#leopardi il poeta dell´infinito
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Fanny Targioni Tozzetti in Leopardi - Il poeta dell'infinito ep. 2
#Giusy Buscemi#fanny targioni tozzetti#leopardi#leopardi il poeta dell´infinito#italiansedit#tvedit#perioddramaedit#19th century#edits*#screenshots from the app btw#stavo facendo zapping e ho visto questo vestito verde
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Spigolature storiche
Un giorno chiesero a Giacomo Leopardi da dove nascesse tutto quel suo pessimismo e il grande poeta rispose: "Ma quale pessimismo, guarda che magnifica giornata, il vento scivola tra i capelli e le primule sono in fiore: la vita è bella e voglio godermela in modo infinito".
Va anche detto che mezz'ora prima Silvia gli aveva dato un bacio vicino all'angolo esterno delle labbra.
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ITALIAN POEMS- LEARN ITALIAN with poetry - L'INFINITO di Giacomo Leopardi 🖋
ITALIAN POEMS- LEARN ITALIAN with poetry - L'INFINITO di Giacomo Leopardi 🖋
https://youtu.be/jXoSfOh6NT0
Leopardi definisce idilli sei delle sue poesie in endecasillabi sciolti,tutte composte tra il 1819 e il 1821, tra cui L’infinito. L’idillio leopardiano non è però la descrizione di un paesaggionaturale, come era invece nella poesia di epoca classica, ma la evocazione di particolari stati d’animo e sensazioni del poeta.In questo idillio, composto nel 1819, Leopardi prende spunto dalpaesaggio di Recanati, contemplato da un colle solitario, per raccontareun’avventura dell’anima: un viaggio fantastico nell’immensità, in cui ilpoeta si perde dolcemente.Sulla cima di una collinetta vicino a Recanati, il poeta sta seduto di fronte a una siepe, che impedisce al suo sguardo di vedere l’orizzonte. Ma proprio questo ostacolo alla vista fa scattare in lui l’immaginazione, che lo trasporta in spazi sconfinati e immensi. Il fruscio del vento tra gli alberi loriporta alla realtà, ma al tempo stesso gli ricorda il passare del tempo e gli suggerisce il pensiero dell’eternità. Ormai distaccato dalla dimensione della vita quotidiana, non senza timore il poeta si abbandona all’abbraccio dell’infinito. Il raggiungimento dell’infinito, a cui l’anima di ogni uomo aspira, porta con sé un’intensa gioia, ma anche un senso di indefinito sgomento. L'INFINITO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle1,
e questa siepe, che da tanta partedell’ultimo orizzonte il guardo esclude2.
Ma sedendo e mirando3,
interminatispazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo4;
ove per pocoil cor non si spaura5.
E come6 il vento odo stormir7 tra queste piante, io quello10
infinito silenzio a questa voce vo comparando8:
e mi sovvien l’eterno,e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei9. Così tra questaimmensità s’annega il pensier mio10:15
e il naufragar m’è dolce in questo mare11.
1 ermo colle: colle solitario [è il Monte Tabor, aRecanati].2 da tanta parte… esclude: che sottrae allo sguardo una gran parte dell’estremo orizzonte.3 mirando: guardando.4 interminati… mi fingo: oltre quella [siepe] immagino (mi fingo) nella mia mente (nel pensier) spazi infiniti (interminati), silenzi inconcepibili per l’uomo, e una pace profondissima.5 ove… si spaura: dove il mio cuore quasi si spaventa.6 come: quando.7 stormir: produrre un rumore leggero, un fruscio [di fronde e foglie agitate dal vento].8 a questa… comparando: la metto a confronto con questo suono [del vento].9 mi sovvien… di lei: mi viene in mente l’eternità, il tempo passato (le morte stagioni), e il tempo presentecon i suoi (di lei) rumori (suon).10 tra questa… il pensier mio: nell’immensità dello spazio e del tempo il mio pensiero si immerge.11 e... questo mare: e perdermi (naufragar) in questo mare [dell’infinito] è per me dolcissimo. LE TRADUZIONI DELL'INFINITOInfinity Fond I was ever of this lonely hill,And of this edge, that from my view concealsThe farthest limit of the firmament.But, sitting here and gazing, I can feign,Far and beyond it, still unbounded space,And an unearthly silence, and the deepestQuietude where my very heart is nearlyFrightened. And as this moment I perceiveThe wind around me rustling through these trees,To that unending silence soon I likenThe passing of its voice: eternityI so recall, and all the seasons dead,And with this lively stir the present one.Founders in such immensity my mind,And drowning in this sea is sweet to me. VERSIONE POETICA DI JOSEPH TUSIANI
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Leopardi è stato il filosofo più grande, altro che Nietzsche: dialogo leopardiano con Raoul Bruni
Origlio banalità. Chiunque sfiori lo Zibaldone di pensieri di Leopardi resta folgorato da quei pensieri salini, dall’intemperante sagacia di quegli appunti, che clamorosa ‘doccia fredda’, che messa in crisi di saltuari, saturi pregiudizi. Di fronte a questi pensieri, veridici non per verità – che è la verità? – ma per rischio – la sola verità è avventarsi – se ne risorge con la testa che rotea galassie: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male… non c’è altro bene che il non essere”. Leopardi non è ‘pessimista’ – comodo cingerlo nel tutù di un aggettivo – ma torchia ogni pensiero fino al limite possibile, coltiva la contraddizione, frantuma: “Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perché avendo più vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell’altre”. Leopardi è stato – con Nietzsche, con Dostoevskij – tra i filosofi inarrivabili, alieni all’accademismo, che hanno squarciato il velo dell’Ottocento portandoci nel millennio a venire. Ciò che oggi, tuttavia, è ovvio – fino a un certo lato, dacché Leopardi resta sempre il poeta dell’Infinito, sublime, ma disinnescato, la scuola fa di tutto per addomesticarne la potenza lavica – non lo era qualche decennio fa. Merito di Raoul Bruni, che insegna all’Università Cardinale Wyszyński di Varsavia, aver fatto riscoprire e ripubblicare – sia lode all’editore Aragno – due autori fondamentali nello studio del Leopardi poeta. Intanto, Giuseppe Rensi (1871-1941), filosofo, antifascista, autore dei Lineamenti di filosofia scettica e della Filosofia dell’assurdo, che già nel 1906, sul quotidiano svizzero ‘L’Azione’, scrive che “se Leopardi fosse stato unicamente filosofo e avesse dedicato la sua intelligenza all’elaborazione d’un sistema, il pensiero italiano avrebbe avuto, prima e meglio di quello germanico, Schopenhauer e Nietzsche armonizzati in una costruzione unica”. Bruni raccoglie i testi di Rensi Su Leopardi, a volte sorprendenti (La filosofia del diritto del Leopardi, ad esempio, dove si conclude che “solo la coazione, e non l’immaginario fatto che la volontà della legge sia anche la volontà dell’individuo, può riuscire a costituire la società”). D’altro canto, La filosofia di Leopardi di Adriano Tilgher (1887-1941), formidabile polemista – per Gobetti pubblicò Lo Spaccio del Bestione trionfante, il virale pamphlet contro Giovanni Gentile – elzevirista, saggista, è uno strumento da imporre ai prof, ai leopardofili, ai buoni lettori. Per temi – ‘Il Dovere’, ‘L’Amore’, ‘La Noia’, ‘La Teologia Negativa’, ‘Antistoricismo’… – infatti, Tilgher sviscera il pensiero di Leopardi, con rapacità retorica, è leggibilissimo e senza fronzoli accademici (“La noia è una passione. Anzi è la passione. La noia, si potrebbe dire parafrasando Leopardi, è la passione fondamentale della vita rimasta sola quando nessun’altra passione… occupa l’anima”). Due libri fondamentali sul pensatore fondamentale: troppo miele mi fa svanire, così, contatto Bruni. (d.b.)
Provo a fare una sintesi dei suoi lavori. Recupera l’opera di due misconosciuti – meglio, troppo poco noti – Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi, che approfondiscono un aspetto troppo poco noto di Leopardi, la potenza filosofica, per altro con genio lungimirante. Viene da dire: le piace indagare nelle oscurità, nel non convenzionale… è così?
Devo dire che mi ritrovo in questa formulazione. Sono sempre stato attratto dagli autori e dai pensatori eccentrici, confinati ai margini dei canoni accademici e scolastici; oppure, quando mi sono occupato di un grande classico come Leopardi, ho sempre cercato di approfondire versanti della sua opera ancora poco indagati. Credo che nell’ambito della cultura filosofica italiana del Novecento, specie della prima metà del secolo, ci sia ancora molto da scoprire. Giuseppe Rensi e Adriano Tilgher sono due casi esemplari: due autori semidimenticati, pressoché ignorati dai manuali di filosofia, che, invece, si leggono ancora oggi con straordinario interesse. Tanto per la limpidezza del loro stile (non contaminato dagli specialismi accademici), quanto per l’attualità e la pregnanza della loro riflessione filosofica. La loro precocissima attenzione per il Leopardi pensatore è, in questo senso, emblematica. Di solito quando si pensa alla filosofia di Leopardi si cita subito Emanuele Severino, il cui primo libro su Leopardi è del 1990, ma ci si dimentica che Rensi, fin dal 1906, riconobbe la grandezza filosofica di Leopardi, mettendolo sullo stesso piano di Schopenhauer e Nietzsche. Se, poi, si aggiunge che, nel primo Novecento, la cultura ufficiale di stampo idealistico negò all’opera di Leopardi ogni valore speculativo, la pionieristica interpretazione leopardiana di Rensi ci appare in tutta la sua luminosa originalità. Ancora meno noto di Rensi è Adriano Tilgher, di cui oggi sono disponibili pochissime opere (mi piace qui ricordare le sillogi Filosofi antichi e Filosofi moderni, pubblicate dalla raffinata casa editrice Atlantide per impulso di Simone Caltabellota). La filosofia di Leopardi di Tilgher, uscito 1940, ben sette anni prima del fortunatissimo saggio di Cesare Luporini Leopardi progressivo, è uno dei primi e dei migliori contributi organici pubblicati sul pensiero leopardiano. Chi si occupa del pensiero di Leopardi, ne può trarre ancora oggi spunti preziosi, e in ogni caso non può ignorarlo.
Che lettura ‘nuova’ danno Tilgher da una parte e Rensi dall’altra di Leopardi? E perché, poi – penso a Tilgher soprattutto – certe intuizioni, chiarificatrici, sull’opera di Leopardi non sono state prese in giusta considerazione?
Già il fatto che Rensi e Tilgher riconoscano a Leopardi un intrinseco valore filosofico rappresentò, come ricordavo, una notevole novità nel contesto culturale primo-novecentesco. La cultura idealistica non riconobbe valore filosofico a Leopardi perché considerava il suo pensiero troppo rapsodico, e dunque asistematico. Al contrario, Rensi vide nella frammentarietà dello Zibaldone un sintomo di modernità: per Rensi, Leopardi fu un grande frammentista, al pari di Nietzsche. Oggi il parallelismo Leopardi-Nietzsche è diventato quasi un luogo comune della critica, ma allora era assolutamente inedito. Un altro grande merito di Rensi risiede nel fatto che egli fu tra i primi a leggere Leopardi come filosofo politico, dedicando per esempio grande attenzione alle fondamentali riflessioni zibaldoniane sulla cosiddetta «società stretta» e sulle aporie del vivere sociale; infine occorre ricordare che Rensi definisce quella di Leopardi una «poesia di concetti», anticipando, per certi aspetti, la famosa formula del «pensiero poetante» che intitolava un importante saggio di Antonio Prete. Rispetto a Rensi (di cui condivide molti presupposti: i due, del resto, furono molto amici), Tilgher analizza l’opera leopardiana, e in particolare lo Zibaldone, in modo più organico, dedicando ai più importanti motivi della riflessione leopardiana (dal piacere alla noia, dalle illusioni alla compassione) altrettanti capitoli. Gli elementi di novità rinvenibili nella Filosofia di Leopardi sono molti: penso ad esempio al capitolo sul materialismo leopardiano, alla analisi del contrasto tra civiltà e barbarie, alle considerazioni sulla singolare “religiosità” leopardiana. Ma anche la tesi di Sergio Solmi che parlò a proposito dello Zibaldone di «pensiero in movimento» è, in certo modo, anticipata da Tilgher. Eppure, nonostante queste intuizioni, lo studio di Tilgher è stato a lungo sottovalutato dalla critica leopardiana. Le ragioni sono molteplici: innanzitutto durante gli anni in cui la linea critica di gran lunga dominante era quella di ascendenza marxista (ho già fatto riferimento al Leopardi progressivo Luporini) si vedevano con sospetto le pagine di Tilgher sull’antiprogressismo e l’antirazionalismo di Leopardi; e poi, più in generale, non si poteva perdonare a Tilgher (come del resto a Rensi) lo stile anti-accademico, poco rispettoso del bon-ton universitario.
Lo Zibaldone appare, sempre più, come il monolite filosofico più importante del pensiero italiano, con tutte le sue – modernissime – contraddizioni: è d’accordo? Verrebbe da dire che la filosofia, nello specifico italiano – penso, ovviamente, a Dante, Manzoni, Leopardi, ma anche a Montale, a Luzi – sia stimolo lirico.
Sono sicuramente d’accordo. Lo Zibaldone (di cui è stata recentemente pubblicata anche una traduzione integrale in lingua inglese) ci appare sempre di più come il documento fondamentale del pensiero italiano moderno. D’altra parte, come sappiamo, Leopardi affidò il suo pensiero anche ai versi, e i Canti sono un esempio insuperato di “poesia pensante”. Se una possibile linea filosofica della tradizione poetica italiana si può far risalire già a Dante; è soprattutto da Leopardi in poi che la grande poesia italiana (in sintonia con la lirica europea post-romantica) sarà, quasi sempre, anche una poesia filosofica. Perché il valore filosofico di Leopardi venisse pienamente riconosciuto si è dovuto aspettare moltissimo tempo; e ho l’impressione che le venature filosofiche della grande poesia italiana del Novecento siano ancora scarsamente indagate. A questo proposito bisogna ricordare che Montale fu un attento lettore di Rensi, e tracce della lettura di Rensi si possono trovare anche nei suoi versi, a cominciare dagli Ossi di seppia (ai poeti citati aggiungerei almeno il nome di Caproni, anche lui lettore di Rensi). Insomma, credo che sul pensiero della poesia italiana del Novecento ci sia ancora molto da scrivere.
Qual è a suo avviso l’aspetto necessario, più cocente della ‘filosofia’ di Leopardi (posto che si possa dir così)?
Difficile indicare un solo aspetto di un pensiero che, nello Zibaldone, tocca con ambizione enciclopedica una miriade di temi. Posso però dire che nessun autore moderno come Leopardi ci aiuta a comprendere il mondo contemporaneo in tutti i suoi aspetti. E credo che anche per comprendere il futuro che si sta preparando non si potrà prescindere da Leopardi.
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Lezioni notturne sul Leopardi
Idilli
Il passero solitario : visione dall'alto del passero malinconico (non animale felice come nell'elogio agli uccelli)come il poeta che é lontano dalla società. Distinzione tra vita attiva del poeta e vita passiva della gente.
L'infinito: visione dall'alto del poeta che si immagina infiniti spazi perché la siepe gli esclude la realtà. Teoria del vago e indefinito per cui non crediamo di sentire l'infinito, ma senza mai esserne sazi perché a non esploriamo mai un piacere solo ma molti, questa tensione ci fa comprendere che potremmo raggiungere l'infinito ma non é così in quanto siamo materia , sentimento di pentimento. Teoria del piacere per cui é infinito in numero estensione e durata, tendenza all'infinito.
La sera del di di festa: Leopardi riflette sulla sua infelicità a cui una donna é indifferente e riflette sul trascorrere del tempo veloce e fuggevole.Ci si prepara da bambini al giorno di festa e poi terminato il di, si ha la delusione perché non é stato come si sperava, ci ha deluso, e non perché é passato.
Alla luna: domina il tema della rimembranza, il poeta ricorda guardando la luna, di quella sera in cui la vide sfocata dal pianto, la sua condizione non é cambiata e la luna ne resta indifferente. La speranza dei giovani ha un lungo cammino e quella degli anziani no per esperienza. É importante il ricordo anche delle cose dolorose e brutte perché dal dolore nasce la poesia.
Il sogno: due amanti che non possono comunicare perché la morte li divide, così si nota come l'amore, valore aspaziale e temporale, cozza con la materia del qui e ora. L'amore é eterno come lo é la morte.
#lezioni notturne sul leopardi#leopardi#idilli#sogno#infinito#sera del di di festa#il passero solitario#alla luna
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L’INFINITO, GIACOMO LEOPARDI
Una delle poesie più conosciute di sempre, dove il poeta mette a confronto la condizione finita dell’uomo con l’universo infinito.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.
TANTO GENTILE E TANTO ONESTA PARE, DANTE ALIGHIERI
Una, se non la, lirica d’amore per eccellenza.
Tanto gentil e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta, ch’ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d’umilta’ vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi si’ piacente a chi la mira, che da’ per li occhi una dolcezza al core, che ‘ntender non la puo’ chi no la prova;
e par che de la sua labbia si mova uno spirito soave pien d’amore, che va dicendo a l’anima: Sospira.
SOLDATI, GIUSEPPE UNGARETTI
Poche parole per esprimere la guerra: la condizione dei soldati, che attendono di sapere se il nuovo giorno porterà vita o morte..
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie
A ZACINTO, UGO FOSCOLO
Nostalgia per la patria perduta e parallelo tra il mondo contemporaneo e la classicità.
Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura.
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SE QUESTO E’ UN UOMO, PRIMO LEVI
Versi da ricordare in occasione della Giornata Mondiale della Poesia. La tragedia dell’olocausto messa in versi. Per non dimenticare mai.
Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo, Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi: Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il viso da voi.
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LA PIOGGIA NEL PINETO, GABRIELE D’ANNUNZIO
Un acquazzone offre al poeta lo spunto per rivolgersi alla sua musa, Ermione. Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. […]
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IL CINQUE MAGGIO, ALESSANDRO MANZONI
Versi da ricordare in occasione della Giornata Mondiale della Poesia. La poesia eroica e storica per eccellenza, incentrata sul personaggio eccezionale che è stato Napoleone Bonaparte.
Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita la terra al nunzio sta, muta pensando all’ultima ora dell’uom fatale; né sa quando una simile orma di pie’ mortale la sua cruenta polvere a calpestar verrà. […]
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SAN MARTINO, GIOSUE’ CARDUCCI
Versi da ricordare in occasione della Giornata Mondiale della Poesia. Una poesia che parla di cose quotidiane e conosciute, di odori e rumori familiari.
La nebbia agli irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini va l’aspro odor dei vini l’anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi lo spiedo scoppiettando: sta il cacciator fischiando su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespero migrar.
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X AGOSTO, GIOVANNI PASCOLI
La morte accomuna il destino di animali e uomini. E il cielo d’agosto piange con il poeta la morte del padre.
San Lorenzo , io lo so perché tanto di stelle per l’aria tranquilla arde e cade, perché si gran pianto nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto : l’uccisero: cadde tra i spini; ella aveva nel becco un insetto: la cena dei suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende quel verme a quel cielo lontano; e il suo nido è nell’ombra, che attende, che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido: l’uccisero: disse: Perdono ; e restò negli aperti occhi un grido: portava due bambole in dono.
Ora là, nella casa romita, lo aspettano, aspettano in vano: egli immobile, attonito, addita le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male!
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Come è nato l’Infinito, la poesia più famosa della nostra letteratura? se ne discute a Napoli
#ILMONITO
Seminario internazionale alla Biblioteca Nazionale di Napoli, venerdì 25 ottobre 2019 , ore 15.30.
Come è nato l’Infinito, la poesia più famosa della nostra letteratura?E’ stato scritto di getto, o è stato composto con un lavoro di paziente labor limae, alla ricerca della perfezione nella scrittura? Nell’anno in cui si celebra il bicentenario se ne discute in un seminario internazionale alla Biblioteca Nazionale di Napoli, venerdì 25 ottobre 2019 , ore 15.30, con MARCO CURSI (Università di Napoli Federico II), NICOLA FEO (Università di Pisa), CHRISTIAN GENETELLI (Università di Friburgo), PAOLA ITALIA (Università di Bologna), GIORGIO PANIZZA (Università di Pavia), EMILIO RUSSO (Università di Roma, La Sapienza) e SOFIA CANZONA(Università di Pisa) , Saluti del Direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli FRANCESCO MERCURIO, Modera FRANCO D’INTINO.
Il seminario è in collaborazione con la Biblioteca Nazionale di Napoli che custodisce l’autografo del 1819 [esposto per l’occasione] insieme al vasto patrimonio di carte leopardiane. Lo studio esamina per la prima volta il laboratorio creativo di Giacomo Leopardi attraverso l’analisi minuziosa del testo autografo partendo dalla pagina di quaderno su cui il poeta scrisse i celebri versi, esaminando il susseguirsi delle correzioni, ricomponendo le varie fasi del processo creativo per illustrare passo dopo passo, variante dopo variante, come nasce un capolavoro, qual è il “metodo” da cui scaturisce una straordinaria macchina di un “pensiero poetante”, che, a due secoli dalla nascita, non smette ancora di stupire.
BICENTENARIO dell’ INFINITO Seminario Internazionale di Studi Programma GIORGIO PANIZZA – Leopardi 1819, e oltre MARCO CURSI – Un quaderno a righe NICOLA FEO – L'”Infinito” tra sensi e immaginazione PAOLA ITALIA – L'”Infinito” al microscopio CHRISTIAN GENETELLI – Il commercio epistolare nella stagione dell'”Infinito” EMILIO RUSSO E SOFIA CANZONA – Tracce di infinito nei “Frammenti” Saluti del Direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli FRANCESCO MERCURIO Modera FRANCO D’INTINO
L’Infinito fu scritto da Giacomo Leopardi si ritiene sia stato scritto nel 1819, l’autografo è ora conservato a Napoli insieme al vasto patrimonio di carte leopardiane alla Biblioteca Nazionale, guardalo on line. Clicca qui
L'articolo Come è nato l’Infinito, la poesia più famosa della nostra letteratura? se ne discute a Napoli di Redazione
source http://www.ilmonito.it/come-e-nato-linfinito-la-poesia-piu-famosa-della-nostra-letteratura-se-ne-discute-a-napoli/
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L’infinito è il nuovo album di Vecchioni. Roberto Vecchioni con l’uscita del nuovo album ha fatto una scelta coraggiosa, ovvero quella di pubblicare il progetto solo su cd e vinile. Scommessa vinta, con la certificazione oro di qualche giorno fa, tuttavia bisogna costatare il fatto che la scelta è coerente con l’idea di poetica che Vecchioni vuole trasmettere attraverso la musica. Oltre a questa novità, “L’infinito” si presenta al pubblico con un duetto non da poco, un duetto con Francesco Guccini che torna a cantare dopo tanti anni. L’album è la rappresentazione della coerenza del prof. Vecchioni: “L’infinito” è un album in stile Vecchioni. Quasi un salto nel passato. “L’infinito” è la canzone che da il titolo all’album; questa canzone ha qualcosa di speciale, è un immedesimazione di Leopardi, un amore tradito per la vita. La canzone è ambientata a Napoli, la città degli ultimi anni di vita di Leopardi. Tutti conosciamo l’immagine pessimista di Leopardi e il significato di una delle sue poesie più importanti “L’infinito”(si spera), ma il poeta paradossalmente afferma “forse l’infinito non è aldilà è al di qua della siepe”. L’infinito è dentro di noi. Nelle canzoni “Giulio” e “Cappuccio rosso” vi sono altre due immedesimazioni, tutti e due le persone sono vittime di odio, ma nonostante ciò si nota l’ottimismo del cantautore “Vai ragazzo”, invece, è un inno alla vita, dove si può trovare nelle passioni il proprio senso di vita. “Ti insegnerò a volare (ALEX)” è una canzone ispirata da ALEX ZANARDI e, inoltre, è la canzone con il ritorno di Guccini. La più “radiofonica” dell’album, ma comunque di altissimo livello. In “ogni canzone d’amore” la musica abbraccia la poesia. Mi limito a riportare qualche verso “stringimi stringimi ora perché ho seri dubbi di essere eterno”. L’album ha, inoltre, una canzone autobiografica:”com’è lunga la notte”. La canzone vanta il prezioso contributo di Morgan. l’album è musica, rappresenta lo scopo della musica, lo scopo della poesia. Grazie Roberto Vecchioni, professore di vita Valutazione finale 8,5 Canzone migliore: L’infinito, ogni canzone d’amore @vecchioniofficial @gucciniofficial @morganofficial #leopardi #infinito #song https://www.instagram.com/p/Bs3ewtVDvUo/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=ylkjgbatwrt3
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RECANATI – Il FAI – Fondo Ambiente Italiano, dopo due mesi di isolamento, riapre i suoi Beni su tutto il territorio nazionale e inaugura una nuova fase, per guardare con fiducia al futuro del Paese ed esaudire la voglia di Italia degli Italiani, ansiosi di ritrovare e riscoprire il proprio patrimonio di arte, natura e bellezza.
Da domani, venerdì 22 maggio 2020 la maggior parte dei Beni storici, artistici e paesaggistici della Fondazione saranno nuovamente aperti al pubblico, che potrà usufruire di visite libere o guidate esclusivamente su prenotazione, al fine di garantire la massima sicurezza per tutti.
Nelle Marche, riapre le porte l’Orto sul Colle dell’Infinito, l’ultimo Bene inaugurato dal FAI alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, affidato alla Fondazione a seguito dell’accordo firmato tra il Comune di Recanati, il FAI, il Centro Nazionale di Studi Leopardiani e il Centro Mondiale della Poesia e della Cultura ‘Giacomo Leopardi’ per la valorizzazione culturale e la gestione di una parte degli spazi del Centro Nazionale di Studi Leopardiani e di quella porzione del Colle conosciuta come Orto delle Monache.
A pochi passi dalla casa natale di Giacomo Leopardi, si potrà nuovamente visitare l’orto-giardino in cima al famoso “ermo colle” in cui fu ambientato L’infinito del poeta. Un tempo orto concluso del vicino monastero, curato per secoli dalle monache, questo è ancora oggi un luogo semplice di quiete, punteggiato di cipressi e alberi da frutto, con ortaggi, fiori e qualche filare di vite, restituito alla sua storica natura grazie a un progetto donato al FAI dall’architetto Paolo Pejrone e realizzato assieme al Comune di Recanati.
Da mercoledì a domenica dalle ore 10.30 alle 19 sarà possibile prenotare la propria visita libera all’Orto per assaporare l’atmosfera e il silenzio immerso nella natura che furono di ispirazione per una delle più grandi liriche della nostra letteratura, e grazie al percorso di valorizzazione vivere l’esperienza unica di una visita dentro una poesia.
Per scoprire caratteristiche, segreti e curiosità dell’Orto sul Colle dell’Infinito e del territorio in cui si trova verrà offerta una preziosa opportunità: con la ricevuta di acquisto del biglietto i visitatori riceveranno via mail l’accesso ad un sito web dedicato ai contenuti di accompagnamento alla visita. Potranno così consultare già da casa, oppure durante la visita e lungo il percorso (anche tramite QR code in biglietteria), tanti e diversi materiali di introduzione, spiegazione e approfondimento: dalle schede descrittive di luoghi e oggetti, a vere e proprie visite guidate con guide d’eccezione, da ascoltare in podcast (ricordarsi gli auricolari!); da brevi racconti video a suggerimenti di itinerari a piedi o in bici nei dintorni del Bene FAI, per prolungare la visita e magari organizzare un’intera giornata all’aria aperta.
Per consentire al pubblico di visitare i Beni nella massima sicurezza, il FAI si è preoccupato di garantire il pieno rispetto dei principi definiti dal Governo a partire dal mantenimento della distanza sociale. In tutti i Beni la visita sarà contingentata per numero di visitatori e, ove possibile, organizzata a “senso unico” per evitare eventuali incroci. Le stanze più piccole e quelle che non permettono un percorso circolare saranno visibili solo affacciandosi; le porte saranno tenute aperte onde ridurre le superfici di contatto. Sarà d’obbligo indossare la mascherina per tutta la durata della visita. Saranno inoltre a disposizione dispenser con gel igienizzante sia in biglietteria che nei punti critici lungo il percorso.
Il giorno precedente la visita, i partecipanti riceveranno una mail con le indicazioni sulle modalità di accesso e un link da cui scaricare i materiali di supporto, che non saranno più distribuiti in formato cartaceo. In alternativa, i materiali saranno accessibili su supporti digitali grazie a un QR Code scaricabile direttamente in biglietteria. L’accesso alla biglietteria, al bookshop e ai locali di servizio sarà permesso a un visitatore o a un nucleo famigliare alla volta; nei negozi FAI i clienti dovranno indossare, oltre alla mascherina, anche i guanti. Si invita inoltre a effettuare gli acquisti con carte di credito e bancomat, per ridurre lo scambio di carta tra personale e visitatori.
Tutte le postazioni di lavoro e le aree comuni saranno sottoposte a igienizzazione costante e proporzionata all’utilizzo. Sarà garantito un adeguato ricambio di aria nei locali tramite ventilazione naturale o grazie a impianti regolarmente sanificati.
Giorni e orari di apertura:
A partire da venerdì 22 maggio 2020, apertura al pubblico da mercoledì a domenica dalle ore 10.30 alle 19.
Visite:
Solo su prenotazione, per una durata complessiva di un’ora e trenta minuti; all’ingresso sarà accettata la presentazione del voucher sul dispositivo elettronico. L’accesso alla biglietteria sarà consentito a una persona (o famiglia) alla volta; si prega di rispettare la fila mantenendo le distanze di sicurezza di almeno 1,5 metri. L’accesso è vietato a chi abbia una temperatura corporea superiore a 37.5°.
Biglietto di ingresso per visita libera all’Orto e al percorso di valorizzazione:
Intero € 8; Ridotto (6-18 anni) € 3; studenti fino a 25 anni € 5; Famiglia (2 adulti + 2 bambini) € 19; iscritti FAI gratuito; disabili gratuito; per i Residenti del Comune di Recanati gratuito il mercoledì; ridotto per gruppi sopra le 20 persone € 5; Soci National Trust, Soci Bienfaiteurs Amis du Louvre, persone con disabilità con un accompagnatore gratuito.
Per prenotazioni e informazioni:
La prenotazione online è obbligatoria; per effettuarla accedere al sito www.ibenidelfai.it
Per ulteriori informazioni: www.fondoambiente.it; [email protected]; tel. 0714604521
Con il sostegno di Regione Marche.
La riapertura e il calendario “Eventi nei Beni del FAI 2020” sono resi possibili grazie al fondamentale sostegno di Ferrarelle, partner degli eventi istituzionali e acqua ufficiale del FAI, al prezioso contributo di NESPRESSO, nuovo importante sostenitore del progetto, e di PIRELLI che conferma per l’ottavo anno consecutivo la sua storica vicinanza alla Fondazione. Grazie a Golia Herbs che rinnova nel 2020 il suo sostegno al FAI.
Foto Dario Fusaro
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VILLE VESUVIANE: 29 e 30 giugno a VILLA DELLE GINESTRE si festeggia LEOPARDI
VILLE VESUVIANE: 29 e 30 giugno a VILLA DELLE GINESTRE si festeggia LEOPARDI
Letteratura, musica e gastronomia… poetica
Sabato 29 e domenica 30 giugno
La XIV edizione delle “Celebrazioni Leopardiane”
della Fondazione Ente Ville Vesuviane
alla Villa delle Ginestre di Torre del Greco dove visse il poeta
Dai 200 anni dell’Infinito con Davide Rondoni
alla “Napoli in jazz” con Marina Bruno e Javier Girotto
Visite guidate al sito e incontri-degustazione sulle ricette preferite…
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Recanati, L’Infinito di Leopardi emoziona 26mila visitatori
Recanati, L’Infinito di Leopardi emoziona 26mila visitatori
RECANATI – Un’emozione senza confini. Si è conclusa il primo ciclo di mostre che fanno parte di “Infinito Leopardi”, il grande evento lungo un anno per celebrare i duecento anni dalla stesura della poesia più bella del poeta recanatese. La prima parte delle celebrazioni, dal 21 dicembre fino al 19 maggio, ha visto la realizzazione di due sezioni espositive: quella a cura di Laura Melosi, dal…
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Arrivato alla nona edizione, il festival del Sacro Monte di Varese Tra sacro e Sacro Monte continua, grazie all’arciprete don Erminio Villa e il direttore artistico Andrea Chiodi, regista varesino che collabora con il Lac di Lugano e il Piccolo di Milano, con il patrocinio della Fondazione Paolo VI, a raccontare la spiritualità in un luogo speciale, usando il teatro.
Ma il festival non ospita solo i migliori spettacoli a tema di oggi, anzi invita alcuni attori, non solo cattolici, a riflettere su un’idea, nel suggestivo contesto dell’anfiteatro naturale della terrazza del Mosé, con la sua splendida vista su tutta la valle padana e il corollario delle Alpi.
Il tema di questa edizione è la poesia, partendo dal bicentenario di uno dei più celebri componimenti italiani, L’infinito di Giacomo Leopardi, che sarà recitato da Gabriele Lavia, in Lavia dice Leopardi. Infinito lo spettacolo che aprirà il festival nella serata di giovedì 5 luglio.
Nel corso della serata Lavia reciterà anche altre poesie di Leopardi, tra le più note del poeta di Recanati, come A Silvia a Il passero solitario, dal Canto notturno di un pastore errante a La sera del dì di festa, che il grande attore ha imparato a memoria da ragazzo.
Gli altri spettacoli del festival, previsti presso la terrazza del Mosé, vedono in cartellone il 12 luglio Laura Marinoni dice Testori. Passio, crocifissione con la compagnia Proxima Res di Francesca Porrini, originaria di Besozzo, e Tindaro Granata, tra gli attori più interessanti del panorama teatrale italiano contemporaneo, il 19 luglio arriverà invee Federica Fracassi, nota per aver interpretato la giornalista del La Prealpina nel Capitale umano di Paolo Virzì con Dice Ada Negri. Divini fanciulli e il prossimo 26 luglio, sarà la volta di Massimo Popolizio che proporrà Dice da Michelangelo a Fabrizio De André. La parola rivoluzionaria.
A corollario degli spettacoli, tornerà la compagnia varesina di Karakorum Teatro, diretta da Stefano Beghi, con una serie di performance itineranti nello splendido borgo, patrimonio dell’Unesco, alla scoperta delle antiche storie del Sacro Monte, previste per domenica 8, 15 e 22 luglio alle 18, con le prenotazione obbligatoria sul sito www.karakorumteatro.it
Ci saranno anche gli incontri con poeti contemporanei alla Location Camponovo, con il 10 luglio Davide Rondoni e il 24 luglio Roberto Mussapi, mentre il 18 luglio al Museo Pogliaghi è previsto il San Francesco Live di Roberto Roversi con Oscar De Summa, che fa parte del progetto milanese Stanze, un modo di far teatro in spazi piccoli e alternativi, da prenotare telefonando al numero 3288377206, al costo di 5 euro.
Tra sacro e Sacro Monte
Dal 5 al 26 luglio al Sacro Monte di Varese, terrazza del Mosé, per un massimo 335 persone nell’anfiteatro e la proiezione video in diretta nella piazzetta davanti al Santuario, spettacoli gratuiti, funicolare aperta, navette del Comune dal piazzale dello Stadio, navetta Morandi Tour da piazza Monte Grappa alle 19.30 e stadio “Franco Ossola” alle 19.35, con accesso assicurato alla terrazza.
Tra sacro e Sacro Monte 2018 Arrivato alla nona edizione, il festival del Sacro Monte di Varese Tra sacro e Sacro Monte…
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“E quindi uscimmo a riveder le stelle”
Tra i versi passati alla memoria collettiva, c’è l’ explicit dell’Inferno: «e quindi uscimmo a riveder le stelle» ( è appena il caso di rammentare che una delle più importanti simmetrie testuali della Divina Commedia è la scelta di chiudere ognuna delle tre cantiche con il medesimo lemma, «stelle». Questo espediente strutturale serve – secondo Gianfranco Contini – a garantire la perifericità rispetto all’aiuola che si calpesta ). Dopo essersi inabissato nella fossa delle Marianne della nostra umanità ed aver raccontato le turpitudini più inumane, il poeta si lascia alle spalle la profonda notte infernale e si prepara a scalare la montagna della speranza e della redenzione.
Il “riveder le stelle” nella letteratura
Quando era ragazzo, uno dei passatempi preferiti di Giacomo Leopardi era sedersi e alzare gli occhi al cielo: contare le stelle, numerarle ad una ad una. Nei suoi dialoghi monologanti con gli astri, il poeta rivolgeva ai suoi muti interlocutori tutti gli interrogativi intorno al senso del nascere e del morire. L’eco della nostra umanità finiva così per smarrirsi nella vastità infinita delle costellazioni, indifferenti, nel loro remoto baluginare, al doloroso gioco di esistere. Qualche tempo dopo, Giovanni Pascoli – in una delle sue poesie più famose – aprirà allo sguardo dei lettori un cielo che inonda di un pianto di stellequest’atomo opaco del male che è il nostro mondo, già descritto dal poeta di Recanati come un oscuro granel di sabbia / il qual di terra ha nome.
L’emozione
Credo che sia Leopardi sia Pascoli avessero a lungo meditato su quell’endecasillabo della Commedia di Dante ( Paradiso, c. XXII, v. 151 ) che raccoglie l’emozione del turista dell’oltretomba nel momento in cui osserva la terra da una sconfinata lontananza ed essa gli appare come l’aiuola che ci fa tanto feroci.
Noi uomini siamo stipati in questa nave azzurra sospesa nello spazio, una favilla nell’immenso incendio galattico, e trascorriamo l’esistenza – sempre secondo Leopardi – a infelicitarci e distruggerci scambievolmente, ignari che il nostro transito esistenziale è un frego effimero sulla lavagna della storia dell’Universo: una traccia che la spugna del tempo cancella.
Nascita e morte
Nascita e morte: verità veloce. Come aveva scritto Elsa Morante, «tutte le vite hanno la medesima fine». La creaturalità dell’esistenza ci accomuna e ci affraterna a tutte le altre specie viventi. Il sole – diceva il poeta latino Catullo – muore e rinasce, ma per quanto riguarda gli uomini la prospettiva è un’altra: «cum semel occidit brevis lux / nox est perpetua una dormienda» ( quando il sole della vita è tramontato, dovremo dormire una notte lunghissima ). Le Confessioni di S. Agostino si aprono con una riflessione sull’uomo, che ovunque vada porta con se il peso della propria morte ( homo circumferens mortalitatem suam ) .
Il dono dell’esistenza
Quel poeta agostiniano che è Giuseppe Ungaretti pone a sé stesso la seguente domanda: Volti al travaglio come una qualsiasi fibra creata / perché ci lamentiamo noi? L’esistenza è un dono doloroso e Il compito dell’arte è quello di medicare questa ferita creaturale. La Morte – scrive il poeta statunitense Wallace Stevens – è la madre della bellezza. È un verso che va interiorizzato: ci insegna che proprio dalla consapevolezza della nostra fragilità e precarietà noi uomini ereditiamo la spinta a vivere, ad amare e a raccogliere la bellezza intrisa di amarezza che circonda le cose. Possiamo pensare all’arte come a una contro – creazione finalizzata a riparare l’esistenza: una reparatio hominis ac mundi.
Rinnovare l’umanità dell’uomo
Il compito che Dante si propone nella Commedia è quello di rinnovare l’umanità dell’uomo. I cento canti del suo poema sacro sono tante stazioni testuali che scandiscono un viaggio di salvezza orientato a recuperare quel bene di esistere che il peccato assedia. Il suo – come ci ha suggerito Ezra Pound – è un viaggio negli stati della mente. Possiamo definire la Commedia uno specchio poetico del cosmo, un dono di parole a scartamento infinito destinato all’umanità intera. I versi «e quindi uscimmo a riveder le stelle» ne sono l’emblema.
Ma che cosa ha rappresentato il libro nella vita del poeta? Esiliato, povero, costretto a vivere ai margini della generosità altrui ( il suo primo biografo, Giovanni Boccaccio, ci racconta che egli con fatica disusata doveva il sostentamento di sé medesimo procacciare ) il suo capolavoro fu una sorta di anti-destino, nella misura in cui egli riuscì a rovesciare la sua sconfitta esistenziale nel più grande trionfo poetico della storia.
E quindi uscimmo a riveder le stelle
Il firmamento che Dante ritrova è quello che permette ai marinai di orientare la rotta della navigazione, impedendo loro di smarrirsi nel grande mare dell’essere. Il significato del verso «e quindi uscimmo a riveder le stelle» sta proprio qui. Nei momenti di sconforto, tutti accarezziamo questo verso come un talismano. Nella speranza di poter superare quegli ostacoli esistenziali che ci impediscono di proseguire il nostro itinerario nei giorni e negli anni. Lo stesso capitò a Dante personaggio quando – all’inizio dell’Inferno – tre fiere gli sbarrarono la strada facendolo arretrare. Sempre più lontano da quel colle luminoso e alto che rappresentava la liberazione dal male. Nel De vulgari eloquentia il poeta aveva scritto che proprio grazie alla dolcezza della poesia era riuscito a gettarsi alle spalle ( « postergamus » ) l’esilio.
La Divina Commedia
Diceva Pessoa che «la letteratura, come tutta l’arte, è la prova che la vita non basta.» La Divina Commedia è una contro – creazione che vuole riparare gli uomini e ricucire quella ferita di esistere aperta dentro di loro. Nel firmamento della poesia universale, l’astro di Dante è il più luminoso, quello che più rifulge nella solitudine e nel buio che circonda la vita, quello che meglio potrebbe orientare la nostra navigazione nell’oceano dell’esistenza. Voglio chiudere con una breve lirica di Sandro Penna: ognuno è solo, ma con vario cuore / riguarda sempre le solite stelle.
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Le poesie più belle dedicate alla Luna
Alla luna, Giacomo Leopardi
O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l’anno, sovra questo colle Io venia pien d’angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, nè cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l’etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l’affanno duri!
Canto alla luna, Alda Merini
La luna geme sui fondali del mare, o Dio morta paura di queste siepi terrene, o quanti sguardi attoniti che salgono dal buio a ghermirti nell’anima ferita. La luna grava su tutto il nostro io e anche quando sei prossima alla fine senti odore di luna sempre sui cespugli martoriati dai mantici dalle parodie del destino. Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo, ma forse al chiaro di luna mi fermerò il tuo momento quanto basti per darti un unico bacio d’amore.
Romanza della Luna, Federico Garcia Lorca
La luna venne alla fucina col suo sellino di nardi. Il bambino la guarda, guarda. Il bambino la sta guardando.
Nell’aria commossa la luna muove le sue braccia e mostra, lubrica e pura, i suoi seni di stagno duro.
Fuggi luna, luna, luna. Se venissero i gitani farebbero col tuo cuore collane e bianchi anelli.
Bambino, lasciami ballare. Quando verranno i gitani, ti troveranno nell’incudine con gli occhietti chiusi.
Fuggi, luna, luna, luna che già sento i loro cavalli. Bambino lasciami, non calpestare il mio biancore inamidato.
Il cavaliere s’avvicina suonando il tamburo del piano. nella fucina il bambino ha gli occhi chiusi.
Per l’uliveto venivano, bronzo e sogno, i gitani. le teste alzate e gli occhi socchiusi.
Come canta il gufo, ah, come canta sull’albero! Nel cielo va luna con un bimbo per mano.
Nella fucina piangono, gridano, i gitani. Il vento la veglia, veglia. Il vento la sta vegliando.
Tristezza della luna, Charles Baudelaire
Questa sera la luna sogna più? languidamente; come una bella donna che su tanti cuscini con mano distratta e leggera prima d’addormirsi carezza il contorno dei seni, e sul dorso lucido di molli valanghe morente, si abbandona a lunghi smarrimenti, girando gli occhi sulle visioni bianche che salgono nell’azzurro come fiori in boccio. Quando, nel suo languore ozioso, ella lascia cadere su questa terra una lagrima furtiva, un pio poeta, odiatore del sonno, accoglie nel cavo della mano questa pallida lagrima dai riflessi iridati come un frammento d’opale, e la nasconde nel suo cuore agli sguardi del sole.
O falce di luna calante, Gabriele d’Annunzio
O falce di luna calante che brilli su l’acque deserte, o falce d’argento, qual mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù! Aneliti brevi di foglie, sospiri di fiori dal bosco esalano al mare: non canto non grido non suono pe ’l vasto silenzio va. Oppresso d’amor, di piacere, il popol de’ vivi s’addorme… O falce calante, qual mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, Giacomo Leopardi
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L’ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s’affretta, Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, Ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale E’ la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell’umano stato: Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perchè dare al sole, Perchè reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, Perchè da noi si dura? Intatta luna, tale E’ lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi Il perchè delle cose, e vedi il frutto Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l’ardore, e che procacci Il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand’io ti miro Star così muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito Seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell’innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa, Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell’esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perchè d’affanno Quasi libera vai; Ch’ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perchè giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perchè giacendo A bell’agio, ozioso, S’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, E’ funesto a chi nasce il dì natale.
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Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Immedesimandosi nella vita di un pastore girovago sugli altopiani asiatici, Giacomo Leopardi avvia nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829) un lungo struggente dialogo con la Luna. Al nostro satellite il poeta dischiude le domande più profonde sul senso dell’esistenza, con drammatica semplicità.
Le poesie più belle dedicate alla Luna
A partire dall’interrogazione iniziale, ‘Che fai tu, luna, in ciel?‘, Leopardi inizia un confronto tra la condizione umana, assediata da innumerevoli dolori, sofferenze, noia – per poi giungere a cosa? All’abisso orrido immenso, la morte, che tutto oblia – a quella della Luna, sempiterna peregrina, superiore agli affanni mortali.
Anche la Luna in fondo, ragiona Leopardi, partecipa dello stesso struggimento del poeta: anche il suo girovagare sembra essere privo di senso, così come quello delle stelle del firmamento, e di tutti gli esseri viventi. ‘A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito Seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?’
Una poesia capace di interrogare nel profondo sullo scopo della vita, sul senso di inadeguatezza di tutte le “cose mortali” rispetto a quello che desideriamo. Da leggere e rileggere, uno dei più grandi capolavori della poesia italiana.
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L’ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s’affretta, Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, Ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale E’ la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell’umano stato: Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, Perché reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, Perché da noi si dura? Intatta luna, tale E’ lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi Il perché delle cose, e vedi il frutto Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l’ardore, e che procacci Il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand’io ti miro Star così muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito Seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell’innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa, Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell’esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno Quasi libera vai; Ch’ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell’agio, ozioso, S’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, E’ funesto a chi nasce il dì natale.
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“La parola non salva, talvolta sogna”. Yves Bonnefoy, il poeta dentro il miracolo. Dialogo con Fabio Scotto, il suo traduttore
A casa del suo traduttore, Fabio Scotto, Yves Bonnefoy voleva sedersi alla sua scrivania, nel suo studio. Osservare ciò che lui vedeva dalla finestra. Immergersi nel suo punto di vista. Occupare quella stessa sedia su cui lui lavorava, dove traduceva, in italiano, la sua opera francese. Forse perché attraversare il corpo poetico e restituirlo in un’altra lingua è anzitutto un atto d’amore, carnale e spirituale. Forse perché nelle sedie, sulle poltrone che abbracciano le nostre tenere carni resta una traccia, l’impronta di noi. Come l’urna aderisce alle polveri, come una tomba accoglie il suo corpo. Come la poltrona, dello studio parigino dove Bonnefoy ha invitato a sedersi Fabio Scotto. Era la stessa su cui, decenni prima, si era seduto il grande poeta Paul Celan. Ricordarsi di chi abbiamo incontrato, in vita, a casa nostra, significa ricordarsi di chi non c’è più. Fare esercizio di memoria per disegnare, nel bosco, i sentieri scomparsi. Proprio come immaginare quella lettera nell’alfabeto greco, che è andata perduta, di cui si è persa ogni traccia. Il digamma che è anche l’ultima opera (Studio Editoriale), di Yves Bonnefoy, tra i più grandi poeti francesi di tutti i tempi, nato a Tours nel 1923 e scomparso quattro anni fa, a Parigi.
Grazie al poeta varesino Scotto – che in diciassette anni ha tradotto quindici suoi libri e ha curato e tradotto l’edizione critica integrale mondiale de L’opera poetica, per “I Meridiani” Mondadori (2010), amico e traduttore di Bonnefoy – possiamo leggere le sue grandi poesie in italiano. Il suo studio parigino a Montmatre in rue Lepic – rivela Scotto nella sua opera Il senso del suono (Donzelli, 2013) – come quello di Pascoli a Castelvecchio, aveva più scrivanie sulle quali amava “disporre i suoi attrezzi tecnici (dizionari, edizioni critiche) e bibliografici”, le porte delle piccole stanze comunicanti, attraverso cui potesse circolare la stessa aria “che da un verso di Shakespeare si deposita poi su un manoscritto poetico, o sulle pagine di un saggio. Questa stessa aria familiare e amica su ogni pagina di ogni scrittoio, della biblioteca nel suo obrador, quel soffio di vita in continuo dialogo da un libro all’altro, da un secolo all’altro”.
Chi era Bonnefoy?
“Yves Bonnefoy – mi risponde Scotto – è stato il maggior poeta e intellettuale francese degli ultimi cinquant’anni, allievo di Jean Whal, di Gaston Bachelard e di André Chastel; poeta, saggista, traduttore, critico e professore emerito di “Studi Comparati della funzione poetica” al Collège de France. Una persona semplice, spontanea, umanamente ricca e generosa, innamorata della vita e dell’Italia e sensibile agli altri”.
Come definire la sua poetica?
“È una poetica molto tributaria della varietà dei suoi studi – si laureò infatti in matematica, poi in filosofia e in lettere – e che cerca una conciliazione fra la poesia, la filosofia e l’arte. La poesia, condannata a servirsi del linguaggio, quindi dei concetti, è destinata a lottare contro se stessa per ripristinare l’immediatezza sensibile che è la presenza, l’eloquenza che hanno le cose nel loro semplice essere-qui nell’hic et nunc del luogo umano. Tutta l’opera di Bonnefoy sviluppa un pensiero poetico che irradia questo impulso riconducibile al motto di speranza e desiderio seguente: il desiderio che vi sia dell’essere”.
Quando l’hai incontrato per la prima volta?
“Nel 1999, in un ristorante cinese sotto casa sua, a Parigi, un’estate, dopo che ci scrivevamo già da un anno e più e che era uscito il suo primo volume di poesie a mia cura, La vita errante (Edizioni del Bradipo). Fu subito una sintonia profonda e quel primo appuntamento occasionale divenne una meta fissa e un rito irrinunciabile di ogni mio soggiorno parigino, spesso preceduto da un aperitivo in casa sua nel secondo pomeriggio”.
C’è un particolare momento da ricordare dei vostri incontri?
“Ne ricordo quattro: la prima volta nel suo studio, quando mi disse che la poltrona su cui sedevo era la stessa sulla quale, decenni prima, si era seduto Paul Celan; poi una visita io e lui soli al Battistero di Parma, in cui mi spiegò il segreto dell’angolazione del punto di vista per cogliere l’opera della luce naturale sugli affreschi e le superfici scolpite. Infine, quando venne a Varese per una nostra lettura, mi rese visita a casa e volle sedersi sulla sedia del mio studio sulla quale lo traducevo, vedere cosa vedevo dalla finestra; e, certo, l’ultimo incontro all’Hôpital Cochin, quelle ultime ore passate stringendogli la mano ad ascoltare la sua voce flebile, ma lucidissima”.
Qual è stato il rapporto di Bonnefoy con i grandi poeti della tradizione?
“Un rapporto di ammirazione e confronto, specie con Baudelaire, Rimbaud, Pierre Jean Jouve, Shakespeare, Leopardi. Credeva ai Maestri e sapeva bene ormai, nonostante la sua modestia, di essere riconosciuto tale. Bonnefoy sapeva che si arriva a scrivere quel che si scrive grazie ai classici e, pur essendo un innovatore, non ha mai smesso di studiarli, citarli, tradurli, perfino di farne dei personaggi delle sue opere”.
L’opera di traduzione è stata lunga e intensa, che cosa ti ha regalato?
“Moltissimo, e continuo anche oggi come e più di prima, dopo aver curato il suo ponderoso volume di saggi che riassumono i suoi corsi di poetica al Collège de France, Luoghi e destini dell’immagine. Un corso di poetica al Collège de France 1981-1992 (Rosenberg & Sellier, Torino, 2017), ho tradotto il suo romanzo-saggio autobiografico La sciarpa rossa (La Nave di Teseo, in corso di pubblicazione) e sto ora traducendo la sua forse più importante raccolta Nell’inganno della soglia (Il Saggiatore, 2020). Mi piaceva quando rileggeva le mie traduzioni a voce alta in italiano, momento per me rivelatore e magico. Le tante letture pubbliche insieme: un bel duo vocale, dicevano”.
In che modo Bonnefoy ha influenzato la poesia di Scotto?
“Pur nella diversità tra noi, che rimane, mi ha saputo ridare il coraggio di usare con fiducia in poesia la parola “speranza” che prima evitavo, e mi ha dato il coraggio di esplorare a mia volta la prosa da dentro la poesia come sua possibile espansione”.
Di Bonnefoy cosa ti mancherà di più?
“La sua dolcezza, il suo abbraccio, la sua affettuosa cortesia e quegli occhi chiari come il ghiaccio che sapevano dire tante cose, anche il suo sorriso e il suo humour, che sapeva essere assai divertente, ma mai cattivo, non l’ho mai sentito parlare male di nessuno, al massimo diceva di pensarla diversamente: lezione di stile di un vero signore”.
***
Quattro poesie di Yves Bonnefoy
L’enfant du second jour
Le dieu qui errait là, au premier matin, Qu’aurait-il espéré de la parole? Il ne fit rien que rassembler des pierres, Ce sont ces tas qu’on voit, à des carrefours.
Mais vint un second jour. Et parut cet enfant Qui ramasse, hésitant, une brindille Pour l’offrir, infinie en sa main tendue, À d’autres qui, surpris dans leur jeu, se taisent.
Ils le regardent qui avance, ils se détournent, Le ciel à grand fracas traverse les arbres, Son feu s’abat, ou j’entendais ces rires.
Au soir du second jour le monde cesse, Ce qui aurait pu être ne sera pas, Toute la nuit il pleut jusqu’au fond de l’herbe.
Il bambino del secondo giorno
Il dio che qui errava, di buon mattino, Che avrebbe sperato dalla parola? Non fece altro che raccattare pietre, Sono quei mucchi visibili, a dei crocevia.
Ma venne un secondo giorno. E apparve quel bambino Che raccoglie, incerto, un ramoscello Per donarlo, infinito nella sua mano tesa, Ad altri che, sorpresi nel loro gioco, tacciono.
Lo guardano avanzare, volgono il capo altrove, Il cielo con gran tuonare attraversa gli alberi, Il suo lampo s’abbatte, dove udivo quelle risa.
All’imbrunire del secondo giorno il mondo cessa, Quel che avrebbe potuto essere non sarà, L’intera notte piove fino alla radice dell’erba.
*
Aucun dieu
Aucun dieu ne l’aura voulu, ni même su, Aucun ne l’a accompagné dans sa fatigue, Un rêve, cet enfant sur le boulevard Qui marche près de lui, ceint de lumière.
Aucun n’est mort à l’heure où il est mort, N’a pris sa main dans les draps en désordre, Aucun n’aura jamais travaillé près de lui Dans l’atelier qui remplaça la vie.
Remonte, dans les mots qui disent le monde, Son silence, qui les dénie, qui me demande D’en imaginer d’autres, mais je ne puis.
Personne n’a posé son regard sur lui. Ce qui aurait pu être ne sera pas. La parole ne sauve pas, parfois elle rêve.
Nessun dio
Nessun dio l’avrà voluto, e neanche saputo, Nessuno l’ha accompagnato nella sua fatica, Un sogno, questo bambino sul viale Che cammina accanto a lui, cinto di luce.
Nessuno è morto all’ora in cui è morto, Ha preso la sua mano nel letto sfatto, Nessuno avrà mai lavorato accanto a lui Nell’officina che sostituì la vita.
Risale, nelle parole che dicono il mondo, Il suo silenzio, che le nega, che mi chiede D’immaginarne altre, ma non posso.
Nessuno ha posato lo sguardo su di lui. Quel che avrebbe potuto essere non sarà. La parola non salva, talvolta sogna.
*
Eau et pain
Ce peu de toile, et déchiré? Le ciel Sur une lande où errent des bergers Avec rien, à la nuit, que leurs appels Pour troubler de leurs bêtes le grand rêve.
Et je pressens que le peintre a voulu Que l’ange qui répare l’injustice Cherche des yeux, même dans un tableau, Agar, et cet enfant qui fuit avec elle.
Et les voici, et l’ange est auprès d’eux, Mais c’est ici que l’image s’efface. L’invisible reprend à la couleur
Le pain miraculeux, le broc d’eau fraîche. Ne reste, de l’enfant, qu’une lueur Qui fait rêver qu’en lui le jour se lève.
Pane e acqua
Questo po’ di tela, e lacera? Il cielo Su una landa in cui pastori vagano Con nulla, la notte, se non i loro richiami Per turbare delle loro bestie il gran sogno.
E intuisco che il pittore ha voluto Che l’angelo che ripara l’ingiustizia Cerchi con gli occhi, anche in un quadro, Agar, e quel bambino che fugge con lei.
Ed eccoli, e l’angelo è loro accanto, Ma è qui che l’immagine si cancella. L’invisibile riprende al colore
Il pane miracoloso, la brocca d’acqua fresca. Non rimane, del bambino, che un lucore Che fa sognare che in lui spunti il giorno.
Da: L’ora presente, “Lo Specchio”, Mondadori, Milano, 2013, trad. di Fabio Scotto.
*
Light, in an empty room
J’imagine que je reviens, où, je ne sais, C’est à la fois l’intimement connu Et un lieu étranger. Ai-je vécu ici, Non, je n’y ai laissé aucune trace
Et je suis infiniment triste, mais la lumière Qui habite aujourd’hui encore cette chambre Se lève, vient à moi. Vois, nous avons vieilli, Me dit-elle. Je ne suis plus une promesse
Pour ta vie à venir, je ne veux plus Te faire croire que vie et mort, c’est même rose À fleurir, au matin, Dans l’éveil de deux corps qui se renouent.
Mais parlons-nous. J’ai ta nuit à te dire, Et combien elle est accueillante grâce à moi, J’ai repoussé le drap de mon sommeil, Je découvre mon corps, toutes ses étoiles.
Ce soleil dans la chambre vide, c’est la nuit, Accepte de tâtonner dans la lumière, Entre, pour que tes yeux s’ouvrent davantage, Même, pour qu’ils émettent des rayons.
Où sommes-nous, certes, tu ne sais plus, Mais ce que tes doigts touchent, cela respire. Abandonne tes lèvres à mon souffle Avant de t’endormir, tes mains sur moi.
Non-être le soleil des éveils anciens S’il n’était pas déjà ce grand partage. Comment as-tu vécu ? Soient ton miroir La fenêtre, le lit de la chambre vide.
Light, in an empty room
Immagino di tornare, non so dove, È un luogo sia intimamente conosciuto Che estraneo. Ho vissuto qui? No, non vi ho lasciato traccia
E sono immensamente triste, ma la luce Che ancora abita oggi questa stanza S’alza, mi viene incontro. Vedi, siamo invecchiati, Lei mi dice. Non sono più una promessa
Per la tua vita futura, non voglio più Farti credere che vita e morte siano la stessa rosa, Che fiorisce, al mattino, Nel risveglio di due corpi che si uniscono.
Ma parliamoci. Ho da dirti la tua notte, E quanto è accogliente grazie a me, Ho scostato il lenzuolo del mio sonno, Scopro il mio corpo, tutte le sue stelle.
Questo sole nella stanza vuota, è la notte, Accetta di brancolare nella luce, Entra, perché i tuoi occhi s’aprano di più, Perfino perché dardeggino.
Dove siamo, certo, non lo sai più, Ma respira ciò che toccano le tue dita. Abbandona le labbra al mio respiro Prima di addormentarti, le tue mani su di me.
Non-essere il sole degli antichi risvegli Se già non fosse questa grande condivisione. Come hai vissuto? Ti siano specchio La finestra, il letto della stanza vuota.
Da: Ensemble encore suivi de Perambulans in noctem, Mercure de France, Parigi, 2016, trad. di Fabio Scotto.
L'articolo “La parola non salva, talvolta sogna”. Yves Bonnefoy, il poeta dentro il miracolo. Dialogo con Fabio Scotto, il suo traduttore proviene da Pangea.
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