#la potenza dell’assenza di rumore.
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pier-carlo-universe · 12 days ago
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Il silenzio e il suo potere nascosto: riscoprire la bellezza della quiete. Ascoltare il silenzio per ritrovare sé stessi. Recensione di Alessandria today
Viviamo in un mondo pieno di rumori: traffico, notifiche, conversazioni continue, musica di sottofondo. Eppure, in questa frenesia, abbiamo dimenticato il valore di una cosa fondamentale: il silenzio.
Viviamo in un mondo pieno di rumori: traffico, notifiche, conversazioni continue, musica di sottofondo. Eppure, in questa frenesia, abbiamo dimenticato il valore di una cosa fondamentale: il silenzio. Non il silenzio vuoto, quello che spaventa, ma quello ricco di significato, che permette di ascoltare non solo il mondo intorno a noi, ma anche noi stessi. Il silenzio è una dimensione preziosa,…
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strawberry8fields · 5 years ago
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Le persone vanno e vengono
Sapevo esattamente che lui era giusto per me. Lo sentivo in maniera distinta. Ricordo di averlo visto un giorno, di essere rimasta a fissarlo per un minuto intero e di averlo sentito. Senza più dubbi o incertezze, ho avvertito che avrei dovuto scegliere lui. E l’ho scelto. Non avrei potuto fare diversamente. Non avrei potuto fare scelta migliore. Era eccezionale. Il suo richiamo era irresistibile. Tutto di lui era irresistibile: la sua scintillante energia, una sorta di sfrontata eccitazione, la sua irrequietudine, l’entusiasmo incontrollato, l’infelicità commovente di fondo, quel qualcosa nel tono della sua voce, la nostalgia appassionata e una cupa tristezza sapientemente celata. Più forte di qualsiasi immaginazione. Ero profondamente colpita da ciò che era. Era impossibile restare indifferente. Non riuscivo a concentrare le mie attenzioni su nessun altro in quel periodo. Non riuscivo a tenere a bada i miei pensieri, pur sforzandomi. Era sempre nella mia mente. Più cercavo di allontanarlo, più lui diventava presenza. Non svaniva, in nessun modo. Non volevo seppellire le mie emozioni o tenerle nascoste, non più. Non era un’infatuazione passeggera, lo sapevo. Non lo è mai stata, sin dall'inizio. Non ho mai dato la sua presenza per scontata. Non volevo certo rinunciare a lui. Ero convinta che non sarebbe servito a niente cercare di resistere quando ogni parte di me voleva cedere. Ogni parte di me voleva lui. Lo desideravo ardentemente, era innegabile. Non c’è stato un momento in cui non sentissi di volerlo profondamente. Di volere lui e nessun altro. Era l’unico di cui mi importasse veramente qualcosa. L’unico che contasse. L’unico che valesse per me. Come poteva non essere lui?  
Ho vividi ricordi dei giorni trascorsi insieme. Le ore passate al suo fianco erano ore felici. Ero in preda all'eccitazione. Fin dai primi inebrianti giorni. Erano momenti al di fuori del tempo, al di fuori di tutto. Intervalli di febbrili slanci e sogni ad occhi aperti. Momenti di dialogo, di confronto. Di incontro tra due modi di pensare, di vedere il mondo e affrontare la vita. Di intimità. Di accesso ad un mondo inaccessibile agli altri.
Con lui, ho scoperto aspetti nuovi e inconsueti della realtà. Lui, la mia lente d’ingrandimento. Ricordo gli effetti di straniamento provocati dai suoi baci. Le nuove sperimentazioni.  Gli sconvolgimenti emotivi senza precedenti. La percezione aumentata delle emozioni. Le sentivo, intimamente, in profondità  tutte quelle emozioni. Mi sentivo finalmente a mio agio.
Ho scoperto la potenza del vivere qui e ora. Nuove idee, nuovi percorsi, nuove possibilità. La spensieratezza, soprattutto. Ho trovato risposte alle angosce che da tempo minavano le mie certezze. Riuscivo, con lui al mio fianco, a non sprofondare negli abissi della mia mente. Lui, mi ha dato spazio. Ha rispettato i miei tempi interiori. Con il tempo, ho abbassato lentamente le mie difese. Ho inventato un nuovo equilibrio.  Lui riusciva a gestire sapientemente il mio essere fragile. Sapeva cosa doveva fare e come farlo, senza rompermi. Faceva scomparire i miei fantasmi come per incanto. Gli impulsi vitali, per troppo tempo soffocati, erano tornati ad imporsi. Al suo fianco, mi sono sentita uno spirito libero e spensierato.
 Dov'è adesso? Non lo so.
Con il tempo, ho imparato a fare i conti con il sottile equilibrio di gioie e dolori, di presenza e mancanza. E ora è la volta del dolore e dell’assenza.
Le persone vanno e vengono, mi ripeto.
Anche lui è andato via.
I miei sentimenti non sono svaniti.
Per me, è ancora un rifugio. Un’ancora. Una struttura portante, senza tempo. 
Un punto fermo nell'eternità.
 “Oh, vorrei tanto che anche tu ricordassi
i giorni felici del nostro amore
Com'era più bella la vita
E com'era più bruciante il sole
Le foglie morte cadono a mucchi…
Vedi: non ho dimenticato
Le foglie morte cadono a mucchi
come i ricordi, e i rimpianti
e il vento del nord porta via tutto
nella più fredda notte che dimentica
Vedi: non ho dimenticato
la canzone che mi cantavi
 È una canzone che ci somiglia
Tu che mi amavi
e io ti amavo
E vivevamo, noi due, insieme
tu che mi amavi
io che ti amavo
Ma la vita separa chi si ama
piano piano
senza nessun rumore
e il mare cancella sulla sabbia
i passi degli amanti divisi
 Le foglie morte cadono a mucchi
e come loro i ricordi, i rimpianti
Ma il mio fedele e silenzioso amore
sorride ancora, dice grazie alla vita
Ti amavo tanto, eri così bella
Come potrei dimenticarti
Com'era più bella la vita
e com'era più bruciante il sole
Eri la mia più dolce amica…
Ma non ho ormai che rimpianti
E la canzone che tu cantavi
la sentirò per sempre”.
- Jacques Prévert, Le foglie morte
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pangeanews · 5 years ago
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“Infiammava la mia fantasia, questo crudele e impietoso Paradiso, con il suo feroce brulicare di creature”: una lettera di Horacio Quiroga a Ezequiel Martínez Estrada
Misiones, marzo 1936
Caro Ezequiel [Martinez Estrada],
Tu hai il genio di non accettare nulla, io infine accetto tutto – ma fino a che punto, e per quanto? – perché, sadicamente, amo l’uomo nel suo punto schifosamente più debole. Ma non sopporto le vittime, i mentecatti del ricatto.
Nella mia vita, dopo aver letto tutto quello che avevano scritto gli altri, dopo aver preso notizia di tutte le soluzioni, ho provato un senso di profonda desolazione. Sono stato testimone del vicolo cieco a cui sono giunte molte delle cosiddette civiltà evolute, con la guerra impietosa contro tutto quel che è terreno. Una contesa millenaria? Nel corso dei secoli, ho visto questi spregiatori della terra scrivere, e azzardare senza la minima vergogna, paralleli impossibili tra uno scrittore o un poeta che ammiravano e la potenza animale, una lince, un’aquila, una “narrazione felina”, e in realtà erano agli antipodi. E ancora oggi è così. Per dio, quale presunzione! Rido, rido di tutti loro. Non solo si sono spinti fino a dichiarare lo smisurato potere di parola di un essere umano, ma lo hanno ammantato della forza e bellezza animale, di una linfa quasi atmosferica, geologica che non ha mai posseduto, non possiede e mai possiederà. Immagina all’opera, Ezequiel, l’antinatura e la sua vana pretesa di scalzare la natura, nell’illusione di scipparle fascino e potenza, con l’ausilio di una perversione intellettuale in seno al gioco delle idee, dell’arte. E disprezzo questo complesso di inferiorità sfoggiato come una forza che eguaglia la potenza animale con la pretesa di elevarla, nobilitarla, sfrondarla dal suo residuo volgare.
Questi creatori, che coltivano la sovranità nel chiuso di una stanza e, seduti alla loro scrivania, immaginano un’infinità di mondi, vivono nella virtualità dell’immaginazione, nella completa astrazione, nel feticismo delle parole, perché il mondo che attraversano, qua giù, in fondo non li riguarda. Loro, che sprofondano nel fascino dell’Idea e, nell’atto di volgere il proprio sguardo al di là del reale, che disertano, si dedicano a quell’altrove che si rivela sempre meglio del qui. Tutto quello che si cela alla vista li seduce, il mistero è la loro teologia, e la realtà solo un punto di partenza per nuove “straordinarie avventure”, quando fanno dell’assenza un mito. Del regno animale, se ne facessero ancora parte, rappresenterebbero gli esemplari più delicati.
Questa ascesi dilagante è deludente, la domesticazione della posa. E la posa è una gabbia, una delle più vili, quella che umilia ogni spontaneità, quando finiamo per farci prendere a schiaffi da una donna esasperata che vuole farsi fottere da noi, mentre tentenniamo in quel sofisticato erotismo tutto mentale che paralizza i nostri atti. A tutti coloro che troppo amano riflettere sul mondo, prima o poi è accaduto, anche a me, nei giorni in cui sono minato dall’umore di nero vestito, questo impietoso compagno, più che dall’amore per i libri. Apprezzo, infatti, che tu altrove abbia parlato di “eleganza ma non raffinatezza”, perché la prima è innata, naturale… così anche un lupo è elegante, mentre la seconda è figlia di ciò che è coltivato, artefatto e dunque umano troppo umano.
In una nostra lettera, mi sono definito un lupo preistorico, iperbole non lontana dal vero – non mi è estranea, come lo è al contrario per coloro che tu elogi ammantandoli di metafore animali… “gli occhi come un lupo che divora galassie”, hai scritto, ahimè, di un uomo che “rare volte accondiscese all’azione e che visse dedito ai puri piaceri del pensiero”. E sono analogie che perdono solo a te, alla tua sensibilità di rango, io, che da ragazzo sono cresciuto tra gli animali, in vaste terre, circondato da cani, gatti, papere, conigli, tacchini, galline. Allora me ne andavo per le valli che cingevano la nostra terra per giornate intere, tra mucche, tori, asini, pecore, fagiani e volpi che pascolavano e vagavano in libertà, e senza contare gli animali che vanno sempre temuti. Scrostavo le cortecce degli alberi per trovare gli scorpioni, che prendevo a mani nude. Salvavo belanti agnellini caduti nei crepacci, abbandonati a se stessi, calandomi con le corde, per poi portarli a vivere con me. Un giorno tornai a casa con un colosso nero, un grande terranova che si era smarrito, e una plateale entrata nella tenuta a cavalcioni sulla sua schiena, io ero piccolo e lui immenso e docile. Allora mi immergevo in fiumi agitati da acque limpide, insinuati in stretti canaloni che percorrevo trascinato dalle correnti. Scalavo alberi immensi, dalla verticalità imponente, come un redivivo Cosimo Piovasco, vissuto nel Settecento. Nessuna casa, persona o rumore disturbava l’avventurosa quiete di queste mie passeggiate. Da grande, in una tenuta, da quel mio vecchio amico che sai, là dove incontrai l’orso, fui ospite con una donna che lavorava nella moda – aveva quarant’anni, era una lesbica dal tenore molto maschile, che pretendeva di fare la dura e aveva la deludente ansia di essere più seducente dei maschi, di fottere meglio di loro, e quando sul bordo erboso del ruscello trovai un serpente di un metro e mezzo che strisciava e lo presi per la coda con la noncuranza di un fanciullo divino – lui, che tenacemente voleva mordere la mia innata capacità di maneggiarlo – e tentai di avvicinarmi a lei, per farle ammirare da vicino quella misteriosa creatura, scappò via a gambe levate, goffa, isterica, lanciando una sequela di striduli urli, femminili, molto femminili, anzi, proprio come quella femminuccia che pretendeva di non essere. Quel giorno non mise più piede nei pressi del corso d’acqua. Ma le donne, non sono più radicate nella vita degli uomini, come si dice e pretendono? In ogni caso, la spontaneità, l’ingenuità, la natura, anche quella più cupa e feroce, a me hanno sempre parlato più profondamente di qualunque diafano verbo. Ho ammirato da vicino l’onça, il giaguaro amazzonico, ho avuto tarantole giganti sul braccio, boa sul collo e le spalle, ho cavalcato cammelli, cavalli e rincorso nella sabbia del deserto un cobra fuggito dalla gabbia, mentre tutti riparavano sui tetti delle macchine e io al contrario ne seguivo da vicino le tracce per raccogliere in una scatola vuota di Malboro le rovine della sua muta iridescente, la pelle scorticata. Ma questa è la pura follia di allora unita a una rovinosa fascinazione per la figura dell’animale.
Ho scritto sull’Amazzonia, la zona di Diamantino, famosa per le sue riserve di diamanti, se non altro perché lì abbiamo posseduto terre immense – nessuno lo sa – di quindicimila ettari, vaste come tutta la nostra regione, e il nostro vicino, altro proprietario terriero, era una grande compagnia di automobili tedesca – non ho mai capito cosa ci facessero con quelle terre – eppure, una volta che le perdemmo, come tutto il resto, anni dopo io volli andare a vederle dal vivo, desiderai di calpestare quello sterminato mare verde, annusarlo, quel continente di alberi sperduto che infiammava la mia fantasia, questo crudele e impietoso Paradiso, con il suo feroce brulicare di creature, per ricordare il tempo in cui era stato nostro, ma solo formalmente, per la Legge degli uomini, perché la Natura non si lascia possedere, ma solo distruggere dalla nostra follia, quando non è lei ad annientarci.
Io amo le foreste, le stelle, gli elementi non per etica ecologica o eremitica… sono una chiamata allo sprofondare, come le gambe aperte di una donna, in altro modo.
A tal proposito… mi scrivi di Tiziana. Lei ha un talento autentico, soprattutto da dietro, ma è più imperdonabile. Paga alcune tare originarie, la necessità – deprecabile in una femmina piena di talenti – di dimostrarsi intelligente, arrivata, consapevole, piena, di sfoggiare l’abuso del tono poetico, quei suoi inutili riferimenti filosofici, intellettuali. Mi ricorda Monica, la famosa attrice, che in ogni caso è una presenza, una donna capace di sedurre con un gesto e uno sguardo, a comando, alla sua età. Il difetto totale è quando, anche lei, vuole ostentare coscienza intellettuale, competenza letteraria, sapienza politica. Lì precipita nella mediocrità dell’ovvio. Perché non le basta essere una presenza? Perché si vergogna di sapere – e lo sa, lo sa – che le basta dire una sciocchezza per schiavizzare le orde, ed è quello il suo unico genio, quel carisma primordiale, muto, privo di intelligenza. Invece, lo disfa, dandosi al ‘dibattito’, all’orrore dell’astrazione.
Ti abbraccio, amico mio.
Horacio [Quiroga]
*In copertina: Horacio Quiroga a Misiones, 1926
L'articolo “Infiammava la mia fantasia, questo crudele e impietoso Paradiso, con il suo feroce brulicare di creature”: una lettera di Horacio Quiroga a Ezequiel Martínez Estrada proviene da Pangea.
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