ho subito progettato una visita ai due santuari in questione, il Katori Jingū nella prefettura di Chiba e il Kashima Jingū in quella di Ibaraki, che si trovano a circa due ore da Tōkyō (in macchina anche un po' meno, opzione decisamente più economica anche nel caso di un'auto a noleggio rispetto al treno che ha dei costi spropositati). Questi due santuari gemelli, distanti all'incirca una quindicina di chilometri l'uno dall'altro, nonostante non se li calcoli nessuno forse proprio per la posizione periferica in cui si trovano sono in realtà nella top 3 dei santuari più importanti nella gerarchia scintoista. Sono gli unici, infatti, insieme al Santuario di Ise dedicato alla dea del sole Amaterasu, a essere denominati jingū 神宮 e non semplicemente jinja 神社, quindi sono santuari che hanno fatto l'upgrade.
Il santuario di Kashima è dedicato a Takemikazuchi-no-Ōkami, divinità citata anche del Kojiki (古事記, Un racconto di antichi eventi), uno dei testi più antichi tramandatici dove troviamo riportato il mito fondativo del Giappone stesso. In un lungo elenco di genealogie di divinità, leggiamo che la madre di tutti gli dei, Izanami, era morta dopo aver partorito il dio del fuoco che le aveva bruciato la vulva (il marchio Chilly purtroppo verrà fondato solo nel Novecento, fuori tempo massimo per dare sollievo alla dea), e il suo compagno Izanagi, disperato, aveva decapitato il figlio colpevole di avergli ucciso la compagna:
Il sangue spruzzò sopra le rocce intatte, prima dalla punta dell'arma e ne spuntarono i tre esseri che chiamiamo il sacro Ihasaku, il sacro Nesaku e il sacro Ihatsutsunowo, poi dalla lama e ne spuntarono i tre esseri che chiamiamo il sacro Mikahayahi, il sacro Hihayahi, e il sacro Mikazuchinowo il rude, che chiamiamo anche il sacro Takefutsu, o ancora il sacro Toyofutsu.
Oltre a descriverne così i natali, il Kojiki racconta anche di come questa divinità verrà incaricata da Amaterasu di negoziare con la divinità di Izumo affinché quest'ultima ceda il suo regno, "la terra immersa nelle pianure di giunchi", alla stirpe celeste di cui la dea del sole fa parte:
Il sacro Mikazuchi il rude, accompagnato dal sacro Amenotorifune, discese presso una spiaggia di Inasa nelle terre di Izumo, sguainò la spada di dieci spanne, l'elsa la ficcò sulla cresta delle onde, sulla punta della lama si sedette a gambe incrociate. E si rivolse al sacro grande signore Ohokuninushi: "Ecco - disse - cosa hanno ordinato di venirti a chiedere Amaterasu grande sovrana e sacra e il sacro Takagi: "La terra immersa nelle pianure di giunchi dove tu spadroneggi è destinata al regno della nostra stirpe". Che cosa hai in animo di fare?" "Non posso dirlo io - fu la risposta, - sarà mio figlio, il sacro Yahekotoshironushi, a decidere. È andato a pescare con gli uccelli ma non è ancora tornato dal promontorio di Miho". Il sacro Amenotorifune andò a prenderlo e gli si poté così chiedere di venire al dunque. "Quale tremendo onore! Cedo umilmente queste terre alla stirpe dei celesti" [...]
Patrono pure delle arti marziali nel tempo libero, questa divinità viene anche spesso rappresentata in cima al namazu con la spada conficcata sulla testa del mostro.
Takemikazuchi-no-Ōkami dimmi bene che casa mia non è neanche assicurata contro i terremoti, mi sei rimasto giusto tu.
Ovviamente, che ve lo dico a fare, come da tradizione l'edificio principale del complesso era in ristrutturazione, perché giustamente un santuario che si narra risalire al VII-VI secolo a.C. con tutto il tempo che hanno avuto lo dovevano risistemare proprio quando ci andavo io, ma io ero lì per le "chiavi di volta" e quindi il danno emotivo è stato contenuto, nel senso che sono riuscito a tornare fino alla macchina prima di scoppiare a piangere e ce l'ho fatta a non farmi vedere da nessuno.
In assenza dell'edificio principale, favorirò una foto del rōmon (楼門, portale della torre), che comunque è considerato uno dei tre più grandi del Giappone ed è patrimonio culturale nazionale importante quindi buttalo via.
Grande ritorno del Nekomata sia perché ho finalmente trovato un sito con il filtro Polaroid dopo che quello che avevo usato per anni mi ha abbandonato, sia perché nel film di Shinkai le "chiavi di volta" si manifestano con le sembianze di gatti, un segno che non ho potuto ignorare lol
MA VENIAMO DUNQUE A QUESTA BENEDETTA KANAMEISHI, a questa pietra custodita nel cuore della foresta del santuario di Kashima e che dovrebbe tenere ferma la coda del pesce gatto, a questo... questo...
...grande, immenso... SASSO!
Nonostante la leggenda voglia che il daimyō (大名, signore feudale) Tokugawa Mitsukuni, anche noto come Mito Kōmon, avesse provato a scavare per sette giorni e sette notti nella terra cercando di dissotterrare la pietra senza però trovarne la fine, occorre dire che essendo pure concava non è che spicchi proprio tantissimo nella pur suggestiva cornice del boschetto in cui si trova.
La lochescion da Principessa Mononoke devo dire diesci, per quanto riguarda la scelta del vedo-non-vedo per la pietra all'interno del recinto non saprei, spero che almeno serva a tenere ben saldo il terreno.
大地震にびくともせぬや松の花 Impassibili restano al grande sisma i fiori di pino
Cose che mi ero dimenticato di sapere (lol): ogni divinità scintoista (神 kami) ha in sé due aspetti, un'anima violenta (荒御魂 aramitama), quella a cui tra l'altro si esprimono le proprie preghiere in quanto lato attivo del kami, e un'anima tranquilla (和御魂 nigimitama), stato di pacificazione a cui il kami arriva grazie alla venerazione dei fedeli. In foto, l'Okunomiya del Kashima Jingū, in cui è venerata l'aramitama di Takemikazuchi-no-Ōkami.
Fedele al suo nome di "santuario dell'isola dei cervi", animali che in Giappone sono considerati emissari e cavalcatura delle divinità, il bosco del santuario contiene anche un recinto dove si trova una trentina di cervi, così come pare anticamente fossero allevati anche all'interno del santuario di Kasuga a Nara, evidentemente prima che sfondassero le recinzioni e cominciassero ad aggirarsi liberi per la città lol Quest'ultimo santuario ha in effetti un forte legame con il Kashima Jingū: nell'anno della costruzione del Kasuga Taisha, fu inviato da Kashima un cervo bianco affinché trasportasse sulla groppa una parte del nume tutelare del santuario di Ibaraki e lo donasse al nuovo complesso scintoista. Tutto molto bello, tutto molto poetico, sennonché poi vai a vedere il recinto e ci sono due cervi maschi che si pisciano in bocca mentre un terzo guarda. Emissari delle divinità mi dicevano, sì?
Un giorno rinascerò cervo a primavera... mah speriamo di no dai.
Spostandosi di una quindicina di chilometri, appena oltrepassato il confine tra la prefettura di Ibaraki e quella di Chiba troviamo il santuario di Katori, dedicato a Futsunushi-no-Ōmikami. Se il patrono del Kashima Jingū viene citato nel Kojiki, quello del Katori Jingū è nominato nel Nihon-shoki (日本書紀, Annali del Giappone), opera di poco più tarda (720 invece che 712) scritta in cinese classico per presentare la storia del Giappone agli altri Paesi dell'Asia (quindi purtroppo non esiste ad oggi una traduzione in italiano che vi possa citare come ho fatto col Kojiki, vi dispiace eh? lo so, riesco a vedervi affranti da qui). Secondo il Nihon-shoki, ad aver negoziato con la divinità di Izumo affinché cedesse il suo regno ad Amaterasu furono i due dei Takemikazuchi-no-Ōkami e Futsunushi-no-Ōmikami, ma fu quest'ultimo a essere scelto dai celesti, mentre Takemikazuchi gli si accodò all'ultimo minuto per dimostrare di non essere da meno. Anche questo santuario sarebbe antichissimo, risalente addirittura al VII secolo a.C., e nel suo boschetto è custodita la "chiave di volta" convessa che tiene ferma la testa del namazu.
Devo dire che il fatto che questo santuario NON fosse in ristrutturazione me lo ha fatto apprezzare di più del Kashima Jingū, ma non ho problemi ad ammettere il mio bias lol
L'edificio principale (拝殿 haiden, sala delle preghiere) è laccato di nero, cosa relativamente rara per l'architettura scintoista e che dà all'edificio un aspetto estremamente elegante facendo risaltare ancora di più i dettagli in oro.
Colours of autumn @ Katori Shrine 🍂
Io che cerco di imitare la #ragazzaautunno - dov'è la mia bevanda al radicchio pedocio?
La "chiave di volta" convessa che tiene ferma la testa del namazu. Lei non era neanche in una lochescion da dieci, messa un po' a caso in mezzo alla foresta con la palizzata intorno, però sicuramente fa già più scena della sua gemella concava.
Katori Jingū: un santuario che vi verrà voglia di visitare ancora ⚓️
Ma adesso basta con tutta questa cultura e veniamo alla vera domanda: ma sto pesce gatto, si mangia? Lo avevo visto cucinare in una puntata di Masterchef (lol, i miei riferimenti, che vergogna) ma non sapevo se in Giappone fosse consuetudine dato che normalmente non lo si vede nei menù, quand'ecco che proprio all'uscita dal Kashima Jingū ci imbattiamo in un ristorante specializzato in pesce gatto. Il mio entusiasmo per questo pesce che non avevo mai mangiato prima era alle stelle e mi sono lasciato convincere dal full-course che prevedeva una versione cruda, una versione cotta e una fritta, e dopo averlo provato in tre salse diverse credo di poterlo dire: non sa proprio di niente lol. È un po' come il pesce palla, il temutissimo fugu che viene considerato una pietanza di lusso anche per il fatto che se cucinato da chef inesperti che non eliminano la ghiandola che produce il veleno rischiate pure di rimetterci le penne, senza però averne l'aura di fastosità lol.
Oh beh, speriamo almeno che mangiare il pesce che provoca i terremoti porti fortuna, o quantomeno che non porti rogna lol
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Merletti di carta
di Hauswirth e Saugy
introduzione di Charles Apothéloz
Franco Maria Ricci, Fontanellato (PR) 1978, 120 pagine, 23x25 cm, Volume con copertina rigida in seta contenuto in un cofanetto, Esemplare n.E 072
euro 90,00
email if you want to buy :[email protected]
Raccolta dei mirabili lavori di Johann-Jakob Hauswirth, che fece dono al Pays-d’Enhaut di un’arte popolare, la quale deve all’applicazione e alla perizia di Louis-David Saugy, l’essere diventata la tradizione che ha dato celebrità alla vallata.
Fra le nevi e i dirupi del Pays-d’Enhaut, nel cuore della svizzera Romanda, il piccolo museo di Chateau-d’Oex esibisce insospettati tesori di un’arte perduta: immagini dai colori vivacissimi, ingenue scenette pastorali, fiori, animali, piccole cose della vita di una valle alpina ritagliate nella carta e trasfigurate dalla fantasia di Johann-Jakob Hauswirth e Louis-David Saugy il quale, già quando si spense, nel 1953, era già stato consacrato come uno dei più grandi ritagliatori di merletti di carta.
15/01/23
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ordini a: [email protected]
twitter: @fashionbooksmi
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#merletti di carta#Johann-Jakob Hauswirth#Louis-David Saugy#esemplare numerato#immagini ritagliate carta#Franco Maria Ricci#fashionbooksmilano
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Verona Piano Festival: la musica classica tra ville e palazzi storici
Verona Piano Festival: la musica classica tra ville e palazzi storici Musica, arte, eccellenze del territorio. Torna il Verona Piano Festival, cartellone di concerti nei luoghi della cultura di Verona e provincia promosso dall'Associazione Musicale Liszt 2011. E lo fa con un cartellone, per l'estate 2024, più che raddoppiato. Ben 14, infatti, gli appuntamenti in programma per questa 12^ edizione. Quattro mesi di bellezza, dal 6 giugno al 6 ottobre, con un unico filo conduttore: la musica e i suoi protagonisti. Orchestre, gruppi da camera vocali e strumentali, solisti, giovani artisti vincitori di premi internazionali e musicisti già acclamati in tutto il mondo allieteranno infatti le serate estive in dieci location da sogno: corti, pievi, dimore storiche dal centro storico, alla Valpolicella, alla Valpantena, che per l'occasione verranno valorizzate da accompagnamenti culturali e degustazioni di vini veronesi. "Una grande manifestazione musicale che unisce le forze migliori della città – sottolinea il presidente della 4^ Commissione consiliare – per rendere possibile nell'arco di quattro mesi la realizzazione di un ampio cartellone di appuntamenti in città e in provincia. Un Festival che arricchisce, con spettacoli musicali di altissima qualità, la programmazione culturale della nostra città. Musica che diventa anche l'occasione per scoprire luoghi importanti del nostro patrimonio, in una veste diversa e suggestiva". Il programma è stato presentato questa mattina a Palazzo Barbieri. Sono intervenuti anche il direttore artistico Roberto Pegoraro, presidente dell'Associazione Liszt 2011, il vicepresidente di BCC Valpolicella Benaco Banca, il presidente della Società di Belle Arti di Verona Gianni Lollis, la direttrice dei Musei civici Francesca Rossi e il professore ordinario di Slavistica all'Università di Verona e presidente della International Dostoevsky Society Stefano Aloe. Programma del Festival mesi giugno/luglio Il Festival debutta con un'anteprima e un concerto inaugurale entrambi gratuiti, in collaborazione con i Musei Civici di Verona, nel Cortile del Museo di Castelvecchio. Giovedì 6 giugno, anteprima con il Coro della University of Alabama at Birminghman, che proporrà 'Musiche per coro dall'America contemporanea' (visita del Cortile a cura di Gianni Lollis). Il concerto inaugurale si terrà invece martedì 11 giugno con 'Passione Kreutzer: da Beethoven a Tolstoj': introduzione al romanzo 'La Sonata a Kreutzer' di Lev Tolstoj a cura di Anna Giust e Stefano Aloe, adattamento teatrale di Andrea de Manincor, quindi Sonata 'A Kreutzer' eseguita da Davide Alogna al violino e Roberto Pegoraro al pianoforte. Martedì 18 giugno alla Pieve di San Giovanni in Valle (illustrata dai volontari di Verona Minor Hierusalem) in scena 'Violino e violoncello: geometrie variabili', con Enzo Ligresti al violino e Giorgio Fiori al violoncello. Intenso il programma del mese di luglio. Si comincia martedì 2 luglio al Teatro Filarmonico con il grande pianista australiano Leslie Howard in 'Franz Liszt tra Borodin e Glazunov'. Una settimana dopo ad animarsi sarà Villa Mosconi Bertani di Negrar con 'Giovani orchestrali... vecchi capolavori', con la St. Alban's Orchestra diretta da Robert Hodge. Domenica 14 luglio si torna in città: il Bastione delle Maddalene ospiterà infatti 'Dalla classica al Jazz', con la Exeter Orchestra diretta da Peter Tamblyn e Matt Davies (ingresso gratuito), concerto preceduto dalla visita al bastione a cura di Daniele Bressan. Lunedì 22 luglio ci si sposta a Zevio, dove alla Chiesa di San Pietro Apostolo andrà in scena 'Armonie visive', con l'Ensemble At the Movies e Paolo Savio al pianoforte. Una settimana dopo, 'Danze spagnole' a Villa Arvedi di Grezzana, con uno dei più grandi chitarristi europei, Giulio Tampalini, accompagnato dalla danza di Anna Beschi (introduzione sulla villa a cura di Silvia Baschirotto, degustazione di vini offerta da Cantine di Verona). Il calendario di luglio si chiude, martedì 30, alla Cantina Fratelli Zanoni di Lazise con 'Un secolo e mezzo di pianoforte', con il pianista Maurizio Moretta. Programma completo sul sito: https://veronapianofestival.it/programma.html Per informazioni è possibile contattare il numero 345 160 4938 o consultare il sito veronapianofestival.it e inviare una mail a [email protected] Biglietti. Prevendita su veronapianofestival.it, vivaticket.it e punti vendita autorizzati - in loco dalle ore 19.30. Inizio concerti ore 21. Introduzione artistica della location, ove prevista, ore 20.30. (l'ingresso è riservato ai possessori del biglietto per il concerto). "Il Verona Piano Festival trasmette il grande patrimonio della musica colta, e del suo accesso a questa, ad un pubblico trasversale e quindi alle nuove generazioni – spiega il direttore artistico Roberto Pegoraro –. Un Festival che affonda le sue radici nei territori dell'affascinante provincia scaligera, che ci accoglieranno diventando essi stessi luoghi sociali di arricchimento culturale e di aggregazione. Spazi - alcuni già noti, altri meno conosciuti - capaci di presentare i contenuti artistici in una nuova dimensione esperienziale e che, a nostra volta, cercheremo di valorizzare con l'aiuto di esperti storici dell'arte, per un viaggio meraviglioso attraverso secoli di architettura, di arte, di musica".... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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tassidermia
Dalla cima di ghiaccio brillante
osserviamo lungo la vallata l’accumulo di tenerezza
creatasi tra un nutrimento & l’altro
nelle ultime valanghe durate quattro anni. Le cinture della terra
sul campo di fiori, ho sognato un cimitero senza lapide,
senza il tuo nome, che era il mio cortile e che ora è
un cibo. Me lo porto alla bocca.
Quando io ti allungavo le mani
e tu bevevi da me sangue calmo
la sentivi la terra? La corona di uccelli che colonizzavano
il cielo e nella dissoluzione azzurra e rapida,
il ricordo del lago che precede la valle e la montagna
di ghiaccio, era ghiaccio?
Il tuo?
Sparpagliato e sottile come una scheggia, entrare dentro la carne
solo per il sangue, solo per assaggiare. La tua è
una bocca di una madre addolorata, cerchi
qualcuno da annaffiare.
Ma la sentivi la terra?
Dopo, ho sognato disegni di alberghi luminosi, senza il tuo nome,
che era la mia casa e che ora è
la mia lapide. Incise addosso coronarie di morsi.
Hai saputo che un cervo non ha canini?
Che sono morto per un misfatto? Per una valanga?
Parole sapide, quando siamo soli e
la muffa di una cantina sulla strada
curva della terza stagione,
tu sei in segreto fedele ma infelice.
La verità che prometti ora è un miracolo storto, ma è
per le sembianze da Falso Dio, culto di gole rosa e
la testa pettinata e custodita oltre la ringhiera.
Quando ti allungavo le mani e tu bevevi
l’acqua che passava dalla fontana
lo sentivi il sangue?
Era come ruggine dentro di me
caduto nel banchetto imbandito delle tue fandonie,
come se tu fossi una piccola serratura colma di polvere invecchiata
dall’amarezza e io fossi solo un’antica chiave che non
trova il verso giusto. Ti aspettavo trepidante con ogni
briciola avanzata, stavo raggomitolato sotto i tavoli
per amarti in assenza d'altro, mi hanno bandito dalle
tue cerimonie. Non sono più il benvenuto
in un corpo che somiglia ad no scaldabagno in rame,
tutto fatto di ferro e durezze, completamente solo in quel seminterrato
annebbiato che chiamano bagno.
Riversato sul water come se stesse espiando un
esorcismo, pregando le sorgenti freddissime di
trovare contatto con la sua gola di alcool e fiammata.
Nei suoi occhi abita la mia carne
ferma come uno spillo macchiato di rosso, mi ha appeso
al muro come un vero trofeo di guerra,
le membra espiate di un giovane mandante ariano.
Spalanchi la bocca e attendi che esca fuori una melodia
ma è il rantolo della possessione che ti fa
vomitare addosso. I fili elettrici che si concedono ai giocattoli, ora
i bambini dai capelli bruciati hanno le dita pigre.
Hai smesso di chiederti se il ghiaccio fosse il tuo?
L’alba si concede come il dorso di un limone
inaridisce il tuo viso, io non voglio essere normale
ci sono troppi modi per essere uno scherzo della natura,
quando ti tagli il pollice ti dicono ti premere forte per
contenere l’emorragia,
tu hai pensato di premermi forte
quando sgorgavo fuori come un folle?
Se avessi ascoltato tua madre ora avresti pietà per
questo me da fragili dettati, chierico che in tutte le pareti prega,
inginocchiato dietro i saluti dolci, e se io avessi ascoltato
mia madre ora avrei un po’ di monete in più, sepolte dall’affanno
dello studio, un chirurgo con abbastanza pesi alle caviglie per
lasciarsi morire.
Ho sognato le lacrime di un piccione selvatico, senza il tuo nome,
che era il mio essere ragazzo e che ora è il mio
essere uomo.
I fiori immacolati che prendono i colori dei metalli verdi,
l’angelo sorveglia. Mi chiedi: dove andrà a poggiare
le sue ali tenere?
Ma ti confondi la protezione con l’inverno.
Cade la valanga, la montagna viene invasa, passano ancora
due anni,
e poi?
La senti la terra?
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Un’altra ipotesi è che, dopo un inverno freddo e buio, ci si consoli con il pensiero dell’arrivo di giorni più caldi e chiari, ma quando questi finalmente arrivano ci si accorga che la vita non migliora. Non migliora mai.
Niviaq Korneliussen, La valle dei fiori
#la valle dei fiori#citazione libro#citazione#libro#letteratura#solitudine#vita#dolore#depressione#aspettative#Niviaq Korneliussen
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da pioggia sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello". Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sè una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.
È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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Il Tesoro dei Merletti di Cogne: Un'Eredità di Quattro Secoli
Il Tesoro dei Merletti di Cogne: Un'Eredità di Quattro Secoli.
Nei villaggi alpini di Cogne, tra i maestosi paesaggi della Valle d’Aosta, un'arte antica si perpetua attraverso sottili trame e abili mani: l'arte del pizzo al tombolo. Questo tesoro prezioso narra una storia che affonda le sue radici nell'anno 1665, quando monache benedettine, fuggite dal monastero di Cluny, trovarono rifugio in questa regione montuosa.
Ospitate in vari comuni della Valle d’Aosta, le monache condivisero il loro sapere con le donne locali, insegnando loro l'antica arte del pizzo al tombolo. Questa tradizione, trasmessa di generazione in generazione, ha resistito al passare dei secoli, mantenendo intatto il suo fascino e la sua bellezza unica. A differenza di altre produzioni europee, dove i disegni sono riprodotti da cartoni, il pizzo al tombolo di Cogne è frutto dell'insegnamento diretto e dell'esperienza pratica, tramandata di madre in figlia.
Oggi, grazie a questo legame fragile ma tenace con il passato, l'arte del pizzo al tombolo continua a prosperare a Cogne, testimoniando l'attaccamento della comunità valdostana alle sue radici tradizionali. Le abili artigiane di Cogne lavorano con maestria i loro fuselli sul cuscino circolare del tombolo, intrecciando motivi intricati e sofisticati. Questo antico strumento, il "coessein", è un cerchio imbottito con paglia e lana, sostenuto dal suo caratteristico "cavalot", un mobiletto in legno scolpito con motivi ornamentali e il nome della merlettaia.
Esempio di Tesoro di Merletti.
L'intreccio dei fili di lino, eseguito con numerosi fuselli, dà vita a splendide stilizzazioni di animali, fiori e oggetti, ciascuno con un nome arcaico e suggestivo nella lingua locale. Questi capolavori di rara bellezza erano considerati l'ornamento per eccellenza, aggiungendo una nota di raffinatezza e grazia agli abiti severi e austriaci indossati dalle donne di Cogne.
Oggi, Cogne vanta una cooperativa di 40 merlettaie, che producono circa 1.500 metri di pizzo all'anno. La qualità indiscussa di questo merletto risiede nella sua complessità di esecuzione, nella bellezza dei motivi e nella straordinaria robustezza e durata. Ogni pezzo racchiude in sé secoli di tradizione artigianale e la passione delle donne di Cogne per la loro arte.
In un mondo sempre più dominato dalla produzione industriale, il pizzo al tombolo di Cogne rimane un esempio prezioso di artigianato tradizionale, un simbolo del legame tra passato e presente, e una testimonianza vivente della ricca cultura delle Valli d’Aosta.
ragncampagnin
Esempi di Prodotto Tessile Italiano
Il tesoro dei Merletti di Cogne
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Novità a Varese: La Soluzione Top per i Tuoi Problemi Domestici è Qui! Scopri di che cosa si tratta...
Varese Svela il Segreto: Velocità e Qualità nel Nostro Servizio Domestico
Se vi trovate nella scomoda situazione di dover affrontare un'emergenza idraulica, elettrica, di fabbro o di spurgo nella provincia di Varese, non cercate oltre! Servizi Urgenti Varese è qui per offrirvi assistenza immediata, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, anche durante i giorni festivi come Natale, Capodanno o Pasqua. L'obiettivo principale dei Servizi Urgenti Varese è risolvere i vostri problemi in modo tempestivo, limitando i danni e evitando ulteriori complicazioni e costi. I nostri tecnici professionisti sono pronti a intervenire ovunque nella provincia di Varese.
I Nostri Servizi di Pronto Intervento:
Idraulico (03321647711)
· Montaggio scaldabagno
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Fabbro (03321647712)
· Manutenzione Serrande
· Apertura Porte blindata
· Apertura Porte normale
· Riparazione Tapparella
· Riparazione Serrande
· Riparazione finestre
· Apertura cassaforte
· Cambio Serratura
Elettricista (03321647713)
· Corto Circuito
· Cambia Salvavita
· Riparazione Elettriche
· Assistenza Elettriche
· Impianto Elettrico
· Certificazione Elettrica
· Installazione Elettriche
· Manutenzione Elettrica
Spurgo (03321647714)
· Pulizia delle fosse biologiche
· Pulizia Linea Fognaria
· Disinfezione dei pozzi neri
· Video Ispezione su colonne e condutture
· Pulizia delle fosse settiche
Dove Operiamo:
Ci troviamo in diverse località della provincia di Varese, tra cui:
Campo Dei Fiori, Sacro Monte, Velate, Fogliaro, Sant’Ambrogio, Bregzzana, Rasa
Avigno, Masnago, Calcinate degli Orrigoni, Carrozzeria
Bobbiate, Mustonate, Lissago, Schiranna, Calcinate del Pesce
Bosto, Casbeno, Campigli, Schirannetta
Centro, Biumo Inferiore, Brunella
Valle Olona, Belmonte, San Fermo
Belforte, Mentasti
Biumo Superiore, Ippodromo, Valganna, Olona-Mulini Grassi
Montello, Aguggiari, Sangallo
Conca d`Oro, Bellavista-Loreto, Cartabbia, Novellina, Capolago
San Carlo, Bustecche, Bizzozero
Giubiano, Ospedale
Non lasciate che un imprevisto rovini la vostra giornata, contattate Servizi Urgenti Varese per un intervento rapido ed efficiente!
Accettiamo tutti i metodi di pagamento per garantire la massima comodità. Vi invitiamo a visitare il nostro sito web all'indirizzo https://serviziurgentivarese.it/ per ulteriori dettagli sui nostri servizi e per conoscere meglio il nostro team. In caso di emergenza, non esitate a chiamarci al 800134967 e saremo felici di assistervi.
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Marché de Fort 2023 a Bard
Il Marché au Fort, l’evento autunnale che promuove e valorizza le produzioni agricole del territorio valdostano, tornerà nel weekend di sabato 7 e domenica 8 ottobre 2023, dalle 9.30 alle 18.30, nel Borgo medievale di Bard. Questa grande mostra-mercato consentirà ai visitatori di poter conoscere e assaporare i fiori all’occhiello della tavola valdostana, dato che i 72 produttori di questa edizione presenteranno l’eccellenza della filiera agroalimentare di qualità della più piccola regione d’Italia: formaggi, salumi, mieli, prodotti da forno, marmellate, produzioni ortofrutticole, erbe officinali, birre e vini. Non mancheranno degustazioni, animazioni ed intrattenimenti. Nelle due giornate il Forte di Bard ospiterà anche il Convegno Montagna Slow Valle d’Aosta – Natura è salute a cura di Slow Medicine, Slow Food Aosta e Isde Medici, che ha lo scopo di promuovere la coltivazione degli orti e il contatto diretto tra produttori e cittadini, in un’ottica di sempre più marcata attenzione ai prodotti a km zero, al benessere dei consumatori, alla tutela dell’ambiente e della biodiversità. Sabato 7 ottobre si potrà prendere parte all’itinerario Il Borgo e il Forte di Bard, con la partenza alle 14 dall’edificio di Accoglienza del Forte, una visita del Borgo medievale con tappa al Geosito archeologico e alle incisioni rupestri, la salita al bivacco Sberna e la visita del Forte. Per domenica 8 ottobre è previsto l’itinerario Da Bard a Donnas,con partenza alle 14 da Piazza Cavour nel Borgo di Bard, visita alla Strada romana e al Borgo medievale di Donnas, oltre che all’ecomuseo latteria di Treby, fino all’arrivo all’area della Sagra della Castagna e degustazione di caldarroste. Prenotazione per gli itinerari naturalistici si può fare scrivendo a [email protected] o telefonando al numero 39 0125 833811 mentre la partecipazione è gratuita. Un servizio navetta gratuito collegherà dalle 9. alle 19.30 i parcheggi periferici dislocati lungo la statale 26 della Valle d’Aosta con l’area della manifestazione, mentre l’accesso all’evento è gratuito. Inoltre in occasione del Marché au Fort sarà gratuito anche l’accesso al Forte di Bard, mentre resta a pagamento quello a mostre e musei. Read the full article
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L'ultima canzone (Francesco Paolo Tosti)
Canção italiana de 1905.
Letra em italiano: M'han detto che domani Nina vi fate sposa, Ed io vi canto ancor la serenata. Là nei deserti piani Là,ne la valle ombrosa, Oh quante volte a voi l'ho ricantata!
Foglia di rosa O fiore d'amaranto Se ti fai sposa Io ti sto sempre accanto.
Domani avrete intorno Feste sorrisi e fiori Nè penserete ai nostri vecchi amori. Ma sempre notte e giorno Piena di passione Verrà gemendo a voi la mia canzone.
Foglia di menta O fiore di granato, Nina, rammenta I baci che t'ho dato!
Ah! … Ah! …
Tradução para português: Disseram-me que amanhã Nina, você se casará, E ainda canto a serenata para você. Lá nas planícies desertas Lá, no vale sombrio, Oh, quantas vezes cantei para ti!
Pétala de rosa Ó flor de amaranto Se você se casar, Estarei sempre por perto.
Amanhã você estará cercada de festa, sorrisos e flores Nem pensará em nosso antigo amor. Mas sempre noite e dia Plena de paixão Suspirará para você minha canção.
Folha de hortelã Ó flor de granada, Nina, lembre-se Dos beijos que te dei!
Ah! … Ah! …
Traduções
Franco Corelli 1973
Luciano Pavarotti 1984
Giuseppe di Stefano 1985
Carlo Bergonzi 1987
José Carreras
Alfredo Kraus 1989
Plácido Domingo 1992
Beniamino Gigli 1999
Renato Bruson
Andrea Bocelli 2002
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