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L’INVENZIONE DELLA NEVE - IN ANTEPRIMA MONDIALE ALLE NOTTI VENEZIANE E NELLE SALE DAL 14 SETTEMBRE CON I WONDER PICTURES
Sarà presentato in anteprima mondiale alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, all’interno delle Notti Veneziane, sezione realizzata dalle Giornate degli autori in accordo con Isola Edipo, L’invenzione della neve, il film diretto da Vittorio Moroni con Eleonora Gigliotti, Alessandro Averone, Anna Ferruzzo, Anna Bellato, Eleonora De Luca e con Carola Stagnaro. Il…
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«Ecco che è subentrata in queste edizioni moderne, tutto a un tratto, la fantasia popolare, l’invenzione, la scena, le figure geometriche, gli specchi, i fantocci, le zucche, le oche, la morte, l’acqua: una mescolanza di strani effetti che non aiutano, però, a darci una risposta decisiva sulla vera origine di questa festa».
[Alessandro Masulli, La festa delle Lucernelle, in La Confraternita di Santa Maria della Neve di Somma Vesuviana, l'arcael'arco edizioni]
Foto di Officina Mirabilis, Festa delle Lucernelle 2018.
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mi sono guardato piangere in uno specchio di neve/ mi sono visto che ridevo
“Dopo di che, aiutavo il ministro a risolvere cruciverba, e questo passatempo comune generò un’ initimità spuria che rese la mia carriera parallela alla sua. Lui ammirava la rapidità e la sicurezza con la quale lo guidavo su e giù per l’ insidiosa scacchiera nera e bianca, e non credo si sia mai accorto che la rapidità era frutto soltanto dell’ indifferenza.”
“L’alambicco utilizzato nella distillazione artigianale opera a ciclo discontinuo: alla fine di ogni cotta, ossia un ciclo di distillazione, si deve interrompere il processo per svuotare la caldaia e riempirla di nuovo con altra vinaccia.L’alambicco discontinuo è formato principalmente da 4 parti che corrispondo quasi anche alle fasi principali della distillazione:
la caldaia o cucurbita cioè il contenitore dove si mette la materia prima da distillare. Sotto la caldaia c’è una sorgente di calore.
il coperchio o capitello o deflemmatore che chiude la caldaia. Quando il liquido inizia a scaldarsi e a condensare e qui che cominciano a raggrupparsi i vapori ricchi di alcol ed aromi.
il “collo di cigno” o collettore. E’ un tratto di tubo allungato a forma incurvata dove si incanalano i vapori che salgono dal capitello.
la serpentina di raffreddamento o refrigerante. E’ l’ultima parte del tubo che scende progressivamente a spirale all’esterno della quale scorre acqua o un liquido o sostanza refrigerante. I vapori incanalati nel collo scendono nella serpentina che ha il compito di raffreddare e riportare così allo stato liquido i vapori alcolici. Sotto la serpentina c’è un recipiente che raccoglierà il liquido che fuoriesce. L’alambicco discontinuo è detto anche alambicco a ripasso, poiché occorrono almeno due distillazioni.
Con la prima distillazione si ottengo una notevole separazione dell’alcol dall’acqua, ma il liquido è un prodotto di media gradazione alcolica e dai profumi mediocri. Si procede quindi alla seconda distillazione per ottenere il prodotto finale. In questa fase si procede al taglio delle teste e code.L’alambicco a ciclo discontinuo può essere di tre tipi a seconda di come viene riscaldata la vinaccia: a fuoco diretto, a bagnomaria o a caldaiette a vapore. L’uso del distillatore discontinuo, oltre a rappresentare una scelta tradizionale per la produzione della Grappa, consente di ottenere un prodotto di qualità superiore rispetto al distillatore continuo usato nella produzione industriale.
ALAMBICCO FUOCO DIRETTO
Questo alambicco tradizionale, oramai scomparso, è formato da una caldaia di rame di media o piccola capacità che termina nella parte superiore con una bocca per l’inserimento delle vinacce e un capitello. Questo è sua volta collegato a un tubo, detto a collo di cigno, per fare in modo che i vapori confluiscano in una serpentina immersa in acqua fredda e vengano, così, condensati.La caldaia di rame che serve a contenere la vinaaccia è inserita in un fornello in muratura ad un’altezza opportuna in modo che sotto si possa accendere il fuoco a fiamma viva.Questo alambicco è difficile da gestire perché è arduo controllare la temperatura del fuoco ed è pertanto facile “abbrustolire” le vinacce con una fiamma eccessiva e ottenere una Grappa dai profumi sgradevoli. Ormai abbandonato nella distillazione, questo alambicco è impiegato da un paio di distillerie per produrre quantità molto limitate di Grappa
.ALAMBICCO A BAGNOMARIA
Come dice il nome, questo alambicco utilizza l’antichissima tecnica a bagnomaria, così chiamato poiché se ne attribuì l’invenzione all’alchimista Maria Giudea, identificata per tradizione con Myriam, sorella di Mosè.In questo caso, la caldaia ha una doppia parete; nell’intercapedine, lo spazio fra le due pareti,circola vapore o acqua molto calda, che riscalda la vinaccia posta all’interno della caldaia. L’alcol etilico e le sostanze contenute nella vinaccia evaporano, passano nella colonna di distillazione e vengono poi fatte condensare in una serpentina. Anche qui si esegue l’operazione del taglio delle teste e delle code. Questo alambicco è molto diffuso, soprattutto in Trentino e in Alto Adige e garantisce un’estrazione molto delicata degli aromi della vinaccia. È impiegato moltissimo per distillare la frutta e l’uva
.ALAMBICCO A VAPORE FLUENTE
Questo alambicco affonda le sue origini alla metà dell’Ottocento circa ed è in assoluto il più impiegato al giorno d’oggi nella produzione della grappa artigianale. È formato da una serie di caldaiette in rame all’interno delle quali è inserita la vinaccia su dei cestelli di rame forati, evitando in questo modo che essa si schiacci per il troppo peso. Alla base di ogni caldaia viene insufflato un flusso regolabile di vapore, che attraversa la vinaccia e ne estrae l’alcol e le sostanze aromatiche. Questi vapori alcolici vengono fatti passare attraverso la colonna di distillazione la quale permette la concentrazione dell’alcol e degli aromi. A questo punto i vapori alcolici fluiscono in una serpentina immersa in acqua fredda e si condensano. Anche in questo caso viene operato rigorosamente il taglio delle teste e delle code, basandosi sulla temperatura e sul grado alcolico del distillato che esce dall’alambicco
“...E tuttavia non riuscivo a provare il minimo interesse per tutto questo. Ma avevo una curiosa allucinazione persistente.Ogni notte, mentre ero sospeso ai limiti di un sonno che era ormai defatigante come Wagner, ricevevo la visita di una giovane donna in un négligé fatto di un tessuto del colore e della consistenza dei petali di papavero, che le aderiva al corpo senza nascondere la carne assolutamente trasparente, al punto che la delicata struttura dello scheletro era visibile con estrema chiarezza. Nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi il cuore, fluttuava un viluppo che sembravano nastri, e lei vibrava leggermente come l’ aria in una torrida giornata estiva”
Le infernali macchine....
“Il suo profumato fiore simboleggiava la costanza. Brucia benissimo, lo si butta nei falò di San Giovanni, due ragazzi - maschio et femmina- saltano il fuoco tenendosi per mano e diventano cumpari e cumari de miccalori”
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Da questa definizione segue che ogni supplementare di un angolo acuto è un angolo ottuso e viceversa, mentre ogni supplementare di un angolo retto è anch'esso un angolo retto.
https://www.youtube.com/watch?v=b52iVSM8ips
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15 gennaio 1885: Wilson Bentley fotografa per la prima volta un fiocco di neve Immaginate la neve. Ma immaginatela un fiocco alla volta. E ogni fiocco è unico e irripetibile. Una ventina d’anni dopo l’invenzione della fotografia (1839) Wilson Bentley che sin da ragazzo si era appassionato alla visione dei cristalli di neve attraverso il suo microscopio al punto di cercare di riprodurli disegnandoli a mano. Trovò poi il modo di collegare il microscopio ad una macchina fotografica e il 15 gennaio del 1885, all’età di vent’anni, cominciò questa serie di straordinarie immagini. Nel corso della sua carriera fotografò e catalogò oltre cinquemila fiocchi di neve. Tutti diversi. La sua opera venne poi raccolta in un volume, “Snow Crystals”, ancora oggi ristampato e in vendita online. #UnGiornoallaVolta #accaddeoggi #fotografia http://bit.ly/2STpNKz
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15 gennaio 1885: Wilson Bentley fotografa per la prima volta un fiocco di neve Immaginate la neve. Ma immaginatela un fiocco alla volta. E ogni fiocco è unico e irripetibile. Una ventina d’anni dopo l’invenzione della fotografia (1839) Wilson Bentley che sin da ragazzo si era appassionato alla visione dei cristalli di neve attraverso il suo microscopio al punto di cercare di riprodurli disegnandoli a mano. Trovò poi il modo di collegare il microscopio ad una macchina fotografica e il 15 gennaio del 1885, all’età di vent’anni, cominciò questa serie di straordinarie immagini. Nel corso della sua carriera fotografò e catalogò oltre cinquemila fiocchi di neve. Tutti diversi. La sua opera venne poi raccolta in un volume, “Snow Crystals”, ancora oggi ristampato e in vendita online. #UnGiornoallaVolta #accaddeoggi #fotografia http://bit.ly/2STpNKz
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Stefan Zeromski, il Lev Tolstoj polacco amato da Conrad. Rileggiamo il suo capolavoro, “Ceneri” (che passò al Festival di Cannes…)
Nel 1966 la giuria del Festival di Cannes è presieduta da Sophia Loren, il Grand Prix va a Signore & signori di Pietro Germi e a Un uomo, una donna di Claude Lelouch. In lizza ci sono altri due film italiani, diversamente memorabili: L’armata Brancaleone di Mario Monicelli e Uccellacci e uccellini di Pasolini. Tra le pellicole tratte da capolavori letterari spiccano il Falstaff di Orson Welles e Il dottor Zivago secondo David Lean, libro verticale sgraziato in melò. Andrzej Wajda, il grande regista polacco, è a Cannes con un film ispirato a un capolavoro della sua letteratura. In italiano il film è tradotto come Ceneri sulla grande armata: si narra l’era della ‘spartizione’ – quando la Polonia fu letteralmente annientata, spartita tra Austria, Russia, Prussia –, l’epopea napoleonica (con la creazione del Granducato di Varsavia), l’avvio all’indipendenza. Wajda trapianta in pellicola Popioly, pubblico nel 1904, uno dei grandi romanzi storici del secolo, scritto dal più grande degli autori polacchi, Stefan Zeromski, una specie di Lev Tolstoj di lì, “la coscienza della letteratura polacca”, secondo Czelsaw Milosz. I libri di Stefan Zeromski – nominato costantemente al Nobel per la letteratura, dal 1921 al 1924, quando gli fu preferito, per un malizioso gioco politico, il connazionale Wladislaw Reymont – furono tradotti, negli anni Trenta, dalla casa editrice Slavia in Torino, fondata da Alfredo Polledro, grande traduttore di Cechov, Dostoevskij, Puskin, Tolstoj… Nel 1946 Einaudi recuperò la versione di Ceneri condotta da Cristina e Clotilde Agosti Garosci: 730 pagine di avventure vivide, violente. Da allora, di Stefan Zeromski – e, in sostanza, del romanzo polacco – non s’è più saputo nulla.
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Nato da una famiglia nobile impoverita – il padre fu tra gli aristocratici polacchi che guidarono il popolo contro l’ingerenza dello zar Alessandro II: furono sconfitti – Zeromski si affanna a vivere, traduce, studia veterinaria, si applica come precettore, è imprigionato “per l’appartenenza a organizzazioni politiche segrete”, fa il bibliotecario, vaga tra Svizzera e Francia, nei ricoveri degli esiliati polacchi. È votato alla causa dei vinti, ama la vertigine della sconfitta, l’eroe che soccombe per amore della libertà. Riuscì a morire, nel 1925, nella sua Polonia; cercò di fondere gli acuti romantici con l’etica del naturalismo, ma non bisogna crederlo uno scrittore del tempo che fu, defunto. Joseph Conrad – morto un anno prima di lui – lo adorava, nella traduzione inglese di Fiume fedele (1913; edito in Italia da Treves, manca in libreria dal 1926…) Bill Johnson rintraccia alcuni legami con Stephen Crane e soprattutto, per ciò che riguarda l’invenzione narrativa, la profezia di William Faulkner.
*
Ceneri si svolge, al netto delle nostalgie, tra 1795 e 1812, “vi ricorre come un lugubre tema dominatore della vasta sinfonia la biblica affermazione della vanità di ogni umana cosa: pulvis cinis et nihil: cenere è, nel ricordo dell’amico Gintult, Pietro Olbromski, soldato, sognatore ingenuo di un più umano assetto sociale… cenere diventa per Raffaele la bellezza, la grazia, la travolgente passione di Elena… cenere per Wyganowski il valore militare, il martirio, la gloria. Si agita nel romanzo storico di Zeromski, come in quello sociale, l’eterna lotta fra il bene e il male, così terribile e senza tregua che la vittoria finale sembra riservata al male e in cenere appaiono destinati a cadere tutti i sogni di bellezza, amore, giustizia”. Il nulla che avvolge le azioni dell’uomo, però, è appianato dallo splendore, feroce e perciò ‘giusto’, della natura, “le selve curve e gementi di mille voci sotto le bufere di neve o di vento, la selvaggia bellezza dei Tatra, l’esuberante vegetazione primaverile delle pianure polacche” (cito dall’introduzione di Cristina Agosti Garosci).
*
La cenere, tuttavia, non è annientamento, nebbia tossica che brucia le labbra, esalata dalle rovine. Con la cenere si benedice il capo dell’orante, per la conquista degli al di là. Nel suo libro dedicato a Robert Walser, che s’intitola Il passeggiatore solitario, W. G. Sebald ricalca un passo in cui lo scrittore svizzero parla della cenere. “La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificanza, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no. La cenere è priva di carattere, […] dove vi è cenere, non vi è in fondo proprio nulla. Metti il piede sulla cenere, e quasi non ti accorgerai di aver calcato qualcosa”. L’arrendevolezza e la pazienza della cenere sono tratti felici, quasi, una conquista. Stefan Zeromski, come una fenice, merita di tornare tra noi. In una immagine felice, simbolica, iniziale, iniziatica, un cacciatore, nei boschi polacchi, parla della visione del Cervo Sacro, “il vecchio cervo, terribilmente bello. Porta alte le corna. L’uomo prende la mira e… non vede più il cervo, ma solo la luce, come un sole rosso che esca dal bosco e lo abbagli dritto negli occhi. Il fucile gli cade dalle mani, il cacciatore si inginocchia. E il cervo passa presso di lui, di lato”. Nel cervo, un potere che precede la Storia: il suo palco ha favore di culla. (d.b.)
***
Si pubblica parte del primo capitolo di “Ceneri”, il capolavoro di Stefan Zeromski
I bracchi entrarono nel bosco.
L’eco dei loro latrati si affievolì sempre di più, finché si inabissò nel silenzio… Quando il soffiare del vento si acquietava, seguiva una calma sconfinata, inafferrabile, a somiglianza dell’azzurro del cielo tra le nubi, e allora non si udiva più nulla.
Tutt’attorno si ergevano gli abeti con le cime spioventi, come torri snelle, incompiute, prive della croce terminale. I loro lividi tronchi biancheggiavano nell’oscurità. Vecchi muschi pendevano dai rami giganteschi. Penetrando con le radici vitali tra le pietre di un terrazzo roccioso, fino al terreno profondo, conficcando gli artigli delle radici laterali in ogni più piccola zolla e succhiando ogni goccia di umidità, i grandi abeti agitavano le loro vette regali da più di un secolo tra le nebbie della Lysica… A ogni momento, cedendo al proprio peso, sensibile a ogni sospiro di vento, si spandeva la bianca lanugine dei mucchi di neve e si perdeva nello strato sul suolo, senza lasciare traccia, come si perdono le gocce di pioggia nella profondità di un lago. Dalle cime delle piante si involava un pulviscolo appena visibile, e così leggero che scintillando coi suoi cristalli, rimaneva a lungo sospeso nell’aria, prima di scendere a terra.
Le radure dei campi hanno roso la foresta, serpeggiando come una vipera fra i brandelli del suo manto, di anno in anno arrampicandosi sempre più in alto. Il ginepro riveste nudità e ferite. Sempre più di rado l’orso si strofina sul tronco del faggio, sempre più di rado viene a sognare all’ombra delle sue fronde il cervo dalle grandi corna, e il lupo si apposta meno sovente aspettando i cerbiatti. Le aquile sono scomparse: soltanto l’avvoltoio si libra talvolta a mirare dalla vetta, irato e minaccioso, il suo dominio distrutto.
Stefan Zeromski
*In copertina: Horace Vernet, “Napoleone durante la battaglia di Wagram”, 1836
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Ligabue, la rock star che diventò (nelle intenzioni) il “Raymond Carver italiano”. Gita tra poesie imbarazzanti e libri facilmente dimenticabili
“Non abbiamo un Raymond Carver italiano. Mi correggo, non avevamo un Raymond Carver italiano. Ora c’è e si chiama Luciano Ligabue. Non parlo delle sue canzoni. Anche se versi come: «Certe notti la radio che passa Neil Young sembra avere capito chi sei». O come: «C’è la notte che ti tiene tra le sue tette, un po’ mamma un po’ porca com’è». O, soprattutto, come: «Ci han concesso solo una vita / soddisfatti o no, qua non rimborsano mai» a Carver non sarebbero dispiaciuti”. (Antonio D’Orrico, Corriere della Sera).
*
Come sappiamo, la sinistra italiana ha sempre lavorato per mantenere la supremazia in campo culturale: questo è un dato di fatto ormai metabolizzato e storicizzato. Una supremazia che ha visto iniziare il suo declino con l’avvento degli anni 2000, con la rivoluzione digitale, con la diffusione della Rete e i rivolgimenti socio-globali a cui stiamo ancora assistendo. Già in quella fase di forti cambiamenti, destinati a farsi sempre più veloci, l’egemonia della sinistra si è sentita minacciata e ha cercato le vie possibili per mantenere l’occupazione del campo. Cosa c’entra in tutto questo Luciano Ligabue, un rocker che a un certo punto ha sfruttato il successo regalatogli dalle vaste platee di fans per tentare una collaterale carriera letteraria? Sappiamo che il suo esordio risale al 1997, con la raccolta di racconti Fuori e dentro il borgo, che vinse il Premio Elsa Morante e il Premio Città di Fiesole: un artista della scena musicale che si scoprì “narratore delle pianure”, sulla scia del padre nobile Gianni Celati, nella terra situata “tra la via Emilia e il West”. L’anno dopo seguì il suo esordio come regista con il film Radiofreccia, che vinse la bellezza di tre David di Donatello, due Nastri d’argento, un Globo d’oro e tre Ciak d’oro.
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Il ruolo “di sfondamento” di Luciano Ligabue nella letteratura prende corpo nel 2004, quando pubblica il primo romanzo intitolato La neve se ne frega nella collana “I canguri” Feltrinelli: il libro viene presentato a Torino da Francesco Piccolo, a Roma da Alessandro Baricco, a Milano da Fernanda Pivano. È la mobilitazione di questo stato maggiore di “mostri sacri” della nostra cultura gauche a far capire il disegno sotteso all’operazione, una mossa di marketing decisa e orientata, che voleva farsi anche messaggio politico che legittimasse la posizione di questa intellighenzia verso un pubblico il più ampio possibile, allargato anche alla sfera pop e adolescenziale. Dunque, non un semplice disegno commerciale in termini di classifica, vendite e denaro, ma molto di più. Si tenga presente che solo due anni dopo Alessandro Baricco avrebbe pubblicato sul quotidiano la Repubblica il saggio I barbari, un tentativo di analisi della grande mutazione in atto nella cultura occidentale, presentato come l’opera filosofico-antropologica del momento.
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Dunque, l’esigenza della sinistra di muoversi, di reagire alla deriva in atto era ben presente, ed è verosimile che questi esponenti dell’élite intellettuale abbiano pensato di eleggere un “campione” dal forte appeal mediatico, sfruttandone la forza derivante dalla sua grande popolarità, per mandarlo a presidiare l’area minacciata. Ecco allora che Luciano Ligabue viene letteralmente imposto in campo letterario – a suon di presentazioni prestigiose, di condizionamenti alle librerie e di ospitate nei salotti televisivi di Stato – con La neve se ne frega, un romanzo futuristico la cui realizzazione, a nostro avviso, non dovette comportare sforzi particolari. Nulla di più semplice, infatti, che ricopiare l’ambiente orwelliano di 1984 e riproporre lo stesso tema di Il tempo imperfetto (dove le persone nascono vecchie e ringiovaniscono fino a morire neonate) che Francesco Piccolo aveva copiato quattro anni prima da Counter-clock World di Philip. K. Dick (dove un fenomeno siderale ha invertito la freccia del tempo facendo ripercorrere la vita a rovescio) pubblicato nel 1967, il quale a sua volta aveva ripreso in forma fantascientifica il tema del celebre racconto di Francis Scott Fitzgerald The curious case of Benjamin Button, dove un bambino nasce vecchio e ringiovanisce fino a estinguersi.
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Dunque, un topos molto sfruttato quello di La neve se ne frega; ma l’autore si è sforzato di ovviare all’ovvio con l’invenzione stilistica:
«Usi il blu e fai sentire un po’ di dio o dei suoi affini. Usi il giallo per dire che il sole non lo si può guardare in faccia. Il giallo per il potere. Il giallo per il volere. Usi il rosso per l’incombenza del sangue, la dipendenza dal sangue, l’intraprendenza del sangue. Usi il rosso per le radici. Usi il bianco per accendere la luce. Usi il nero per spegnerla. Per accendere l’ombra. Oppure li mescoli e abusi delle migliaia di nuove possibilità».
«Io e la pazienza giriamo la faccia dall’altra parte quando ci incrociamo». «Io e la pazienza abbiamo strappato le foto in cui eravamo insieme». «Io e la pazienza, ora, ci stiamo inviando qualche cartolina».
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Naturalmente, per affermarsi in modo pieno serviva anche l’impegno politico, e Luciano Ligabue ha fatto il possibile per coprire anche questo aspetto. Restano scolpite nella memoria la sua partecipazione al concerto del Primo maggio 2006, anno in cui la canzone Una vita da mediano diventa la colonna sonora della candidatura di Romano Prodi a Presidente del consiglio; la sua adesione al Vaffanculo-Day di Beppe Grillo nel settembre 2007, dove in un videomessaggio su maxischermo critica davanti alla platea grillina il sistema politico italiano; la sua firma all’appello per la libertà di stampa lanciato due anni dopo dai giuristi Cordero, Rodotà e Zagrebelsky sul quotidiano la Repubblica; la sua solidarietà a ricercatori e studenti nelle proteste del 2010 contro la riforma della scuola, espressa dichiarando che, finalmente, i giovani stavano manifestando l’angoscia per il proprio futuro. Un’attività politica a cui Ligabue era già avvezzo, essendo stato nel 1990 consigliere comunale a Correggio, prendendo parte a sole sei sedute consiliari in due anni, prima di dimettersi e imboccare la strada del successo come artista.
*
Una volta che il campione della sinistra è stato lanciato, la strada è aperta: si sono occupate le sotto-aree del cinema, della narrativa, della politica, e ora resta da occupare l’area cruciale della poesia. Perché è la poesia a essere rivoluzione, a rivoltare le coscienze, a tracciare significati per la psiche. Anche qui il compito è apparso semplice: basta slegare le parole dalla musica, ragionare in un tono diverso e il gioco è fatto. La collana Einaudi Stile Libero è pronta come braccio armato del progetto, a fianco dei grandi promotori: esce così nel 2006 la raccolta di 77 poesie dal titolo Lettere d’amore nel frigo, con la prefazione di Nico Orengo, che viene presentata con successo in molti atenei italiani. L’incipit:
guardiamo gli insetti sbattere sulle lampadine li vediamo friggere diciamo non ce la fanno a entrare nella luce quegli stupidi
Ora, per quanti sforzi di condiscendenza si possano fare, come venne rilevato da più parti, queste “poesie” risultano chiaramente un prodotto fuori fase rispetto all’arte che si vorrebbe esprimere. Apparentemente scritte di getto, come farebbe un adolescente sul suo diario, fattualmente prive di punteggiatura – forse per rivendicare la provenienza artistica dalla composizione di testi musicali – risultano inespressive, inconcludenti, senza un briciolo di sostanza lirico-letteraria.
è uno come tanti che ha le sue lettere d’amore nel frigo e nello scomparto frutta tiene la matrice dei biglietti per lo spettacolo del per sempre se ne ha comprati tanti è perché gli spettacoli durano quel che durano così compra altri biglietti con sopra la scadenza
Non c’è ritmo, non c’è respiro, manca una direzione emotivo-evocativa, e anche un’ipotesi di impianto semantico è inesistente. L’autore, dopo una serie di mestieri diversi, è approdato alla musica rock-autoriale e da lì ha formato le proprie competenze, in linea con l’arte che stava praticando. Ma esercitare la poesia presuppone un’inclinazione e una formazione ben fondate nell’intimo della persona, non può ridursi a un accostamento di parole e correlazioni intese a creare suggestione. Non basta saper andare sul palco con la chitarra elettrica, se non si è Jim Morrison.
*
la mosca che si posa sulla tela e la va a cambiare sembra mandata da qualcuno che ha deciso di disturbare il pittore proprio lì nel punto d’illusione d’eternità
È con imbarazzo che riportiamo queste citazioni, e chiediamo comprensione. D’altronde, un’idea concreta di cosa si stia parlando bisogna offrirla, se si vuol fare un discorso organico. Ma lasciamo la parentesi in versi per affrontare la fase successiva del progetto Ligabue: rinvigorire il genere letterario dei racconti, per dare impulso a questa forma narrativa spesso negletta. E qui entra in campo il celebre “book-jockey” del Corriere della Sera, l’uomo che conserva la capacità di entusiasmarsi con l’infantilismo stupefatto (non nel senso che assuma stupefacenti, ovviamente) di chi è pronto a gridare al capolavoro ogni volta che si emoziona per un libro: il famigerato Antonio D’Orrico, rimasto nella storia per il panegirico che dedicò a Giorgio Faletti su “Sette” con il titolo-slogan: «Non ci crederete ma oggi quest’uomo è il più grande scrittore italiano».
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Puntualmente, per la raccolta di racconti Il rumore dei baci a vuoto (Einaudi 2012), Antonio D’Orrico è arrivato a sparare: «Non abbiamo un Raymond Carver italiano. Mi correggo, non avevamo un Raymond Carver italiano. Ora c’è e si chiama Luciano Ligabue». Ora, senza entrare nel merito di un’affermazione tanto spavalda quanto ingenuamente miope, ci limitiamo a qualche osservazione. Qui ogni racconto è caratterizzato da un “finale aperto”, che – dopo una perdita, una scelta incomprensibile, un errore, un segreto svelato, una lettera da aprire, il passato che ferisce – lascia comunque intravedere la speranza dell’assestamento, del riscatto, della redenzione. Sfortunatamente, queste concessioni al “buon esito” del mondo – lasciato solo intuire, per le esigenze di “letterarietà” delle intenzioni – non sono sufficienti per reggere la scarsa consistenza del testo. Le storie faticano a trovare un senso, a volte una giustificazione, mentre i personaggi raccontati non riescono mai ad acquisire uno spessore. Il messaggio che Luciano Ligabue riesce a veicolare con i testi della sua musica, quando passa attraverso i racconti non riesce a configurarsi, sia per la maggior complessità insita nell’atto del narrare, sia per l’assenza dell’atmosfera necessaria a sostanziare un significato d’insieme.
*
«Chiudo la zip del giubbino. È in pelle rovinata. Mi piace perché fa pendant con la mia. Tutto il resto mi è largo. Scarpe, calzini, calzoni, maglietta, maglione. Tutto largo. Avevo bisogno di spazio. Ma in quello spazio si infila più agevolmente il freddo blu di questo novembre. Freddo secco. Cielo terso. Cosa c’entrano con noi a novembre? Dov’è finita la nebbia?
E se anche le stelle non sono ancora cadute vedrete che nei prossimi tre minuti ne sfrecceranno almeno un paio ma, se così non fosse, tutto sommato possono pure stare ferme, se vogliono. Che siamo più sicuri. Perché, a conti fatti, mamma e papà, volevo dirvi che me lo merito questo mondo. E addirittura, forse, lui merita me».
*
Naturalmente, la casa editrice Einaudi continua a fare da braccio armato al brand Luciano Ligabue, che però ha perso lo smalto potenziale che i suoi illustri promotori intravedevano più di quindici anni fa. I tempi sono irrimediabilmente trascorsi, i mutamenti hanno travolto, e l’intento iniziale ha perso senso. Con la successiva raccolta di racconti Scusate il disordine, pubblicata nel 2016 nella collana “I coralli”, troviamo un esercizio narrativo simile a quello di tanti autori che stentano a trovare visibilità e non godono dei privilegi di una rock star. «Amore, sesso e musica sono le tre emozioni che saldano la partitura immaginifica di questi racconti folgoranti e misteriosi», scrive l’editore. Ritenendo qui superfluo analizzare l’opera, e mancando qualsiasi indicazione critica, ci limitiamo a riportare – senza interventi redazionali – i giudizi che i lettori hanno lasciato sulla pagina di vendita di Amazon:
Libro impeccabile: ogni singolo racconto è una scoperta del lato sensibile di questo fenomenale artista poliedrico. I racconti sono stupendi, la particolare rilegatura gli dona un aspetto piu “intimo” e gradevole. Il libro è stato letto anche da mia mamma (MOLTO più obbiettiva di me) e l’ha trovato altrettanto bello. CONSIGLIATISSIMO a tutti i fan e non fan di Luciano.
*Un buon libro è sempre utile invece di perdersi nell’utilizzo dei social. L’autore poi è una garanzia di qualità! Consiglio l’acquisto per l’ottimo prezzo proposto e per i tempi di consegna rapidi grazie ad amazon Prime!
*Ho acquistato questo libro sotto consiglio di un’amica che ama moltissimo Ligabue, ero un po’ scettico sul Liga scrittore anche perchè non ho avuto mai modo di leggere altre sue opere, ma alla fine mi sono convinto, d’altro canto compone delle bellissime canzoni. Non me ne sono pentito belle storie
*A me è piaciuto. È carino, le storie un po’ strane ma al tempo stesso intriganti. Liga scrive col suo solito modo diretto, lineare, senza troppi fronzoli. Da leggere.
*Scusate il Disordine…Libro carino a me è piaciuto…letto in pochi giorni…Storie strane ma che ti Emozionano, ti intrigano…Fra’ Fantasia e Realtà… Liga non si smentisce mai…Spedizione perfetta…Grazie…
*Premetto che a me piacciono molto i libri di racconti. La scrittura di Ligabue è asciutta diretta lineare. Le trame sono varie ed alcune fantasiose ma non strampalate. Fanno meditare.
*Per me che sono fan di Luciano Ligabue da quando sono bambino era impossibile non completare la mia collezione con uno dei suoi libri
*Un libro piacevole e interessante, che si legge d’un fiato. Gli appassionati di Ligabue, in particolare, ritroveranno tantissimi riferimenti alle canzoni più o meno datate. Consigliato.
Paolo Ferrucci
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10 aprile 1815: quando il vulcano Tambora cambiò la storia dell'umanità Immaginate la sconfitta di Waterloo e l’invenzione della bicicletta. Se siete storici, ciclisti e geologi dovreste sentirvi chiamati in causa. Meglio ancora se invece che “semplici” geologi se siete vulcanologi perché la vicenda di Waterloo probabilmente vi sarà nota. E anche se siete storici. Si dice che Napoleone fu sconfitto a Waterloo a causa delle avverse condizioni metereologiche, del tutto eccezionali e dovute alla grande eruzione del vulcano Tambora, nell’arcipelago indonesiano della Sonda. Il 10 aprile del 1815, infatti, si verificò una delle più violente eruzioni avvenute nel corso della storia dell’umanità con un’emissione di ceneri più unica che rara, in conseguenza della quale il clima del 1815 e del 1816 fu alterato. Il 1816 in particolare fu ricordato come l’anno “senza estate” e le prime avvisaglie, forse, furono proprio quelle subite da Napoleone sul campo di battaglia tra il 17 e il 18 giugno del 1815. La pioggia senza fine immobilizzò le truppe francesi e giocò un ruolo decisivo nelle strategie di tutti i contendenti ma certamente contro quelle di Napoleone stesso, che fu definitivamente sconfitto. Ma nel 1816 a essere colpita fu in maniera grave l’agricoltura. Basti ricordare che ci furono sommosse per il cibo in Inghilterra e in Francia i magazzini di grano vennero saccheggiati. E paesi senza il mare, come la Svizzera, furono costretti a dichiarare l’emergenza nazionale. Il clima planetario era sconvolto e probabilmente tali sconvolgimenti furono all’origine anche della prima pandemia di colera del mondo. Così come la neve caduta durante il luglio del 1816 costrinse alcuni giovani intellettuali a rimanere chiusi a raccontarsi storie del terrore. Fra questi c’erano la moglie del poeta Percy Shelley, Mary, e John William Polidori. E in quei giorni Mary Shelley concepì il romanzo di “Frankenstein” e Polidori il racconto “Il vampiro”, che ispirerà anni dopo a Bram Stoker il suo romanzo Dracula. E un nobile tedesco, Karl Drais, progettò un mezzo di locomozione che potesse essere usato senza i cavalli, per i quali il costo del mangime era diventato troppo alto. E inventò la bicicletta. Quando un vulcano può cambiare la storia dell’umanità. #UnGiornoallaVolta #accaddeoggi https://ift.tt/2v0QVzU
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10 aprile 1815: quando il vulcano Tambora cambiò la storia dell'umanità Immaginate la sconfitta di Waterloo e l’invenzione della bicicletta. Se siete storici, ciclisti e geologi dovreste sentirvi chiamati in causa. Meglio ancora se invece che “semplici” geologi se siete vulcanologi perché la vicenda di Waterloo probabilmente vi sarà nota. E anche se siete storici. Si dice che Napoleone fu sconfitto a Waterloo a causa delle avverse condizioni metereologiche, del tutto eccezionali e dovute alla grande eruzione del vulcano Tambora, nell’arcipelago indonesiano della Sonda. Il 10 aprile del 1815, infatti, si verificò una delle più violente eruzioni avvenute nel corso della storia dell’umanità con un’emissione di ceneri più unica che rara, in conseguenza della quale il clima del 1815 e del 1816 fu alterato. Il 1816 in particolare fu ricordato come l’anno “senza estate” e le prime avvisaglie, forse, furono proprio quelle subite da Napoleone sul campo di battaglia tra il 17 e il 18 giugno del 1815. La pioggia senza fine immobilizzò le truppe francesi e giocò un ruolo decisivo nelle strategie di tutti i contendenti ma certamente contro quelle di Napoleone stesso, che fu definitivamente sconfitto. Ma nel 1816 a essere colpita fu in maniera grave l’agricoltura. Basti ricordare che ci furono sommosse per il cibo in Inghilterra e in Francia i magazzini di grano vennero saccheggiati. E paesi senza il mare, come la Svizzera, furono costretti a dichiarare l’emergenza nazionale. Il clima planetario era sconvolto e probabilmente tali sconvolgimenti furono all’origine anche della prima pandemia di colera del mondo. Così come la neve caduta durante il luglio del 1816 costrinse alcuni giovani intellettuali a rimanere chiusi a raccontarsi storie del terrore. Fra questi c’erano la moglie del poeta Percy Shelley, Mary, e John William Polidori. E in quei giorni Mary Shelley concepì il romanzo di “Frankenstein” e Polidori il racconto “Il vampiro”, che ispirerà anni dopo a Bram Stoker il suo romanzo Dracula. E un nobile tedesco, Karl Drais, progettò un mezzo di locomozione che potesse essere usato senza i cavalli, per i quali il costo del mangime era diventato troppo alto. E inventò la bicicletta. Quando un vulcano può cambiare la storia dell’umanità. #UnGiornoallaVolta #accaddeoggi https://ift.tt/2v0QVzU
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10 aprile 1815: il quando vulcano Tambora cambiò la storia dell'umanità Immaginate la sconfitta di Waterloo e l’invenzione della bicicletta. Se siete storici, ciclisti e geologi dovreste sentirvi chiamati in causa. Meglio ancora se invece che “semplici” geologi se siete vulcanologi perché la vicenda di Waterloo probabilmente vi sarà nota. E anche se siete storici. Si dice che Napoleone fu sconfitto a Waterloo a causa delle avverse condizioni metereologiche, del tutto eccezionali e dovute alla grande eruzione del vulcano Tambora, nell’arcipelago indonesiano della Sonda. Il 10 aprile del 1815, infatti, si verificò una delle più violente eruzioni avvenute nel corso della storia dell’umanità con un’emissione di ceneri più unica che rara, in conseguenza della quale il clima del 1815 e del 1816 fu alterato. Il 1816 in particolare fu ricordato come l’anno “senza estate” e le prime avvisaglie, forse, furono proprio quelle subite da Napoleone sul campo di battaglia tra il 17 e il 18 giugno del 1815. La pioggia senza fine immobilizzò le truppe francesi e giocò un ruolo decisivo nelle strategie di tutti i contendenti ma certamente contro quelle di Napoleone stesso, che fu definitivamente sconfitto. Ma nel 1816 a essere colpita fu in maniera grave l’agricoltura. Basti ricordare che ci furono sommosse per il cibo in Inghilterra e in Francia i magazzini di grano vennero saccheggiati. E paesi senza il mare, come la Svizzera, furono costretti a dichiarare l’emergenza nazionale. Il clima planetario era sconvolto e probabilmente tali sconvolgimenti furono all’origine anche della prima pandemia di colera del mondo. Così come la neve caduta durante il luglio del 1816 costrinse alcuni giovani intellettuali a rimanere chiusi a raccontarsi storie del terrore. Fra questi c’erano la moglie del poeta Percy Shelley, Mary, e John William Polidori. E in quei giorni Mary Shelley concepì il romanzo di “Frankenstein” e Polidori il racconto “Il vampiro”, che ispirerà anni dopo a Bram Stoker il suo romanzo Dracula. E un nobile tedesco, Karl Drais, progettò un mezzo di locomozione che potesse essere usato senza i cavalli, per i quali il costo del mangime era diventato troppo alto. E inventò la biciletta. Quando un vulcano può cambiare la storia dell’umanità. #UnGiornoallaVolta #accaddeoggi http://ift.tt/2ogURHq
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10 aprile 1815: il quando vulcano Tambora cambiò la storia dell'umanità Immaginate la sconfitta di Waterloo e l’invenzione della bicicletta. Se siete storici, ciclisti e geologi dovreste sentirvi chiamati in causa. Meglio ancora se invece che “semplici” geologi se siete vulcanologi perché la vicenda di Waterloo probabilmente vi sarà nota. E anche se siete storici. Si dice che Napoleone fu sconfitto a Waterloo a causa delle avverse condizioni metereologiche, del tutto eccezionali e dovute alla grande eruzione del vulcano Tambora, nell’arcipelago indonesiano della Sonda. Il 10 aprile del 1815, infatti, si verificò una delle più violente eruzioni avvenute nel corso della storia dell’umanità con un’emissione di ceneri più unica che rara, in conseguenza della quale il clima del 1815 e del 1816 fu alterato. Il 1816 in particolare fu ricordato come l’anno “senza estate” e le prime avvisaglie, forse, furono proprio quelle subite da Napoleone sul campo di battaglia tra il 17 e il 18 giugno del 1815. La pioggia senza fine immobilizzò le truppe francesi e giocò un ruolo decisivo nelle strategie di tutti i contendenti ma certamente contro quelle di Napoleone stesso, che fu definitivamente sconfitto. Ma nel 1816 a essere colpita fu in maniera grave l’agricoltura. Basti ricordare che ci furono sommosse per il cibo in Inghilterra e in Francia i magazzini di grano vennero saccheggiati. E paesi senza il mare, come la Svizzera, furono costretti a dichiarare l’emergenza nazionale. Il clima planetario era sconvolto e probabilmente tali sconvolgimenti furono all’origine anche della prima pandemia di colera del mondo. Così come la neve caduta durante il luglio del 1816 costrinse alcuni giovani intellettuali a rimanere chiusi a raccontarsi storie del terrore. Fra questi c’erano la moglie del poeta Percy Shelley, Mary, e John William Polidori. E in quei giorni Mary Shelley concepì il romanzo di “Frankenstein” e Polidori il racconto “Il vampiro”, che ispirerà anni dopo a Bram Stoker il suo romanzo Dracula. E un nobile tedesco, Karl Drais, progettò un mezzo di locomozione che potesse essere usato senza i cavalli, per i quali il costo del mangime era diventato troppo alto. E inventò la biciletta. Quando un vulcano può cambiare la storia dell’umanità. #UnGiornoallaVolta #accaddeoggi http://ift.tt/2ogURHq
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