#intelligenza de che?
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Ma prima ritrova il tuo braccio!!!
#AI#intelligenza de che?#quello che ha ideato questa pubblicità gioca sul fatto che l'immagine è palesemente sbagliata per attrarre l'attenzione?
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Questo è quello che io cerco almeno nei libri quando li apro,
il pezzetto che è stato scritto per me.
Uno scarto, un brusco scarto di intelligenza e sensibilità che mi spiega qualcosa di me. Cosa che suppongo possedevo già sotto la pelle, ma che non sapevo dire...
Erri De Luca
#erri de luca#frasi#frasi belle#pensieri e parole#pensieri#pensando#quotes#frasi vere#citazioni#frasi tumblr#tumblr quotes
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C’è un metodo infallibile per gestire gli idioti
Io nel corso della mia vita ne ho ricevute tante ma proprie tante di critiche. Mi ricordo che quando iniziai a cantare per la prima volta alcuni mi dissero che non avevo talento! Poi quando arrivò il successo ci furono quelli che iniziarono a criticarmi per le mie canzoni, troppo sentimentali, troppo ottimiste, troppo pessimista, troppo mediocri! Con il tempo però ho capito una cosa.
Non è obbligatorio rispondere a tutti, non è obbligatorio parlare con chiunque, non è obbligatorio lasciarsi trascinare in conversazioni brutte. Quando hai davanti un idiota, ricordati di fare una cosa: respira. Ricordati chi sei, da dove vieni, dove stai andando. Ricordati di respirare quando la vita corre, quando hai fretta, quando gli spazi intorno sembrano diventare stretti. Respira prima di parlare, che le parole hanno un gran bisogno di aria pulita. E soprattutto concediti un lusso che oggi conoscono in pochi: il lusso del silenzio.
Il silenzio non è vuoto, ma è pieno di risposte. È solo quando riesci a tacere. evitando discussioni inutili, che mostri la tua intelligenza e la tua saggezza. Come diceva il grande De Crescenzo: «Tacere non significa che io non abbia niente da dire, o che quello che vedo mi sta bene. Il mio tacere vuol dire: «Ho capito chi sei e non vali nemmeno la mia attenzione.»
Roberto Vecchioni.
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[Lei s’innamorò come s’ innamorano sempre le donne intelligenti:
come un’ idiota]
La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La zia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Gli assenti si sbagliano sempre».
Ángeles Mastretta
[racconto tratto dal libro “Donne dagli occhi grandi”]
*traduzione di Gina Maneri
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Non è obbligatorio rispondere a tutti, non è obbligatorio parlare con chiunque, non è obbligatorio lasciarsi trascinare in conversazioni brutte. Quando hai davanti un idiota, ricordati di fare una cosa: respira.
Ricordati chi sei, da dove vieni, dove stai andando. Ricordati di respirare quando la vita corre, quando hai fretta, quando gli spazi intorno sembrano diventare stretti. Respira prima di parlare, che le parole hanno un gran bisogno di aria pulita. E soprattutto concediti un lusso che oggi conoscono in pochi: il lusso del silenzio.
Il silenzio non è vuoto, ma è pieno di risposte.
È solo quando riesci a tacere evitando discussioni inutili, che mostri la tua intelligenza e la tua saggezza. Come diceva il grande De Crescenzo:
"tacere non significa che io non abbia niente da dire, o che quello che vedo mi sta bene. Il mio tacere vuol dire: ho capito chi sei e non vali nemmeno la mia attenzione…"
- Roberto Vecchioni
Image credit: LightField Studios / Shutterstock
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Tacere non significa che io non abbia niente da dire, o che quello che vedo mi sta bene. Il mio tacere vuol dire: “Ho capito chi sei e non vali nemmeno la mia attenzione.” Il silenzio non è vuoto, ma è pieno di risposte. È solo quando riesci a “tacere”, evitando discussioni inutili, che mostri la tua intelligenza e la tua saggezza. Questa è quel genere di filosofia che non è nata per essere insegnata, ma per essere “praticata”.
Luciano de Crescenzo
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Tacere non significa che io non abbia niente da dire, o che quello che vedo mi sta bene. Il mio tacere vuol dire: “Ho capito chi sei e non vali nemmeno la mia attenzione.” Il silenzio non è vuoto, ma è pieno di risposte. È solo quando riesci a “tacere”, evitando discussioni inutili, che mostri la tua intelligenza e la tua saggezza. Questa è quel genere di filosofia che non è nata per essere insegnata, ma per essere “praticata”.
Luciano de Crescenzo
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Questo è quello che io cerco almeno nei libri quando li apro,
il pezzetto che è stato scritto per me.
Uno scarto, un brusco scarto di intelligenza e sensibilità che mi spiega qualcosa di me. Cosa che suppongo possedevo già sotto la pelle, ma che non sapevo dire...
Erri De Luca
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Per me i libri sono lettere a nessuno, non so a chi le ho scritte, a chi le spedisco, so che stanno al fermo posta di una libreria e qualcuno passa di lì, cerca proprio quella casella in mezzo agli scaffali, sceglie nella posta la lettera che è stata scritta per lui, e comincia a leggere. Questo è quello che io cerco almeno nei libri quando li apro, il pezzetto che è stato scritto per me. Uno scarto, un brusco scarto di intelligenza e sensibilità che mi spiega qualcosa di me. Cosa che suppongo possedevo già sotto la pelle, ma che non sapevo dire, che non riuscivo a mettere a fuoco.
Erri De Luca
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Aforismi e citazioni sul lavoro

Aforismi e citazioni sul lavoro Aforismi e citazioni sul lavoro, una raccolta di varie citazioni di autori famosi su una delle attività più importanti e spesso faticose della nostra società. La festa internazionale dei lavoratori si celebra il 1 maggio di ogni anno, una tradizione che continua ancora oggi in più di 60 paesi. Tutte le professioni sono delle cospirazioni contro i profani. George Bernard Shaw Il lavoro mi piace, mi affascina. Potrei starmene seduto per ore a guardarlo. Jerome Klapka Jerome Dobbiamo lavorare di meno, perché un uomo sfinito dalla fatica è costretto ad essere fedele alla propria moglie. Occorre del tempo, invece, per danzare, cantare, amare la propria donna e quella degli altri. Rajneesh Bhagwan Più desidero che qualcosa sia fatto, meno lo chiamo lavoro. Richard Bach È troppo difficile pensare nobilmente quando si pensa a guadagnarsi da vivere. Jean-Jacques Rousseau Tutti gli sventurati, tutti coloro la cui schiena brucia / sotto il sole feroce e che vanno, che vanno / con la fronte che scoppia in un lavoro infame. / Giù il cappello, borghesi. Questi sono i veri uomini. Arthur Rimbaud Lavoriamo senza pensare: è il solo mezzo per rendere sopportabile l’esistenza. Voltaire Il lavoro è uno sforzo diretto ad ottenere una remunerazione. Th. R. Malthus Si gusta doppiamente la felicità faticata. Baltasar Gracián Non voglio raggiungere l'immortalità con il mio lavoro. Voglio arrivarci non morendo. Woody Allen Si sa che il lavoro ha sempre addolcito la vita: rimane tuttavia il fatto che non a tutti piacciono i dolciumi. Victor Hugo Decise di cambiar vita, di approfittare delle ore del mattino. Si levò alle sei, fece la doccia, si rase, si vestì, gustò la colazione, fumò un paio di sigarette, si mise al tavolo di lavoro e si svegliò a mezzogiorno. Ennio Flaiano L'avidità è il pungolo dell'operosità. David Hume Al mondo non ci sono che due modi per fare carriera: o grazie alla propria ingegnosità o grazie all'imbecillità altrui. La Bruyère De, Jean Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore. Bertolt Brecht E' impossibile godere appieno dell'ozio se non si ha un sacco di lavoro da fare. Jerome Klapka Jerome Il lavoro allontana tre grandi mali: la noia, il vizio ed il bisogno. Voltaire Occorre che un uomo muoia per divenire forza-lavoro. È quella morte che egli trasforma in salario. Jean Baudrillard Dopo tutto, l’intera storia del lavoro umano è una storia di resistenza all’organizzazione del lavoro, al potere politico, all’ideologia del lavoro. Vittorio Foa La grande maggioranza delle persone lavora soltanto per necessità e da questa naturale avversione umana al lavoro nascono i più difficili problemi sociali. Sigmund Freud Lavorare è meno noioso che divertirsi. Charles Baudelaire Intelligenza: quando ti accorgi che il ragionamento del tuo principale non fila. Saggezza: quando eviti di farglielo notare. Anonimo Per ridurre il costo del lavoro si potrebbe ritornare allo schiavismo puro, no! Carl William Brown Fa’ sempre qualcosa, di modo che il diavolo ti trovi sempre impegnato. San Gerolamo Alla fin fine, il lavoro rimane sempre il miglior mezzo per far passare la vita. Gustave Flaubert I consumatori ricercano la massima soddisfazione, i produttori il massimo profitto e i lavoratori devono lottare contro il massimo sfruttamento. Carl William Brown Spesso le grandi imprese nascono da piccole opportunità. Demostene Una persona che usa merci e servizi, senza produrre merci e servizi equivalenti, arreca al Paese esattamente lo stesso danno che arreca un ladro: in effetti si tratta proprio di un furto. G.B. Shaw Quando il caos è intorno a te, ricorda: quello che sopravvive alla storia è il lavoro dell'uomo. Anonimo Se il riposo non è un po' ancora lavoro, è subito noia. Jules Renard La riduzione della giornata lavorativa a un punto in cui la quantità del lavoro non impedisce lo sviluppo umano, è il primo elemento di libertà. H. Marcuse E noi qui in tuta a far la classe operaia, come dei pirla. Altan Non dimostrarti insostituibile; se non puoi essere sostituito, non sarai promosso. Anonimo Oggi anche il cretino è specializzato. Ennio Flaiano Tutti lavoriamo per arrivare al riposo: è ancora la pigrizia a renderci laboriosi. Jean-Jacques Rousseau La schiavitù umana ha toccato il punto culminante alla nostra epoca, sotto forma di lavoro liberamente salariato. G.B. Shaw Il lavoro non è altro che uno stupido sforzo per un inutile spostamento. Carl William Brown Siamo arrivati a un tal grado di imbecillità da considerare il lavoro non solo come onorevole, ma addirittura come sacro, mentre non è che una dolorosa necessità. R. de Gourmont Mani inanellate non sanno mungere vacche Mani nere e callose fanno pane bianco. Canto popolare lituano, XVIII sec. Noi viviamo nell'epoca in cui la gente è così laboriosa da diventare stupida. Oscar Wilde Il lavoro d'equipe è essenziale. Ti permette di dare la colpa a qualcun altro. Arthur Bloch Si sa che il lavoro ha sempre addolcito la vita: il fatto è che non a tutti piacciono i dolciumi. Victor Hugo Un uomo non è un pigro, se è assorto nei propri pensieri; esistono un lavoro visibile ed uno invisibile. Victor Hugo Erano in tre e si doveva eseguire un lavoro; il più forte decise che avrebbe diretto le varie fasi dell'esecuzione, il più furbo disse che avrebbe controllato il buon esito dell'operazione e al più debole non rimase altro che iniziare. Carl William Brown La paura della noia è la sola scusa del lavoro. Jules Renard Ogni volta che basta una sola persona per eseguire un compito con la dovuta applicazione, il compito viene eseguito in modo peggiore da due persone e non viene affatto eseguito se l'incarico è affidato a tre o più persone. George Washington I malvagi lavorano più duramente per andare all'inferno di quanto non facciano i giusti per andare in paradiso. Josh Billings La fatica rende le donne loquaci e ammutolisce gli uomini. Clive Staples Lewis Ad ogni periodo di attività deve seguirne uno di riposo. Mao Tse-tung Il frutto del lavoro è il più dolce dei piaceri. Luc de Clapiers de Vauvenargues Ogni abitudine rende la nostra mano più ingegnosa e meno agile il nostro ingegno. Friedrich Nietzsche L'uomo è l'unica creatura che consuma senza produrre. George Orwell Il lavoro duro paga nel lungo periodo. La pigrizia paga subito. Anonimo Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare. Oscar Wilde La vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica ed indipendenza. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature. Franklin Delano Roosevelt Recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro. Depressione è quando lo perdi tu. Panico quando lo perde anche tua moglie. Boris Makaresko Il lavoro è la maledizione delle classi alcolizzate. Oscar Wilde Vivere del proprio lavoro, una necessità; vivere del lavoro altrui, un'aspirazione. Alessandro Morandotti Lui non sa nulla e pensa di sapere tutto: tutto ciò fa pensare chiaramente ad una carriera politica. George Bernard Shaw Se fossi un medico, prescriverei una vacanza a tutti i pazienti che considerano importante il proprio lavoro. Bertrand Russell La religione ci rende inadatti ad ignorare la nullità e ci butta nel lavoro della vita. John Updike Non un giorno senza una riga. Plinio il Vecchio Lavoro è vita, lo sai, e senza quello esiste solo paura e insicurezza. John Lennon Non ci sono lavoro stupidi, è evidente... Ma ce ne sono di quelli che vengono lasciati agli altri. Miguel Zamacoïs Il lavoro è stato il primo prezzo che si è pagato per ognicosa ed è la misura reale del valore di scambio di ogni merce. Adam Smith Il Governo ha due doveri, quello di mantenere l'ordine pubblico a qualunque costo ed in qualunque occasione, e quello di garantire nel modo più assoluto la libertà di lavoro. Giovanni Giolitti Se fai il lavoro male, dopo magari non te lo fanno fare più. Bill Watterson L'etica del lavoro è l'etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi. B. Russel Gli errori, come pagliuzze, galleggiano sulla superficie: chi cerca perle deve tuffarsi nel profondo. John Dryden Una piccola quantità di denaro che cambia di mano rapidamente farà il lavoro di una grande quantità che si muove lentamente. Ezra Pound L'artista è niente senza il dono, e il dono è niente senza il lavoro. Émile Zola Essere uomo è un mestiere difficile, soltanto pochi ce la fanno. Ernest Hemingway Una macchina è in grado di lavorare come cinquanta uomini comuni, ma nessuna macchina può svolgere il lavoro di un uomo straordinario. Elbert Hubbard L'opera esce più bella da una forma ribelle al lavoro dell'artista: verso, marmo, onice, smalto. Théophile Gautier Dio mi perdonerà: è il suo mestiere. Heinrich Heine La differenza tra un intellettuale e un operaio? L'operaio si lava le mani prima di pisciare e l'intellettuale dopo. Jacques Prévert Sulla tematica del lavoro potete anche leggere: Umorismo nero e lavoro Scuola, ozio e lavoro Labor Day explained Aforismi sulle pensioni Aforismi sulle pensioni di C.W. Brown Aforismi per autore Aforismi per argomento Riflessioni e pensieri Saggi e aforismi Read the full article
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Flashbacks assurdamente demenziali:
<<bonjour>> ~2013/26/09~
<<bonjour,prof!!!>>
<<da oggi sarò il vostro insegnante di lingua francese…vi spiegherò come sono…
Spiritoso ma non fatemi incazzare che sarà la fine>>
Classe(più io):com’è che si dice ..ohhh sei la fine come i tuoi occhi color oceano più il mio sangue marcio ahahahhahahahah che matte che siamo siamo la terza media migliore di tutte le altre!
Io:anch’io lo penso …penso di diventare un artista me lo consigliano tutti/e.
<<stoop!>> Pum pum faceva la bacchetta nel seno di Natalia tan tam…
Natalia : o_o I..je..je…suis rouge
Io:mi alzai per un attimo e lo fissai negli occhi brillanti di un prof che si meritava una “tous les memes “ de stromae ..(ero uguale magra e con quel taglio di capelli )con affare di sfida
*tutti mi guardavano*
Attiravo sempre l’attenzione con giochi di parole e provocazioni assurde…
<<Prof ho due cicche non una
non “la “ cicca
“non” butta via la cicca>>
Io:<<avrá imparato la mia lezione ? Dei due cuori appiccicati che chiedono di buttarsi uno ..,ma no si devono buttare insieme ,come nel finale di harry potter con voldemort…il male ed
il bene
rancore
gelosia
sofferenza
goduria
età sbilanciata verso l’alto ..(prof di francese)
Età sbilanciata verso il basso(Io)… chissà se è questa la mia prima diagnosi borderline nel mio diario da viaggio lo constatavo il professore come un essere narcisistico perverso che mi assorbiva energia come un vampiro adoro il creepy ma non facciamo diventare la mia storia in una storia horror ok Diadore? Ok. *parlando tra me e me*
Era elettrizzata da questo nuovo vortice di attenzioni sporadiche e eccitanti che veniva a vibrare la mia anima stelle nello stomaco una specie di terremoto che scuote minecraft fino a far scivolare stelle e meteoriti..
È possibile che per uno sguardo dato lentamente senza abbassare le palpebre e manovrare subito dentro la classe e dalla distanza che ci separava come un pericolo che stavamo rincorrendo come un’attrazione fatale
Sei tu humbert humbert e Dolores io?
Per caso….(?)
È possibile che tutto questo si sia chiuso dentro di me come per dire voglio diventare ancora di più borderline ..voglio rinchiudermi altri più anni in comunità più di dieci aspettando che venga a lavorare qua per un bacio e un riconoscimento della mia intelligenza e hyper sensibilità che mi ha portato ad amare un uomo piuttosto per come era che per come è ,accettare tutto sai cosa significa essere come le Poste. Passività.
Prof<<È la fine. Ragazzi>>
Io<<ma è la prima lezione di Francese della terza media ..!!!>>
Urlavo perché non si sentiva feeling sentire sentirsi sentimenti non sentiva i miei sentimenti se era un prof d’inglese lo avrebbe capito all’istante un colpo di francese o di fulmine ? Lo scopriremo insieme questa miscela cosa significherebbe!.
\Diadore~dirige~il~borderline/
#scuola#astronomy#diario#tv shows#borderline personality disorder#mental illness#creare#storia#bizzarre#inizio#amore tumblr#amore impossibile#amore triste
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Sono passati 15 anni, e io sono sempre là.
La statua parlante di Pasquino e i Settecenteschi leoni di Palazzo Braschi. Oggi è la sede del Museo di Roma, un'esposizione di tele, acquerelli, foto e plastici che narrano la storia della città.
Per 50 anni, dall'Unità al 1921, fu sede del Viminale, prima del trasferimento all'attuale sede dietro via Nazionale.
Dal portone del palazzo entrave e usciva Giovanni Giolitti, forse, dopo Cavour, il più importante, discusso e discutibile ministro della storia italiana pre-repubblicana.
Il palazzo nasce sulle macerie del più antico palazzo Orsini a Pasquino: è il 1792, un brutto momento per il potere teocratico e monarchico in un'Europa che assiste inorridita ed impotente allo scatenarsi della furia giacobina.
Papa Pio VI Braschi se ne frega: vuole un bel palazzo per l'amato nipote, il principe Luigi Braschi-Onesti, e lo avrà alle spese del preesistente edificio.
Questo Luigi, per altro, è, forse suo malgrado visto lo sprezzante giudizio che della sua intelligenza dà il procuratore per il Tevere napoloenico, de Tournon, un personaggio formidabilissimo della Roma a cavallo tra papato e era napoleonica. Dico a cavallo a ragion veduta, perché Luigi sa stare in sella sia prima, che dopo l'avvento di Bonaparte: un talento raro in un epoca così turbolenta.
Il futuro papa è zio suo e del piccolo Romualdo: cesenatesi, nascono da Giulio Onesti e da Francesca Braschi, che di Pio VI è sorella. Quando Luigi è abbastanza grande, Pio lo richiama a Roma con il fratello che diverrà cardinale. Il papa celebra nella Cappella Sistina le nozze tra Luigi e Costanza Falconieri, nobildonna della potente famiglia nobile residente nel bel palazzo borrominiano di via Giulia (segue foto mia di una delle arpie di palazzo Falconieri, aggiunte più tardi ma su progetto di Borromini).
Adotta inoltre i nipoti, che da Onesti diventano Braschi e, come tali, principi.

Luigi ha il fiuto per gli affari ed è anche ben raccomandato: conduce lucrosi affarucci nella campagna romana, uno dei quali sfocia in un'incresciosa causa di cui si sobbarca sempre lo zio. È la causa Lepri, che finisce davanti a tribunale rotale perché gli eredi Lepri, defraudati della loro eredità alla morte del padre Amanzio, ricusano la legittimità del testamento in favore del papa (che intendeva allegare i ricchi beni del possidente pontino a Luigi).
Alle soglie della Rivoluzione Francese, Luigi viene mandato dallo zio a trattare con i Francesi giacobini a Tolentino. Tuttavia, le trattative vanno maluccio e per giunta Luigi, tornato a Roma, si trova i Francesi in città ed il palazzo ancora in costruzione devastato: il popolo romano lo detesta e ha salutato con soddisfazione lo scempio francese nelle sue proprietà.
Tra l'altro, poiché il principe era di bocca buona e aveva collocato nel suo palazzo la sua collezione di preziose tele (Caravaggio, pittori Cinque-Seicenteschi, sciocchezzuole del genere) i francesi, quel che non rompono lo rubano e lo spediscono in Francia.
Però, Luigi, che forse non è sveglio, sostiene de Tournon, ma evidentemente ha la furbizia degli imbelli, riesce a rimontare anche da questa disgrazia: dopo alterne vicende di prigionia condivisa con lo zio, diventa infatti il primo sindaco della Roma giacobina e repubblicana e, come tale, pure scomunicato.
Intanto si procura come segretario privato Vincenzo Monti, e pare che i rapporti del poeta con la famiglia del suo datore di lavoro siano intimi, mooolto intimi. Così intimi, infatti, che forse la piccola Costanza Braschi è figlia di Monti, più che di suo padre.
Comunque, passata la fulgida tempesta napoleonica, Luigi, come le lumache dopo la pioggia, rifà capolino e mostra nuovamente il suo talento opportunistico: riesce a rientrare al servizio del pontefice, un altro, Pio VII, e a farsi levare pure la scomunica.
Ma le fortune economiche della famiglia sono state duramente messe alla prova dalle ruberie e dai rovesci bonapartisti. È il 1816: Luigi muore, sepolto a Santa Maria Sopra Minerva, e per cinquant'anni gli eredi campicchiano di rendita senza replicare le fortune paterne e anzi, indebitandosi oltre il tollerabile.
Infine, ridotta con le pezze al culo come si dice a Roma, tenta di alienare il palazzo che tanti grattacapi ha causato all'avo Luigi per ripagarsi i debiti con una riffa nel 1866.
Gli va male, però: non vendono sufficienti biglietti, e l'ingombrante e costoso casermone resta loro sulle croste, sebbene per soli cinque anni. Infatti lo Stato Italiano, sin dalla sua nascita contrassegnato da un brillante fiuto per le cause perse e le sòle più solenni, interviene a salvare la situazione e se lo compra nel 1871.
Il palazzo diventa così residenza e ufficio di Giolitti però il suo ruolo nelle vicende di storia patria e cittadina non è finito. Dopo il trasferimento del Viminale alla sua attuale sede, infatti, iniziato nel 1921 e terminato nel 23, il palazzo Braschi subisce una curiosa sorte, proprio lui, sorto alle spalle di Pasquino, voce del popolo contro le assurdità e gli abusi del potere su Roma la sua gente. Infatti, diviene epicentro dell'attività propagandistica fascista, finché, dopo l'Armistizio e fino alla Costituente, è perfino sede del PNF e dei gruppi di repressione.
Dalla fine della guerra al '49, ecco che si ripete, pur con le debite differenze, la vicenda di spoliazione e devastazione già vista nel 1798: stavolta, a far danni sono i poveri cristi degli sfollati, morti di fame e di rabbia e di disperazione dopo la fine della guerra. Le belle sale, gli eleganti affreschi sono deturpati e danneggiati da gente abbrutita dall'orrore della guerra, dell'occupazione nazista e della guerra civile.
Solo dal 1952, Palazzo Braschi viene infine risistemato alla bell'e meglio e istituito a sede del Museo di Roma.
Ancora adesso ci accoglie con una bella carrozza settecentesca nell'androne, memoria di uno sfarzo e di un'indolenza verso la miseria e le piccole cose che è forse quella della grande Storia, ai cui margini questo luogo ha tanto fortunosamente galleggiato.
Le prime due foto, tutte mie, sono scatatte nel settembre 2024, le ultime due le scattai nel 2009 e infatti sono barochissime, storte e filtrate con i potenti mezzi di Paint su un PC che montava Windows Vista.
Dopo 15 anni sono sempre a spasso per Roma a fotografarla, però!
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Ci vogliono due anni per imparare a parlare e cinquanta per imparare a tacere. Il silenzio non è vuoto, ma è pieno di risposte. È solo quando riesci a “tacere”, evitando discussioni inutili, che mostri la tua intelligenza e la tua saggezza. Questa è quel genere di filosofia che non è nata per essere insegnata, ma per essere “praticata”.
Luciano De Crescenzo..🌹
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Tacere non significa che io non abbia niente da dire, o che quello che vedo mi sta bene. Il mio tacere vuol dire: “Ho capito chi sei e non vali nemmeno la mia attenzione.” Il silenzio non è vuoto, ma è pieno di risposte. È solo quando riesci a “tacere”, evitando discussioni inutili, che mostri la tua intelligenza e la tua saggezza. Questa è quel genere di filosofia che non è nata per essere insegnata, ma per essere “praticata”.
|| Luciano de Crescenzo
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Ci vogliono due anni per imparare a parlare e cinquanta per imparare a tacere. Il silenzio non è vuoto, ma è pieno di risposte. È solo quando riesci a “tacere”, evitando discussioni inutili, che mostri la tua intelligenza e la tua saggezza. Questa è quel genere di filosofia che non è nata per essere insegnata, ma per essere “praticata”.
Luciano de Crescenzo
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" Io mi chiedo spesso perché tanta gente oggigiorno abbia paura. E lo constato con preoccupazione, a mia volta, perché questo tipo di paura è la premessa del fascismo. La gente che ha paura non chiede altro che trovare un papà che curi per essa le questioni più complesse. Dal papà, poi, accetterà pure le sculacciate. Dovunque andiamo, oggi, sia un salotto o un ufficio, troviamo una parte cospicua dei presenti che vive il nostro come il peggiore dei mondi possibili. Con paure terribili: la paura demografica o la paura della disonestà. E magari, poi, loro stessi sono disonesti. Io non capisco perché non dobbiamo apprezzare anche gli aspetti positivi della nostra epoca: viviamo il doppio dei nostri bisnonni, nei nostri paesi abbiamo quasi sconfitto la fame e il dolore, ci siamo quasi affrancati dalla schiavitù della tradizione e da quella della scarsità. Eppure la gente non se ne rende conto. Con un piccolo lettore di compact disc e con i dischi che compriamo a poco prezzo in edicola, possiamo sentire le migliori orchestre del mondo. Mio nonno, che era un melomane, per sentire la musica doveva prendere la carrozza, partire, farsi ore di viaggio, arrivare a Napoli e lì finalmente sentiva una sinfonia. Ma solo quando l'orchestra c'era e se lui poteva: una volta ogni due o tre anni. Ci sono, dunque, milioni di persone che sottovalutano gli aspetti positivi della nostra epoca. E vivono come apocalittici i pericoli: sono sicuri che l'umanità vada a rotoli. Quello che non capiscono è appunto il problema della complessità, del "feedback". Non capiscono, ad esempio, che è vero, sì, che noi come popolazione mondiale aumentiamo. Però, se aumenteremo troppo, a un certo punto ce ne accorgeremo e rallenteremo la crescita. Non siamo dei macigni che rotolano in modo meccanico e inconsapevole. Siamo dotati di intelligenza e quindi, quando occorre, sappiamo correre ai ripari. "
Domenico De Masi, Ozio creativo. Conversazione con Maria Serena Palieri, Ediesse (collana Interventi), Roma, 1997¹; pp. 137-138.
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