#intellettuale dissidente
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chez-mimich · 6 months ago
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LIMONOV
Quando si conversa di un film, tratto da un libro, è inevitabile che qualcuno si interroghi se il film sia meglio o peggio del libro e viceversa. Allora sgombriamo subito il campo dall’equivoco: un film è un film e un libro è un libro, quindi niente paragoni. “Limonov” (il film) di Kirill Serebrennikov, se non è un capolavoro, va molto vicino ad esserlo. Com’è noto (almeno a chi ha letto il libro di Emmanuel Carrère), Eduard (Eddie) Limonov è stato un poeta, un dissidente sovietico, un rivoltoso, un sognatore, un teppista, un leader politico, ma anche un maggiordomo, un metalmeccanico, un senza fissa dimora. A raccontarne la storia (stavo per scrivere la ballata e forse non sbagliavo) è stato Emmanuel Carrère nell’omonimo libro di qualche anno fa (edito in Italia da Adelphi) e ora la stessa storia la riscrive, con grande perizia narrativa cinematografica, Kirill Serebrennikov che riesce nell’impresa di raccontare la profonda anima russa di Limonov e allo stesso tempo riesce a ritagliare, con altrettanto spessore poetico, la figura del rivoltoso, quello che considerava i lavoratori “i cornuti della storia”, quello che sta con “i rossi, i neri, i gay, i portoricani, ossia con chi non ha niente da perdere”. Limonov nel 1974 lascia l’Unione Sovietica e le ristrette vedute di un ambiente intellettuale e dissidente sempre troppo ancorato ai riti, ai temi e alla poesia della tradizione in un ambiente soffocante e privo di grandi stimoli. La sua destinazione è la New York psichedelica e decadente degli anni Settanta, dove conduce una sregolatissima vita, ma sempre innervata della sua poesia, a contatto con fotomodelle e puttane, con una po’ prevedibile, benché adeguatamente distorta, “Walk on the Wilde Side” che fa da colonna sonora. Come si dice in questi casi, Limonov ama essere rotto a tutte le esperienze sia letterarie che sessuali e in questo, occorre dire, assomiglia molto ai bohémien di ogni latitudine e di ogni periodo, ma quel che di nuovo sembra portare il suo personaggio è una non-visione del mondo, sostituita da un lucido delirio guidato da un sano desiderio di sovversione che, parafrasando Leo Trotskj potremmo chiamare “sovversione permanente”. Ma tanto è forte la sete di rivolta, tanto è irresistibile il richiamo della (santa o meno) madre Russia. Tornato nella Mosca della Perestrojka, Limonov, inquieto poeta agit-prop, anarchico e ribelle come sempre, crea un movimento bolscevico-nazionalista più vicino alla cultura punk che a quella patriottica, movimento col quale partecipò fattivamente all’assalto al parlamento di Mosca nel settembre del 1993. Del resto il KGB lo temette sempre, proprio in virtù della sua difficile collocazione all’interno di un profilo di dissidente tradizionalmente inteso. Occorre aggiungere, e non è una questione di poco conto, che il titolo originale del film è “Limonov: the ballad”, titolo che indica molto più efficacemente, che non quello della versione italiana, che Serebrennikov abbia inteso girare un film sul personaggio, più che sulla sua epoca, e che i fatti e le cronache di quegli anni non hanno avuto una specifica rilevanza, poiché in altre epoche Limonov avrebbe trovato altre motivazioni ma sarebbe rimasto un poeta dall’anima tempestosa. Ricordiamo che Serebrennikov, da sempre in contrasto col regime di Putin, è stato costretto ad interrompere la lavorazione del film a causa dell’invasione dell’Ucraina. “Se i tuoi eroi sono Jim Morrison, Lenin, Mishima, Baader, sei già membro del nostro partito…” urla Limonov al suo esercito di disperati, quanti di noi, sono potenzialmente parte del suo partito?
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Il poeta dissidente Lev Rubinstein è morto a Mosca travolto da un'auto
AGI – Il poeta russo Lev Rubinstein, un intellettuale dissidente durante il periodo sovietico e molto critico nei confronti dell’attuale Presidente, è morto domenica a 76 anni, pochi giorni dopo essere stato investito a Mosca. Lo ha annunciato la figlia. “Mio padre, Lev Rubinstein, è morto“, ha scritto Maria Rubinstein sul suo blog del Live Journal, citato dai media russi. L’8 gennaio il poeta fu…
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greenbor · 2 years ago
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Marina Cvetaeva (Passionale e ribelle, conobbe il suo futuro marito, Sergej Efron, nel 1911. Sebbene già da dopo la nascita della prima figlia iniziò ad avere molte frequentazioni extraconiugali, amò profondamente il marito per tutta la vita. Alla continua ricerca di una persona che potesse davvero comprenderla nel profondo, si gettò tra le braccia di molti uomini. Tuttavia, la relazione più profonda di tutta la sua vita fu quella con Boris_Pasternak. Inizialmente fu uno scambio epistolare tra Marina, Boris e il poeta Rainer_Maria_Rilke. Tra i tre si venne a creare un sodalizio intellettuale e una reciproca conoscenza così profonda da rendere quasi impalpabile la distanza fisica. Dopo la morte di Rilke, nel 1926, la Cvetaeva e Pasternak continuarono a scriversi per altri nove anni, scambiandosi lettere di amore, accompagnandosi, seppur a distanza, nel cammino dell’esistenza. Due anime affini, ma non destinate ad unirsi. A determinare la fine di ogni speranza nel futuro fu l’imposizione del Regime Staliniano. Efron, appartenente all’armata bianca, fu ucciso; la figlia e la sorella furono deportate in un gulag; e Marina, considerata un’intellettuale dissidente, fu emarginata e condannata alla miseria. Rimasta sola, Marina Cvetaeva si impiccò il 31 agosto 1941. Nessuno andò ai suoi funerali, ed ancora oggi è ignoto il luogo di sepoltura. Nella sua poesia, Cammini a me somigliante, la poetessa immagina un suo epitaffio:
Cammini, a me somigliante, gli occhi puntando in basso. Io li ho abbassati – anche! Passante, fermati!
Leggi – di ranuncoli e di papaveri colto un mazzetto – che io mi chiamavo Marina e quanti anni avevo.
Non credere che qui sia – una tomba, che io ti apparirò minacciando… A me stessa troppo piaceva ridere quando non si può!
E il sangue affluiva alla pelle, e i miei riccioli s’arrotolavano… Anch’io esistevo, passante! Passante, fermati!
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tra Pasternak e Rilke
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f4sc1nat0r · 4 years ago
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rpallavicini · 5 years ago
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Ritratto del giovane progressista - L' Intellettuale Dissidente
Ritratto del giovane progressista – L’ Intellettuale Dissidente
Lettura stupenda e consigliata
https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/ritratto-del-giovane-progressista/?fbclid=IwAR3_URDqFSdHYUTu14bLYOkTnCVSUOBdqXKF3yttiGKTkiIl4TW8rF_kiMU
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pangeanews · 5 years ago
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“Sono nudo, sorprendentemente inerme”: sull’opera inconfondibile di Nicolás Gómez Dávila
Destinare la propria vita a graffiare note intorno a un libro assente, a elaborare concetti nell’orda di un sistema impossibile, a polverizzare le certezze con mania certosina.
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Senza che vi sia un ‘utile’, consapevole che il lettore è uno, unico, originario – che le parole non hanno pubblico ma accolgono accoliti, non sono accoglienti, occorre vincerle, o farsi vincere. Scegliere di essere un pensatore ‘di culto’ più che ‘di fama’; del sottosuolo, dell’altro tempo prima che di questo tempo, dato per spacciato.
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Scrivere, dico, come corrodere il passato e rovinare i futuri: calcina in faccia all’oggi.
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Di Nicolás Gómez Dávila si sa che è sepolto nella sua opera, che è morto da 25 anni, che è nato a Bogotà nel 1913, che è cresciuto a Parigi – l’odore boschivo latinoamericano si mescola spesso al razionalismo francese, come la squadra s’innerva al ruggito, Cartesio sulla schiena di un leopardo –, che è tornato in patria poco più che ventenne. La vita come una nota sul margine dell’opera. L’opera, di suo, va tenuta nascosta, macerata dall’oblio, perché se l’opera è grande è sempre troppo presto rispetto all’epoca. C’è come una lotta all’ultimo sangue, all’ultimo verbo, tra lo scrittore e il proprio tempo, tra il pensatore e la storia: il grande scrittore è sempre fuori tempo, in sincronia diagonale, perpetuamente anacronistico, incompreso per troppa considerazione o per sconsideratezza.
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Nel 2001, grazie all’editore Adelphi, che rende ogni autore distrattamente un guru, ogni libro un breviario del caos (ogni riferimento ad Albert Caraco è ovviamente voluto, voluttuoso), Nicolás Gómez Dávila diventa, d’improvviso, pop. Alla pubblicazione di In margine a un testo implicito segue, nel 2007, quella di Tra poche parole. Entrambe, sono antologie dell’opera immensa di Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito. Lo ‘scolio’ è il commento intorno a un testo: che questo sia ‘implicito’ significa che è sottinteso, non occorre denunciarlo – o forse: che ogni denuncia è inutile. Quelli di Nicolás Gómez Dávila sono commenti sulla soglia dell’invisibile, l’esercizio non estemporaneo di dare attributi al vuoto, anzi, al noto. L’uomo moderno, però, ha perso di vista l’implicito – cos’è? La vita? La Storia? L’uomo? L’anima? Dio? Il commento, così, scandisce la nostra ignoranza, scandalizza. Lo ‘scolio’, storicamente, è l’esercizio di una civiltà evoluta – o spiritualmente involuta – totalmente letteraria, bizantina.
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Gli Escolios, dopo anni di navigazione antologica, hanno trovato degna sistemazione in due tomi editi nel 2017 e nel 2018 a cura di Loris Pasinato per l’editore Gog, nato al fianco de “L’Intellettuale Dissidente”, con riferimenti arcani (Gog e Magog, tra Ezechiele e il Corano, sono vocaboli che descrivono il sanguinario, il selvaggio, il caotico) e letterari (Gog è il romanzo di Giovanni Papini del 1931 che denuncia, con verve satirica, la stortura dell’uomo contemporaneo). Con Notas – sempre per cura di Pasinato – le edizioni Gog compiono un ulteriore annegamento nell’opera di Nicolás Gómez Dávila. Notas infatti è il preludio agli Escolios, la camera oscura di quegli ‘scoli’, un libro iniziale e iniziatico, già ammantato dal fato e dalla necessità dell’innecessario – pubblico nel 1954 in edizione fuori commercio, per amici. Note che anticipano gli scoli: il testo è reso implicito dal commento megalitico, scompare, divorato dalla sua interpretazione. Il gioco labirintico di scoli che rimandano a note non crea il caos, ma l’egida delle lame.
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Non chiediamo a note e a commenti di dirci la verità: esse sono cuciture, a volte, altre volte sono cicatrici. A volte impongono un taglio. La coerenza è l’assenzio di una coltellata.
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Questo Notas, per ubriaca follia editoriale, è uno dei libri dell’anno, altro che il Nobel, qualcosa che apri a caso, ti appendi a un grumo di parole (“Nel silenzio della carne sazia si destano le potenze dello spirito”), il giorno, il giornaliero, ha già un altro gusto, l’asprezza delle scelte memorabili, di vite incuneate nel regno della propria immaginazione. Se fossi il direttore di un “Corrierione” qualunque battezzerei la testata, ogni giorno, con una nota – guai a scambiare per ‘aforismi’ le note e gli scoli – di Nicolás Gómez Dávila. Esempio: “La vita è la ghigliottina delle verità”.
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Ho sempre amato, senza particolari interrogativi, Álvaro Mutis. Ora capisco: il padre, Santiago Mutis Dávila, diplomatico, era imparentato ai Gómez Dávila (famiglie ricche: ci vuole ricchezza, esteriore, interiore o entrambe, per fare letteratura scrollandosi dalle spalle il crollo della gloria). Soprattutto, il Maqroll di Mutis – figura di inquieta bellezza – ha per sistema filosofico, nel suo digradare sui bastimenti da Anversa ai recessi amazzonici, gli Escolios e le Notas. “Leggeva molto, era un uomo immensamente ricco, dalla cultura assoluta: sembrava Bisanzio incarnata”, ha detto di lui, Mutis – per cui andò in estro Fabrizio De Andrè. “Nicolás mi ha adottato come figlio, ci sono amici che ti sono padri. Nicolás è con me, vive in me, è qualcosa che frulla nel sangue”.
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Più noto nel circolo filosofico francofono – avvezzo all’aforisma, al pensiero smaliziato – che in quello anglofono, dove è visto soltanto nell’accezione del conservatore – su “The Imaginative Conservative” un articolo recente lo definisce The Nietzsche From the Andes – Nicolás Gómez Dávila è stato definito, di volta in volta, il “reazionario anticonformista”, “l’illustre sconosciuto”, “l’angelo crudele del nostro tempo”, “l’Epicuro dell’intelligenza”, “il solitario più originale del XX secolo”, “il Nietzsche colombiano”. Nell’inafferrabilità – dovuta anche a una educazione per via di precettori privati, a una cultura ondivaga, anarchica, scriteriata e dunque unica, la sola percorribile – è il crisma della sua opera. “Ci sono scrittori che spuntano inattesi, senza essere annunciati da nulla e da nessuno”, scrisse Franco Volpi nella storica intro a Tra poche parole. “Ci sono scrittori che sembrano provenire dal nulla. Che germogliano imprevedibilmente da ambienti che sono a loro estranei, senza essere stati preparati da nulla e da nessuno, senza precedenti, senza appartenenze o segnali di riconoscimento utili per definirli. Eccentrici, scomodi e irregolari… inconfondibili”, scrive, ora, introducendo Notas.
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Non c’è rito senza dissacrarne i verbi – l’oratoria deve farsi ostia, parola che conduce a un inesplicato. Così, Nicolás Gómez Dávila va inghiottito. (d.b.)
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Ammirare senza invidia e senza odio è la sola maniera di riscattare la magnificenza del mondo la cui possessione ci fu strappata dalla nostra mediocrità. Ma il nostro astuto orgoglio cospira instancabilmente per intorbidire con i suoi giudizi diffamatori lo specchio lucido e freddo di quell’intelligenza che sola può restituirci la nostra eredità perduta.
Mi è sempre bastato scorgere il paesaggio della coscienza desolata per sentirmi trascinato da un vento di fiducia irresistibile fino ai piedi di Dio.
La vita quotidiana, con i suoi obblighi familiari e i suoi doveri professionali, è generalmente così monotona e così insipida che molti all’annuncio di una guerra si sentono, in maniera confusa, deliziosamente saltati.
L’orgoglio è il residuo restitutorio della nostra gloria abolita.
L’intelligenza tende verso l’immobilità come i corpi verso il centro della Terra.
Un vocabolo raro è capace di indiscrezione, mentre il termine comune propala solamente una villania.
Quando le cause del fallimento di una vita sono mere convenzioni sociali non possiamo parlare di tragedia, ma di accadimenti patetici.
Gli uomini che non cercano nei libri solamente divertimento, informazione o dati sono pochi. Un libro raramente educa. Ciascuno legge con lo spirito che possiede. Nei libri non scopriamo altro che la conferma dei nostri pregiudizi. I libri non educano se non coloro per i quali essi sono una presenza viva, un’esistenza immediata e carnale.
Che Dio ci vinca oppure che lo conquistiamo noi. La violenza sola ci consegna a Dio o ce lo consegna.
Non credo ci sia un uomo dotato di minor predisposizione di me. Tutti hanno qualche “talento”, qualche “grazia”; solo io sono nato sprovveduto, nudo, sorprendentemente inerme.
Non viviamo tranquilli se non quando crediamo che nessuno esista. Certamente è raro osar sostenere un solipsismo così acuto, ma la sgradevole sorpresa che ci causa un’esistenza patente ed innegabile è prova della nostra segreta convinzione. In fondo, la nostra educazione, il nostro rispetto verso gli altri, la scrupolosa attenzione con la quale ascoltiamo le opinioni altrui, la nostra ripugnanza a ferire una sensibilità qualsiasi, le precauzioni che prendiamo per non far arrabbiare o non disgustare, non sono nient’altro che le astuzie e gli stratagemmi che elaboriamo al fine di evitare il contatto violento con gli altri, il gesto brusco che impone la realtà irrefutabile di una persona. Umiltà e discrezione sono atteggiamenti di chi si ritira e si riduce per non scontrarsi con gli oggetti non perché tema di romperli, neppure perché tema di ferirsi, bensì perché la loro sola esistenza reale lo atterrisce.
La nostra ebbrezza di fronte al mondo non dev’essere altro che lo strumento della nostra intelligenza.
La ricchezza non serve all’uomo moderno se non per moltiplicare la sua volgarità.
La futura borghesia comunista prepara banchetti d’ilarità alle potenze infernali.
Viaggiare per l’Europa è come visitare un palazzo dove i domestici ci mostrano le sale vuote in cui vi furono feste meravigliose.
Nicolás Gómez Dávila
*da: Nicolás Gómez Dávila, “Notas”, a cura di Loris Pasinato, introduzione di Franco Volpi, Gog, 2019
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gregor-samsung · 5 years ago
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Alla fine il Muro di Berlino è crollato. E il fantasma di una Europa centrale e della sua unificazione è a sua volta svanito. Gli scrittori dell'ex Europa dell'Est hanno acquisito il diritto di esprimersi più liberamente. Alcune delle opinioni che seguono mi sono state affidate in occasione dei miei incontri con loro, altre le ho raccolte nelle loro pubblicazioni: «Non ci sarà un'Europa centrale perché u nazionalisti vinceranno dappertutto», constatò il filosofo György Bence, vecchio dissidente. «L'Europa centrale deve creare prima un codice dei diritti delle minoranze» - questo avvertimento è di Janos Kiš, anche lui filosofo, dirigente della nuova Alleanza dei democratici liberi di Budapest. «L'Europa centrale è un circo ambulante per intellettuali», dichiara con ironia Josef Haslinger a Vienna. «È più un'ideologia che una realtà. Alcuni anni fa corrispondeva a un tentativo dei conservatori per aggirare le frontiere comuniste», spiega. Il suo compatriota, György Bence, è ancora più severo: «L'Europa centrale fa parte del kitsch politico». «L'Est e l'Ovest possono incontrarsi dappertutto… non hanno più bisogno di Vienna per farlo», conclude Peter Sichrowsky, scrittore ebreo nato in Galizia. «La fine dell'Europa centrale ha coinciso con la scomparsa degli ebrei», secondo Martin Pollac, corrispondente del settimanale tedesco Der Spiegel. «La letteratura dell'Europa centrale è una finzione che abbiamo inventato noi altri, scrittori dell'Europa centrale», confessa Lajos Grendel, intellettuale appartenente alla minoranza ungherese in Slovacchia. Il polacco Stanislaw Barańczak fu uno dei pochi che osarono ancora difendere l'Europa centrale in quanto «regno dello spirito». Andrzej Kusńiewicz, recentemente scomparso, fu uno dei più moderati in questo concerto: per lui «un ricordo dell'Europa centrale» sussisteva soltanto sul piano culturale. Ho avuto più di una volta occasione di ripetere il vecchio paragone di una conchiglia in cui si sente incessantemente il lieve rumore delle onde di un tempo: "Europa centrale". «I treni della storia» (curiosa metafora) ormai si fermano raramente a questa stazione.
Predrag Matvejević, Il Mediterraneo e l'Europa. Lezioni al Collège de France, (traduzione dal francese di Giuditta Vulpius), Garzanti, 2003²; pp. 122-24.
[ Edizione originale: La Méditerranée et l'Europe - Leçons au College de France, Paris, 1998 ]
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corallorosso · 6 years ago
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L’oroscopo politico settimanale di TPI: Ariete, Salvini al Papeete è anche un messaggio per voi Le previsioni segno per segno, associate ai principali personaggi della politica italiana ed internazionale. L’oroscopo politico di TPI prende in esame l’andamento degli astri e quello della politica....Gli italiani vivono di politica, e nella loro quotidianità vedono i propri percorsi spesso rispecchiati da quelli dei personaggi più in vista sulla scena pubblica. Ecco allora il nostro oroscopo, con il politico di riferimento della settimana per ciascun segno. Ariete Vi crogiolate in una presunta superiorità morale tipica della sinistra intellettuale, ma ciò vi preclude focose avventure estive cui pure, nel vostro intimo, bramate ardentemente. Dismettete l’abito berlingueriano e prendete esempio dal ministro dell’Interno: i migliori tesori spesso si nascondono al Papeete Beach. Politico di riferimento della settimana: Matteo Salvini Toro Negli ultimi mesi avete sprecato un enorme capitale relazionale, con lo stesso talento con cui Matteo Renzi ha mandato in fumo il suo 40 per cento alle europee. Per riguadagnare la vostra vocazione maggioritaria, specie con l’altro sesso, dovete tornare a frequentare i luoghi del popolo. Sì alle spiagge libere, stop agli stabilimenti esclusivi: la strada è tracciata. Politico di riferimento della settimana: Matteo Renzi Gemelli “La politica è sangue e merda”, ha detto il dissidente M5s Airola motivando il suo sì al decreto sicurezza bis. Va bene fare i bastian contrari, ma se scegliete la strada di Gregorio De Falco rischiate di rovinare rapporti a cui invece tenete. Riscoprite l’arte del compromesso: mandare giù qualche calice amaro può essere una strategia lungimirante. Politico di riferimento della settimana: Alberto Airola Cancro La sindaca leghista di Monfalcone ha proposto di schedare gli insegnanti di sinistra. Analogamente, voi cancerini sembrate assaliti da una irrefrenabile voglia di mettere paletti, di separare i buoni dai cattivi, di stilare autentiche liste di proscrizione. Meglio invece cercare alleanze strategiche e più ampie convergenze balneari: “Il nemico del mio nemico è mio amico”, recita un antico adagio. Fatelo vostro. Politico di riferimento della settimana: Anna Cisint Leone Siete maestri nell’arte di appianare conflitti, di trovare mediazioni. Attenzione però a non prendere la deriva del segretario del PD Nicola Zingaretti. A volte anche un pizzico di decisionismo aiuta a cavarsi d’impaccio e a perseguire con successo i propri obiettivi. Politico di riferimento della settimana: Nicola Zingaretti Vergine Siete più rilassati dei parlamentari italiani che si apprestano a trascorrere oltre un mese di vacanza. Agli strepiti dei colleghi preferite le urla festanti dei bagnanti e le partite a racchettoni. Attenzione però, il sentimento anti-casta è sempre in agguato e può colpire anche voi quando si farà di nuovo autunno. Politico di riferimento della settimana: tutti quelli pronti ad andare in vacanza Bilancia Siete spigliati, e questo aiuta specie d’estate. A volte però rischiate di esagerare e di incappare in gaffe alla Boris Johnson. Nei prossimi giorni dovrete affrontare una decisione importante: sta a voi scegliere tra un no-deal senza appello o un negoziato che provi a salvare il salvabile. Politico di riferimento della settimana: Boris Johnson Scorpione L’amore per il vostro partner ha lo stesso livello di stabilità di quello di Trump per Kim Jong-Un: a volte sembra poter superare qualsiasi ostacolo, altre si riduce a un giochino tra bambini dispettosi. L'”Odi et Amo” di Catullo è un riferimento nobile, ma se tirate troppo la corda la crisi missilistica rischia di deflagrare e di travolgervi. Politico di riferimento della settimana: Donald Trump Sagittario Il vostro idealismo è ammirevole, ma a volte vi conduce su sentieri minoritari che rievocano le scissioni della sinistra italiana. Nei prossimi giorni, per evitare di finire come Pippo Civati, dovrete bilanciare gli ideali con un pizzico di sano realismo. Politico di riferimento della settimana: Giuseppe Civati Capricorno Nelle scorse settimane avete fatto più casino voi del ministro Toninelli con Tav e grandi opere. Urge una cura da cavallo per ripristinare ordine e chiarezza nelle scelte. Il rischio, altrimenti, è che i vostri stessi alleati possano sfiduciarvi, magari su imbeccata di un rivale pericoloso alla Salvini. Politico di riferimento della settimana: Danilo Toninelli Acquario Siete stati sottovalutati per diversi mesi, ma alla fine, come il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, avete imparato a farvi rispettare. Le vostre capacità sono ormai riconosciute, e la vostra base di consensi si è decisamente allargata. Nei prossimi giorni dovete continuare a tenere la barra dritta e ad appianare i litigi tra amici e parenti. Politico di riferimento della settimana: Giuseppe Conte Pesci Siete ostinati come il vicepremier Luigi Di Maio: nonostante alcune scelte sbagliate, continuate a credere in voi stessi e non volete staccare la spina rispetto a relazioni e progetti lavorativi. Fate bene: ma alla fiducia in se stessi vanno affiancati progetti realizzabili e ben definiti, altrimenti i vostri finti alleati vi travolgeranno. Politico di riferimento della settimana: Luigi Di Maio The Post International
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ninocom5786 · 6 years ago
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paoloferrario · 3 years ago
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Giovanni Papini, Un uomo finito tra Nietzsche e Gesù - in L' Intellettuale Dissidente
Giovanni Papini, Un uomo finito tra Nietzsche e Gesù – in L’ Intellettuale Dissidente
Giovanni Papini, Un uomo finito tra Nietzsche e Gesùvai a:Giovanni Papini – L’ Intellettuale Dissidente
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cristianesimocattolico · 5 years ago
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(Renato Cristin) Esattamente quattro mesi fa, il 27 ottobre 2019, si interrompeva il sentiero esistenziale di Vladimir Bukovskij, stroncato purtroppo da un attacco cardiaco, solo una decina di giorni prima del trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, data in cui avevamo pensato di lanciare l’iniziativa alla quale abbiamo lavorato insieme in quelli che sono purtroppo diventati gli ultimi mesi della sua vita.
Gli avevo infatti scritto, nell’estate 2019, ricordandogli l’idea di cui mi aveva parlato nel 2005 a Berlino, di istituire una Norimberga per il comunismo. Egli ne fu entusiasta e decidemmo di redigere insieme un documento (reso pubblico il 7 novembre in una conferenza stampa che si è tenuta a Roma presso il Senato della Repubblica, e in poche settimane abbiamo ricevuto l’adesione di alcune centinaia di personalità di tutto il mondo, esponenti di vari partiti politici e anche di persone estranee alla politica, musicisti e letterati, studiosi e docenti universitari, giornalisti e intellettuali, imprenditori e manager, esponenti delle varie professioni. Ora, nella memoria di Vladimir Bukovskij, la cui scomparsa ci addolora e ci impegna, stiamo proseguendo su quella via, onorandone il cammino di libertà e di verità.
La sua vicenda intellettuale e politica è stata infatti sempre segnata dal bisogno di verità, da quell’istanza che prima ancora di essere scientifica o culturale è di carattere etico, soprattutto nel suo caso, quando si è trattato di denunciare, pur consapevole delle ritorsioni alle quali si sarebbe esposto, quello spaventoso sistema di coercizione e di violenza, di negazione della libertà che il regime sovietico aveva instaurato. Da quando poco più che ventenne, nel 1963, fu arrestato dal KGB, fino alla sua liberazione-espulsione nel 1976, iniziò per lui la tragedia dell’incarcerazione continua, la via crucis dei penitenziari, nella quale al carcere classico si alternarono gli ospedali psichiatrici, quelli duri, manicomi criminali concepiti con sadismo ideologico non per far scontare una pena o per riabilitare, ma per annullare la mente dei detenuti. Ma Vladimir non era né pazzo né delinquente, bensì soltanto un uomo libero, che voleva vivere da uomo libero, all’interno di un apparato che temeva anche soltanto la parola «libertà», perché essa si coniugava con l’altra parola terribile e impronunciabile: «verità». Libertà e verità erano per Bukovskij come armi, ma in mani troppo fragili per poter vincere l’onnipresente controllo del linguaggio e la soppressione di ogni critica, troppo umane per contrastare il disumano potere sovietico. Fu quindi condannato per l’uso che il regime considerava improprio, ma che in realtà era troppo proprio, della libertà e della verità.
Stoicamente e, diciamolo pure, eroicamente, egli ha opposto a quel regime criminale tutta la resistenza che la sua forza mentale e morale poteva fornirgli, ma non sappiamo quanto ancora avrebbe potuto reggere a quella pressione psico-fisica inaudita, finché una mossa della provvidenza fece metaforicamente incrociare l’anti-comunista Bukovskij con l’anti-comunista Pinochet: un intellettuale imprigionato nel Gulag sovietico per aver testimoniato la verità, e un militare disprezzato dagli intellettuali occidentali per essersi assunto il terribile compito di difendere la libertà del suo paese dall’aggressione dell’internazionale comunista fomentata e foraggiata in primo luogo proprio dall’Unione Sovietica. A portare alla liberazione di Bukovskij fu infatti l’accordo fra il segretario generale del PCUS Brežnev e il generale Pinochet per uno scambio alla pari: Bukovskij per Luis Corvalán, un ormai sempre più scomodo dissidente russo per il capo dei comunisti cileni, detenuto da due anni e mezzo per insurrezione armata. Lo scambio avvenne nel dicembre del 1976 a Zurigo, da dove poco dopo Bukovskij raggiunse l’Inghilterra, la città di Cambridge, antichissima sede universitaria e come tale simbolo imperituro di quella libertà e verità che finalmente avevano per lui riacquistato il loro senso originario: semantico e filosofico, storico e scientifico, pragmatico ed etico.
Di quel mondo rovesciato e infernale che Solženicyn ha definito «arcipelago Gulag», Bukovskij è stato infatti una vittima e uno dei grandi accusatori, uno dei maggiori studiosi per esperienza diretta: internato per dodici anni (sia pure non ininterrottamente) nelle carceri psichiatriche, gironi non immaginari come quelli dell’inferno dantesco, ma crudelmente e cruentemente reali, nei quali la vita era un incubo da cui non ci si risvegliava, non ci si poteva svegliare, perché era la realtà stessa.
Quello che Bukovskij ha definito «il sistema della criminalizzazione di ogni opinione che si differenziasse da quella dominante», era il meccanismo per la sistematica distruzione di ogni energia che potesse minacciare il potere comunista, uno strumento di annientamento radicale e totale, come egli affermò con una chiarezza agghiacciante in una memorabile conferenza berlinese del 2005: il sistema comunista e il suo braccio letale, il Gulag, erano «la via per riplasmare l’intero tessuto della società; tutti gli strati della popolazione venivano annientati e rielaborati fino alla morte nel Gulag. E normalmente erano le persone migliori: così, come esito della dittatura comunista, perdemmo i migliori agricoltori, i migliori operai, i migliori artigiani, i migliori intellettuali, i migliori in ogni professione, in ogni ambito di lavoro e di vita. Fu un genocidio; non c’è altro nome per questo».
Usando la parola genocidio, Bukovskij vuole indicare la volontà di annichilimento delle coscienze oltre che delle persone in carne ed ossa, perché un popolo si elimina anche disgregandone la coscienza, distruggendone l’identità. Questo è il senso originario del genocidio comunista, il male che si annida fin nel primo anello della catena genetica della sua ideologia. Questo è il senso autentico del Gulag. Questo è il male che Bukovskij ha svelato e combattuto, e nel suo sforzo titanico sta la grandezza morale prima ancora che culturale o politica del suo impegno civile, di tutta la sua esistenza. In questo egli era socratico e al tempo stesso realista: il bene non si raggiunge semplicemente praticandolo, ma anche opponendosi al male, e poiché quest’ultimo è privo di scrupoli morali, combatterlo è un atto di suprema moralità, perché è espressione di una giustizia universale che, a sua volta, esprime l’essenza ideale della vita sociale e dell’essere umano in generale.
I non pochi squallidi intellettuali che ancora oggi pontificano sulla intrinseca bontà delle intenzioni del comunismo e sugli involontari esiti negativi dei suoi esperimenti di applicazione, sul fine positivo dell’idea comunista e sull’inevitabilità dei mezzi violenti per realizzarla, dovrebbero vivere le esperienze di Bukovskij o almeno leggere le sue opere, insieme a quelle di molti altri dissidenti e perseguitati dei vari regimi comunisti, di quelli implosi e di quelli ancora vegeti sparsi nel mondo.
Il cosiddetto «socialismo reale» non è, come quegli intellettuali sostengono, un aborto della teoria marxista-leninista o la forma istituzionale del carattere dittatoriale dello stalinismo, ma è la forma politico-statuale con la quale tale teoria doveva logicamente e necessariamente concretizzarsi. Quindi, la critica al socialismo reale, cioè all’Unione Sovietica, ai suoi Stati satelliti (ma anche a tutti i governi, anche attuali, ispirati a tale teoria), deve implicare, fin dall’inizio e fino in fondo, la critica dell’ideologia comunista.
Di tutto ciò Vladimir Bukovskij era tanto convinto che, proprio nel corso di quel convegno berlinese del 2005, dedicato alla memoria dei totalitarismi (e che fu l’edizione tedesca del Memento Gulag creato da Dario Fertilio e da Bukovskij stesso), egli mi parlò dell’idea di istituire una Norimberga del comunismo, che potesse portare a un giudizio storico e morale di condanna, analogo a quello che ha giustamente condannato e definitivamente bandito il nazismo dal mondo civile. Un’iniziativa necessaria per depurare la coscienza storica collettiva dalle tossine che l’ideologia comunista ha sparso ovunque e per riequilibrare la coscienza morale del mondo occidentale, di quel mondo libero che troppo spesso, per pigrizia o per malafede, nasconde la verità del comunismo, occultando la criminogena essenza di un’ideologia ancora attiva e letale.
Ecco dunque la motivazione, etica prima ancora che storica e politica, della Norimberga del comunismo, che ora diventa una obbligazione morale anche nei confronti del suo ideatore.
La pagina web per leggere e firmare l’appello è: https://nuremberg.vladimirbukovsky.com/. © L’Opinione delle Libertà (Renato Cristin)
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f4sc1nat0r · 4 years ago
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rpallavicini · 7 years ago
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Il problema dell’Africa si chiama Francia | L' Intellettuale Dissidente
Il problema dell’Africa si chiama Francia | L’ Intellettuale Dissidente
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Il problema dell’Africa si chiama Francia | L’ Intellettuale Dissidente
E si chiama “Francia” da oltre cinquantanni.
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arabafenicesposts · 8 years ago
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15 anni di Euro
di Ilaria Bifarini Non è stato certo un compleanno all’insegna dei festeggiamenti quello per il quindicesimo anno dell’Euro. L’1 gennaio 2002 dicevamo addio alle lire per sposare il progetto europeo della moneta unica. Una vera comodità, dicevano in molti – in particolare i più giovani – poter girovagare per l’Europa senza dover passare per lo sportello dei cambi! Un segno di unità e appartenenza, visto che i soldi, inutile fare gli asceti, sono il veicolo per il consumo, il gesto più identitario della nostra società. Comprare un caffè a Berlino, Parigi e Roma acquisiva un po’ lo stesso sapore, e pazienza per l’aroma, la tazzina e il prezzo! Eppure l’entusiasmo con cui l’allora premier Prodi (passato ai posteri con un altro appellativo, questo sì molto nazionale) ci traghettò nella moneta unica – «lavoreremo tutti un giorno in meno per guadagnare di più» – incontrava già qualche ponderate resistenza da parte di alcuni autorevoli economisti. Ma passarono in sordina, così come nelle università improntate al credo neoliberista le pagine di critica alle unioni monetarie dei principali manuali di macroeconomia venivano saltate a piè pari. Vedi: YouTube.com/watch Prodi sulla genesi dell’euro: «Noi sapevamo benissimo che bisognava fare i passi successivi che dessero all’euro delle fondamenta stabili. Quante volte ne ho parlato con Kohl. La sua risposta era: Romano, l’Europa non si fa in un giorno solo perché Roma non è stata fatta in un giorno solo». Solo oggi, dopo quindici anni, la voce dei “dissidenti” trova spazio nell’informazione ufficiale. In occasione della ricorrenza, il quotidiano Libero ha pubblicato un inserto con una rassegna esaustiva delle voci di accreditati economisti e statisti che hanno criticato, più o meno apertamente, gli effetti economici distorsivi dell’adozione di un’unione monetaria laddove manchi un’armonizzazione sotto altri fondamentali aspetti, politici ed economici. Persino a taluni insospettabili è scappato in qualche occasione di dire la schietta verità. Così il ministro Padoan che, da economista qual è, si è lasciato sfuggire un assioma: se uno Stato non dispone più degli autonomi strumenti di politica monetaria che gli consentono svalutare la valuta è per forza di cose costretto a svalutare il lavoro. Qualche esempio dell’attendibilità della sua tesi? La bilancia commerciale italiana dall’entrata in vigore dell’euro ad oggi (ma anche qualche anno prima visto che l’ingresso della moneta unica è stata la fase conclusiva di un processo la cui fase preparatoria era partita da tempo) è crollata, così come lo è quella di gran parte dei Paesi europei, tranne uno. Questo Paese, come ormai noto anche ai più euro-entusiasti, è la Germania, sui cui parametri economici l’euro sembra modellato. Tuttavia non dobbiamo cedere ai facili stereotipi dei tedeschi autoritari e con manie di dominio mai abbandonate, perché l’onestà intellettuale non manca tra i tedeschi: il consulente del Ministero delle Finanze tedesco H. Flassbeck ha riconosciuto che «la Germania viola le regole dell’Europa fin dall’inizio» e il consulente aziendale tedesco R. Berger ha affermato che «la Germania dovrebbe abbandonare l’euro per far sì che l’Unione sopravviva». [caption id="attachment_21900" align="alignleft" width="300"] Bilancia commerciale tedesca esplosa dal 2002 in poi con l'euro[/caption] Apprezziamo molto la genuinità teutonica, ma la sopravvivenza dell’unione monetaria sarebbe deleteria a prescindere. Per sgombrare il campo da incomprensioni analizziamo cosa succede a uno Stato quando perde la sovranità monetaria, intesa come la facoltà da parte di uno Stato di emettere o stampare moneta in linea con le sue scelte di politica monetaria. E’ ovvio che venendo meno questa facoltà la politica economica di un Paese diventa monca di uno strumento fondamentale e quindi impossibilitata nell’adozione di politiche economiche adeguate alle esigenze contingenti e strutturali del Paese. Ma cos’è esattamente la moneta? La domanda sembra banale, eppure il premio Nobel dell’economia James Tobin rispose «Non c’è argomento più difficile da spiegare per gli economisti al pubblico laico, compreso a loro stessi, come quello della moneta». Nel sistema monetario moderno, ossia quello che si è venuto a configurare con la fine del regime di Bretton Woods avvenuta tra il 1971 e il 1973, smantellato ogni rapporto con le riserve auree, la moneta attuale – cosiddetta “fiat” – non ha più alcun valore intrinseco. Suonerà blasfemo dirlo, ma è un semplice pezzo di carta o un insieme di impulsi informatici, quindi può essere creata all’infinito senza nessun rischio che si esaurisca. Certo, attraverso i prezzi è un’unità di misura convenzionale del valore dei beni, così come il kilo lo è del loro peso e il metro della loro grandezza. Essa inoltre è l’unico mezzo con cui il cittadino può pagare le tasse allo Stato. Lo storico annuncio del presidente americano Nixon che il 15 Agosto 1971 sospese la convertibilità del dollaro in oro, dando inizio alla fine del regime di Bretton Woods Torniamo al nostro Stato sovrano, quello che può emettere moneta, come avveniva in Italia prima dell’euro e come avviene nella gran parte dei Paesi non europei (i casi di unione monetaria nel mondo si contano sulle dita di una mano). Lo Stato ha il monopolio della propria valuta che monetizza attraverso le banche centrali e immette sul mercato per gli investire nella spesa pubblica e nei servizi sociali per i cittadini: poiché la carta e i bit elettronici sono risorse illimitate, il suo unico vincolo di spesa è definito dalle risorse umane e ambientali. A differenza delle famiglie e delle imprese, essendo detentore della valuta, non è sottoposto all’oneroso vincolo del pareggio di bilancio, per il quale le entrate (tasse) dovrebbero uguagliare le uscite (spesa pubblica), situazione non solo impossibile ma assolutamente deleteria per il benessere della popolazione. Ciò, è evidente, non vuol dire che i governi debbano darsi alle spese folli emettendo moneta a loro piacimento: l’attenzione alla produttività e al contenimento dell’inflazione, all’innovazione e alla corretta redistribuzione sono vincoli ineludibili, come il rispetto dell’esauribilità di alcune risorse materiali e immateriali. Nel sistema euro, senza sovranità monetaria, l’unica autorizzata ad emettere moneta è la BCE (Banca Centrale Europea), che lo fa ricorrendo ai mercati di capitale privato, ossia le grandi banche di investimenti internazionali . Al pari di un cittadino comune, lo Stato è costretto a prendere in prestito il denaro da spendere dai mercati finanziari internazionali, che applicano un tasso d’interesse da loro stabilito. Per poter effettuare spesa pubblica, ossia garantire ai cittadini quei servizi come la sanità senza dover ricorrere all’offerta privata, è costretto sia ad indebitarsi sia a tassare in modo consistente i cittadini stessi. Così la spesa a deficit, che in un governo responsabile e onesto è funzionale al benessere economico del Paese, con la moneta unica diviene un fardello oneroso, che arricchisce il mercato del capitale privato internazionale togliendo soldi dalle tasche, sempre più vuote, dei cittadini, sempre meno tutelati. Ilaria Bifarini (L'Intellettuale Dissidente)  
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pangeanews · 5 years ago
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Vita di Leonardo Sciascia, “un uomo di lettere”, l’intellettuale inesorabile
A Leonardo Sciascia non piaceva il termine intellettuale, lui si definiva solamente “un uomo di lettere”. Il compito morale e culturale che si diede era quello di far emergere i mali che attanagliavano una società. La sua figura di scrittore e polemista è stata paragonata a un’altro intellettuale a lui coevo: Pasolini. Caratterialmente molto diversi, Pasolini provocatore ed egocentrico, Sciascia riservato e composto, ma tutti e due uniti dalla lotta contro l’ipocrisia ed il falso moralismo: “Sono nato a Racalmuto in provincia di Agrigento, l’8 gennaio del 1921. E nelle scuole elementari di Recalmuto ho insegnato fino al 1957” (Le Parrocchie di Regalpetra).
Queste le poche righe autobiografiche di presentazione che Sciascia inserì nella nota introduttiva in occasione della pubblicazione del suo primo libro, Le parrocchie di Regalpetra, pubblicato nel 1956. L’opera si inserisce in un contesto in cui lo scrittore ha voluto dipingere la realtà siciliana, limitatamente a Regalpetra, nel cui nome di pura fantasia si riconosce la cittadina di Racalmuto.
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La fase di adolescenziale di Leonardo coincide con la propria formazione intellettuale per mezzo delle prime letture: Hugo, Dumas, Manzoni. Proprio dalla lettura de I promessi sposi, Leonardo capì del potere che aveva la scrittura come “azione-morale”.
Grazie alla passione per la letteratura sentirà nella propria coscienza il dovere di partecipare a quanto accade nella penisola italiana ed in Europa durante l’instaurarsi dei regimi totalitari. A ventinove anni pubblica il primo libro di racconti pubblicato a proprie spese, intitolato Favole della dittatura, ispirato alla Fattoria degli animali di Orwell. L’opera venne recensita positivamente da Pier Paolo Pasolini nel 1951 per il giornale La libertà d’Italia. L’articolo di Pasolini diede inizio ad un’amicizia e convergenza intellettuale tra i due. La riflessione sociologica sulla Sicilia prosegue con la raccolta di racconti intitolata Gli zii di Sicilia, pubblicata nel 1958 per ‘I Gettoni’ Einaudi, collana diretta da Elio Vittorini.
Nell’analisi della società siciliana, Sciascia si trova sin da subito ad affrontare uno degli aspetti più deturpanti, il fenomeno mafioso, che in quella terra ha origini arcaiche e nel corso dei secoli si è adeguata ai diversi contesti. Lo scrittore ha affrontato per la prima volta il tema della mafia già nelle Parrocchie di Regalpetra; il tema del fenomeno mafioso rappresenta soltanto l’antefatto dell’analisi che lo scrittore affronterà successivamente. Nelle Parrocchie di Regalpetra, vengono distinti due tipi di mafie: una fatta di “atteggiamenti” e l’altra di “ammazzamenti”.
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Il Giorno della Civetta pubblicato nel 1961 per Einaudi, è annoverato nel genere poliziesco, fu il primo a trattare esplicitamente il tema della mafia. Lo spunto del romanzo è tratto da un fatto di cronaca avvenuto a Sciacca nel gennaio del 1947 in cui venne ucciso il sindacalista Accursio Miraglia. Nella nota introduttiva in un’edizione del 1971, Sciascia dichiarò che prima dell’uscita del romanzo, il fenomeno mafioso fosse coperto e negato dalla politica nazionale. Solamente dopo il successo del romanzo, venne deciso di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. Le due figure chiave del romanzo sono il mafioso Mariano Arena e il capitano Bellodi, ispirato dalla figura di Renato Candia, ufficiale dei Carabinieri a Caltanissetta e amico di Sciascia. Le due figure vengono rese iperboliche dall’autore seppur senza togliere nulla al loro carattere di veridicità. A don Mariano Arena lo scrittore ha fornito segni di figura epica, rappresenta il simbolo di una mafia invisibile e che non si lascia scalfire dai tempi nuovi. Egli è sempre efficiente, in grado di reagire ad ogni avversità. L’ufficiale dei carabinieri possiede in sé i caratteri di una letterarietà sulla quale agisce profondamente la radicata convinzione dell’inferiorità del siciliano di fronte all’uomo che proviene dal nord.
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Un altro grande successo letterario accade con A ciascuno il suo, pubblicato nel 1966 in cui l’autore conduce un’indagine psicologica che va oltre l’intreccio poliziesco. Anche questo romanzo è ispirato da un fatto di cronaca avvenuto nel 1960 ad Agrigento che ebbe un grosso risalto nell’opinione pubblica. Un commissario di polizia locale, Cataldo Tandoj venne ucciso mentre passeggiava per le vie della città con la moglie. Quest’ultima aveva una relazione extraconiugale con un noto psichiatra di Agrigento, il professor Mario La Loggia. Contemporaneamente all’uccisione del commissario venne ucciso dagli stessi killer un giovane studente che per caso passava vicino il luogo dell’omicidio. Vennero subito arrestati la moglie del commissario e il suo amante, La Loggia, ma subito dopo vennero scarcerati perché la pista passionale venne scartata in favore di quella mafiosa. Le successive lettere anonime inviate agli inquirenti, le reticenze che coprivano la semplice verità che metteva in mostra i disvalori della borghesia della cittadina di provincia siciliana.
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Grazie al successo delle sue opere, Sciascia diventò una sorte di totem per gli scrittori, saggisti ed intellettuali siciliani. La porta della sua casa sarà sempre aperta a lettori, scrittori, magistrati, e amici che volevano scambiare un parere o che cercavano un consiglio sulla stesura di un romanzo, racconto. Nel 1970, Sciascia si trasferisce  a Palermo insieme alla sua famiglia. Nella capitale siciliana è testimone di due fenomeni tra loro collegati: l’abusivismo edilizio che ridisegnò Palermo, il cosiddetto “Sacco di Palermo” ad opera dell’allora assessore ai lavori pubblici del comune Vito Ciancimino, che nello stravolgere il piano regolatore permise a varie aziende edili tutte riconducibili a boss mafiosi di ottenere appalti per la costruzione di interi quartieri, e i numerosi omicidi causati dalle vendette di mafia tra le diverse cosche palermitane. Questa realtà fatta di violenza ispira Sciascia alla composizione del nuovo romanzo intitolato Il contesto, in cui viene analizzata la fase storica che stava subendo l’Italia, fondata sulla collusione dei poteri istituzionali con la criminalità. La denuncia contro la politica del compromesso e sull’utilizzo strumentale della religione cattolica ad uso politico viene effettuata da Sciascia tramite il nuovo romanzo intitolato Todo modo, pubblicato nel 1974. Nel 1976 Elio Petri tramuterà il romanzo in un film che però si discosta molto dalla trama del libro. Petri incentrò il film su una denuncia ai danni della politica dell’intrigo della Democrazia cristiana.
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Dopo la morte di Pasolini è rimasto Sciascia ad impersonare il ruolo dell’“intellettuale dissidente”. Il rapimento di Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo del 1978 ed il suo assassinio impone di analizzare a fondo la vicenda per ricercare la verità. Sciascia lo fa scrivendo un saggio pubblicato a puntate sul Corriere della sera, un breve pamphlet scritto dopo due mesi la morte del presidente della Democrazia cristiana.
Lo scrittore analizza a fondo le lettere scritte da Moro all’interno della “prigione del popolo” e recapitate ai dirigenti del suo partito, dandone un’interpretazione diversa da quella data da ‘amici’ di Moro della DC, che ritenevano le lettere scritte sotto costrizione psicologica da parte dei suoi carcerieri, quindi non attendibili. Per Sciascia il rapimento di Moro favoriva “l’acquietamento e quella concordia per cui il quarto governo presieduto dall’onorevole Andreotti veniva approvato senza discussione in aula”. Lo scrittore siciliano fu il primo intellettuale a dichiarare apertamente che Moro sarebbe potuto essere stato salvato, che gli esecutori morali della sua evitabile condanna erano i suoi stessi colleghi di partito, appoggiati dal Partito Comunista fautore della politica della ‘fermezza’. Il saggio pubblicato prima in Francia e poi in Italia generò una miriade di polemiche. Tra tutte quella di Eugenio Scalfari in un editoriale su Repubblica che accusò Sciascia, senza mezzi termini, di aver scritto un saggio soltanto per attirare l’attenzione su di sé.
*
Nel 1979 si svolgono le elezioni politiche ed europee. Marco Pannella, segretario del Partito Radicale va a Palermo per cercare di arruolare Sciascia come capolista per il Parlamento italiano tra le file del suo partito. Pannella dichiarò allo scrittore di voler costruire l’agenda politica secondo i dettami etici che Sciascia mostrava nei suoi libri. A questa proposta lo scrittore rimase interdetto, non si aspettava che un partito politico potesse stilare un programma sulle idee di un intellettuale. Accettò la candidatura. I risultati delle elezioni furono straordinari. Il Partito Radicale vide quadruplicare i propri seggi. Lo scrittore venne eletto alla Camera dei deputati. L’onorevole Sciascia prese alloggio a Roma all’Hotel Nazionale per tutto il periodo della legislatura. Il primo discorso di Sciascia alla Camera dei Deputati avvenne il 10 agosto del 1979, motivando il voto sfavorevole alla fiducia del governo Cossiga.
*
Nel frattempo, da Palermo giungono notizie sempre più drammatiche. Prima l’uccisione del capo della squadra mobile Boris Giuliano, e pochi mesi dopo quella del giudice e parlamentare Cesare Terranova che Sciascia conosceva personalmente. Solo in seguito all’omicidio del segretario del PCI siciliano Pio la Torre, avvenuto nel 1982, Sciascia si rese conto dell’ormai avvenuto mutamento che aveva avuto l’organizzazione mafiosa. In un articolo sul Corriere della sera, scrisse che le indagini si dovevano concentrare sull’analisi dei conti correnti nelle banche.
Il 10 gennaio del 1987 il Corriere della sera pubblicò l’articolo di Sciascia intitolato I professionisti dell’antimafia, che scatenerà una miriade di violente e infinite polemiche. L’articolo si apriva con l’analisi intorno a un saggio dello storico anglosassone Christopher Duggan sulla commistione tra fascismo e mafia. Nella seconda parte lo scrittore voleva mettere in guardia da chi faceva dello slogan della lotta alla mafia una mera propaganda per scopi di carriera, pur di fatto non combattendo la mafia. Nell’articolo lo scrittore citò come esempi emblematici del carrierismo il sindaco di Palermo Leoluca Orlando che organizzava manifestazioni, convegni, propugnando valori antimafiosi ma non interessandosi ai reali problemi del comune che amministrava e Paolo Borsellino che era stato appena nominato procuratore di Marsala dal Csm , pur non avendo i requisiti dell’anzianità di servizio. Dopo qualche mese dall’uscita dell’articolo, Sciascia e Borsellino s’incontrarono in una manifestazione pubblica a Marsala. I due ebbero modo di chiarirsi e da lì ne nacque un’amicizia. Qualche anno dopo, Borsellino sosterrà che l’articolo di Sciascia fu strumentalizzato da chi voleva ridimensionare il pool antimafia di Palermo in occasione della mancata nomina di Giovanni Falcone e della sostituzione di Procuratore capo di Palermo Antonino Caponnetto.
*
In quegli anni Sciascia inizia a accusare diversi disturbi alla salute, un dolore a una vertebra che si fece cronico dopo essere caduto nella sua casa qualche anno prima e continui attacchi di tosse, che altro non erano se non i segni di una malattia incurabile che avanzava inesorabilmente, ma nulla riesce a fermare la sua scrittura. Scrive articoli per La Stampa e un nuovo romanzo, che sarà anche l’ultimo, Una storia semplice, pubblicato il 20 novembre del 1989 il giorno dopo la sua morte. Nel racconto che a tutti gli effetti è il suo testamento morale, lo scrittore mantiene il genere del giallo, dove esprime tutta la sua concezione sulla giustizia italiana, riassunto nell’incipit nella massima di Dürrenmatt: “Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”. Con questo romanzo si chiude la carriera di scrittore e la vita di Leonardo Sciascia. Scrittura e verità, un binomio inscindibile per chi come Sciascia ha fatto della scrittura un mezzo per la ricerca della verità, anche quando questa è scomoda. Questa è la lezione del maestro di Regalpetra.
Lorenzo Bravi
*In copertina: Leonardo Sciascia nel 1986, photo Angelo Pitrone
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paoloxl · 6 years ago
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L'appello del mondo intellettuale al Tribunale di Torino che si pronuncerà sulla richiesta di sorveglianza speciale per i 5 italiani unitisi alla lotta all'Isis nella Siria del Nord
Combattere l'Isis è socialmente pericoloso? Oltre 500 firme in sostegno ai 5
 Combattere contro l’Isis è socialmente pericoloso?
Il 23 gennaio si terrà al Tribunale di Torino un’udienza singolare. Cinque cittadini torinesi compariranno davanti a un giudice con il rischio di vedersi applicata una misura molto restrittiva: l’espulsione dalla loro città per due anni (rinnovabili) e la “sorveglianza speciale”. Questa comprenderebbe, tra l’altro, l’obbligo di rimanere nella propria abitazione per buona parte del tempo, parziale divieto di comunicare con l’esterno, divieto di svolgere talune attività sociali e politiche, sequestro della patente e del passaporto, comparizione davanti alle forze di polizia. Si tratta di una “misura di prevenzione” entrata in vigore durante il ventennio fascista, che sospende la relazione causale tra limitazione della libertà personale e istruttoria giudiziaria. Non viene mossa alcuna accusa specifica, infatti, nei confronti di queste cinque persone, che non potranno difendersi perciò in un processo. Ma è la ragione alla base di questo provvedimento che, soprattutto, risulta sorprendente: essersi recati in Siria per contrapporsi, in varie forme e in diversi periodi, allo “Stato islamico” meglio conosciuto come “Isis”. Questa la circostanza che li renderebbe “socialmente pericolosi”.
Questa iniziativa lascia perplessi. Come può un’attiva presa di posizione contro lo “Stato islamico” essere considerata una colpa o fonte di pericolo per l’Italia? Viene loro contestato di aver appreso nozioni sull’uso di armi da fuoco. È evidente che non avrebbero potuto vivere in un paese martoriato da anni di guerra civile, ed agire in varie forme (anche combattendo, in alcuni casi) nelle zone più violente, infestate dal sedicente “Califfato”, senza possedere una competenza sul come difendere sé e gli altri. La procura contesta l’adesione alle Unità di protezione del popolo e alle Unità di protezione delle donne, forze armate curde attive nel nord della Siria (Ypg-Ypj); ma in che senso questo dovrebbe essere motivo di disapprovazione? Le Ypg e le Ypj, che più volte hanno attirato l’attenzione della stampa internazionale per il positivo ruolo svolto nella guerra contro il jihadismo (si pensi alla liberazione di Kobane e Raqqa, per fare solo due esempi), combattono al fianco della Coalizione internazionale a guida statunitense di cui l’Italia è parte assieme agli altri paesi dell’Unione Europea. È lo stato italiano in procinto di dichiarare sé stesso socialmente pericoloso? Di paradossi come questo possiamo fare volentieri a meno.
Le Ypg-Ypj, che assieme a forze arabe e siriaco-cristiane hanno fondato le Forze siriane democratiche (Sdf), principale e più efficace avversario dell’Isis in Medio oriente, sono note per assicurare protagonismo e pari diritti alle donne, per rispettare i diritti umani delle minoranze linguistiche e religiose e per fare di ciò, anzi, una rivendicazione politica primaria. Si può forse ritenere imprudente o avventata la scelta di questi ragazzi, ma fare di comportamenti estremamente generosi il motivo di pesanti e durature limitazioni della libertà appare surreale. Quale sarebbe la loro colpa? Aver contribuito alla difesa dei civili perseguitati, delle donne stuprate e rese schiave, dei bambini cui è stata negata un’infanzia? Anche una rapida indagine sui motori di ricerca è sufficiente per rendersi conto di cosa stiamo parlando: l’azione delle Ypg-Ypj ha impedito che a terribili catastrofi seguissero catastrofi ulteriori e forse ancora più grandi. La procura, in verità, insiste sul fatto che le persone proposte per la misura si erano mostrate già impegnate in movimenti sociali ed episodi di protesta prima di partire per la Siria.
Attenzione, tuttavia: in quale modo questo costituirebbe, di per sé, un problema o un “pericolo”? I reatisi individuano attraverso i processi. Tutt’altro ci sembra lo stigma verso la generale condotta politica o la personalità di uno o più cittadini. Siamo qui, in altre parole, su un terreno molto delicato. Se sei stato o sei un “contestatore”, un “dissidente politico” rispetto a questo o quel provvedimento o governo, ciò che hai fatto, foss’anche ammirevole e positivo in tutt’altro contesto, giustifica una lesione delle libertà? Qualcosa non torna.
Chiediamo quindi un’attenta riflessione al collegio che dovrà giudicare questa materia il 23 gennaio. Il Tribunale di Torino sarà chiamato a pronunciarsi in un momento in cui il nostro paese è attraversato da profondi malesseri e pericolose tensioni sociali, rispetto alle quali lo spirito della scelta compiuta da questi italiani in Siria ci sembra costituire più un antidoto che un pericolo. Accanirsi contro chi si mantiene lontano dalle posture politiche oggi dominanti, e farlo magari utilizzando la scorciatoia giudiziaria delle misure di polizia non ci sembra giusto né utile, né crediamo sia questo lo spirito del nostro ordinamento. Un certo modo di guardare al dissenso come problema di per sé, se pur oggi è forse parte di una cultura che può penetrare nelle istituzioni, ed è fatta propria da alcuni anche in taluni organi elettivi, non dovrebbe trovare accondiscendenza in ambito giudiziario. Criminalizzare o stigmatizzare chi ha combattuto in prima persona un’organizzazione genocida, a rischio della propria vita, e ne ha denunciato pubblicamente, talora tramite un pregevole lavoro di informazione, i crimini contro l’umanità, costituirebbe un segnale sbagliato anche in rapporto alla lotta contro il terrorismo fondamentalista portata avanti dal nostro paese. Dopotutto, non può non essere riconosciuto ai combattenti mediorientali delle Forze siriane democratiche - e a chi li ha supportati - il merito di aver reso meno pericolose le città e la società in cui viviamo.
Per aderire scrivere a: [email protected]
A questo link le firme finora raccolte
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