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#il poeta dell'infinito
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“Leopardi - Il poeta dell’infinito”, la miniserie dedicata al poeta di Recanati
Dalla sinossi, vedo che è stata attribuita troppa importanza a Fanny, la quale invece, negli ultimi tempi, sappiamo che gli era "scaduta"...
Si va sempre più consolidando nella vulgata questa inesistente coppia Leopardi-Targioni Tozzetti. L'unica coppia "vera" è quella che Leopardi fece sempre con la sua donna ideale, introvabile, immateriale, che forse avrebbe incontrato nei regni celesti, fra le "eterne idee".
Ricordiamo che Fanny, quando comuni amici nominavano Leopardi, commentava con le inqualificabili parole: "Che puzza!" Avendolo saputo, in che considerazione egli avrebbe potuto continuare a tenerla?
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Dolce naufragare in questo mare: versi eterni
Dolce naufragare in questo mare è la frase con la quale si conclude la poesia "L'Infinito", una delle opere più celebri del poeta Giacomo Leopardi. Il componimento, scritto nella primavera del 1819, contrappone la finitezza della condizione umana all'infinito. In un momento di dolcezza e di liberazione dalla propria condizione umana, nonostante la consapevolezza della sua limitatezza, il poeta di Recanati esprime la sua aspirazione a fondersi con l'infinito. Cosa rappresenta Leopardi nella poesia "L'Infinito"? "L'Infinito" inizia con una descrizione della posizione di Leopardi su una collina, circondata dalla natura. Il poeta osserva gli orizzonti lontani e si rende conto che la sua visione è limitata dalla curvatura della terra. Questo lo fa riflettere sulla vastità dell'universo e sulla sua condizione umana, intrappolata nella piccolezza e nella finitezza. Leopardi esprime un profondo desiderio di andare oltre i limiti della sua esistenza umana e di immergersi nell'infinito dell'universo. Egli riconosce che la sua mente è incapace di comprendere appieno l'infinito, ma nonostante ciò, sente una sorta di connessione spirituale con esso. La contemplazione dell'infinito gli offre momenti di fuga dalla realtà e gli permette di immergersi in una dimensione più ampia e liberatoria. Attraverso l'uso di immagini suggestive e di un linguaggio poetico intenso, Leopardi invita il lettore a riflettere sul senso dell'esistenza umana e sulla lotta tra la consapevolezza della nostra limitatezza e il desiderio di trascenderla. Cosa rappresenta la siepe nella poesia "L'Infinito" per Leopardi? Nella poesia "L'Infinito" di Leopardi, la siepe rappresenta un ostacolo fisico che limita la visione del poeta e simboleggia la condizione umana di finitezza e di confinamento. La siepe funge da metafora visiva per illustrare come i limiti della nostra esperienza sensoriale e delle nostre conoscenze impediscono a Leopardi di percepire l'infinito in modo diretto. Simboleggia la condizione umana di essere intrappolati nelle limitazioni del nostro corpo e delle nostre prospettive. Essa rappresenta l'impossibilità di comprendere appieno l'infinito e ciò che si estende al di là dei nostri confini fisici e mentali. Attraverso la siepe, Leopardi esprime una sorta di frustrazione e desiderio di superare la sua condizione limitata. La sua mente e il suo spirito aspirano a estendersi oltre i confini della sua esistenza, ma la siepe gli impedisce di farlo. Dolce naufragare in questo mare: fuga dalla realtà L'espressione "è dolce naufragare in questo mare" che conclude la poesia rappresenta un momento di contemplazione e di fuga dalla realtà, in cui il poeta immagina la dolcezza e la liberazione di lasciarsi andare, di "naufragare" nell'infinito. L'immagine del naufragio descrive una sorta di abbandono consapevole della sua condizione umana e delle sue limitazioni. Nell'infinito, il poeta trova un rifugio dalla sofferenza e dalla consapevolezza delle proprie limitazioni, trovando una sorta di piacere nell'immergersi nell'infinità dell'universo. L'espressione suggerisce anche una ricerca di libertà e di fusione con l'infinito, come se Leopardi desiderasse lasciare alle spalle le restrizioni della sua esistenza terrena e fondersi con qualcosa di più grande e illimitato. Per questo motivo il verso può essere interpretato come una ricerca di consolazione nell'infinito, una fuga dalla realtà e l'abbandono felice nella vastità dell'universo, che offre momenti di gioia e di liberazione dall'angoscia esistenziale. In copertina foto di Ludovica da Pixabay Read the full article
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wotchergiorgia · 3 years
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29 giugno 1798. Oggi ricorre l'anniversario della nascita del mio caro vecchio amico Giacomo, il migliore degli amici che ho. Oggi, duecentoventitré anni fa, nasceva lui, l'immenso e immortale poeta che possiede da anni il mio cuore. Ma chi è un poeta? Cos'è un poeta? Be’, nel caso di Giacomo essere poeta significava scavare a fondo dell'animo umano, toccare e smuovere i cuori, mettere a tacere le certezze e innalzare i dubbi; per Giacomo significava confrontarsi con ció che lo circondava, ovvero la sua grande e amica confidente, la Natura. Significava porsi quelle domande che ogni individuo s'è sempre posto e che sempre si porrà, ma soprattutto mettersi a nudo sulla carta con le sue più grandi e profonde paure e incertezze. Giacomo Leopardi è un grande amico, il migliore che oggigiorno si possa desiderare. È quell'amico che ha sempre un consiglio pronto e una parola di conforto senza chiedere nulla in cambio; è quell'amico che ti dice prima cosa è gentile, che ció che è giusto, quello attraverso le cui parole puoi ritrovare e capire meglio te stesso, mettendoti in discussione sempre e non dandoti per scontato mai. Perché il mio caro amico Giacomo, che è poi l'amico di tutti noi, insegna a non fermarsi alle apparenze, a non essere superficiali, ma a scavare a fondo, ad andare oltre, a cercare quei dettagli e quelle piccole cose che rendono speciale il tutto che ci circonda. Infondo, il caro vecchio Giacomo sempre moderno e al passo coi tempi nonostante sia nato duecentoventitré anni fa, è sempre stato un grande maestro di vita, quello da cui tutti dovremmo desiderare di imparare, giacché tra le righe dei suoi Canti, dei suoi Pensieri, delle sue Lettere, dei suoi frammenti dello Zibaldone, il nostro amico non ci delude mai, magari non fornendoci sempre le risposte, vero, ma obbligandoci inconsciamente a porci le domande, che forse è ancora più importante. Perché alla fine, e lui lo aveva capito benissimo, a volte l'uomo pretende le risposte a domande che non si pone e che non conosce nemmeno; e quindi senza porsi quelle domande come si potrebbero mai cercare e trovare le risposte? (presso Recanati Città dell'Infinito) https://www.instagram.com/p/CQst-08jDFZUBEi5xxy3Vn2QbMDacCEk3XzExc0/?utm_medium=tumblr
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harveyphotography · 5 years
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Al poeta fu sempre caro il colle che sorge verso Recanati (monte Tabor, collina solitaria) su cui era solito rifugiarsi per contemplare e riflettere. Sul colle cresceva una siepe che impediva la vista del paesaggio più lontano. Come per tutti i grandi uomini, per Leopardi ogni limite è una sfida quindi egli immagina un mondo vastissimo oltre la siepe.
Anzi supera i confini del mondo e pensa all’infinito spazio dell’ universo, che l’uomo può intuire ma non comprendere 
pienamente. Il rumore del vento fra i rami della siepe ricorda al poeta il momento in cui sta’ vivendo momento che possa per un attimo per definizione scivolare nel passato.Il poeta ripensa allora all’età trascorsa fino alle prime ere geologiche della terra ed arriva all’intuizione dell’eternità. L’infinito e l’eterno lo sconvolgono e danno alla sua mente la sensazione dolorosa e dolce al tempo stesso di affondare, di perdersi.
Colle dell'infinito - Recanati
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hurricane-tempesta · 3 years
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Fissando la porta di casa, so che adesso non avrà lo stesso colore. Entro, chiudo la porta e mi siedo sul nostro divano. Guardo la nostra foto appoggiata sul caminetto del salotto.
Non ho la forza di piangere.
Sei andata via ed hai portato con te tutto, comprese le mie emozioni.
Adesso sono semplicemente un guscio vuoto.
Fisso inespressivo la foto grigia, ricordavo fosse una giornata di sole, allora come mai la foto è così buia? Ovunque mi volti, qualsiasi cosa io guardi, noto solo tutto grigio. L'unico colore che distinguo è il grigio. Hai portato con te tutti i colori del mondo lasciando solo quel colore odiato e agognato da tutti: il grigio.
Cosa farò adesso in questa casa vuota? Come trascorrerò le mie giornate qui, in questa casa che ha sempre assistito al nostro amore? Come riuscirò a respirare se tu hai portato con te tutta l'aria del pianeta?
Non so ancora se riuscirò a vivere senza di te. Non so nemmeno se, un giorno, riuscirò a guardarmi allo specchio e vedere quella persona che era accanto a te, oppure se continuerò a proiettare sul riflesso della mia immagine quella di un guscio vuoto. Come lo sono adesso. Un guscio vuoto senza valore.
Adesso, su questo divano con la nostra foto tra le mani e la sensazione del tuo sangue ancora addosso, vorrei sprofondare in un sonno profondo e dimenticarmi di tutto, non svegliarmi più. Forse raggiungerti. Ma so che mi odieresti per questo.
Allora decido di immaginarti. Decido di proiettare tutti i ricordi vissuti con te in questa stanza ormai buia, nella speranza che possa riacquistare un colore. Un valore.
Immagino te, intenta a rimproverarmi scherzosamente con quel tuo grembiule rosa addosso che tanto valorizza i tuoi occhi cioccolato e quel mestolo imbrattato di sugo.
Ti immagino accoccolata accanto a me, mentre guardiamo distrattamente alla tv un vecchio film di cui, obiettivamente, non ci importa perché entrambi abbiamo avuto una giornata difficile e l'unica cosa che desideriamo è rigenerarci, sprofondare l'uno nelle braccia dell'altro. Abbiamo solo bisogno di unire i nostri corpi, le nostre anime per immergerci in quelle dolci acque di cui tanto parlava il poeta dell'Infinito.
Ti immagino appena sveglia, con quei capelli scompigliati che tanto odiavi al mattino, con quegli occhietti così dolci che sbattevi velocemente per abituarti alla tenue luce che illuminava sofficemente la nostra camera. Con le mani cercavi le mie e mi auguravi un tenero buongiorno.
Ed io, come Dora alla scoperta del mondo, ti ammiravo silenziosamente senza proferire parola. Non riuscivo mai a spiegarti ciò che provavo guardandoti, era impossibile per me farlo. Lo è tutt'ora che non ci sei più.
Mentre i ricordi riaffiorano e, sembrano, colorare questa casa grigia, accarezzo distrattamente la nostra foto soffermandomi sul tuo volto sorridente. Sento lievemente un tocco leggero sulla spalla e, voltandomi, vedo te.
Ti vedo, bellissima e pallida.
Ti vedo con quei tuoi occhi spenti e quelle labbra che, ormai, hanno perso il rosso che le caratterizzava e di cui mi ero follemente innamorato.
Guardandoti scoppio a piangere.
Piango come un bambino.
Piango ogni lacrima presente nel mio corpo.
Ogni lacrima è un ricordo.
Tu, accarezzandomi dolcemente il viso rigato dalle lacrime, con gli occhi spenti mi prometti amore eterno.
Ed io, guardandoti ancora senza proferire parola, allungo le dita per accarezzare il tuo viso e immortalare per sempre il tuo ricordo e la tua pelle sulle mie mani, ma tu, così come sei arrivata, scompari.
Ti dissolvi nell'aria.
Mi lasci.
Mi lasci e questa volta per sempre.
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liviaserpieri · 7 years
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‘’...Avrebbe potuto essere il miglior poeta d’Italia e invece tenne sempre il pie spinto verso la sua stessa sconsacrazione; come se avesse voluto farci vedere quanto il suo museo fosse circonfuso di morte. La sua figura di aviatore ci appare più distante che mai. Il suo stile fiorito, datato. Ma l’impressione è che egli ci attenda da qualche parte, come fanno tutti i grandi poeti, che lo vedremo “faccia a faccia” quando la neve si scioglierà del tutto. Come disse lui stesso: sono un frammento d'avvenire, caduto da non so dove, incalzato dall’ansia dei morituri.’‘ Sigurd
‘’Ero quel che sono quando la mia natura e la mia cultura, la mia sensualità e la mia intelligenza cessano di lottare e si conciliano compiutamente. Ero un mistero musicale, con in bocca il sapore del mondo.
"Che cerchi?" mi domandava la Ghisolabella, a intervalli, come un una cadenza.
Come il rapimento di una melodia che sorge improvvisa da un'orchestra profonda; come la rivelazione d'un verso che sveglia il suono segreto dell'anima; come il messaggio del vento che è la rapidità dell'infinito in cammino; con uno spirito senza riva, con un corpo senza forma, con un gaudio che sembra terrore, io sento l'idealità del mondo.’‘
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entheosedizioni · 4 years
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Non sono una signora – la storia di Gwenda Stewart
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Sbaglio o non sareste affatto contenti di vedere vostra figlia scarmigliata, insudiciata di olio motore e castigata in una rozza tuta da pilota, mentre si gioca l'osso del collo scorrazzando a tutta velocità per il mondo? La vorreste, invece, in ghingheri, con tutta la placida compostezza delle signorine ammodo. La pelle sempre fresca e luminosa, i capelli morbidi e profumati. E, se invece di una principessa, la cicogna vi recapitasse in casa una scavezzacollo indomabile? Un maschiaccio mancato, tutta arruffata e ribelle, con l'animo sempre in tumulto, la linguaccia velenosa e "lo spirto guerrier ch'entro le rugge"? Io ero proprio così. Un pessimo esemplare di figlia femmina, un cattivo esempio. Non sono una signora, non lo sono mai stata, e c'è una mia foto, risalente ai primi anni del '900, nella quale sono stata immortalata in tutta la mia sciatteria anarcoide, a bordo di una motocicletta da corsa. Ho i capelli corti come quelli di un uomo, sono vestita come un ragazzo qualsiasi e guardo verso l'obiettivo con un cipiglio indefinibile. Ho un'espressione inqualificabile, a metà strada tra fierezza e sfrontatezza, e un grugno da brutto ceffo, che non sorride né sogghigna. Ma il vero fulcro dell'immagine sono gli occhi. Quegli occhi affamati e inferociti, li rivedo adesso, a una vita di distanza, e mi ricordano quelli del coyote. Ero proprio un coyote di ragazza, furtiva e predatoria, aggressiva e spregiudicata nel rincorrere la mia preda più ambita: il traguardo. No, non sono una signora, né mai ho voluto esserlo, e vi chiedo la compiacenza di perdonarmi per le improponibili calzature che portavo ai piedi. Le avevo forse prese in prestito da mio fratello? Chi lo sa. Ma servivano allo scopo, poiché non avrei potuto manovrare i pedali della motocicletta con degli aggraziati stivaletti da signora.
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Gwenda Stewart immortalata sulla sua moto Credits@TheVintagent Io correvo, sapete? Forte, molto più che un coyote. Mentre le mie coetanee s'affannavano a procurarsi un marito, io inforcavo la motocicletta e inseguivo i miei sogni di velocità. Se ci fosse stato il rock and roll a quei tempi, avrei avuto la colonna sonora perfetta per le mie scorribande. Perché lo facevo? Perché mettevo a repentaglio la mia vita per una dose di adrenalina? Ancora oggi non so rispondere a queste domande e credo che nessuno dei miei colleghi saprebbe darvi una motivazione convincente. Se chiedete ad un pilota perché corre, egli distoglierá in fretta lo sguardo dal vostro e vi dirà, piuttosto banalmente, che lo fa perché si diverte. Non possiamo pretendere spiegazioni dall'irrazionalitá. Il folle, lo scriteriato, il coyote inferocito non sanno argomentare la loro insania. Curiosamente, l'unica definizione convincente di quello che fu il mio folle amore giovanile l'ho avuta da uno spirito tutt'altro che avventuriero, leggendo le parole del poeta italiano Giacomo Leopardi: "La velocità è piacevolissima per sé sola, cioè per la vivacità, la forza, la vita di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell'infinito, sublima l'anima, la fortifica." Il mio nome è Gwenda Mary Glubb, meglio nota come Gwenda Hawkes o Gwenda Stewart, visto che gli uomini ci tengono tanto a donarci i loro cognomi, una volta maritati. Sono nata il primo giugno del 1894 nella cittadina inglese di Fulwood e sono sempre stata circondata da uomini forti. A me le pappe molli non sono mai piaciute. Mio padre era un eroe di guerra, si era distinto nel secondo conflitto boero, guadagnandosi le sue belle onorificenze. Mio fratello non è stato da meno come ufficiale nell'esercito britannico. A me, in quanto donna, non è stata data l'opportunità di imbracciare le armi ma, tutte le volte che il mio paese è stato messo in pericolo da quei villanzoni dei crucchi, mi sono data da fare. Durante la prima guerra mondiale, sono entrata a far parte del corpo femminile della Royal Air Force e, visto che non facevo altro che parlare di motori, mi hanno destinato alla conduzione delle autoambulanze. Non in patria, no, ma sul fronte orientale. Direttamente sotto le bombe del nemico. Non posso certo dire di essermi divertita in mezzo al fango rumeno e alle steppe russe, ma almeno guidavo. Pare che fosse la cosa che mi riusciva meglio. Correvo a più non posso con le ambulanze dell'esercito per raccogliere i feriti. Tanti ne ho salvati e tanti rischi mi sono presa, mentre impazzavano i combattimenti, che mi hanno insignito della Croce di San Giorgio e della Croce di San Stanislao. Nel mio portagioie non troverete leziosi ninnoli, ma medaglie al merito. Ve l'ho detto, non sono una signora.
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Gwenda Stewart sul circuito di Brooklands Credits@Pinterest E pensare che avevo quasi rischiato di non finirci al fronte e di essere espulsa dalla Royal Air Force, quando la beghina lì, la comandante Violet Douglas-Pennant aveva montato su lo scandalo. Lei sì che era una signora. L'avevano messa a capo dei reparti femminili a Hurst Park Camp e si era messa in testa di rivoluzionare tutto e di moralizzare tutti. Voleva disciplina, ordine, efficienza. Pretendeva assoluta dedizione ai compiti e non tollerava le situazioni di promiscuità tra gli istruttori uomini e le allieve donne. Ma noi eravamo giovani, eravamo passionali, sognavamo la vita e dovevamo consolarci per la guerra. Comunque, un giorno, questa monaca mancata andò su tutte le furie e scrisse al ministero, al governo, ai capi delle forze armate. Aveva scoperto il colonnello Sam Janson intento a fornicare nei dormitori del campo. Indovinate chi c'era a letto con lui? Vi lascio immaginare quante me ne dissero. Ma io c'ero abituata a sentirmi apostrofare con le più disparate amenità. Già quando salivo a bordo della motocicletta, senza rispettare i tristi crismi della moralità, mi chiamavano "fucking lesbian" (fottuta lesbica, n.d.a.). Non me ne curavo, io volevo solo correre e raggiungere ciò che essi non avrebbero mai potuto avere, per via della loro codardia: l'estasi della velocità. Tanto per essere chiari, io Sam Janson me lo sposai. Allora lo amavo, alla maniera disperata e assuefacente con cui si ama da giovani, e ne fui felice. Da civile, lui lavorava come direttore della casa automobilistica Spyker. Progettava nuovi bolidi, mentre io correvo in moto. Il circuito di Brooklands, una pericolosissima arena per motori ruggenti, era il mio habitat naturale. Lì, a breve, sarei stata incoronata Speed Queen, dopo aver fatto registrare numerosi record di categoria. Io e miei colleghi pazzi correvamo per ore e ore, a volte per intere giornate. Ci davamo il cambio per riuscire a condurre lo stesso veicolo al traguardo delle gare di durata. Giorni e notti consacrati alla Dea Velocità. Ma, siccome la morte mieteva troppe vittime tra le nostre giovani vite spericolate, il governo impose delle restrizioni per tutelarci: a Brooklands fu vietato correre per oltre 12 ore di fila e durante la notte. Era troppo per me. Mi sentivo imbrigliata e ne soffrivo. Le catene non le ho mai sopportate. Dopo soli tre anni di matrimonio, nel 1923, giunse il momento di divorziare da Sam. Nella mia visione, l'amore è il comburente delle passioni umane. Loro ardono, lui le alimenta. Ma che volete farci, voi non siete mai rimasti a secco di benzina? Era finito, tutto lì. C'eravamo amati, ma non bruciava più nulla dentro di me.
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Gwenda con una delle sue macchine da corsa Credits@FineArtAmerica Passato un anno, sposai Neil Stewart, amministratore delegato della Trump Motor Company. Da lui ho avuto amore e nuovi veicoli per cimentarmi nelle mie imprese. Decidemmo insieme di trasferirci in Francia, alle porte di Parigi, a due passi dal circuito di Monthlery. Lì si poteva correre giorno e notte, senza una fine e senza un perché. Proprio come piaceva a me. Un giorno, Neil si presentò con un nuovo trabiccolo che era stato progettato appositamente per correre. Era una strana auto a tre ruote, due davanti e una sola dietro. L'idea l'avevano avuta gli americani, che chiamavano quel genere di veicoli "ner-a-car". Neil mi regalò il "triciclo" e io lo usai al massimo delle sue potenzialità. Non vi dico il rumore assordante che faceva, né quante vibrazioni trasmetteva al mio corpo da fantino; e lasciamo perdere il dettaglio che fosse dotato di freni su una sola ruota. Ciò che contava è che andasse forte. Abbastanza da farmi ottenere nuovi record. Non avevo certo abbandonato la moto. Anzi, nel 1925 riuscii a battere ulteriori record con una Rudge 350cc. Andavo sempre più forte e sentirmi addosso il vento del mio stesso impeto velocista mi provocava una sensazione di benessere ed euforia. Correvo sugli asfalti e sugli sterrati più infidi, da sola o in coppia con i miei compagni di squadra. Tutti uomini che ho indotto a trattarmi come una loro pari. Lungo i rettilinei, mi acquattavo sul serbatoio della motocicletta, cercando di nascondere la testa fra i manubri per vincere la resistenza aerodinamica e andare più veloce. Quanta polvere ho mangiato! Quanto freddo ho preso! Quante volte mi sono spellata le mani nello sforzo di tenere a bada i miei destrieri meccanici! Non lasciavo mai nulla al caso. Ero quello che si definisce un "pilota perfezionista". Volevo che i miei veicoli fossero sempre in piena efficienza; che venissero disposti sulla linea di partenza due ore prima del via per essere ispezionati a dovere; che i meccanici fossero sempre impeccabili nel loro lavoro e nel loro aspetto. Mi era presa una vera e propria fissa per le tute bianche. Sebbene non fosse il colore ideale per chi lavora in officina, pretendevo che le indossassero e che le tenessero immacolate. Ero disposta a pagare di tasca mia il conto della tintoria, purché mi trovassi circondata dal loro bianco pulito e inappuntabile. Nel placido biancore di quelle tute vedevo annullarsi tutti gli imponderabili colori del mondo, tutti i rischi e le variabili indeterminate. Esorcizzavo la nera morte con il candore ossessivo. Osservando la lucentezza del loro vestiario mi sentivo sicura e invincibile... Nel 1929 conobbi Douglas Hawkes, anch'egli pilota. In lui riscontrai il genio dell'ingegnere talentuoso e l'ambizione di chi vuole emergere. Progettava macchine da corsa e costruì per me una Morgan a tre ruote. Me ne servii per battere una lunga serie di record. Douglas rappresentava un'opportunità per la mia carriera e una forza di crescita propulsiva. La colsi con entusiasmo. Mi mise a disposizione una vera automobile con quattro ruote, la Derby Miller. Ne rimasi folgorata. Un altro italiano, un certo Filippo Tommaso Marinetti ha detto che "La magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa, col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia è più bello della Vittoria di Samotracia". Era la verità. Con la Derby Miller ottenni alcuni successi nel 1930. Poi arrivò il mio primo contratto da professionista con la Austin. Mi assunsero al posto di un uomo per di battere il record che un altro uomo aveva stabilito a Monthlery. Lo feci. Poi mi assunse la Bosch come collaudatrice. Testavo le loro candele, correndo su vari veicoli. Proprio mentre facevo uno di questi collaudi, ebbi un pauroso incidente. La macchina iniziò a serpeggiare pericolosamente in rettilineo e sgusció fuori dal mio controllo. È stato quello il peggiore spavento che mi sono presa in tutta la mia vita. Ma giocai un tiro mancino alla morte, cavandomela con qualche escoriazione e un bell'occhio nero. La paura non mi impedì di partecipare al Rally di Montecarlo con la Derby roadster, progettata sempre da Douglas. Ormai il nostro connubio era diventato vincente e indissolubile. Non si limitava solo alle corse. C'era dell'altro, molto altro. Sebbene fossi ancora sposata con Neil, non mi preclusi l'opportunità di scoprire di nuovo l'amore per mano di Douglas. Io ho amato, sì. Follemente e intensamente, così come ho corso. Agli uomini ho dato tutta me stessa e da loro ho preso tutto, senza rimpianto alcuno. Gareggiai due volte a Le Mans ed ebbi come compagni di squadra due uomini. Ci alternavamo alla guida dello stesso bolide, e il puzzo che emanava il mio corpo, sconquassato dalle fatiche di una gara tanto impegnativa, si mischió al loro fetore, nello stesso abitacolo. Non è un mestiere per signorine, l'automobilismo.
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La Derby Maserati Credits@ClasssicDriver Douglas mi mise a disposizione un nuovo gioiello nel 1935: la Derby motorizzata Maserati. Un vero mostro, celato sotto la tenue tinta celeste. Con quel bolide corsi a Brooklands contro la leggendaria Kay Petre (la cui storia potete trovarla qui). Lei era una pilotessa fascinosa. Il mestiere ingrato, che si era scelta, non le impediva di curarsi a dovere. La sua femminilità debordava dalla tuta da corsa e la manteneva terribilmente attraente. Gli uomini la veneravano, i giornalisti la assediavano e il pubblico la acclamava. Le contesi alcuni primati, in quegli anni, e qualche pagina delle riviste specializzate. La ricordo come un perfetto miscuglio di grazia e determinazione.
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Gwenda Stewart e Kay Petre Credits@MundalisPhotoLibrary Nel 1936 corsi inseme a George Duller alla 500 miglia di Brooklands e ottenemmo insieme un prezioso settimo posto, in mezzo a fior di piloti professionisti. Mi ero ormai separata da Neil e l'anno successivo ebbi le mie terze nozze con colui che fino ad allora era stato il mio amante: Douglas Hawkes. Decidemmo di tornare a vivere in Inghilterra e non ci separammo più fino alla sua morte, nel 1974. Il tempo delle corse finì quando scoppiò la seconda guerra mondiale. Per dare una mano alla patria, mi impiegai presso la Brooklands Engineering Company. Ero operaia addetta alla realizzazione di pezzi per motori di aviazione. Poi tornai a condurre le ambulanze, quando Londra venne martoriata dalle bombe naziste. Finita la guerra, io e il mio terzo marito scoprimmo una nuova passione: il mare. Comprammo una barca a vela, la battezzammo "Elpis" (in greco antico è l'equivalente della Spes romana, la personificazione della speranza, n.d.a.) e iniziammo a navigare in lungo e in largo. Il mare ci regalava silenzio e quiete, dopo anni di roboanti battaglie in pista e di frastuono bellico. Un giorno approdammo su un'isola greca e decidemmo di stabilirci lì. Era la nostra meta. Non l'avevamo cercata, ma la trovammo. Il resto della mia vita è fatto interamente di sole, mare e natura. Ho avuto tre mariti e nessun figlio. Ho amato, ho tradito, ho lavorato, ho lottato. Mi sono meritata gli applausi di tanta gente e il biasimo di altrettanta. Oggi è il 27 Maggio 1990. Mancherebbero pochi giorni al mio 96esimo compleanno ma ho qui, di fronte a me, la morte. L'ho elusa e sbeffeggiata per quasi un secolo. L'ho sfidata, l'ho guardata dritta negli occhi, l'ho combattuta in guerra e in pista. Ho corso più veloce di lei, ho vissuto come volevo e più che potevo. Intensamente, sfrontatamente. Non sono mai scesa a compromessi, non ho rinunciato a nulla. Adesso la lascio vincere. Lascio che mi prenda e mi porti via con sé. Ma non l'accoglieró a braccia aperte. Le riserveró un ghigno di disprezzo e un gestaccio insolente. Non sono una signora.   Rosso Groviglio Read the full article
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mygipsysoullove · 7 years
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La prima volta che muoio, voglio morire sul serio. Non come certi tipi: scendo a comprare le sigarette, porto il cane a pisciare, ti manderò una cartolina. La prima volta che muoio, vedrai, non mi troverai sui manifesti funebri, né fiori, né opere da gran poeta, me ne starò su una panchina, senza motivo, senza attendere autobus illibati e arancio, senza mendicare nulla, nessun minuto o istante, o rimpianto, checché ne dicano certi saggi che non si muore senza. La prima volta che muoio, voglio dare una festa, di quelle mai viste, invitare chi non ho mai invitato, disturbarti come fa una cometa in un cielo d'estate, come quelle cose che non c'entrano niente, ricordarsi della spesa subito dopo un orgasmo, inchiodare baci sulle colonne delle cattedrali, rispondere a tono a prelati astrali, dire loro che siamo oltre l'apocalisse, testamento nuovissimo, danzare con diecimila cristi e crederti un angelo, così priva dei vestiti nella sera, vederti venire fuori da te, il dettaglio fuori posto nello specchio dei tuoi ricordi. La prima volta che muoio, voglio abbaiare nella tomba, megalomania, grattacielo di morti viventi, rincontrare tutti -come sta Signor Lincoln?- offrire da bere per l'eternità, convincere dio ad affittare un monolocale in California, vista mare, che tanto non mi serve più andarci con te e ridere dei segreti di chi è già stato, e vedere Giuda tirare un calcio di rigore e sbagliarlo, e dirgli "dai, riprovaci, andrà meglio." La prima volta che muoio, vorrei dirti addio sul serio, non come il fiume che promette di scorrere e poi, e sì che son tutti bravi qui, e brava anche tu, non credere. La prima volta che muoio, voglio vivere come voglio io, senza bisogno più di mentire, su tutte quelle cose, cambiare una gomma, l'olio, riconoscere un vino, saper scegliere il posto giusto, fare a meno dell'infinito dei verbi, coniugarti al presente e perderti, per un altro giro, per un altro me.
cardiopoetica
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imcharliebrown · 7 years
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La prima volta che muoio, voglio morire sul serio. Non come certi tipi: scendo a comprare le sigarette, porto il cane a pisciare, ti manderò una cartolina. La prima volta che muoio, vedrai, non mi troverai sui manifesti funebri, né fiori, né opere da gran poeta, me ne starò su una panchina, senza motivo, senza attendere autobus illibati e arancio, senza mendicare nulla, nessun minuto o istante, o rimpianto, checché ne dicano certi saggi che non si muore senza. La prima volta che muoio, voglio dare una festa, di quelle mai viste, invitare chi non ho mai invitato, disturbarti come fa una cometa in un cielo d'estate, come quelle cose che non c'entrano niente, ricordarsi della spesa subito dopo un orgasmo, inchiodare baci sulle colonne delle cattedrali, rispondere a tono a prelati astrali, dire loro che siamo oltre l'apocalisse, testamento nuovissimo, danzare con diecimila cristi e crederti un angelo, così priva dei vestiti nella sera, vederti venire fuori da te, il dettaglio fuori posto nello specchio dei tuoi ricordi. La prima volta che muoio, voglio abbaiare nella tomba, megalomania, grattacielo di morti viventi, rincontrare tutti -come sta Signor Lincoln?- offrire da bere per l'eternità, convincere dio ad affittare un monolocale in California, vista mare, che tanto non mi serve più andarci con te e ridere dei segreti di chi è già stato, e vedere Giuda tirare un calcio di rigore e sbagliarlo, e dirgli "dai, riprovaci, andrà meglio." La prima volta che muoio, vorrei dirti addio sul serio, non come il fiume che promette di scorrere e poi, e sì che son tutti bravi qui, e brava anche tu, non credere. La prima volta che muoio, voglio vivere come voglio io, senza bisogno più di mentire, su tutte quelle cose, cambiare una gomma, l'olio, riconoscere un vino, saper scegliere il posto giusto, fare a meno dell'infinito dei verbi, coniugarti al presente e perderti, per un altro giro, per un altro me.
Cardiopoetica
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Capisco che trovare un attore la cui bellezza eguagli, o anche solo si avvicini, a quella stratosferica e fuori dal mondo di Leopardi sia impossibile.
In compenso, Ranieri e Fanny sono più "boni" degli originali (Cristiano Caccamo, Giusy Buscemi). Anche Monaldo è degnamente rappresentato, sebbene l'originale avesse tratti più dolci e uno sguardo innocente da bambino cresciuto.
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Il punto di fuga [o in fuga] siamo noi
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Nell’ambito delle manifestazioni del Dantedì 2021, sabato 29 maggio si tiene il Primo Convegno Multidisciplinare e Performativo “Il punto di fuga siamo noi” presso e a cura del Piccolo Museo della Chiesa di San Cristoforo di Piacenza. L’evento è la prima tappa della stagione interamente dedicata all’anno dantesco e si compone di un trittico di appuntamenti che comprende, oltre al convegno, una mostra e una lettura non stop della Divina Commedia, previsti per giugno e settembre. Le iniziative sono organizzate grazie al sostegno di Banca di Piacenza e Fondazione di Piacenza e Vigevano, che hanno inoltre contribuito in modo decisivo, alla realizzazione della nuova sede museale in San Cristoforo, e sono patrocinate da prestigiose organizzazioni locali e nazionali. Per la città di Piacenza il quotidiano “Libertà” e “Confindustria Piacenza”, per l’ambito nazionale il quotidiano “Avvenire”, la rivista di arte e itinerari culturali “Luoghi dell'Infinito” e la “Fondazione Crocevia”, dedicata alla conoscenza e valorizzazione del sacro nelle arti, soprattutto contemporanee.  L'ideazione e la direzione artistica dell'anno dantesco sono a cura dei membri della Direzione Strategica del Museo: Massimo Silvotti, Sabrina De Canio, Giusy Cafari Panico, Edoardo Callegari, Domenico Ferrari Cesena, Doriana Riva.  Il Convegno Il punto di fuga siamo noi è un progetto ambizioso che punta a rispondere alle domande della, e sulla, contemporaneità, attraverso il filtro dell’opera del Sommo Poeta, stella polare del pensiero e della ricerca di felicità dell’uomo e bussola imprescindibile nell’orizzonte della poesia e dell’arte. Genio prospettico al massimo livello, speculare ai grandi geni della prospettiva pittorica e architettonica, alla ricerca, assieme a noi, nella contemporaneità, di un nuovo “punto di fuga”.Il focus del Convegno riguarda i nodi strutturali che caratterizzano peculiarmente questo Terzo Millennio, approfonditi da personalità autorevoli di differenti ambiti del sapere. Dalla critica letteraria e dalla storia dell'arte alla sociologia, dalla psicologia alla poesia, dalla filosofia all'urbanistica, dall'economia alla finanza, fino alla musica concertistica e all'arte figurativa. Durante tutto l'anno dantesco, al Museo sarà inoltre possibile visionare il facsimile perfettamente conforme all’originale, della più antica Commedia miniata al mondo, il Palatino 313. La seconda parte del trittico E quindi uscimmo a riveder le stelle, a partire dal 12 giugno, offre una mostra di ricami e poesie sui temi danteschi, a cura di Antje Stehn” dal titolo “Arianna Niero - Tracce” con interventi e opere della stessa Niero e l’introduzione, il giorno dell’inaugurazione, del dantista Angelo Chiaretti dal titolo “Dante Alighieri, disegnatore e scenografo”.La terza e ultima parte, nei giorni 13 e il 14 settembre, si concentra sulla recitazione senza interruzioni dell’intera Divina Commedia, declamata da Poeti di tutto il mondo “Cento poeti per Cento Canti”, in tredici lingue diverse. Read the full article
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callmemoodygirl · 8 years
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L'infinito (1819)
"Sempre caro mi fu quest' ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l'eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s' annega il pensier mio: E il naufragar m' è dolce in questo mare." Questa è la poesia più famosa del poeta Giacomo Leopardi. Esso è riuscito a confinare l'infinito in quattordici versi endecasillabi più uno. Ecco io mi vorrei soffermare proprio su questo, sull'ultimo verso. È situato in una poesia composta da versi di undici sillabe, mentre lui è l'unico di tredici. Se lo si osserva bene, si può notare che è indipendente, anche da solo ha un senso. Sembra quasi sia lì per puro caso. Ho voluto riflettere su questo argomento poiché mi ha fatto scoprire la risposta alla tanto pronunciata domanda "Come ti senti?" Ora risponderei "Come l'ultimo verso dell'infinito di Leopardi."
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con-una-lettera · 8 years
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Charles Baudelaire ad Armand Fraisse s.l.. 18 febbraio 1860 Chi è dunque l'imbecille [...] che tratta con tanta leggerezza il Sonetto da non vederne la bellezza pitagorica? Perché la forma è costrittiva, l'idea sgorga più intensa. [...] Avete osservato che un pezzo di cielo, colto attraverso uno spiraglio, o tra due comignoli, due rocce, un porticato ecc., dava un'idea più profonda dell'infinito che un gran panorama visto dall'alto di un montagna? Quanto alle poesie lunghe, so bene che cosa bisogna pensarne; sono la risorsa di chi non sa scriverne di brevi. Tutto ciò che supera la lunghezza dell'attenzione che l'essere umano può prestare alla forma poetica, non costituisce una poesia. Cosa si toglie in poesia? Baudelaire, in questa lettera al critico letterario Armand Fraisse, ribadisce con fermezza l'importanza di contenere la forma. Altri due temi vanno sottolineati come fondamentali per Baudelaire La brevità, tema caro anche a Edgar Allan Poe , e l'intensità, [intense], termine usato da T.S. Eliot, altro poeta che ci ha lasciato insegnamenti importanti sul funzionamento della scrittura poetica.
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nichts-ich-blog · 7 years
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DECALOGO PER UNA INSUFFICIENTE TENSIONE
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“La combinatoria è l’arte o la scienza di esaurire il possibile, includendo le disgiunzioni. Ma solo l’esausto può esaurire il possibile, perché ha rinunciato a qualsiasi bisogno, preferenza, scopo o significato. Solo l’esausto è abbastanza disinteressato, abbastanza scrupoloso. Non può fare a meno di sostituire i progetti con tabelle e programmi privi di senso. Quel che conta per lui, è in che ordine fare quel che deve, e secondo quali combinazioni fare due cose contemporaneamente, quando fosse necessario, per nulla.” Gilles Deleuze. “L'esausto.”
ICH
Essere in guerra con l'Ich, vivere il conseguente eterno tempo del conflitto con il sentimento di destino che si genera in chi ben sa che non potrà che esserci sconfitta. Aver cura, nel frastuono delle lame, dei sentimenti più teneri, coltivare le più ingenue fragilità, cercare la pace.
Collezionare sconfitte e poi sconfitte, e sconfitte ancora. E poi ancora, fino alla fine di ogni tempo. Quel che resta sempre é stato e sempre sarà un campo di macerie nel collasso dilatato delle ere e nell’odore acre delle carni. La montagna si disfa, rovina immane deforme, nel crollo si fonde con i corpi nostri e i nostri agglomerati mentali, e le nostre infrastrutture tumorali, simili all’ode del peto urlano la propria velleità agli universi comuni.
Nascondere la guerra, ma mai nascondersi alla guerra. Nulla esiste, non ora, non qui, non più.
Indagare i resti con accurata attenzione, limpida finta neutralità, nel passaggio delle truppe armate, nella mobilità del terreno, esplorare ciò che residua dal crollo, nella polvere, alla ricerca di nuove forme ed inattesi equilibri. Nelle carni squarciate e nelle nebbie sollevate attendere il barlume che abbaglia lo sguardo, sarà quella di una gemma senza valore. Isolarla, averne cura, lavarla accuratamente archiviarla, dimenticarsene infine.
Se pur nella consapevolezza d'essere qualcosa di simile ad un sacrificio (dono a nessun dio), mai dichiararlo e meno che meno a se stessi. Negarlo, anzi evitarlo, nel camuffarsi, nella maschera, nella gioia del vivere persino, a cui abbandonarsi necessariamente, confondere e confondersi, sorridere come una bambina.
Sfiorare l'inesistenza, ma mai raggiungerla, vivere sui margini, che non é la morte o una questione del tempo sui confini, essendo solo il tentativo di assentarsi ad ogni dualità e biforcazione, sfiorare il vuoto perdendosi nella vista delle vette più alte. Alitare sul caos, l’irraggiungibile, ma mai compiendo nulla di tutto questo. Essere penultimi, scoprirsi alla mercé dei propri limiti, ineluttabile sospensione sugli abissi degli spazi-tempo.
Essere nei propri ovunque, contraddicendosi in un solo luogo.
Di nuovo camuffarsi, quindi, difendersi, mischiandosi alla folla, ai falsi e casuali compagni di pugna, alle vittime del passaggio, essere maschera: soldato, albero, generale, sentimento, rovina, fiore, cimice, arte persino. 
DEFILARSI, ESILIARSI, RIFUGIARSI, MASCHERARSI, ORDINARSI.
l'Ich ha parola, ha lingua, è possibile, è possibile dialogare con i suoi cupi derivati. Mai istituire accordi però, o matrimoni, o farci pace. Il dialogo deve essere inutile, come una preghiera senza santi, credo o richiesta. La lingua che useremo invece sarà la lingua delle visioni ultime senza esserlo mai. Ultimità è il luogo dove vive ciò che ci destiniamo a combattere contraddicendoci, l’enfer.
Essere deboli, sconfitti, guardarsi morente, rialzarsi piano e senza speranza, o dolore, riprendere la lotta senza volontà, farlo persino per una mascherata necessità, o per abitudine, noia, fino alla fine, oltre la fine, e pure prima della fine. Eroici vigliacchi, celati ad ogni forma di riconoscimento nell’istante dello stesso. Fallire nell'intento, qualunque sia.
RONZINATE o SANCHO
Essere in assenza di scopo, dimenticare ogni fine, soprattutto quelli dell'arte, di nuovo contraddirli, essere Ronzinante che bruca nell'attesa di essere mal montato o malmenato.
Inutile dirlo, eppur bene chiarirlo: non preoccuparsi della materialità o della immaterialità, dell’ evidenziare un processo, delle ricadute sociali o estetiche, della sua relazione ineluttabile con la potenza di volontà di uno o degli altri.
Non preoccuparsi della produzione o della improduttività, essere mediocri, e farlo senza diventarlo.
Essere ciò che si scarta, sparire in vita, ma senza che nessuno abbia a notarlo, diminuirsi, fino a non scomparire del tutto.
Ci si preoccupi che tutto questo possa avere energia insufficiente, sì fievole da essere confuso con il resto.
Lunga e complessa deve essere l'indagine: melanconica e sorprendente, non qualcosa come un'altra, ma confusa con una cosa a caso. Con la vita ad esempio, e con qualcosa di meno.
Essere nauseati dal mondano, sfuggirne e pur parteciparvi.
Evitare il “sociale”, fuggire dai “diritti” e dalle loro dicotomie, brutale colonialismo ed ereditata incurabile malattia. Frutto minore cartesiano, da evitare a costo d’essere guardiano di burocrazie e welfare.
Guardati dalla democrazia e dalla minima maggioranza, dal comune diritto e dovere. Essere massa se pur minima, è prova sufficiente che è abbaglio o ipnosi. La verità accade alle singolarità, mai alle loro somme. Si attua anche, come nella creazione dei mondi, nella “relazione”; che precede ogni cosa, ogni minima energia.
Vivere, esplorare la “penultimità”, non la fine, ma la finitudine, ma non essendo neanche penultimi. 
“Non si tratta di esaurire un qualche compimento, di arrivare al termine di una qualche realizzazione, in altre parole di “stancarsi di qualcosa”: si tratta di essere esausti della possibilità stessa (). Ed è proprio l’immagine a esaurire la possibilità. L’immagine pura, incontaminata, singolare e indeterminata cui aspira ogni artista, ogni pittore, poeta o musicista è la “particella estrema” che scatena la fine: l’immagine, di per sé effimera, è una detonazione di energia che “fa esplodere dissipandosi”.
ESSERE E CONTRADDIRSI
Abbandonare ogni dualità, esperire fallendo nell’intento, l’esperienza fisica-non fisica e quella mentale-non mentale, sperimentare l’esperienza del corpo politico in assenza di pensiero.
Dimenticare la Storia (e tutte le storie), abbandonarsi oltre il tempo privilegiando un contesto a caso, uno spazio a caso.
Abbandonare l’umano.
Le masse hanno il cancro, già in ritardo nell’istante in cui furono messo in luce: due secoli fa la carne era già putrida, muta è ora, ci appare mobile come una serpe sugli esseri vissuti (e non per una questione temporale), ci appare da morta in vita. Posseduta da se stessa e dai suoi auto falsificati desideri, in un atto velleitario di fede, in sostituzione di ogni fallito dio o ateo credo, e nei suoi contraddittori, invece si accumula nell’accumulo ai piedi dei ghiacciai, prima dell'infinito strapiombo, sotto i resti delle molteplici sconosciute esistenze.
Mai più resistenza: Desistere, desistere, desistere. Epica limpida. Mascherata.
Due citazioni funzionali: 
A) il cervello sembra che tenda a spezzare la fraternità organica, cercando una gerarchia funzionale, e ai limiti cercando di sostituirsi all'organismo stesso.” ALDO BRAIBANTI. 
B) Quando si osserva il centro dello spazio, si cessa di vedere tutto il resto. (…) Similmente, se si osserva la coscienza con la coscienza, le forme di pensiero si dissolvono. I banchi di nebbia si diradano nello spazio senza andare altrove né rimanere da qualche parte. La vera natura dello spazio non ha né colore né forma e non è condizionata né dal bianco o dal nero.” TILOPA
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(Aprile 2017) Palazzo del Governatore a Parma, unica tappa italiana di Higher Learning, mostra di opere fotografiche di Patti Smith. A farci da guida è Rita Zappador, manager della sacerdotessa del rock in Europa:
«Patti è un personaggio ultraterreno legato a una forma metafisica che la contraddistingue in tutte le sue manifestazione artistiche, anche se poi è molto concretamente legata all’attualità e alla lotta per i diritti».
Ci sono [...] anche scatti di oggetti appartenuti a miti della letteratura: dalla macchina da scrivere di Herman Hesse al bastone di Virginia Woolf, alla pistola con cui Verlaine sparò a Rimbaud. Non solo.
Patti Smith immortala su pellicola i letti in cui personaggi come D’Annunzio «hanno sognato e fatto l’amore» e le lapidi di altri grandi come Pasolini o Leopardi: «La morte per lei non è assenza ma continuazione degli affetti» precisa la nostra guida «Riprodurre i luoghi della pace eterna è fonte di consolazione».
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