#immagini devozionali
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Canivets
Piccoli capolavori anonimi (sec.XVII-XIX)
dalla collezione di Giuseppe Recchi
Flavio Cammarano, Giuseppe Recchi
Tecnostampa, Loreto 2024,152 pagine, 23x29cm, copia 025/300
euro 70,00
email if you want to buy [email protected]
Quest’opera presenta sessantuno canivets, preziose immagini devozionali manufatte prodotte in Francia, Germania, Austria, Svizzera, Boemia, Moravia e nei Paesi Bassi tra la metà del XVII e gli anni quaranta del XIX secolo.
Intagliati su carta o pergamena con un temperino a lama stretta, il canif, erano generalmente riservati a una cerchia ristretta di benefattori di ceto sociale elevato. La loro realizzazione, prevalentemente conventuale, richiedeva un lavoro di grande pazienza e abilità.
Le immagini pubblicate in questo libro, corredate da descrizioni molto ricche e dettagliate, dal punto di vista tecnico, simbolico e storico, fanno parte della pregiata e più ampia raccolta di Giuseppe Recchi, intenditore e collezionista.
Questo volume testimonia all’attuale e alle future generazioni la ricercata bellezza di tale forma d’arte popolare e può trasformarsi in un rilevante sussidio di conoscenza per l’orientamento degli appassionati del settore.
13/10/24
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Il Leggendario Sforza-Savoia, il codice miniato più prezioso della Biblioteca Reale di Torino. L’opera si inserisce nella tradizione dei testi devozionali illustrati per coinvolgere emotivamente il lettore attraverso le immagini.
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Nuovo post su https://is.gd/ce8lDz
Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina,
Giorgio Cretì
Poppiti (Il Rosone, 1996) è un romanzo moderno che ha sapore d’antico.
Ne è autore Giorgio Cretì (1933-2003), scrittore salentino, nato a Ortelle, in provincia di Lecce, ma trasferitosi presto a Pavia. Autore di vari racconti pubblicati su “Il Rosone”, la rivista dei pugliesi di Milano, e su altri periodici, Cretì, membro dell’Associazione Stampa Agroalimentare, ha dedicato i propri interessi di studio prevalentemente al settore della gastronomia e della cucina, dando alle stampe pregevoli testi come: Erbe e malerbe in cucina (Sipiel, 1987), il Glossario dei termini gastronomici, compresi i vocaboli dialettali, stranieri e gergali, annesso al volume I grandi menu della tradizione gastronomica italiana (Idea Libri, 1998), Il Peperoncino (Idea Libri, 1999), La Cucina del Sud (Capone Editore, 2000), A tavola con don Camillo e Peppone (Idea Libri, 2000), La Cucina del Salento (Capone, 2002), ed altri.
Il romanzo narra una storia d’amore che si volge nella campagna salentina, a Masseria Capriglia, fra Santa Cesarea Terme e Vignacastrisi, dove vivono i protagonisti del racconto, Poppiti appunto (o, nelle varianti Ppoppiti, con rafforzamento della lettera iniziale, o ancora Ppoppeti).
Varie le etimologie di questo termine gergale, ma la più accreditata è quella che lo fa risalire al latino post oppidum, ossia “fuori dalle mura del borgo”, ad indicare nell’antica Roma coloro che abitavano fuori dalle mura fortificate della città, dunque i contadini.
Questo termine è passato ad indicare la gente del Salento e in particolare dell’area più meridionale, ovvero di un territorio caratterizzato fino a cinquant’anni da un paesaggio prevalentemente agricolo e dominato dalla civiltà contadina.
ph Giorgio Cretì
La storia si svolge all’inizio del secolo Novecento e gli umili contadini del racconto sono Ia e Pasquale, il quale è chiamato alla guerra di Libia del 1911 ed è così costretto a lasciare soli la moglie ed il bimbo appena nato. L’assenza di Pasquale si protrae a lungo perché in guerra egli viene fatto prigioniero. Quando ritorna nel Salento, con grandi progetti per la sua famiglia, Pasquale non trova però la situazione ideale che aveva immaginato ma anzi incombe sulla Masseria Capriglia una grave tragedia.
Del romanzo è stato tratto un adattamento teatrale dalla compagnia “Ora in scena”, per i testi della scrittrice Raffaella Verdesca e la regia dello studioso Paolo Rausa. La rappresentazione teatrale è stata portata in vari teatri e contesti culturali a partire dal 2013 con un discreto apprezzamento di critica e di pubblico. In particolare, fra il maggio ed il giugno del 2014, ad Ortelle, città natale dello scrittore, nell’ambito della manifestazione “Omaggio a Giorgio Cretì”, venne allestita in Piazza San Giorgio, la mostra di pittura Ortelle. Paesaggi Personaggi … con gli occhi (e il cuore) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, presso Palazzo Rizzelli. Ortelle commemorava così un suo figlio illustre, con una serie di incontri e conferenze e con la messa in scena dello spettacolo teatrale, a cura di Raffaella Verdesca e Paolo Rausa. Le parole del romanzo di un cultore di storia patria si intrecciavano ai colori e alle immagini di due artisti del pennello, anch’essi ortellesi. La mostra pittorica di Casciaro e Chiarello ha portato alla pubblicazione di un catalogo dallo stesso titolo della mostra, con doppia speculare copertina, realizzato con il patrocinio del Comune di Ortelle, dell’Università del Salento, del CUIS e della Fondazione Terra D’Otranto.
Sulla copertina, in una banda marrone nella parte superiore, si trova scritto: “Per un antico (pòppitu) eroe. Omaggio a Giorgio Cretì”. Nella parte centrale, la foto di un bellissimo antico portale del centro storico di Ortelle. All’interno del volumetto, Casciaro e Chiarello si dividono equamente gli spazi: da un lato le opere dell’uno e dal lato opposto quelle dell’altro, realizzando una sorta di residenza artistica o casa dell’arte su carta. Il catalogo è introdotto da una bellissima poesia di Agostino Casciaro, dedicata proprio ad Ortelle e da una Presentazione della critica d’arte Marina Pizzarelli.
uno dei dipinti di Carlo Casciaro
Quindi troviamo i volti di Carlo Casciaro, fra i quali il primo è proprio quello dello Pòppitu Cretì, in un acrilico su tela del 2014; poi quello di Agostino Casciaro, tecnica mista 2014, e quello del pittore Giuseppe Casciaro (1861-1941), ch’è forse la maggior gloria ortellese, pittore di scuola napoletana, del quale Carlo è pronipote. Inoltre, l’opera Ortelle, acrilico su tela 2012, con una citazione di Franco Arminio; Capriglia, acrilico su tela 2014, con una citazione dal romanzo di Cretì; Largo Casciaro, acrilico su tela 2013, e infine una scheda biografica di Carlo Casciaro. Di Carlo ho già avuto modo di scrivere che dalla fotografia alla pittura, egli comunica attraverso la sua arte totale. (Paolo Vincenti, L’arte di Carlo Casciaro in “Il Galatino”, 14 giugno 2013).
Laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, ha vissuto a lungo a Milano prima di ritornare nel borgo avito e qui ripiantare radici. L’oggetto privilegiato della sua pittura è il paesaggio salentino. Il suo è un naturalismo che richiama quello dei più grandi maestri, come Vincenzo Ciardo. È un paesaggismo delicato, fuori dal convenzionale, dal naif. Nelle sue tele, dai vivaci colori, in cui vengono quasi sezionati i reticolati urbani dei nostri paesini, più spesso le aree della socialità come le piazze, gli slarghi, le corti, si ammirano animali quali pecore, buoi, galline, gazze, convivere in perfetta armonia con oggetti e persone, in un’epoca ormai lontana, fatta di ristrettezze e di fatica, quella della civiltà contadina del passato. Il segno colore di Casciaro dà ai suoi paesaggi un’immagine di gioia temperata, di una serenità appena percepita, cioè non un idillio a tutto tondo, tanto che il cielo incombente sulle scene di vita quotidiana sembra minaccioso e il sole non si mostra quasi mai.
Nel microcosmo di una piccola e fresca cantina nella quale ha ricavato il suo studio, oggi Carlo fotografa vecchi e vecchine, parenti, amici, personaggi schietti e spontanei di quella galleria di tipi umani che offre la sua comunità, li immortala nei suoi ritratti a matita e pastello e li appende con le mollette a dei fili stesi nella cantina a suggellare arte e vita, sogno e contingenza. Una delle sue ultime realizzazioni infatti è Volti della Puteca Disegni-Foto-Eventi, Minervino Ortelle Lecce 2016 (Zages Poggiardo, 2017).
Mutando verso del catalogo, si ripetono la poesia di Agostino Casciaro e la Presentazione di Pizzarelli, e poi troviamo le opere di Antonio Chiarello. Fra i versi di Antonio Verri e Vittorio Bodini, sette acquerelli con una piantina turistica di Ortelle, cartoline e vedute panoramiche della città di San Vito e di Santa Marina e una Vecchia porta + vetrofania, L’uscio dell’orto (…e lucean le stelle), tecnica mista del 2011. Quindi, la scheda biografica di Antonio Chiarello. Anche di Antonio, fra le altre cose, ebbi a scrivere che egli, laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, utilizza, per le sue Pittoriche visioni del Salento, le tecniche più svariate con una certa predilezione per l’acquerello. (Paolo Vincenti, Da Sant’Antonio ad Antonio Chiarello in “Il Paese Nuovo”, 18 giugno 2011).
Nel 2005 Chiarello ha realizzato per la prima volta la mostra devozionale “San’Antonio giglio giocondo…”, con “tredici carte devozionali” dedicate al suo santo onomastico ed ha portato questo progetto- ex voto in giro per la provincia di Lecce in tutti i paesi dove vi sia il protettorato o almeno una devozione per il santo. Visceralmente legato alla patria salentina, Chiarello ne ha dipinto le grotte, i millenari monumenti, gli alberi, i suoi borghi incantati, le bellezze di Castro e di Porto Badisco, di Santa Cesarea e di Otranto, di Muro Leccese, di Poggiardo e di tutta la costa adriatica leucadense.
Autore anche di svariate realizzazioni grafiche e di manifesti, nella sua avventura umana ed artistica, ha interagito con amici quali Antonio Verri, Pasquale Pitardi, Donato Valli, Antonio Errico, Fernando Bevilacqua, Rina Durante. All’epopea degli ppoppiti, Chiarello e Casciaro confessano di sentirsi intimamente vicini per cultura, formazione e scelta sentimentale.
Ecco allora, nell’ideale ricerca di un’identità salentina, la pittura dei due artisti poppiti salentini intrecciarsi, in fertile connubio, con la scrittura di uno poppitu di ritorno quale Giorgio Cretì.
Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina, in Identità Salentina 2020, Salento Quale identità quale futuro? Contributi e testimonianze per la cultura e il governo del territorio, Italia Nostra sezione Sud Salento, a cura di Marcello Seclì, Collepasso, Tip. Aluisi, 2021
Su Giorgio Cretì vedi:
Giorgio Cretì – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
Giorgio Cretì come uno sciamano – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
Storia di guerra e passione nel Salento rurale – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
#Antonio Chiarello#Carlo Casciaro#Giorgio Cretì#Ortelle#Paolo Vincenti#Pòppiti#Arte e Artisti di Terra d'Otranto#Libri Di Puglia#Spigolature Salentine#Tradizioni Popolari di Terra d’Otranto
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Capire l’arte dell'Ottocento
Capire l’arte dell'Ottocento
Ricostruire il mondo su basi nuove
Il pensiero filosofico di matrice illuminista del secondo Settecento ebbe immediati e notevoli riflessi anche nel campo delle arti, determinando l'affermarsi di orientamenti estetici nei quali prendono importanza finalità come la promozione di un'umanità nuova, più semplice e libera, vicina alla natura e al tempo stesso capace di seguire la ragione. Ne derivarono importantissime conseguenze, sia per quanto riguarda i procedimenti tecnici della pittura e della scultura, dai quali si pretendeva l'allontanamento dai precedenti virtuosismi, sia per quanto riguarda gli obiettivi del fine artistico, che rientravano in un complessivo miglioramento dell'umanità cui tutti dovevano tendere.
L'importanza dell'architettura
Tutte le arti, potevano rivestire un ruolo nel gigantesco sforzo collettivo per il cambiamento della società, ma l'architettura, era in grado di svolgere una funzione più importante e foriera di conseguenze sul piano della concreta esistenza individuale.Gli architetti più in linea con simili tendenze, nella Francia degli anni precedenti e successivi alla Rivoluzione o nella Milano napoleonica, progettarono dunque interventi poco rispettosi della forma urbana quale si era sviluppata nel corso dei secoli (si veda il progetto di Giovanni Antonio Antolini per il Foro Bonaparte a Milano) oppure addirittura città pensate in forme del tutto inedite.Al francese Etienne-Louis Boullée, dobbiamo fantasie architettoniche, affidate a una serie di progetti conservati presso la Bibliothèque Nationale de France a Parigi, in cui una grandiosità di derivazione classica si abbina a una certa idea di semplicità.
Etienne-Louis Boullée. Disegni
Gustave Eiffel, Torre Eiffel, particolare, 1889, Ferro e ghisa. Altezza 300 m. Parigi
I nuovi materiali per l'architettura
In relazione con gli sviluppi economici e tecnologici (e con le mutate esigenze della popolazione), si fece sempre più impellente la necessità di creare strutture nuove. Chi costruiva un ponte, adottando soluzioni tecniche ardite e coraggiose, riteneva necessario completare il tutto, ad esempio, ricorrendo per gli accessi all'armamentario stilistico neogotico; così come i progettisti delle gallerie, non rinunciavano ad abbellire le strutture con decorazioni tratte dalla tradizione.Furono rari i casi in cui le potenzialità insite nei nuovi materiali, come il ferro e il vetro, vennero riconosciute nella loro valenza estetica autonoma. Questo accadde nella Londra a metà dell'Ottocento, quando Joseph Paxton realizzò il Palazzo di Cristallo, in ferro e in vetro, divenuto modello imprescindibile, poiché in esso funzionalità, luminosità ed economicità si univano a una nuova idea di bellezza, affidata a una semplicità del tutto inedita, che non aveva bisogno di desumere le sue fonti dal passato.Una celebrazione di queste nuove tipologie (e questi nuovi ideali) sarebbe poi venuta con la Torre che l'ingegnere Gustave Eiffel progettò per l'Esposizione Universale del 1889: alta 300 metri, con nessun altro scopo se non dichiarare lo slancio creativo della tecnologia e della modernità.
Ripartire dall'Antichità
Il tentativo di rinnovamento in atto nelle varie arti prese avvio dall'ammirazione per l'Antichità e i suoi valori. Il mondo dei Greci e dei Romani assumeva il volto, negli scritti di Winckelmann e di altri teorici del movimento, di una perfezione ideale, confinata in una lontananza irrecuperabile eppure ancora capace di spingere all'emulazione gli artisti contemporanei, che avrebbero tratto dal passato, l'esempio di un atteggiamento, di un certo modo di porsi di fronte alle case, di stoico eroismo o di suprema serenità, senza escludere la manifestazione di sentimenti. Il passato greco e romano, rivisitato in chiave moderna, si prestava ad interpretare gli ideali e i sogni del presente: sia quelli sovrumani dei rivoluzionari impegnati, prima in Francia e poi altrove in Europa, a cambiare il mondo, sia quelli dei sensibili e morbidi adoratori dei miti e delle favole. Si trattò comunque di un movimento che, ancora una volta, dopo le sue prime campagne nel Medievo carolingio e ottoniano e nel Rinascimento, basava la sua forza sulla riproposizione di valori considerati universalmente validi, e che, invece per la prima volta, dimostrava una capacità di irradiazione ben oltre il luogo della sua origine (che era sostanzialmente la Roma del secondo Settecento) in ambiti sempre più vasti, in Europa e in tutto il mondo. Il Neoclassico, il primo stile a definizione mondiale, tra l'altro sviluppatosi in contemporanea con il proliferare dell'arte industriale per quanto riguarda i bronzetti, le ceramiche e i tessuti (si pensi ai prototipi mitologici delle officine ceramiche di Wedgwood, in Inghilterra).
La nascita dell'Estetica
Con il secolo XVIII si assiste alla nascita di una disciplina filosofica apposita, l'Estetica, finalizzata alla comprensione del bello e dell'arte. Il primo ad utilizzare in questi tremori la parola estetica fu, nel 1733, il filosofo tedesco Alxander Gottlieb Baumgarten, secondo il quale la conoscenza che si attua attraverso i sensi, pur da considerarsi inferiore a quella intellettuale, merita di essere considerata nella sua autonomia La conoscenza estetica è un "analogo della ragione" ed è connaturata allo spirito umano, che non a caso si svolge spontaneamente verso la bellezza sensibile ed artistica. Queste tesi si trovarono una prima formulazione nel libro di Baumgartne Aesthetica, pubblicato tra il 1750 e il 1758, e furono riprese poi da Immanuel Kant nella Critica del giudizio (1790).In Kant l'Estetica trova la sua prima formulazione sulla base del riconoscimento di una comune capacità, negli uomini, di riconoscere la bellezza. Anche se i giudizi di gusto, secondo Kant, istituiscono una relazione immediata tra sentimento di piacere/dispiacere e facilità conoscitiva.Prima del Settecento le trattazioni riguardanti l'estetica, ma entravano in ambiti più larghi, come quello della metafisica, oppure si caratterizzano per l'analisi di determinati aspetti tecnici. La novità che si fa strada nel corso del secondo Settecento è invece proprio una conoscenza unitaria, per cui esse hanno in comune un medesimo riferimento ad un ideale di bellezza e si distinguono nettamente dalle tecniche, alle quali pure in passato veniva attribuito il nome di "arti" l'arte della guerra, l'arte della navigazione e così via.
Nuovi strumenti per l'arte
Fatto fondamentale per lo sviluppo dell'arte dell'Ottocento fu l'invenzione della fotografia (dagli anni Trenta) con la sua rapida espansione, sia in termini autonomi e in relazione con esigenze prettamente documentarie, sia in rapporto con le arti figurative.Tra le conseguenze, accanto alla possibilità di ottenere immagini o la veduta, ci fu una crisi significativa della tradizionale modalità di visione dei pittori. La pittura fu allora in grado di affermare con forza la propria autonomia e unicità grazie alle sue caratteristiche tecniche, che la rendevano incompatibile con il nuovo strumento di rilevazione del vero.Accanto alla fotografia vanno considerate, nuove tecniche di produzione più rapide, economiche ed efficaci di quelle tradizionali: la litografia, l'acquatinta, l'incisione a colori.Ne derivò un collezionismo borghese interessato alle stampe da arredo ispirate alle opere pittoriche dei filoni più popolari, come i paesaggi, le veduta urbane, i oggetti devozionali e le scene di genere moralistiche o umoristiche. Ne fu incrementato anche al valore aggiunto che le stampe garantivano all'editoria popolare illustrata, ai romanzi, alle strenne, a un certo tipo di giornalismo.
Nuovo pubblico e nuova committenza
Fu un allargamento del pubblico coinvolto nel mondo dell'arte, a livello di fruizione ma anche di produzione. Le stesse teorie romantiche secondo cui l'arte è una creazione individuale e quindi l'espressione spontanea di una creatività che è in ciascuno di noi, determinarono un sensibile accrescimento al numero di coloro che volevano cimentarsi personalmente con i pennelli, con la conseguente nascita del fenomeno del dilettantismo, a cui molti si volsero, in particolare in ambito borghese e nobiliare e specialmente tra le donne. Cambiò anche la committenza o per meglio dire si allargò, estendendosi dai soggetti tradizionali, la Chiesa e la nobiltà, a settori della borghesia che vedevano nell'acquisizione di un dipinto o di una scultura un mezzo di promozione sociale la cui efficacia era universalmente riconosciuta. La fortuna dei generi quali quello del ritratto, o quello del paesaggio. Sono fenomeni che crescono nel corso del secolo, ma che si presentano sin dalla fase neoclassica, in particolare per quanto riguarda la ritrattistica, in riferimento all'immagine che i nuovi intellettuali o gli ufficiali o i borghesi vogliono dare di sé.Così Jacques-Louis David, ci ha lasciato una serie di ritratti, affidatigli da una committenza facoltosa i quali, si basano su una visione realistica e piana, anche quando (si veda il Ritratto di Madame Récamier) gli accessori e le mode del tempo condizionano fortemente l'iconografia.I fatti dell'arte divennero oggetto di discussione quotidiana, giovandosi di un'attenzione costante da parte della stampa e di una maggiore circolazione delle immagini grazie allo sviluppo delle tecniche di riproduzione a stampa.Le grandi esposizioni, come il Salon di Parigi (divenuto annuale nel 1831), durarono spesso vari mesi ed erano seguitissime dal pubblico.
Jacques-Louis David, Ritratto di Madame Récamier, 1800 circa. Olio su tela, 174x244 cm. Parigi, Museo del Louvre
Una nuova critica d'arte
Contemporaneamente a un vistoso allargamento del pubblico degli amatori e degli appassionati d'arte, si andò sviluppando una critica d'arte impersonata, al livello più alto, da Charles Baudelaire, il quale iniziò la sua carriera letteraria proprio con gli articoli dedicati al Salon del 1845. Il poeta dei Fiori del male era un ammiratore entusiasta di Delacroix e appoggiava il lavoro dei "pittori della vita moderna" come Constantin Guys, ma sapeva anche riconoscere il valore di artisti tra loro assai diversi come Ingres e Daumier.
Neoclassicismo, Preromanticismo, Romanticismo
Secondo lo storico dell'ate Giulio Carlo Argan (1970) il Neoclassicismo "non è altro che una fase della concezione romantica dell'arte", in entrambe le correnti si avrebbe il prevalere di un "fattore ideologico, talora esplicitamente politico" in sostituzione del "principio metafisico della natura come rivelazione". E' talora ben difficile distinguere nella cultura europea il paesaggio della fase neoclassica a quella romantica, al concetto di Preromanticismo. La distinzione tra i due movimenti può avvenire su varie basi: tendenzialmente razionale il primo, passionale il secondo: adoratore dell'Antichità il Neoclassicismo, interessato al Medioevo cristiano il Romanticismo. Il superamento della tradizionale suddivisione di generi artistici e del sistema di regole convenzionale, un fatto di portata enorme che diede avvio alla grande pittura inglese, tedesca e francese (Turner e Constable, Runge e Friedrich, Delacroix e Damier).L'importanza della soggettività dell'artista non ne implicò al contrario la funzione dell'artista nella società s accrebbe.Un pittore neoclassico come David si fece interprete di valori emergenti, collaborando fattivamente con l'opera dipinta e con l'organizzazione delle feste repubblicane, all'affermazione degli ideali rivoluzionari. Negli anni dopo la restaurazione, i pittori e gli scultori assecondarono il dibattito teorico con un impegno costante e sincero, per quanto con qualche inevitabile caduta a seguito di sommovimenti della storia (si pensi a Delacroix per la Francia, ad Hayez per l'Italia).Questa partecipazione agli eventi, anche drammatici ed esaltanti, propri di tempi particolarmente inclini al cambiamento, convisse in alcune figure con la ricerca di una dimensione più intima e raccolta, come nel tedesco Friedrich, interessato a scrutare oltre il visibile e i limiti terreni, con una tensione verso l'infinito che è un altro dei punti cardine del Romanticismo.Nel suo dipinto le bianche scogliere di Rügen, i motivi naturalistici sono considerati, come nel costo della sua opera, geroglifici di una rivelazione divina, le figure viste di spalle, alludono alla vastità degli spazi che si aprono davanti all'uomo.In quest'opera il pittore ha raffigurato anche se stesso che, in ginocchio, si sporge oltre l'orlo dell'abisso, in grado di misurare con lo sguardo profondità che noi possiamo solo intuire.
Joseph M. William Turner, Tempesta di neve. Battello a vapore al largo di Harbour'sMouth, 1842. Olio su tela, 91,5x122 cm. Londra, Tate Gallery
Caspar David Friedrich, Le bianche scogliere di Rügen, 1818 circa. Olio su tela, 9,5x71 cm. Winterthur, Fondazione Oskar Reinhard.
L'arte si accosta al reale
Secondo il critico Francesco Arcangeli, la pratica romantica è già in nuce in certa pittura del Settecento, dove si colgono "i prodromi d'un paziente, penetrante accostamento al reale". Già il filosofo G.W.F. Hegel riconosceva un principio fondamentale dell'estetica romantica: "La maniera dell'effettiva rappresentazione non oltrepassa essenzialmente la realtà comune vera e propria e in nessun modo ha paura di accogliere in sé questa esistenza reale nella sua manchevolezza e determinatezza finita".Il concetto di sublime: l'essenza del movimento romantico consiste proprio in un'attenzione più disincantata alla realtà, come mostrano per citare esempi italiani, l'opera manzoniana (i Promessi Sposi a ragione sono stati definiti il "romanzo senza idillio"), e tanta pittura, da Hayez al Piccio.Su queste basi si innestò in Francia dove, a partire già dagli anni Quaranta, il Positivismo, i cui effetti ricaddero su tutte le arti (il Naturalismo, il Verismo in letteratura, il Realismo alle arti figurative). Un dipinto come Les demoiselles des bords de la Seine (1856) di Gustave Courbet esemplifica bene, in maniera quasi brutale (le donne sdraiate sulla riva del fiume sono due prostitute), la volontà di prendere le distanze da esiti accademici e idealistici. I fatti nuovi erano la diffusione della Rivoluzione industriale, le grandi scoperte scientifiche, e l'aumento del benessere, la nascita della civiltà metropolitana e la pacificazione dell'Europa. La vita va ritratta anche nella sua dimensione più quotidiana e banale, o vista, come nel caso degli Impressionisti, nei suoi termini più effimeri, in un momento determinato (quel dato momento, quella data ora). Venne completamente esclusa qualunque prospettiva che fosse metafisica o ideale o in qualche modo staccata dal "qui e ora". Certo il Realismo voleva dire anche percezione dei problemi, riconoscimento dei modi politici e sociali irrisolti (si pensi alla pittura di Courbet o al filone sociale di tanta pittura e scultura), ma prevaleva comunque un atteggiamento scientista, le credenze che dell'arte potesse arrivare un contributo per la soluzione dei problemi.Tale concezione, finì con l'essere considerata, tanto da determinare verso la fine del secolo la cosiddetta "reazione antipositivista", basata su tendenze irrazionali e spiritualistiche. Alla base c'erano la presa di distanza dalle pretese conoscitive fondate sulla ragione umana e l'idea che la complessità della realtà esiga ben altri strumenti di comprensione e di analisi, anche al di fuori della logica tradizionale.
Gustave Courbet, Les Demoiselles des bords de la Seine. Estate. 1856. Olio su tela, 173x205 cm. Parigi, Musée du Petit-Palais.
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Articolo molto interessante sotto molti punti di vista.
È da diverso tempo che sto pensando di pubblicare due righe riguardo a certe devozioni della chiesa.
Questo articolo, pur non parlando direttamente di questo, ha fatto rinascere in me questo desiderio.
Ci tengo a sottolineare che quello che scriverò di seguito non pretende di essere un insegnamento della Chiesa e neppure pretende di proporre una presunta verità da me impugnata.
Si tratterà di alcuni pensieri liberi, passibili di errore e visioni personali su questa tematica.
LO SVUOTAMENTO DELLE DEVOZIONI E DELLE TRADIZIONI NELLA NOSTRA CHIESA DI OGGI.
È innegabile che ciascuno di noi è la sintesi di molteplici fattori: famiglia, contesto economico, cultura, condizionamenti religiosi o assenza di essi, formazione, esperienze di vita, aspirazioni, contesto culturale locale e globalizzato, influenza dei vari social media, secolarizzazione, ambiente naturale, ecc...
Tutto questo, e molto altro, contribuisce alla formazione della nostra identità individuale e collettiva.
La storia ci insegna che per uomo sono importanti i simboli i quali rimandano, normalmente, ad eventi o valori concreti che sono stati importanti per la propria storia.
Questo è vero in qualunque ambito della vita umana.
Determinati segni e simboli, determinate preghiere e devozioni si sono sviluppate in un determinato periodo storico e in un certo tipo di mentalità.
Nella chiesa questo implica anche un certo modo di vivere e intendere la fede in Cristo Gesù.
Poi però la storia va avanti e i contesti cambiano... Ciò che può avvenire è: o la rielaborazione dei contenuti aggiornandola e arricchendola oppure una sostituzione totale dei contenuti o ancora uno svuotamento dei contenuti.
Questo avviene sempre sia in ambito più "laico" che in ambito religioso.
Proviamo a fare un esempio evidente:
Lo svastica o croce uncinata nasce in Oriente nel periodo neolitico come simbolo di buon augurio. Probabilmente rappresentava la nascita del sole che era riconosciuto come elemento vitale per l'uomo.
Successivamente fu il modo di rappresentare in Oriente la croce greca.
Quando il nazismo si impossessò di questo simbolo, lo svuotò completamente dei suoi significati e divenne il simbolo negativo che tutti conosciamo del nazionalsocialismo tedesco.
Questo è un esempio evidente del processo di cui vi parlavo.
Ma questo, seppure in modo differente, è avvenuto anche per le nostre devozioni e tradizioni cattoliche.
Il rosario...
A forza di dire che il rosario è difesa contro il diavolo e le forze oscure, questa devozione bellissima è stata nel tempo svuotata del suo significato.
Come molte devozioni, l'intento del Rosario era quello di educare il popolo di Dio sui misteri dell'incarnazione del Verbo meditando la sua vita terrena. Altro intento era quello di far crescere l'amore verso la Madre di Dio.
Ancora aveva lo scopo di favorire la preghiera costante per i defunti.
Non so bene come e quando, ma tutta una serie di insegnamenti e un certo tipo di prassi ha trasformato questa preghiera profondamente cristologica in qualcosa di vuoto e scaramantico.
La cultura sudamericana si è appropriata della corona del rosario e ne ha fatto un simbolo senza senso da tatuare sul corpo dei malviventi oppure da indossare come una collana portafortuna.
In Italia si è diffusa la prassi di appenderla in macchina quasi proteggesse il mezzo.
Nelle nostre chiese non viene più pregato il rosario, ma viene "vomitato" velocemente senza riuscire a soffermarsi sui misteri che enuncia.
Tutta la dimensione caritativa verso i defunti, tutta la dimensione contemplativa verso la vita del Cristo e tutto l'amore a Maria si è come dissolto nell'aria.
Dov'è finito il legame vivo con Gesù e con sua madre? Dov'è finito il legame con la realtà?
I Santi...
Altro capitolo sono le devozioni dei santi e le processioni con le casse.
Dal punto di vista culturale e di bellezza artistica c'è poco da dire, ma se parliamo di devozione viva e di quanto questa aiuti la fede in Gesù... Allora c'è molto da dire.
Che differenza c'è tra queste processioni e devozioni rispetto ai culti degli antichi romani o dei Greci?
Che differenza c'è con i riti magici della santeria cubana o di altre forme sincretiste?
Portiamo le immagini dei santi per strada "a prendere aria" in mezzo a gesti che di religioso non hanno nulla.
Quando "va bene" i paesi per intero partecipano a queste processioni senza alcun tipo di spirito religioso e fanno una serie di gesti solo perché "si sono sempre fatti così".
Quando "va male" portiamo le statue in giro in paesi vuoti per poi intronizzarle nelle chiese dove tutto è cristallizzato a livello di una liturgia ricca di apparenza e povera di sostanza.
Hanno ancora senso queste forme oggi? La risposta corretta è: dipende.
Dipende da quanto portano ancora a una vita di fede concretamente vissuta.
Cerchiamo di chiarirci: Vita di fede si intende uno stile di vita personale profondamente evangelico e non quante volte si va in chiesa o quante preghiere si dicono! Ma come tratto le persone che incontro, con cui lavoro e con cui vivo. Come tratto i poveri, i profughi, gli immigrati, i malati, gli anziani, ecc...
Quanto questo mio stile è simile a quello di Gesù ed è vissuto per amor suo. Quanto vedo Gesù nel fratello.
Allora quanto queste forme devozionali e tradizionali rimandano a un'esperienza viva di Gesù oggi nel 2019?
Non sto dicendo che bisogna abolire tutto, ma bisogna partire da questa domanda per rievangelizzare queste forme. In caso contrario è molto meglio non mettere in scena teatrini che dal punto di vista storico saranno bellissimi, ma dal punto di vista della fede non c'è più nulla.
Da questo modo di intendere l'esperienza credente non è esente nessuna forma devozionale, tradizionale o moderna. Paradossalmente neppure la liturgia e i sacramenti sono esenti da questo processo.
Ritengo che oggi sia necessario da parte dei laici e del clero un cambio di mentalità e un riavvicinamento autentico a un Vangelo che parli al nostro quotidiano e un quotidiano che parli al Vangelo.
Come disse alcuni giorni fa in un omelia "non saranno queste forme a farci entrare in paradiso o a condannarci. Non serve dire il rosario oppure avere mille emozioni per salvarsi. Ciò che ci salva all'incontro personale è vivo con Gesù che si manifesta visivamente SEMPRE E PRINCIPALMENTE nella relazione con gli altri".
A quel punto qualunque forma devozionale antica o nuova, attualizzata e legata alla realtà di oggi diventerà occasione stimolante e nutriente per il nostro amore verso Gesù e verso i fratelli.
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Quest’anno la parrocchia di Sant’Agostino, nella cui basilica è da sempre fortemente radicato il culto per santa Rita da Cascia, ha offerto un programma di festeggiamenti di alto profilo, capace di coniugare liturgia e devozione con momenti di approfondimento storico e di spiritualità.
In questa prospettiva va letto il denso incontro che la comunità di piazza Mazzini e un più vasto pubblico di interessati hanno vissuto, venerdì 19 maggio alle 21, con padre Rocco Ronzani, degli Eremitani di Sant’Agostino. Padre Rocco, arrivato a Rieti vestito dell’abito nero degli Agostiniani, è ormai un amico della nostra diocesi, alla quale lo legano amicizie personali risalenti ai tempi – non lontanissimi in verità, giacché ha solo 38 anni – dei suoi studi all’Archivio Segreto Vaticano e la passione per il tempio edificato tanti secoli fa dal suo ordine nel cuore della città comunale: risale ad almeno un lustro fa la sua prima visita alla chiesa, in compagnia di un altro grande studioso agostiniano, padre Vittorino Grossi, quando i due rimasero incantati dalla basilica appena rimessa a nuovo, alle cui ricchezze di fede e di arte furono allora introdotti da un mons Salvatore Nardantonio comprensibilmente orgoglioso ed emozionato.
Nell’aprile scorso padre Rocco, che oggi è priore del convento della Santissima Trinità di Viterbo, dove gli agostiniani curano la formazione dei loro professi, è tornato a Rieti con al seguito le giovani leve dell’ordine. In quell’occasione, è stato il nuovo parroco moderatore di Sant’Agostino, don Marco Tarquini, a fare da guida ai visitatori, giunti, tra l’altro, per venerare il beato Giovannino da Rieti, il protettore dei professi agostiniani le cui spoglie sono conservate proprio nella chiesa reatina. In quell’occasione è nata l’idea di invitare padre Rocco, insigne studioso dell’Istituto Patristico “Augustinianum” di Roma, a tenere una conferenza sulla vita e sulla spiritualità di santa Rita da Cascia all’interno dei festeggiamenti di maggio.
Padre Rocco, che fino all’agosto scorso è stato il superiore proprio della casa agostiniana di Cascia, ha accettato l’invito e, dopo una sosta presso la casa delle consorelle Oblate del Bambin Gesù in via Garibaldi, si è portato nella basilica minore per condurre con mano sicura i presenti lungo un affascinante percorso tra le fonti scritte, pittoriche e liturgiche relative alla santa umbra che – in uno stile piano e quasi pastorale, ma non per questo meno rigoroso e accattivante – ha individuato i pochi punti fermi, evidenziato le numerose criticità e i coni d’ombra della ricerca, fornito preziose lezioni di metodo.
Il profilo biografico di Rita che ne è emerso è risultato alquanto complesso e problematico, ma proprio la difficoltà di incastrare tutti i pezzi del mosaico, sparsi tra l’agiografia piuttosto tarda prodotta sulla santa, le immagini della cassa solenne di epoca barocca che ne ha a lungo ospitato i resti a Cascia, i più generali motivi iconografici a lei ispirati e i testi devozionali, è stato l’aspetto che più ha avvinto gli ascoltatori. Padre Rocco è riuscito a rendere facile da seguire un discorso che non ha rinunciato in alcun modo allo specialismo, ma senza perdere di vista le implicazioni spirituali. E proprio della spiritualità di Rita, che nonostante la lacunosità delle fonti resta comunque attingibile, egli ha offerto una sintesi efficace citando la colletta che la terza editio typica del Messale Romano, della quale dal 2002 si attende ormai la traduzione italiana, prevede per la memoria liturgica della santa: stando al testo eucologico – e padre Rocco è d’accordo, anche perché l’orazione si rifa alle medesime fonti da lui utilizzate nella sua trattazione – essa si compendia nella sapientia crucis, cioè alla capacità di Rita di vivere il mistero della croce di Cristo, e nella fortitudo con cui ella, patendo con il Signore, ha saputo partecipare più intimamente al suo mistero pasquale. Che poi è lo stesso mistero, fatto di passione, morte e risurrezione.
Al termine della conferenza, don Marco ha ringraziato con calore padre Ronzani per la splendida lezione di storia e di fede, che non è stato l’unico suo dono per la parrocchia di Sant’Agostino. Padre Rocco ha infatti regalato al parroco un’autentica cintura agostiniana da utilizzare per la statua, di cui si sta ultimando il restauro, della Madonna del Buon Consiglio o, appunto, della Cintura, il titolo con il quale nel suo ordine si venera Maria, patrona dell’ordine, detta anche, appunto, Madonna della Cintura. Un omaggio graditissimo, in particolare da Roberto Torda, a capo della ricostituita confraternita della Cintura impegnata a rilanciare un culto in passato molto sentito in città. Dopo un breve momento di ristoro, mentre padre Rocco ha ripreso la via di Viterbo, don Marco è rimasto a domare gli entusiasmi dei suoi parrocchiani, che gli chiedevano con fervore di organizzare altri appuntamenti di questo tipo. Una richiesta, ne siamo certi, alla quale il sacerdote non avrà alcuna difficoltà ad acconsentire.
foto di Samuele Paolucci
Santa Rita: una spiritualità da cui attingere. Partecipato il convegno di padre Rocco Ronzani a Sant’Agostino Quest'anno la parrocchia di Sant'Agostino, nella cui basilica è da sempre fortemente radicato il culto per santa Rita da Cascia, ha offerto un programma di festeggiamenti di alto profilo, capace di coniugare liturgia e devozione con momenti di approfondimento storico e di spiritualità.
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De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
Il 9 novembre 2019, nella chiesa di San Giuseppe a Nardò, è stato presentato il volume De Domo David. La confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019), Edizioni Fondazione Terra d’Otranto 2019, 640 pagine, colore, formato A/4, circa 800 illustrazioni, a cura di Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi. Edizione non commerciale
INDICE
Joseph il giusto nei mosaici dell’arco di Santa Maria Maggiore a Roma
Domenico Salamino
La Fuga in Egitto. Suo importante significato teologico
Tarcisio Stramare
Dal Sogno al Transito: iconografie nella chiesa confraternale di San Giuseppe a Nardò
Stefania Colafranceschi
San Giuseppe e la Sacra Famiglia nel fondo antico della Biblioteca Casanatense di Roma
Barbara Mussetto
La pala marmorea dei Mantegazza nella chiesa di Santa Maria Assunta in Campomorto di Siziano (Pavia)
Manuela Bertola
Iconografie di San Giuseppe negli affreschi delle confraternite dei Battuti in diocesi di Concordia-Pordenone
Roberto Castenetto
La basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo e i suoi arazzi
Giovanni Curatola
Hierónimo Gracián e il suo Sommario (1597)
Annarosa Dordoni
Le confraternite dei falegnami in Romagna
Serena Simoni
La confraternita del SS. Crocifisso e S. Giuseppe nella chiesa di San Giuseppe in Cagli (PU)
Giuseppe Aguzzi
La confraternita di San Giuseppe dei Falegnami di Todi e la chiesa di San Giuseppe
Filippo Orsini
San Giuseppe in due dipinti astigiani di età moderna
Stefano Zecchino
La confraternita di San Giuseppe a Borgomanero
Franca Minazzoli
Il culto di San Giuseppe nella città di Napoli e un piccolo esempio di devozione: il quadro di Giovanni Sarnelli nell’Arciconfraternita di San Giuseppe dei Nudi
Ugo Di Furia
Ite ad Joseph. San Giuseppe nella statuaria lignea tra Otto e Novecento: alcuni esempi
Francesco Di Palo
L’oratorio di San Giuseppe di Isola Dovarese. Una pregevole testimonianza settecentesca
Sonia Tassini
Testimonianze giuseppine nella chiesa di San Vincenzo Martire in Nole (Torino)
Federico Valle
L’oratorio di S. Giuseppe di Cortemaggiore (Piacenza)
Annarosa Dordoni
San Giuseppe a Chiusa Sclafani (Palermo) tra arte e devozione
Maria Lucia Bondì
San Giuseppe nell’arte. Sculture lignee di Francesco e Giuseppe Verzella tra Sette e Ottocento in ambito pugliese e campano
Antonio Faita
Memento mori: il Transito di San Giuseppe
Biagio Gamba
Storia e tecnica delle immagini devozionali a stampa
Michele Fortunato Damato
Dal XVI al XIX secolo, quattro secoli di pizzo su carta
Gianluca Lo Cicero
Stampe popolari giuseppine nel museo di Pitrè di Palermo
Eliana Calandra
Le confraternite di S. Giuseppe in Puglia tra storia e religiosità popolare
Vincenza Musardo Talò
Le Regole della confraternita di San Giuseppe Patriarca di Nardò, un esempio «moderno» del fenomeno confraternale
Marco Carratta
Arte e devozione ad Altamura. La cappella di San Giuseppe in cattedrale
Ruggiero Doronzo
Alcuni esempi di iconografia giuseppina a Taranto
Nicola Fasano
In margine all’iconografia di San Giuseppe: il ciclo pittorico di Girolamo Cenatempo nella cappella del Transito di San Giuseppe a Barletta
Ruggiero Doronzo
Sponsus et custos. Iconografia, culto e devozione per San Giuseppe nell’arco jonico occidentale. Exempla selecta
Domenico L. Giacovell
La raffigurazione di San Giuseppe negli argenti pugliesi
Giovanni Boraccesi
Esempi di iconografia giuseppina tra Puglia e Campania. Proposte per Gian Domenico Catalano, Giovan Bernardo Azzolino, Giovanni Antonio D’Amato, Giovan Vincenzo Forlì
Marino Caringella
Postille iconografiche su Cesare Fracanzano. Alcuni esempi della devozione giuseppina
Ruggiero Doronzo
I Teatini e il culto di san Giuseppe a Bitonto
Ruggiero Doronzo
Esempi di antiche pitture parietali giuseppine nel leccese
Stefano Cortese
La figura di san Giuseppe nella pittura post tridentina in diocesi di Lecce
Valentina Antonucci
San Giuseppe nella pittura d’età moderna nelle diocesi di Otranto e Ugento
Stefano Tanisi
Da comparsa a protagonista. Giuseppe in alcune opere pittoriche e in cartapesta della diocesi di Nardò-Gallipoli
Nicola Cleopazzo
La devozione a san Giuseppe in Parabita (Lecce). Il culto e le raffigurazioni del santo
Giuseppe Fai
Integrazioni documentarie e nuove fonti archivistiche per la storia della chiesa e della confraternita di San Giuseppe a Nardò
Marcello Gaballo
Esemplificazioni iconografiche giuseppine a Galatone (Lecce)
Antonio Solmona
L’altare maggiore della chiesa di San Giuseppe a Nardò
Stefania Colafranceschi
Vedute di Nardò nella tela dell’altare maggiore in San Giuseppe a Nardò
Marcello Gaballo
Comparazioni strutturali e integrazioni architettoniche settecentesche nella chiesa di San Giuseppe a Nardò
Fabrizio Suppressa
L’altorilievo neritino de La Sacra Famiglia in Viaggio nella chiesa di San Giuseppe
Stefania Colafranceschi
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Un caso emblematico: la statua di Santa Marina a Muro Leccese
Il contesto storico-artistico ed un suo auspicabile restauro
di Santo Venerdì Patella
Avevo scritto della statua di Santa Marina già nel 1998[1], dove reclamavo il fatto che la stessa opera fosse stata nuovamente, per l’ennesima volta, ridipinta e manomessa, come in effetti si usava fare all’epoca e molto più di quanto avviene ancor oggi.
In effetti visionando alcune vecchie fotografie, come quella di sopra, si nota che questo simulacro nel secolo scorso ha mutato varie volte policromia, in parte la forma delle vesti, la posizione delle braccia ed il drago.
Nell’ultimo “rifacimento”, avvenuto nel 1993, come riporta la foto in basso, furono eliminate alcune parti del panneggio, l’attributo iconografico della palma ed il drago.
Fui informato, spero giustamente, che tutto ciò che venne tolto era realizzato in cartapesta e che ricopriva una statua più antica in legno, molto malmessa. Viene quindi naturale immaginare che le parti appena menzionate furono verosimilmente aggiunte nei rifacimenti precedenti e pertanto poi eliminate, cercando, in maniera molto empirica, da un lato di ridare la forma originaria a questa statua ma al contempo magari reinventandone di nuove.
Quest’opera è conservata nella medievale chiesa di Santa Marina a Muro Leccese ove il culto della stessa è rintracciabile già nella Santa Visita della Diocesi di Otranto del 1768, in cui è rammentata una imago S. Marinae. Questa statua viene poi esplicitamente nominata in un’altra nota datata 1874[2]. Esaminando anche altre Sante Visite non ho riscontrato ulteriori menzioni della stessa, ma possiamo valutare delle ipotesi in merito al periodo in cui essa venne realizzata. Consultando il catalogo “Il Barocco a Lecce e nel Salento”, mi accorsi che vi erano delle somiglianze tra la Santa Chiara[3] [foto 3], conservata nella omonima chiesa leccese, qui di seguito riportata
e la statua di Santa Marina, in special modo dopo l’ultimo rifacimento sopra descritto: simile la staticità della posa, simile il modo discreto di panneggiare le vesti, simili i tratti dei visi. Tutte queste somiglianze le associai qualche anno dopo anche alla statua di Santa Domenica di Scorrano, di seguito ripresa.
Queste mie supposizioni furono suffragate in special modo dagli ottimi studi contenuti nel testo “Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna”, in cui si descrivono le attinenze decorative e stilistiche della statua di Santa Chiara e Santa Domenica prima menzionate[4]. Il periodo di realizzazione a cui vengono inscritte queste statue può essere collocato in un arco temporale che inizia verso fine del sec. XVI e prosegue lungo i primi decenni del XVII, epoca in cui dovremmo verosimilmente inserire anche la realizzazione della nostra Santa Marina, se ciò fosse verificabile dopo adeguati interventi restaurativi.
Decorativamente parlando le “sorelle artistiche” di Santa Marina: le Sante Chiara e Domenica, ci appaiono, nei decori degli abiti, riccamente ornate con estofadura, particolare tecnica decorativa già presente nell’arte gotica per abbellire immagini sacre su legno policromato, che fu utilizzata largamente in Spagna durante il periodo barocco e fu importata anche nel vice regno con capitale Napoli. Pertanto se la statua in questione dovesse essere restaurata con criteri opportuni, oltre a recuperare in massima parte le forme originarie, potrebbe rivelare anch’essa una decorazione importante ad estofado, che la renderebbe ancor più rilevante dal punto di vista artistico. Senza appropriate indagini rimaniamo però nel campo delle ipotesi.
Se tutto questo fosse riscontrabile la nostra Santa Marina rientrerebbe pienamente in quella temperie artistica ch’è a cavallo del sec. XVI e XVII, e che si riferisce alle pratiche devozionali e cultuali tipiche della Controriforma.
La statua in questione si presenta a tutt’altezza con un panneggio vagamente classicheggiante ed in posizione ieratica, con occhi vitrei e sarebbe ascrivibile ad uno scultore napoletano, che pur operando nei primi decenni del ‘600, conserva ancora una cultura figurativa tardocinquecentesca[5].
Per fare dei paragoni stilistici, e senza andare lontano e ricercare opere famose, possiamo menzionare la tela d’altare conservata nella chiesa dell’Immacolata di Muro Leccese in cui è effigiata la Titolare [foto 5], la figura della Madonna ripropone in massima parte la posa delle statue prima rammentate, a riprova dell’attardamento stilistico, non ancora barocco, della Muro dell’epoca.
Questa tela è databile al terzo decennio del ‘600.
Contestualizzando ancor più il periodo storico-artistico della Muro secentesca possiamo fare dei riferimenti ad altre sculture; mi riferisco al busto-reliquiario di Santa Giusta[6], conservato anch’esso nella chiesa Confraternale dell’Immacolata, attribuibile allo scultore Giovan Battista Gallone (lo si metta in confronto con il busto reliquiario di una delle undicimila vergini della chiesa del Gesù Nuovo a Napoli).
Questa statua, conservata in una nicchia datata 1646, è decorata non a caso ad estofado ed ha anch’essa una provenienza napoletana.
Nello stesso luogo di culto vi è un altro stipo dedicato a San Largo ma in questo caso non è più conservato il relativo busto-reliquiario dell’omonimo santo. Purtroppo mancano all’appello altri due busti-reliquiario: San Giovino e San Agapito, un tempo conservati della chiesa del S.mo Crocefisso, di cui resta traccia in due infelici foto d’epoca.
San Giovino
San Agapito
Nella Santa Visita della Diocesi di Otranto del 1755 ritroviamo questa importante notizia che li riguarda e che riporto fedelmente: “Nelli pilastri dell’arco, sotto di cui sta situato d.o altare maggiore vi sono due basette, una da una parte e l’altra dall’altra: in quella della parte destra vi è situata una statuetta a mezzo busto con stragalio […], è colorita, e nel petto v’è una reliquia colla […] di S. Agapito, e nella sinistra altra simile statuetta colla reliquia di S. Giovino.”.
Speriamo che in un futuro queste opere si possano recuperare.
Per ribadire alla fine di queste note quanto un restauro appropriato possa restituire l’idea originaria che l’artista-creatore aveva delle sue opere, porto ad esempio quello da poco effettuato sull’altare maggiore della già menzionata chiesa del S.mo Crocefisso dove, le statue lapidee dei dolenti: la Madonna Addolorata e San Giovanni, realizzate da P. Buffelli entro il 1660, hanno rivelato una ricca decorazione ad estofado, mentre prima risultavano ridipinte ed appiattite con banali tinte monocrome, aumentandone non poco il valore artistico delle stesse.
altare maggiore della chiesa del S.mo Crocefisso
statue lapidee dei dolenti: la Madonna Addolorata e San Giovanni, realizzate da Placido Buffelli
Note
[1] S. V. Patella, La cultura della cartapesta, in “Liber Ars”, 3, aprile 1998, p. 21.
[2] V. Boccadamo, Terra d’Otranto nel Cinquecento, Galatina 1990, p. 76.
[3] R. Casciaro, Il Barocco a Lecce e nel Salento, Pomezia-Roma 1995, pp. 163-164.
[4] P. L. de Castris, B. Minerva, Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, Roma 2007, p. 24, p. 180.
[5] L. Gaeta, Intagliatori incisori scultori e società nella Napoli dei viceré, Congedo 2015, p. 5.
[6] S. V. Patella, La città di Muro Leccese dalle origini al ventesimo secolo. Antichità, architettura, arte, fonti e documenti, Editrice Terra, Lecce 2012, p. 113.
#Muro Leccese#Santa Marina#Santo Venerdì Patella#Arte e Artisti di Terra d'Otranto#Spigolature Salentine
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Il "Vento devoto". I ventagli d'autore per i santi patroni
In occasione dei festeggiamenti in onore di San Gregorio Armeno a Nardò una mostra sarà ospitata presso il salone del chiostro dei Carmelitani (accanto alla chiesa del Carmine): il “Vento devoto. Ventagli d’autore per santi patroni”, a cura di Antonio Chiarello, artista di Ortelle ormai noto per le sue singolari creazioni.
Sui modelli degli antichi ventagli devozionali, dal nostro popolo denominati “intalòre” (banderuole), Chiarello ripropone e reinterpreta le immagini dei santi patroni, che un tempo si acquistavano appena fuori dal santuario o dalla chiesa in cui si festeggiava il santo.
Oggetti devozionali realizzati con materiali poveri, gelosamente custoditi, che venivano appesi sulle pareti domestiche o accanto alla testata del letto, magari con il rametto di ulivo della domenica delle Palme, che tutti potevano permettersi, senza alcuna spesa, ma con la fede autentica trasmessa dalla precedente generazione.
Surclassati per la povertà intrinseca dei materiali impiegati e il benessere degli anni 70-80 del secolo scorso erano andati in soffitta e dimenticati, sopravvivendone solo alcuni, che sono divenuti preziosi per la rarità delle icone monocolore su di essi raffigurate con essenziali tratti, quasi sempre doppie, una per lato.
San Pantaleone, San Biagio, i Santi Medici, San Sebastiano, il Crocifisso di Galatone, Santa Cristina, la Vergine di Sanarica o quella di Leuca tra i soggetti maggiormente raffigurati, ma una miriade di santi poco noti e venerati dalle tante comunità salentine caratterizzavano il luogo e il culto, oggi del tutto dimenticati. Autentici souvenir che il pellegrino portava con sé, per esibirli nella sua modesta dimora o per donarli ai suoi cari, molto spesso rallegrati e impreziositi da una serie di nastrini multicolore, legati alla parte terminale del ventaglio o attorno all’asta che lo sostiene.
Antonio Chiarello da anni recupera questa espressione semplice ma autentica della fede popolare, salvandola dall’oblio e desideroso di recuperarne la tradizione, riproponendo le consolidate forme dei ventagli e aggiungendo nuovi soggetti, che vanno ad arricchire la sua nuova galleria di santi e sante.
La mostra si inaugura sabato 16 alle 19.30 (ore 17-20) e l’ingresso è gratuito.
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