#senza nessun rumore
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immensoamore · 6 months ago
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Ti meriti il riposo.
Una notte serena, sogni da bambina, nessun rumore se non il tuo respiro, nessun rumore se non i tuoi battiti.
Ti meriti il riposo, soprattutto da te stessa, da tutte le critiche che ti muovi di continuo, da tutti i fantasmi del passato che non se ne sono andati ma vivono con te ogni giorno, a tutte le ore, anche quando non ci pensi, anche quando sei troppo stanca per accorgertene.
Ti meriti il riposo dalle persone, dalla loro voce, dalle loro pretese, dalla voglia che ciascuno ha di lamentarsi un po', di sfogarsi, di farsi ascoltare.
C'è un tempo per esserci ed uno per sparire.
E tu sparisci troppo poco.
Ti meriti il riposo dalle responsabilità, dalla necessità di sapere cosa accadrà domani, fra una settimana, fra un mese, dalla smania di programmare e controllare tutto, di organizzare, di reagire. Non puoi essere sempre pronta, non devi per forza esserlo.
Ogni tanto, non fare nulla.
Ti meriti il riposo, la solitudine, il silenzio, ti meriti un tempo in cui non ci sia niente a cui pensare. Ti pare impossibile immaginare un vuoto ma sarebbe bello, semplicemente, non sentirti sempre traboccare.
Ti meriti il riposo, gli occhi chiusi, la mente sgombra, un minuto per respirare, per ritrovarti, per riprenderti, senza impulsi esterni, senza sollecitazioni, senza contatto.
Non grandi cose, non troppo tempo, non giorni, non ore.
Momenti.
Ti meriti il riposo, almeno per un attimo.
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schizografia · 8 months ago
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C’è un episodio che ha fatto notizia a Chicago. Qualche settimana prima che mi sottoponessi alla crociera extralusso, un ragazzo di sedici anni fece un capitombolo dal ponte più alto di una meganave – mi pare della Carnival o della Crystal: un suicidio. Secondo il tg si trattava di pene d’amore adolescenziali, una di quelle romantiche storie che nascono in crociera e finiscono male, eccetera. Secondo me c’era qualcos’altro sotto, qualcosa che nessun servizio del telegiornale sarà mai in grado di raccontare. In queste crociere extralusso di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir – soprattutto la notte, quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore dell’allegria cessavano – io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione – uno strano desiderio di morte, mescolato a un disarmante senso di piccolezza e futilità che si presenta come paura della morte. Forse si avvicina a quello che la gente chiama terrore o angoscia. Ma non è neanche questo. È più come avere il desiderio di morire per sfuggire alla sensazione insopportabile di prendere coscienza di quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza alcun dubbio alla morte. E viene voglia di buttarsi giù dalla nave.
D. F. Wallace
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allecram-me · 4 months ago
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Sono il tipo di persona che se combatte per se stessa si sente spietata, un mostro. Però sono pure assurdamente convinta di dovere qualcosa a quella me stessa, e lì va in tilt l’algoritmo. Non so come uscirne. Valerio ha provato a mostrarmi l’alternativa, quella in cui avrei dovuto sentirmi a posto con lo spazio che occupo, ma alla fine la sua malattia era più importante di me, forse è per questo che abbiamo fallito. O forse è per questo che lui poteva permettersi di provare ad insegnarmelo, non lo saprò mai. Ad agosto ad un certo punto è morto il signore senza volto che occupava il letto di fianco al suo in terapia intensiva, per me lui era solo il rumore del monitor dietro la tenda di plastica e un’altra cosa molto più umana: il volto scavato e rugoso della moglie che incontravo fuori, in quella terribile sala d’attesa. Lei non avrà mai un nome per me, lui sì: si chiamava Roberto. Quando lui è morto Valerio stava un po’ meglio, e mi ha raccontato di aver fermato la moglie per esprimerle la sua vicinanza. Lei le ha dato un bacio sulla fronte e le ha detto “adesso sono una cittadina libera, perché non si è mai liberi fin quando una persona che si ama soffre”. Io ho paura che sua madre sia stata sollevata dalla sua morte - ne ho paura perché purtroppo lei è sempre stata una figura problematica, ne ho paura perché lo sembra, perché lo è davvero. Ma è normale, siamo esseri complessi e viviamo esperienze che portano sempre dentro ambivalenze, sia io che Valerio non siamo mai sfuggiti a questo genere di consapevolezze. Ma forse ne ho paura soltanto perché ho paura del mio di sollievo, e mi chiedo dove cazzo sia, combatto con quello che di me è sopravvissuto alla sua morte, mi scavo dentro a mani nude per scovare la mia parte di colpa, e mi incazzo peggio perché ancora non la trovo, perché so che deve essere lì da qualche parte. Poi però trovo che ci sia anche dell’altro, una colpa più neutra, il dolore di sapere che a me non è cambiato niente, o poco, quantomeno nei fatti. Il lavoro operato su me stessa per costringermi a fare i conti col fatto che Valerio non poteva più essere il mio pilastro, tre anni fa. Questi tre anni a prendermi il meglio ed il peggio, la sensazione di vuoto derivante da quell’apprendimento forzato: non è il caso di chiamarlo, chiamerà lui. E lui poi chiamava, ma erano i suoi momenti per me, i momenti in cui ero chiamata ad essere per lui, momenti in cui mi dava tantissimo e prendeva quel poco che avevo da dargli, che - lo so - per lui era tantissimo. Lui era tantissimo per me, ma non potevo dipendere da lui, non potevo nemmeno farci affidamento. La prima parte dovrebbe essere normale: l’amore non è dipendenza, giusto? Io però ero stata così pronta a farlo, quando il suo corpo ancora ce lo consentiva. Lo farei anche adesso se potesse essere qui, se potesse contenermi, se potessi contenere lui. Quindi credo di non essere sollevata dalla sua morte, sono portata a credermi sincera, anche se mi pare inaccettabile - il conflitto. Al contrario, però, penso senza remore che la sua morte mi abbia davvero liberata, e per questo mi sento in debito con questo tempo, col momento presente, con quello che stabilirò come normale per i prossimi anni. È difficile. Vorrei darmi il tempo per piangere. Non ci riesco. Ho pianto tantissimo tre anni fa, ho pianto più quando è morta quella speranza di quanto non abbia fatto adesso, che lui è davvero un racconto chiuso, senza possibilità di scrivere nuove pagine. Forse sto strumentalizzando la sua morte, come ho provato invano a fare anche con quella di papà, forse sono un mostro, e adesso non ho più scusanti per chiedere al mondo di lasciarmi stare, nessun alibi in più. Forse ho ragione io e la vita è davvero solo questo, farsene qualcosa di quello che ci succede - qualcosa come qualsiasi cosa, basta che ci cambi. Perché le cose morte non possono più farlo, e quelle vive sono costrette a subire il cambiamento anche quando sono inermi. Io credo di avere questo problema: non mi accetto inerme. Mi ci sento sempre però.
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filorunsultra · 24 days ago
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Ancora su Translagorai, dopo Pionieri
Nel 1991, Fred Vance chiese al suo amico Jim Nolan quante cime dei Colorado Fourteeners si potessero concatenare in 100 miglia. Qualche giorno dopo, Nolan tornò da Vance con una risposta: quattordici. Il progetto cadde nel dimenticatoio fino al 1998, quando Fred Vance propose ai suoi amici Blake Wood e Charlie Thorn di provare la traversata disegnata da Jim Nolan otto anni prima. I tre partirono una mattina di agosto dal Fish Hatchery Campground di Leadville, Colorado, registrando il primo tentativo di concatenamento su quello che da lì in avanti avrebbe preso il nome di Nolan’s 14. Nessuno dei tre riuscì a finirlo quel giorno, ma partire dall’anno successivo iniziarono a organizzare una partenza ristretta a pochi partecipanti con poche e semplici regole: niente pacer, senso di percorrenza alternato ogni anno, cutoff finale di 60 ore. Si trattava di un evento informale e privo di autorizzazioni, così, quando nel 2003 il Forest Service Department scoprì l’esistenza della gara, Vance e gli altri furono costretti a cancellarlo. La traversata cadde un’altra volta nel dimenticatoio fino a quando Jared Campbell e Matt Hart provarono il percorso nel 2012 registrando il nuovo fastest known time. Il resto è storia.
Nel 2020, Francesco Gentilucci, per tutti Paco, raccontò questa storia, all’ora poco nota in Italia, in un blog italiano di running. Era il primo anno di pandemia, e senza più gare da correre e il costante rumore bianco dell’informazione sportiva (quello che produciamo noi, ogni giorno), Paco si accorse che era venuto il momento di organizzare anche nel nostro paese qualcosa che riportasse il trail a quella dimensione intima ed essenziale. Così pensò a Translagorai Classic.
Translagorai è un trekking di più giorni che attraversa da est a ovest la catena del Lagorai, in Trentino, nord Italia, dal Passo Rolle alla Panarotta. Paco ne parlò con Luca Forti, un amico comune che l’aveva corsa in solitaria l’anno prima, e insieme decisero di organizzare una partenza collettiva aperta a tutti per il luglio di quell’anno. Come per il Nolan’s, anche le regole scelte da Paco erano poche: devi essere indipendente, se decidi di mollare a metà percorso devi trovarti un mezzo, un autostop o tornare alla partenza a piedi, non esiste materiale obbligatorio, devi arrangiarti, i pacer sono ammessi, cambia direzione ogni anno (negli anni pari è Classic, Rolle-Panarotta, nei dispari è Reverse, Panarotta-Rolle) e se corri in meno di 24 ore ti spediamo un adesivo a casa. Non viverla come un’impresa personale, nessun eroismo, a nessuno interessa sul serio quello che fai, ma l’attitudine con cui lo fai.
Nel 2020, da Passo Rolle, partirono in nove. L’anno dopo in 45, l’anno dopo ancora in 65. Paco creò un sito in cui registrare tutti i tentativi, riusciti e non riusciti, e svolti sia durante la partenza collettiva che in qualunque altro momento dell’anno, perché la traversata è sempre esistita ed è sempre lì, basta andare a provarla. Dal 2022 la gestione è passata al Trento Running Club, un gruppo informale di amici con cui dal 2023 abbiamo iniziato a organizzare anche delle attività di trail work obbligatorie per poter partecipare alla traversata collettiva.
Oggi Translagorai Classic è l’FKT più ripetuto in Italia, e il record maschile è detenuto da Nadir Maguet. La traversata è lunga 50 miglia e si svolge su un terreno molto tecnico, le persone non capiscono davvero quanto lento sia finché non ci si trovano in mezzo. Per due terzi la traversata è composta da sterminate distese di porfido prive di un sentiero definito, in cui oltre a sapersi muovere bisogna anche sapersi orientare. Non è pericolosa, non è estrema, è solo lenta e logorante. Non solo, è anche isolata. Sebbene il Lagorai sia una catena montuosa circondata dalle Dolomiti – che sono tra le montagne più antropizzate al mondo – per la sua conformazione e apparente anonimia è rimasto fuori dai principali marker turistici. Questo fatto, però, se era vero nel 2020 quando la traversata nacque, lo è molto meno oggi: come spesso accade in casi come questo, proprio per il fatto che non ne parlava nessuno, del Lagorai hanno poi iniziato a parlarne tutti. Per evitare che la traversata diventasse l’ennesimo marker turistico, con il Board di Translagorai Classic, negli anni abbiamo cercato di introdurre dei sistemi di scrematura naturali, basati non tanto sulla fortuna (come le lottery) ma sul merito. Abbiamo così iniziato a richiedere di svolgere ore di trail work obbligatorie, invitando i partecipanti a tornare anno dopo anno, non solo per correre, ma anche per fare assistenza, per fare volontariato o semplicemente per assistere. Così in pochi anni si è creata una famiglia attorno alla gara, fatta di gente con nomi e cognomi e che si conosce e reincontra anno dopo anno. Non solo: in questi anni, proprio per preservare la dimensione della traversata, abbiamo cercato di mantenere una comunicazione low-key, comunicando tutto attraverso una pagina Facebook e scegliendo di non aprire una pagina Instagram. Abbiamo rifiutato sponsorizzazioni da parte di aziende di materiale da corsa perché questo avrebbe annacquato lo spirito dell’evento, che appartiene prima di tutto alle persone che lo alimentano anno dopo anno, e per questo non può essere venduto. Abbiamo prodotto un libro fotografico in tiratura limitatissima, rifiutando alcune offerte di pubblicazione da parte di un paio di case editrici. Alcune persone che non sono mai venute all’evento potrebbero pensare che sia un modo per apparire esclusivi: non è così, è semplicemente l’unico modo per preservare un piccolo evento dagli effetti della crescita dello sport. Per il resto, come scrivevo sopra, la traversata è sempre lì, se uno vuole farla, basta che vada a provarla.
Nonostante i nostri sforzi di mantenere la Translagorai per ciò che è, limitando così anche i possibili guadagni che ne sarebbero potuti derivare, il lavoro che abbiamo fatto in questi anni è sembrato un boccone troppo pregiato per lasciarselo scappare, e così non sono mancati tentativi di appropriazione, mascherati da amore per questa catena di montagne, che avevano come unico scopo far parlare di sé, prendendo da queste montagne senza ridare niente indietro.
Nell’ultimo anno, ho lavorato a un podcast che racconta la storia del trail running in Italia dagli anni Ottanta a oggi (si chiama Pionieri, ma è in italiano, quindi non vi interessa come si chiama). Per realizzarlo ho parlato con tante persone, tra cui atleti, organizzatori di gare, vecchie glorie, psicologi, skyrunner e ultrarunner di età molto diverse; ho parlato coi primi italiani ad aver corso delle 100 miglia in America e coi primi skyrunner ad aver registrato dei record di ascesa sui 4000 sulle Alpi. Parlando con tutte queste persone sono naturalmente emerse anche tante opinioni diverse, talvolta completamente opposte l’una all’altra, e modi diversi di concepire lo sport. Ne è emerso un panorama complicato, pieno di contraddizioni e sfaccettature, all’interno del quale ognuno trova il proprio spazio, il proprio angolo, la propria nicchia da seguire, insomma il proprio stile. Io ho sempre avuto un’idea molto chiara di cosa volevo da questo sport, e forse ancora di più di cosa non volevo. Ho sempre avuto un’idea molto precisa di come dovesse essere organizzato un evento, di cosa fosse giusto e di cosa fosse sbagliato. Ciononostante, negli anni ho corso gare molto diverse tra loro, skyrace e cross country, mezze maratone e 100 miglia nel deserto, ho partecipato a gare molto grandi e commerciali e ad altre molto piccole, ma non mi sono mai trovato a disagio o fuori luogo, che fosse in mezzo a una folla in Place de l’Amitié a Chamonix o sulla 6th Street di Leadville sono sempre stato bene e mi sono sempre sentito a casa. Così, facendo quelle interviste, mi è capitato di essere d’accordo un po' con tutti loro: con l’organizzatore della grande gara internazionale e col montanaro solitario, con lo skyrunner e con l’ultramaratoneta amatore.
Mi sono chiesto se fosse dovuto a una mancanza di un’opinione personale, ma chi mi conosce sa bene che non è così (ho le mie idee e le dichiaro senza reticenze), così sono arrivato alla conclusione che, se sono affascinato da tutte queste anime così diverse del nostro sport, è forse proprio perché posso coesistere tutte insieme.
Per questo Translagorai è probabilmente la cosa che almeno per me si avvicina di più all’essenza del nostro sport. Perché è allo stesso tempo logica ed estetica, può essere affrontata insieme o da soli, con assistenza o in totale autonomia, può essere affrontata scoprendola un pezzo alla volta o preparandola minuziosamente, pezzo per pezzo, e poi correrla trattenendo il respiro, il più velocemente possibile. Penso che ogni gara abbia un suo preciso stile, con cui va affrontata: non vorrei mai un pacer all’UTMB perché non appartiene alla sua storia, correrei Western States solo con due borracce a mano e la Lavaredo in totale autosufficienza, perché l’una e l’altra sono le caratteristiche con cui sono nate. Translagorai è una tela bianca, aperta allo stile di ogni corridore, alla libera iniziativa. Per questo pubblichiamo soltanto le foto dell’arrivo e della partenza, e degli unici due ristori, e niente di quello che ci sta in mezzo. Perché mostrarla, parlarne, e raccontarla la priverebbero di quel fascino anche un po’ misterioso che la rende ciò che è. Per questo siamo particolarmente duri quando un’azienda o un grande media cercano di raccontarla, perché parlandone e appropriandosene tolgono a chi verrà domani il diritto di poterla scoprire come abbiamo fatto tutti noi. E questo lo trovo imperdonabile.
Translagorai è una linea dritta e logica, ed è bella soprattutto, è davvero bella. Ho corso la 100 miglia più importante al mondo, ho corso la più alta, e la più divertente, ho corso anche la più vecchia ultramaratona americana, questo per dire che ho corso diverse gare che a buon titolo potrei considerare la gara per eccellenza - ma alla fine ogni anno ci troviamo in quel parcheggio sotto a un arco di legno, con qualche amico e una birra, a fare una cosa molto sovversiva, come correre questa traversata in 24 ore. L’ultrarunning è tante cose, ma per me inizia e finisce qua.
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greenbor · 1 day ago
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Cancella, se vuoi,
questa vita debole che si lamenta,
come la spugna cancella il gesso
che non resta sulla lavagna.
Aspetto di tornare al tuo circolo,
che finisca il mio cammino senza senso.
La mia vita era testimonianza
di una logica che durante il viaggio dimenticai,
queste mie parole sperano
in un evento impossibile, e non sanno qual è.
Ma ogni volta che sentii
la tua dolce risacca sulle (tue) sponde
mi prese una meraviglia
come quella di uno privo di memoria
che si ricordi del suo paese.
Imparata la mia lezione
più che dalla tua onnipotenza
infinita, dal respirare
che quasi non fa rumore
di un meriggio solitario presso di te,
a te mi restituisco con umiltà. Non sono
altro che la scintilla di una torcia. Lo so bene: bruciare,
questo, nessun altro, è il mio significato.
Eugenio Montale
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libero-de-mente · 24 days ago
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La porta d'ingresso si apre bruscamente, senza nessun preavviso. Come il suonare al citofono o al campanello d'ingresso, oppure il rumore delle chiavi che girano nella toppa della serratura.
Dalla mia postazione al computer, attraversando con lo sguardo il disimpegno, vedo la figura di un uomo. Retro illuminata dal riflesso della luce dei lampioni che proviene dalle finestre del vano scala. Non ha acceso la luce delle scale figlio n1.
Così la sua silhouette da uomo, e non da ragazzo, mi appare nitida. Edward Cullen, lo chiamo così nella mia fantasia. Altezza 1,90, capelli biondi con accenni di rutilismo, pelle pallida come la luna.
Ha quell'aspetto scozzese, da abitante dell'isola di Avalon avvolta nelle nebbie, come quelle ancora presenti nel suo cervello che, a volte e in casa, lo fanno tornare a essere un adolescente in alcuni atteggiamenti. Non glielo dico, ma quei suoi momenti, stessa cosa per figlio n. 2 Eric Draven, sono istanti magici che mi ancorano ancora per un po' ai miei figli "ragazzi". A cui dovrò sicuramente dire addio tra non molto, accogliendo i nuovi uomini che saranno.
Richiude la porta alle sue spalle Edward, si avvicina a me nell'ombra del disimpegno, fino a che la luce, proveniente dalla lampada sulla scrivania da cui lavoro, gli sfiora i lineamenti.
Mi alzo, ho il cuore in gola, e faccio un passo verso di lui accennando a un - Ciao, com'è andata?
- Bene...
- Ok, quantificami questo "bene".
- 30.
- E me lo dici così?! Un po' di entusiasmo - gli rispondo mentre lo abbraccio.
- Pa' eh, sono stanco è stata tosta e sono in piedi da questa mattina presto per ripassare l'esame.
Li hanno divisi per gruppi nella facoltà che frequenta, per valutare il lavoro di team come dice lui. A me piace di più "di gruppo", ma team va bene lo stesso.
Edward è stato scelto come responsabile del gruppo, scusate... come "leader del team". Un gruppo disomogeneo per provenienza: Cina, India, Italia e forse Inghilterra. Teste diverse, diverse esperienze di vita e metodi di studio. Unico obbligo comunicare in inglese.
So che durante gli incontri tra di loro nella biblioteca dell'università, così mi ha riferito, ha dovuto spesso usare dei toni perentori per evitare che il gruppo si disunisse. Il piglio del maestro d'orchestra che non t'aspetti.
- Allora festeggiamo - gli dico - se vuoi, visto che devo uscire e ci passo d'avanti, mi fermo al Porker Queen e prendo hamburger e patatine. Che ne dici?
- No padre, attieniti al piano alimentare.
Già. Il piano alimentare che gli ha dato la nutrizionista, per irrobustire la massa sotto i colpi di bilancieri e manubri in palestra. I risultati si cominciano a vedere molto bene. E pensare che io ho bloccato la mia nutrizionista su tutti i social e chat. Meschino.
La sera a cena i commensali masticano gli alimenti che, ognuno, hanno avuto come indicazione dalle nutrizioniste. Tutte donne ora che ci penso. Lo sapevo: tra il dire e il fare non c'è il mare, ma una nutrizionista donna che ti dice cosa bere e cosa mangiare. Ora ne sono sicuro.
- Allofa - rompo il silenzio parlando a bocca piena, che non si fa lo so - facconta com'è andafa durante l'efame - mentre mangio il menu Queen Size dell'hamburger triplo strato con doppia capriola di bacon carpiata. Quello preso dal Porker Queen per me, ovviamente.
- Ero abbastanza tranquillo, in quanto il 70% del lavoro lo avevo fatto io - risponde Edward con il piglio di Capitan Harlock quando prende le decisioni.
- Oh, molfo bfavo - rispondo con una bocca strapiena.
- I docenti, comunque, sapevano questa cosa.
- In gamfa i dofenti, fi, pfopfio bfavi...
- Pa' stai sputacchiando - interviene figlio 2, Eric Draven.
- Fi lo fò, fono maledufato... ma è cofì buono...
- Comunque - ribatte Edward per riportare la discussione sul suo esame universitario - mi hanno fatto dei complimenti sinceri.
- Immagino - prendo una manciata di patatine che finiscono dritte in bocca - hanno fapito il tuo impegno... gnam gnam...
- Papà, così non vale.
- Non vale cosa?
- ...
- ...
- Mi daresti una patatina?
- E il piano alimentare di ferro per muscoli d'acciaio?
- ...
- Nel forno, in caldo ci sono abbondanti porzioni di patatine per tutti - alzandomi come un Messia qualunque, allargando le braccia, dico loro - prendete e mangiatene tutti.
Così Edward ed Eric hanno mangiato di gusto le loro patatine al gusto di patata patatosa patatissima, l'austerità a tavola, dovuta al piano alimentare, ha lasciato posto a una conversazione più serena, gustosa e con tante "effe" al posto delle "erre"; perché anche se è vero che è maleducazione parlare con la bocca piena, in questi anni ho capito che forse la vera maleducazione sta nel parlare con la testa vuota.
E credo che i miei ragazzi se le stiano riempiendo bene, le teste dico.
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il sogno
Il sogno si sviluppa in fotogrammi. Affiancati l’uno all’altro, in certi casi trasfusi l’uno nell’altro, sfumando la linea di demarcazione, ma senza animazione. Sono immagini immobili che si susseguono ordinatamente senza creare movimento. Un bosco umido, dove il sole frastaglia gemme di luce attraverso le foglie, il silenzio è infranto solo da pochi sussurri di sottofondo, sbattere di ali, frinire di foglie, rosicchiare di piccoli insetti. Quando la incontra lei è vestita con un abito colorato, sorridente, tanto vicina da percepirne l’allegria, ma non tanto da sfiorarla. Il bosco, il suo sorriso, la sua presenza, il sole, la vegetazione, sfilano e vanno via una immagine dopo l’altra. Svuotando lo spazio e generando la visione di una strada che man mano si riempie di palazzi, auto, persone in movimento. E il suono immaginario del sogno si stampa nei fotogrammi fino a creare il caos urbano di una metropoli. Lui percorre la strada a piedi, finché la sera non lo sorprende carica di pioggia e solitudine. Adesso è solo su quella strada notturna, poche luci ambientali, nessun transito umano, nessun rumore, di nuovo silenzio e una distanza dinanzi ai suoi passi che si perde nell’oscurità.
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canesenzafissadimora · 1 year ago
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All’inizio le dissi: – Tu sei la mia scommessa d’amore.
Si prova questo a sentire nuovamente
e finalmente qualcosa dopo tanto tempo.
Se l’abbiamo persa o vinta alla fine
io non lo saprò mai.
Eppure il tempo è un assassino.
A volte ci dispiace persino accorgerci
che è la vita stessa a permetterci di dimenticare, di sopravvivere ai dolori,
a metterci davanti l’estrema consapevolezza che prima o poi tutto passa, che tutto finisce esattamente come noi.
Tutto o quasi, direi.
Perché sa anche regalarci quei pochissimi attimi che non se ne vanno, restano ricordi indelebili.
Sono quelli così diversi dal resto, quelli che, anche se non ti volti indietro a guardarli, tornano a specchiarsi dentro di te, ogni tanto. Insomma quei pochi attimi che non riesci a strappare e buttare, piccole ombre che ti seguono, di cui non ti liberi.
Certi attimi valgono anni d’attesa.
Di lei mi ricorderò sempre un momento di desiderio infinito.
Un momento di quelli che a descriverli con le parole non ci riesci mai fino in fondo.
Eravamo sul mio divano e la mia mano era andata a cercarla nel suo posto più intimo. Da molto sognavo, desideravo quel momento, così tanto da sentire la passione smisurata di un uomo che vuole amare la sua donna senza potersi trattenere nemmeno un minuto di più.
Eppure d’improvviso, seguendo il contorno delle sue labbra, incrociando i suoi occhi, la mia mano si è fermata, rimanendo immobile fra le sue gambe.
Forse in quell’istante era lei ad aver penetrato con i suoi occhi la mia mente.
Mi sembrava quasi di profanare il suo corpo, avvolto da una luce eterea, da una purezza estrema, disarmante.
Lei era la perfezione in miniatura, così fragile, così bella, così indifesa, con le sue piccole mani che avevo cercato di stringere in ogni momento possibile per tutta la sera.
La guardavo: il suo volto era così sereno, abbandonato.
Lei dipendeva dai miei movimenti ed io dalla mia commozione mentale.
Mi sembrava di guardarla come lei non era riuscita a vedersi mai.
Mi sembrava potesse pensarsi ancora più bella di quel che sapeva di essere in quell’istante, attraverso il mio sguardo.
E se lei avesse potuto guardarsi coi miei occhi si sarebbe innamorata del mio desiderio, perché era dentro quel desiderio, fermo così, come d’incanto , che avevo capito di provare ancor più di ciò che credevo.
Ci siamo guardati a lungo e forse si fa l’amore anche così, con gli occhi negli occhi,
i pensieri nei pensieri.
Tutto ciò che ricordo era questo infinito, pazzesco, irrefrenabile desiderio di starle addosso e non per sesso.
Per annusarla, per sprofondare nel suo odore, per fissarmelo come una seconda pelle.
Poi l’enfasi era ripresa, facemmo fatica
ad uscire di casa.
Nel viaggio di ritorno per riaccompagnarla
io le tenevo la mano nella mia, avevamo in sottofondo solo la musica
e quella pace interiore di un silenzio che non spaventa, racconta.
Racconta quel punto in cui le parole si fermano a riposare.
Resterà eternamente quella notte di pace immensa.
Poi la vita spesso divide, sottrae, liquida precocemente eppure chissà, forse questa
è una piccola illusione a cui noi umani non smetteremo mai di credere.
Voglio credere che ovunque saremo e in qualsiasi modo andranno le nostre vite, ogni tanto, in un piccolissimo angolino del cuore, quella sensazione tornerà a scaldarci dal freddo.
Lei sorriderà e io lo avvertirò, perché il suo sorriso toglieva il fiato agli alberi.
In quel piccolissimo angolino del cuore non entrerà mai nessun altro, lo abiteremo solo noi.
Io mi ci rifugerò, quando avrò bisogno di assaporare ancora la pace, l’aria di quella notte, un respiro ultraterreno.
Lei mi ripenserà, quando la vita l’avrà consumata, succhiata, vissuta fino
al midollo.
Ma non avrà mai nessun rimpianto
e nemmeno io.
Perché continueremo ad abitarci ogni tanto
e nel ricordo dei nostri passi sulle foglie
dei viali autunnali, quelle che calpestate
per amore trasformano in suono il rumore,
la ritroverò sempre un po’...
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Massimo Bisotti
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alonewolfr · 5 months ago
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“Lezione n° 1
Un uomo va sotto la doccia subito dopo la moglie e nello stesso istante suonano al
campanello di casa. La donna avvolge un asciugamano attorno al corpo, scende le
scale e correndo va ad aprire la porta: è Giovanni, il vicino. Prima che lei possa dire
qualcosa lui le dice: “ti do 800 Euro subito in contanti se fai cadere l’asciugamano!”
Riflette e in un attimo l’asciugamano cade per terra…
Lui la guarda a fondo e le da la somma pattuita. Lei, un po’ sconvolta, ma felice per la piccola fortuna guadagnata in un attimo risale in bagno. Il marito, ancora sotto la doccia le chiede chi fosse alla porta. Lei risponde: “era Giovanni”. Il marito: “perfetto, ti ha restituito gli 800 euro che gli avevo prestato?”
Morale n° 1:
Se lavorate in team, condividete sempre le informazioni!
Lezione n° 2
Al volante della sua macchina, un attempato sacerdote sta riaccompagnando una giovane monaca al convento.
Il sacerdote non riesce a togliere lo sguardo dalle sue gambe accavallate.
All’improvviso poggia la mano sulla coscia sinistra della monaca. Lei lo guarda e gli
dice: “Padre, si ricorda il salmo 129?” Il prete ritira subito la mano e si perde in
mille scuse. Poco dopo, approfittando di un cambio di marcia, lascia che la sua mano sfiori la coscia della religiosa che imperterrita ripete: “Padre, si ricorda il salmo 129?” Mortificato, ritira la mano, balbettando una scusa. Arrivati al convento, la monaca scende senza dire una parola. Il prete, preso dal rimorso dell’insano gesto si precipita sulla Bibbia alla ricerca del salmo 129.
“Salmo 129: andate avanti, sempre più in alto, troverete la gloria…”
Morale n° 2:
Al lavoro, siate sempre ben informati!
Lezione n° 3
Un rappresentante, un impiegato e un direttore del personale escono
dall’ufficio a mezzogiorno e vanno verso un ristorantino quando sopra una panca trovano una vecchia lampada ad olio. La strofinano e appare il genio della lampada.
“Generalmente esaudisco tre desideri, ma poiché siete tre, ne avrete uno ciascuno”. L’impiegato spinge gli altri e grida: “tocca a me, a me….Voglio stare su una spiaggia incontaminata delle Bahamas, sempre in vacanza, senza nessun pensiero che potrebbe disturbare la mia quiete”. Detto questo svanisce. Il rappresentante grida: “a me, a me, tocca a me!!!! Voglio gustarmi un cocktail su una spiaggia di Tahiti con la donna dei miei sogni!” E svanisce. Tocca a te, dice il genio, guardando il Direttore del personale.
“Voglio che dopo pranzo quei due tornino al lavoro!”
Morale n° 3:
Lasciate sempre che sia il capo a parlare per primo!
Lezione n° 4
In classe la maestra si rivolge a Gianni e gli chiede: ‘Ci sono cinque uccelli appollaiati su un ramo. Se spari a uno degli uccelli, quanti ne rimangono?’
Gianni risponde: “Nessuno, perché con il rumore dello sparo voleranno via tutti”.
La maestra: “Beh, la risposta giusta era quattro, ma mi piace come ragioni”.
Allora Gianni dice “Posso farle io una domanda adesso?”
La maestra: Va bene.
“Ci sono tre donne sedute su una panchina che mangiano il gelato. Una lo lecca delicatamente ai lati, la seconda lo ingoia tutto fino al cono, mentre la terza dà piccoli morsi in cima al gelato. Quale delle tre è sposata?” L’insegnante arrossisce e risponde: “Suppongo la seconda… quella che ingoia il gelato fino al cono”.
Gianni: “Beh, la risposta corretta era quella che porta la fede, ma… mi piace come ragiona”!!!
Morale n° 4: Lasciate che prevalga sempre la ragione.
Lezione n° 5
Un giorno, un non vedente era seduto sul gradino di un marciapiede con un
cappello ai suoi piedi e un pezzo di cartone con su scritto: “Sono cieco, aiutatemi per favore”. Un pubblicitario che passava di lì si fermò e notò che vi erano solo alcuni centesimi nel cappello. Si chinò e versò della moneta, poi, senza chiedere il permesso al cieco, prese il cartone, lo girò e vi scrisse sopra un’altra frase.
Al pomeriggio, il pubblicitario ripassò dal cieco e notò che il suo cappello era pieno di monete e di banconote.
Il non vedente riconobbe il passo dell’uomo e gli domandò se era stato lui che aveva scritto sul suo pezzo di cartone e soprattutto che cosa vi avesse annotato.
Il pubblicitario rispose: “Nulla che non sia vero, ho solamente riscritto la tua frase in un altro modo”.
Sorrise e se ne andò.
Il non vedente non seppe mai che sul suo pezzo di cartone vi era scritto:
“Oggi è primavera e io non posso vederla”.
Morale n° 5: Cambia la tua strategia quando le cose non vanno molto bene e vedrai che poi andrà meglio.
Se un giorno ti verrà rimproverato che il tuo lavoro non è stato fatto con professionalità, rispondi che l’Arca di Noè è stata costruita da dilettanti e il Titanic da professionisti….
Per scoprire il valore di un anno, chiedilo ad uno studente che è stato bocciato all’esame finale.
Per scoprire il valore di un mese, chiedilo ad una madre che ha messo al mondo un bambino troppo presto.
Per scoprire il valore di una settimana, chiedilo all’editore di una rivista settimanale.
Per scoprire il valore di un’ora, chiedilo agli innamorati che stanno aspettando di vedersi.
Per scoprire il valore di un minuto, chiedilo a qualcuno che ha appena perso il treno, il bus o l’aereo.
Per scoprire il valore di un secondo, chiedilo a qualcuno che è sopravvissuto a un incidente.
Per scoprire il valore di un millisecondo, chiedilo ad un atleta che alle Olimpiadi ha vinto la medaglia d’argento.
Il tempo non aspetta nessuno. Raccogli ogni momento che ti rimane, perché ha un
grande valore. Condividilo con una persona speciale e diventerà ancora più importante.
L’origine di questi racconti è sconosciuta, ma pare portino buonumore e fortuna a chi li manda e a chi li dice, quindi non tenerli per te.”
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gregor-samsung · 5 months ago
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“ E insomma, io i soldi li do volentieri. Ve li posso dare soprattutto perché non sono miei, né mai potrebbero davvero diventarlo, non avendo in sé alcun carattere o attributo. L’unica cosa che si può dire di loro attiene alla loro quantità: pochi, molti, abbastanza, niente. Mentre le prime tre definizioni sono incerte, labili, discutibili, l’unica veramente sicura è l’ultima. Ora, come si può possedere un’astrazione? Non si può. Quindi i soldi non sono miei né mai lo saranno. Mentre le cose materiali, gli oggetti, potrebbero diventare miei, miei. Questa loro possibilità li rende inalienabili. Vale a dire che non mollo, non do nessuno degli oggetti che dimorano nella mia casa, per nessuna ragione, vili o preziosi che siano. E se lo faccio ne soffro, ne soffro, ah quanto ne soffro. Ma che cos’è il mio?
Quello che è mio potrebbe essere vostro? No, se fosse vostro non sarebbe mio. Ma il mio cos’è? Dov’è? Non sono certo io, non lo ritrovo in me. Di me mi sento infatti mandataria, ma in nessun modo, mai, la proprietaria.
Ah, se lo fossi non mi sarei d’intralcio: questa incerta sostanza di cui sono composta non starebbe sempre a farsi notare con i suoi capricciosi spettacoli, i suoi colpi di scena. Se ne starebbe tranquilla e silenziosa ad aspettare i miei ordini, pronta a servirmi. Potrei insomma occuparmi d’altro, sí, potrei occuparmi d’altro. Con tutte le cose belle che ci sono. Potrei magari compiere azioni eroiche. A volte mi dico: «Dio, che pazienza, doversi sopportare! Sempre tra i piedi, cosí bene in vista. Sono proprio una santa». Certo, dovrei cercare di assorbirmi tutta, in dolce intimità. Governare la cittadella, muovermi come un solo uomo, anzi, una sola donna, senza periferie, senza distaccamenti laterali, senza retroguardie. Ma non ho polso, non ho autorità. Ogni parte di me fa quel che vuole e in piú pretende che io la guardi, che l’ascolti. Del resto far finta di niente è impossibile. C’è un tale rumore, e cosí io la guardo e l’ascolto sperando che prima o poi, a forza di guardarla, non avrà piú nulla da mostrare. Insignificante e mia, io tutta di me proprietaria, andrò alla morte. Ma io non voglio morire. “
Patrizia Cavalli, Con passi giapponesi, Einaudi, 2019¹; pp. 100-101.
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marquise-justine-de-sade · 6 months ago
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Ti meriti il riposo.
Una notte serena, sogni da bambina, nessun rumore se non il tuo respiro, nessun rumore se non i tuoi battiti.
Ti meriti il riposo, soprattutto da te stessa, da tutte le critiche che ti muovi di continuo, da tutti i fantasmi del passato che non se ne sono andati ma vivono con te ogni giorno, a tutte le ore, anche quando non ci pensi, anche quando sei troppo stanca per accorgertene.
Ti meriti il riposo dalle persone, dalla loro voce, dalle loro pretese, dalla voglia che ciascuno ha di lamentarsi un po', di sfogarsi, di farsi ascoltare.
C'è un tempo per esserci ed uno per sparire.
E tu sparisci troppo poco.
Ti meriti il riposo dalle responsabilità, dalla necessità di sapere cosa accadrà domani, fra una settimana, fra un mese, dalla smania di programmare e controllare tutto, di organizzare, di reagire. Non puoi essere sempre pronta, non devi per forza esserlo.
Ogni tanto, non fare nulla.
Ti meriti il riposo, la solitudine, il silenzio, ti meriti un tempo in cui non ci sia niente a cui pensare. Ti pare impossibile immaginare un vuoto ma sarebbe bello, semplicemente, non sentirti sempre traboccare.
Ti meriti il riposo, gli occhi chiusi, la mente sgombra, un minuto per respirare, per ritrovarti, per riprenderti, senza impulsi esterni, senza sollecitazioni, senza contatto.
Non grandi cose, non troppo tempo, non giorni, non ore.
Momenti.
Ti meriti il riposo, almeno per un attimo.
Laura Messina
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ninfaribelle · 2 years ago
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C'è qualcosa di irrimediabilmente pungente nella musica. Come se il tempo si fermasse, e scorresse tutto su un binario diverso. Una cuffietta, il volume giusto e nessun rumore. Solo qualche tasto di un pianoforte e parole lontane, che forse non parlano nemmeno di te. C'è qualcosa di assurdamente necessario. Mi affido giorno per giorno a qualche respiro che si sfiora fra la mia pelle e la testa bassa, a guardare i passi in avanti, a controllare che il piede porti bene il peso del mondo sul mondo. Mi arrendo ogni attimo. Mi arrendo e ritorno a correre una maratona che a volte non lascia tregua, mi arrendo ai battiti del tuo cuore che sento ogni giorno, soprattutto se non li ho addosso. Una resa continua alla ricerca del respiro. Quel vuoto che svuota lo stomaco, quel vento che riempie la bocca di parole e i capelli di carezze. Ho bisogno di te e lo urlo sempre e solo a me stessa. C'è qualcosa di profondamente intenso nel tuo profumo e nella musica che mi passa attraverso. E' come trovare il posto giusto e non volersene più andare. E' come trovare la casa che disegnavi fin da piccolo con pennarelli di cui perdevi sempre il tappo e le dita sporche di sogni. C'è qualcosa, dentro, sotto, addosso, che muoio dalla voglia di urlarti e che non ti dirò mai, perché quando ti sento niente serve più. Come se il tempo si fermasse, e scorresse tutto su un binario diverso che ci prende in pieno senza mai arrendersi.
(dal web)
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klimt7 · 1 year ago
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Cronaca
Ermal Meta
e lo stupro di Palermo
“Conosco donne che non si sono riprese mai più”
Il cantante e musicista sui social: “Lo stupro è un un crimine contro l'umanità. Quale è la pena proporzionale per una cosa del genere?”
Ermal Meta interviene ancora sul dibattito riguardante la violenza di gruppo avvenuta a Palermo. Il cantautore già ieri aveva parlato dello stupro della ragazza 19enne, postando una serie di commenti che avevano scatenato un forte dibattito sul tema.
Uno di questi recitava: “Lì in galera, se mai ci andrete, ad ognuno di voi ‘cani’ auguro di finire sotto 100 lupi in modo che capiate cos’è uno stupro”.
Oggi Ermal Meta ha postato su Instagram un nuovo messaggio sul tema delle conseguenze che questo può avere sulla vita presente e futura di una donna e sulla pena che potrebbe essere proporzionale per un crimine del genere.
"Quando stupri una donna non le infiggi solo un danno fisico che comunque resta immenso. Quando stupri una donna uccidi il suo futuro, la sua fiducia nel prossimo e nella vita e senza quella fiducia comprometti la sua capacità un domani persino di avere dei figli. Questo compromette l'umanità intera. 
Lo stupro è un crimine contro l'umanità.
Quale è la pena proporzionale per una cosa del genere?".
Ermal Meta ha aggiunto: "Conosco persone, donne, che da uno stupro non si sono riprese mai più. Che scattano in piedi appena sentono un rumore alle loro spalle, che non sono più riuscite nemmeno ad andare al mare e mettersi in costume da bagno come se non avessero nemmeno la pelle. Vogliamo salvare e recuperare un branco? Ok, sono d’accordo. 
Ma come salviamo una ragazza di 19 anni che d’ora in poi avrà paura di tutto? 
Perché la responsabilità sociale la sentiamo nei confronti dei carnefici e non in quelli della vittima? Se c’è una qualche forma di responsabilità collettiva nei confronti dei carnefici, allora dovremmo provare a sentirci responsabili anche per quella ragazza e per tutte le vittime di stupro perché è a loro che dobbiamo veramente qualcosa, sono le vittime che vanno aiutate a ricostruire la propria vita. Per quanto riguarda le pene esemplari credo che siano assolutamente necessarie per un semplice motivo: nessun atto criminale viene fermato dalla paura della rieducazione, ma da quella della punizione.
L’educazione deve funzionare prima che si arrivi a compiere un abominio del genere.
Ovviamente siamo tutti garantisti finché la “bomba” non ci cade in casa".
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susieporta · 1 year ago
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Compiacere non significa dare piacere.
Compiacere non porta al piacere.
Compiacere è avere paura di non essere abbastanza da qualche parte.
È aver imparato a soddisfare i bisogni e le aspettative degli altri per sopravvivere.
Cioè per ricevere uno sguardo amorevole, l‘accettazione, il permesso, il diritto di esistere.
Per essere visti.
Per sentirsi al sicuro.
Chi è bravo a compiacere gli altri vive nella frustrazione di non riuscire mai a soddisfare il proprio bisogno.
Ma soprattutto di non riuscire a sentire mai la propria verità e autenticità.
Impariamo presto a leggere cosa si aspettano gli altri da noi.
I figli di genitori rigidi, esigenti, ansiosi, oppressivi per esempio diventano impeccabili a muoversi come marionette.
Perdono spontaneità, vitalità, energia.
Per molte donne compiacere è l’unico modo di amare ed è come ritrovare quel momento di gratificazione che arriva dall’aver fatto contento papà !
O mamma, a seconda dei casi.
Ma in fondo non sono contente.
Sono solo abituate.
Sono solo comode.
Quella comodità scomoda che inizia a fare male con gli anni.
Per gli uomini compiacere nelle relazioni è mettersi al sicuro. Non fare danni. Non fare rumore. Non fare agitare la mamma. Non farla stancare. Non fare incazzare papà.
È un’arte fine di trattenersi e rimpicciolirsi.
Le relazioni basate su questa energia compiacente sono vulcani spenti.
Tutto rimane sotto e brucia senza farsi vedere.
Senza fumo e senza odore.
Una natura morta.
Una guerra fredda.
Basta uno dei due a svegliarsi dal grande sonno perché il castello di sabbia crolli.
E quello è un passaggio epico di grande inizio.
Ho lavorato con una donna che si sta svegliando e provo una tenerezza grande nell’ osservare i suoi primi passi autentici nel mondo.
SI ! I primi passi autentici dopo i cinquant’anni.
Alleluia !
Non è troppo tardi per giocare a carte scoperte.
In questi giorni nessun castello sta più in piedi.
Fidati della de-strutturazione.
Della di-struzione.
Della de-costruzione.
Se non guardi dentro, non potrai mai riconoscere cosa c’è fuori davvero.
Non potrai mai sentirti fuori, se non abiti dentro.
🖤
Buone sacre morti
Fede
#Tantrasciamanico#femmininosacro
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copihueart · 11 months ago
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PENSIERI DI PRIMAVERA
L’AMORE
Ognuno lo legge in modo diverso, perché altra spiegazione non sa dare al suo ridere di spore, ai bruschi abbassamenti di temperatura, ai movimenti del fascino e dell’ignoto. Amare è come essere dentro una bolla d’aria, è come sopravvivere ad una immersione prolungata, riuscire a diventare bersaglio, come mordere una mela vistosamente colorata, in un estremo labirinto per liberarlo dal piacere, così da sussultare e agonizzare, accarezzandosi il corpo con la calma di una costellazione. L’amore è come uno stregone indiano,che ad un’ora imprecisata, in un giorno che non so, in un luogo che non conosco, certe volte o forse mai, ci chiamerà a raggiungerlo, approfittando del tempo di un mare tranquillo, o sotto la pioggia battente o dentro il vortice di un uragano. Spenderà il suo buon calore, disegnerà teli sgombri di presenze, forse seduto nella panca intiepidita dal sole autunnale, dove si stamperà il primo bacio, a succhiare sotterranee solitudini della vena cava. Sarà l’odore che si porta addosso, perché le piace appuntarsi fiori nei capelli e zuccherarsi le labbra di rossetto, nel rosso succo delle fragole, nel suo comodo nascondiglio, tra i capricci del vento dove si affollano i sogni e i desideri.
O se ne starà a bruciare accovacciato davanti al fuoco, aggrappato mani e piedi al cordame, ebbro d’aria e di vento, aspettando di ridisegnare i contorni del mondo, nell’arco di una piazza piena di fortezze dove mancano i tavolini all’aperto. Camminerà a passi brevi, nel disincanto della sera, come un musicante ubriaco, drogato dalla nafta degli scappamenti e dal luccichio delle auto in corsa, a disseppellire granchi nei deserti dove niente può turbare le nostre attese e circonderà ingorghi di nuvole, parole pronunciate senza convinzione, nel disordine inafferrabile delle gambe delle donne, con quel senso confuso di mancata intimità.
Lo si memorizzerà per assorbimento, come un impercettibile liquido, soffocato dal minimo rumore, dal prolungarsi della sua caduta o della sua vittoria e si guarderò intorno, consunto e leggero, quasi pietrificato dal sapore della melanconia, dal silenzio seppellito nell’abbandono, con il suo desiderio unico e inconsueto, a deporre i gioielli della felicità, in un groviglio di pensieri che si trasformano e strascicati illuminano le ultime voci remote di ogni attimo trascorso. Faccia a faccia con la tonda luna, mentre la poesia lo morde e lo sublima, il colore gli accarezza gli occhi e fiorisce in bocca, la musica le strugge l’anima e scoppia di desiderio e di passione sulla mia giubba scolorita. Cosa lo può distogliere dal nascere e dal morire, nella spossatezza del creato, tra la folla dai volti ignoti, nei delicati frammenti del cuore, nell’attorcigliarsi di nuovi e prossimi incontri, di anime candide che si stupiranno di esistere, negli assolati pomeriggi d’estate, nell’immobilità del mare, appassionandosi ancor di più, governando senza raggiungere nessun luogo, in attesa di quella brezza tiepida che tornerà a consumarlo-
Oggi lo ritrovo seduto in una stanza terremotata, nella nebbia bassa della terra, declinante di luce, dove cade l’antica abitudine serale, ancora un po’ smarrito, tra i soprabiti scambiati e subito ripresi, quasi che non si potesse più pronunciare il suo nome, smarrito nei vicoli che si ingolfano di memoria, nell’ingratitudine azzurra, nel sospiro e nel pianto, a non aver voglia di coricarsi con nessuno, perso nella tramontana che sgretola le siepi, nell’immobilità del mutamento. Quasi lo avessero bandito, con tutte quelle promesse che ora occupano il suo posto, nel dondolio degli steli umidi di pioggia. E’ stato tradito, più volte calpestato e ingannato, nella dimensione dei torrenti in piena, travolto dagli scandali, in questa ressa del cuore dove tutto è permesso, dove sfuma invisibile il cielo, tra quei caseggiati dove si chiude l’esistenza, decifrando il desolante possesso, a smascherare la cattiveria degli uomini, nel freddo dato dalla tristezza, nell’umile corruzione dell’orgasmo.
Ma l’amore, anche se risulta una mossa sfocata, nelle labbra che sono laghi, tra i flaconi vuoti, nello sguardo delicato tra i rifiuti, saprà risorgere, con tutta la forza dei suoi denti saprà mordere, ripetere i suoi schiocchi di frusta. Saprà rinnovarsi in quel qualcosa che spesso ci sfugge, nell’incrinatura dell’aria incerta e tra i segni indelebili che lo ammantano, impresso in uno zampillo di pellicola, come un guerriero pronto alla battaglia, scivolando leggero sulle molli flottiglie di passanti, con in mano il petalo di una rosa, così come lo abbiamo sempre sognato, unico e raro, a cercare un’anima dove riflettersi, nel senso perfetto che deterge il sudore, schermato l’obiettivo, se ne andrà a spasso in bicicletta, tra le nostre forme contorte, quasi ad indagare dove lo porterà l’umanità, con quella goccia sua che è fulgore del diamante.
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chez-mimich · 11 months ago
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LA ZONA DI INTERESSE
“La zona di interesse” di Jonathan Glazer è un film raccapricciante e, anche se può sembrare paradossale, un raccapricciante capolavoro. La famiglia di Rudolf Höss vive in una algida villetta appiccicata al muro perimetrale del campo di concentramento di Auschwitz e Höss è lo spietato direttore del campo. Forse spietato non è l’aggettivo esatto, Rudolf Höss è un esecutore del male pianificato, messo in campo dal nazismo per far scomparire il popolo ebraico della faccia della terra. E’ una storia raccontata mille volte (per fortuna), ma mai o quasi mai in modo così persuasivamente e sottilmente inquietante. Non si tratta di una ricostruzione storica, ma di uno psicodramma che vive di allusioni, di segni, di dialoghi e di suoni, a cominciare da quello schermo buio iniziale, popolato da sussurri e grida e dalle tonalità della composizione di Mica Levi, possente come lo “Shemà Israel“ che prorompe da "Un sopravvissuto di Varsavia" di Arnold Schönberg. L’incubo si trasforma, nella scena di apertura, in un idillio campestre della famigliola di Höss che trascorre qualche ora di serenità in riva ad un lago. Questa dualità sarà presente in feroce contrasto in tutto il film, anzi “è” tutto il film. L’intimità domestica e famigliare del gerarca nazista è contigua alla più perversa idea di sterminio mai perpetrata dall’essere umano. A ricordarlo, sono le altane del campo di concentramento che quasi gettano la loro ombra funerea sulla serra e sulla piscina della casa di Höss, casa, ambientazioni e abbigliamenti molto “Neue Sachlichkeit”. La narrazione è statica, nel film non succede quasi nulla, ma quel che non succede lascia intravedere ciò che è stato. Il sordo rumore dei forni crematori in funzione, di cui Rudolf Höss era lo spietato pianificatore, gli spari, appena percepiti nel sottofondo delle garrule grida dei bambini in giardino, dell’abbaiare del cane, del rumore del vento. Una vita domestica che prosegue senza scossoni fino al trasferimento di Rudolf Höss ad altro incarico che lascia però inalterata l’atmosfera idilliaco-paranoica della famiglia del militare. Se Hannah Arendt aveva parlato di “banalità del male”, nulla meglio di questa villetta razionalista nella campagna bavarese e appiccicata al Konzentrationslager Auschwitz, può rendere al meglio il concetto della filosofa tedesca. Jonathan Glazer ha girato il film servendosi di telecamere ad altissima definizione che rendono iperreali luoghi, persone, fatti. Piani di ripresa fissi, nessun movimento, quasi a voler scegliere una neutralità che rende tutto ancora più agghiacciante, anche se nel film c’è molto del “Nuovo cinema tedesco”, quello di Rainer Werner Fassbinder in particolare; come non pensare infatti alla lattiginosa atmosfera in cui si muoveva Veronika Ross (interpretata divinamente da Hanna Schigulla), della cosiddetta “BRD-Trilogie” di Fassbinder. Anche in questo, come in quel film, straordinaria l’interpertazione di una donna, Sandra Hüller nei panni della moglie di Höss (interpretato da Christian Friedel). Per chi vi scrive Oscar già vinto e stravinto.
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