#geopolitica XIX secolo
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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La missione di K.F. Butenev nell’Emirato di Bukhara: un capitolo significativo delle relazioni russo-bucarese. Esplorazioni, diplomazia e prospettive minerarie nell’Asia centrale del XIX secolo
Esplorazioni, diplomazia e prospettive minerarie nell’Asia centrale del XIX secolo. Un contesto di sviluppo economico e relazioni rafforzate.
Un contesto di sviluppo economico e relazioni rafforzate. A cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, il Khanato di Bukhara e la Russia hanno rafforzato le loro relazioni economiche e politiche. La crescente importanza del commercio internazionale e la transizione della Russia verso un’economia capitalistica favorirono la creazione di contatti più solidi tra le due potenze. Nel 1841, su iniziativa…
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tergestin · 3 years ago
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Uno stato quando muove guerra può essere disposto ad accettare una sconfitta, qualora l'alternativa sia giudicata peggiore della continuazione del conflitto. Un governo razionale cerca di valutare il rapporto fra le possibilità di vittoria, i costi della guerra e quelli derivanti da una pace da perdente.
Anche una grande potenza può accettare una sconfitta ed è accaduto moltissime volte nella storia. L'impero britannico si ritirò dall'Afghanistan nel secolo XIX, l'Urss si ritirò dall'Afghanistan nel secolo XX, gli Usa si ritirarono dall'Afghanistan nel secolo XXI.
Tuttavia, se uno stato si sente chiamato ad una guerra vitale, da cui dipende la sua stessa esistenza o la conservazione di uno status (territoriale, geografico, culturale etc.) ritenuto fondamentale, allora esso combatterà finché sarà in grado di farlo.
Potrebbe la Russia, in teoria, accettare di ritirarsi dall'Ucraina? Con tutte le cautele del caso, è veramente difficile che ciò sia accettabile non solo per il governo in carica, ma anche per un eventuale sostituto.
L'Urss accettò la sconfitta in Afghanistan perché i costi economici e politici erano di gran lunga esorbitanti il controllo malfermo di un paese poverissimo, poco popolato e posto in un'area geografica di scarsa importanza per la geopolitica sovietica.
L'Ucraina invece è incastonata proprio sui confini della Russia europea, cuore demografico, economico e culturale della sterminata federazione. La popolazione "ucraina" è per circa un terzo russa, i legami storici e culturali sono innumerevoli da secoli e secoli. Lo stato ucraino può apparire piccolo rispetto a quello russo, ma è comunque relativamente considerevole per dimensioni demografiche (1/4 di quello russo) ed armamento (fondamentalmente, Russia ed Ucraina hanno lo stesso tipo di tradizione militare, di derivazione sovietica). Da ultimo, ma non per ultimo, l'Ucraina, per ammissione dello stesso Biden e dei vertici della Nato, è divenuta strumento per erodere e possibilmente abbattere il governo russo in carica.
Si ricordi che nella Federazione russa esistono circa 200 gruppi etnici e che intere regioni, poco popolate ma vastissime ed omogenee, sono in maggioranza abitate da etnie asiatiche.
Una sconfitta in Ucraina sarebbe altamente pericolosa per la stabilità del subcontinente russo, sia per l'immenso impatto psicologico e simbolico che avrebbe all'interno della Russia, sia per le conseguenze materiali in termini di geopolitica, con un paese ostile, armato ed appoggiato dalla Nato che si snoda per 1500 chilometri verso il centro stesso del gigante.
E' inverosimile che la diplomazia ed i servizi d'informazione russi abbiano trascurato di ponderare gli effetti negativi dell'attacco all'Ucraina durante la lunga fase di preparazione. In altri termini, un paese di tradizione imperiale come quello russo, fornito di ottimo personale diplomatico e militare, sapeva che l'invasione avrebbe provocato una reazione durissima da parte della Nato, che vi è stata. Malgrado ciò, l'attacco è avvenuto lo stesso.
Questo lascia comprendere l'importanza che i vertici della Federazione russa attribuiscono alla questione ucraina.
Considerando la rilevanza che una vittoria in Ucraina ha sicuramente per la Russia e la sua disponibilità di gigantesche riserve di armamenti terrestri (il numero di cannoni e di carri armati è probabilmente il maggiore al mondo) e di riservisti (milioni), si può solo presumere che il governo russo vorrà continuare il conflitto sino al raggiungimento di alcuni obiettivi per esso minimi, preventivando ed accettando i relativi costi umani ed economici.
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I caldi inverni di Valona
Teksti në #shqip dhe #italisht --> L’articolo è frutto della visita a Valona nel mese di Novembre 2017
Il mese di Novembre è carico di significato per gli albanesi, e in particolare per la città di Valona. Quale occasione migliore allora per visitarla se non per le feste di fine novembre? Marco e Boiken, i due volontari del SCN, decidono di non aspettare l'invasione di turisti primaverile ed estiva per precipitarsi al Sud. Sebbene con la stagione estiva la città si trasformi e dia il meglio di sé con la sua vivacità, nella stagione invernale riserva ai visitatori, e soprattutto ai viaggiatori, gli aspetti più importanti della sua personalità.
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Ai valonesi piace presentare scherzosamente agli ospiti le cosiddette “tre anime” di cui è composta la città e i suoi abitanti. Parlano, dunque, fieramente della costa, con il suo capoluogo Himara, che con i suoi paesaggi mozzafiato e la sua natura marittima è sempre stata aperta alla cultura greco-latina e connessa con il Mediterraneo, divenendo così economicamente più avanzata e più elitaria.
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Tra la catena dei monti Acrocerauni che finiscono nello Ionio e il letto del fiume Shushica, invece, si estende la zona della Laberia, che rappresenta la parte più autentica e rivelativa dell’identità di Valona. La zona, caratterizzata da un territorio impenetrabile e da gente generosa, continua tutt’ora a essere difficilmente accessibile e rivendica orgogliosa le sue differenze dall’astuta Valona dei commercianti e “dall’altezzoso” cosmopolitismo di Himara.
Valona, che nell’immaginario comune degli albanesi simboleggia la spensieratezza vacanziera e marittima, è impegnata da secoli a far convivere la rude ma libera natura degli abitanti lab con il malinconico elitismo della costa e la vita cittadina.
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Popolata da tribù Illiriche già 2500 anni avanti Cristo, Valona fu preda di incursioni elleniche. Gli Illirici mal sopportavano la concezione urbana dei Greci e si ritirarono nell’entroterra, dove continuarono a vivere lentamente ma pacificamente coniugando natura e progresso. È forse proprio da qui che si può risalire alla prima forma di disgiunzione tra le anime della città. Ma durante il mese di Novembre tutto ciò scompare e il centro di Valona assume un’altra dimensione. E questo vuole essere un racconto di questo luogo che dopo anni di torpore sta finalmente dando i segni dell’agognato risveglio.
La scoperta della città inizia subito dal finestrino del pittoresco furgoncino che collega la capitale Tirana alla costa del sud. Non appena lasciata la cittadina di Levan e imboccata la superstrada, colpisce la vista della baia con la penisola di Karaburun e l'isolotto di Saseno che fanno da guardiani alla città.
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Si tratta della stessa magnifica vista che nel libro “L’inverno della grande solitudine” di Kadare aveva scosso la noia del generale sovietico Zeleznov che accompagnava Kruscev durante la sua visita a Butrinto nel 1959. La visita del generale terminava nella base di Pasha Liman che tiene nascoste tra il mare e la laguna testimonianze preziose della guerra civile romana e i ricordi del sostegno che la vecchia Orico diede a Cesare durante la sua caccia a Pompeo, protetto a sua volta dalla rivale Durazzo.
In epoca ottomana Pasha Liman costituiva l'avamposto più occidentale del sultano in Europa, mentre con l'arrivo dei Russi la base divenne il principale strumento della geopolitica albanese all'interno del campo socialista. Il ruolo di Valona e della sua base non poteva essere usato meglio metaforicamente di quanto non abbia fatto Ivate Kadare nel bestseller “Inverno della grande solitudine”, importante opera letteraria albanese, in cui tenta di spiegare l’Albania e la relazione con il mondo. Nel libro viene descritta la tensione con l'Unione Sovietica tramite la guerra di due militari della base che passarono improvvisamente da alleati con la stessa divisa ma con un diverso umore. I due militari erano a tu per tu, e la questione era molto più seria per l'Albania che rinunciava così per motivi ideologici all'unico strumento che le rimaneva per continuare a stare sulla scia dello sviluppo economico: l'Unione Sovietica. I saggi e antichi Illirici scelsero la libera e selvaggia solitudine e lasciarono l'opzione greco metropolita raffigurata da Mosca.
La speciale posizione geografica di Valona racconta tanto anche in merito alle celebrazioni del 28-29 Novembre. Il 28 infatti Valona si trasforma nel centro spirituale dell'albanesità e ospita migliaia di cittadini che si riuniscono nel Sheshi i Flamurit (Piazza della Bandiera) per ricordare la proclamazione di quella così agognata indipendenza avvenuta nel lontano 1912 ad opera di Ismail Qemal Vlora.
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La centralissima piazza infatti ospitava le Saraje (parola araba che significa “palazzi”) della nobile famiglia dei Vlora. Il piano regolatore del 1930 cambiò il volto della città, lasciando in vita principalmente una parte del quartiere della Muradiye, da lì l'omonima moschea che nasce sui resti di un'antica chiesa bizantina. L'area, nota anche come quartiere ebraico, si sviluppa principalmente intorno alla via Justin Godard che prende il nome dal giurista francese che rappresentò la questione albanese alla conferenza di Pace di Parigi del 1919. Fu proprio qui che si insediò a partire dal 1600 una folta comunità ebraica sefardita proveniente dalla penisola iberica, la quale diede vita a una fiorente attività commerciale che culminò con la fondazione della Banca Nazionale del commercio ossia la prima banca commerciale del paese che ha la sede qui a partire dal 1837.
La via Godard collega la piazza della bandiera con la piazza del municipio, edificio di costruzione italiana in stile neoclassico che per molti anni ha svolto la funzione di sede consolare nel sud del paese. Il rapporto di odio- amore con l'Italia ha conosciuto momenti di alta frizione e sincronia tra i due popoli nel XIX secolo.  La guerra antitaliana del 1920 vide la città e l’hinterland combattere contro le truppe di Vittorio Emanuele II che difendevano il protettorato italiano in Albania. Nel paese balcanico eravamo all'inizio di quello che poi sarebbe diventata la rivoluzione democratica mentre in Italia eravamo in un periodo di grandi tensioni sociali. Il governo Giolitti tentò di reprimere la rivolta di Valona e fu significativa la reazione del paese, partendo dall’ammutinamento dei bersaglieri della caserma Villarey di Ancona che, temendo di essere mandati in Albania, rifiutarono gli ordini dei superiori innescando una serie di scioperi operai e di sabotaggi della rete ferroviaria. La settimana calda del 1920 aveva portato alla sollevazione operaia italiana del pieno biennio rosso mentre quella di Valona aveva posto le basi per un avvenimento importante per la storia moderna albanese. Il governo italiano infatti decise di ritirare le truppe mentre il patriottico kosovaro Hasan Prishtina nel 1921 convocata e dirigeva i lavori del Congresso di Lushnja del 1921 in cui Tirana venne insignita capitale albanese.
Il contributo di Valona per la libertà e la sovranità d'Albania viene ricordato inoltre ogni 29 Novembre sulla collina di Kuzum Baba che domina il centro cittadino e che oltre alla teqe, il luogo di culto della setta sciita dei bektashi, ospita il monumento dei caduti per la patria. La visita al memoriale dei caduti ha riservato sorprese che confermano la relazione di Valona con l’Italia. Infatti, accanto alle città natali dei caduti quali Berat, Valona o Tirana spiccavano anche toponimi come Trapani, Milano e Bari che mostrano come i figli di queste città abbiano abbracciato lo spirito libertario e antifascista del capoluogo del sud dell’Albania.
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Il giro nella città si conclude con la passeggiata sul mare che mantiene la denominazione del progetto italiano degli anni ’20 “Lungomare”, completato solo nel 2017.
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Il progetto ambisce a trasformarsi in una delle passeggiate sul mare tra le più belle del Mediterraneo con l’ambizione di creare un brand di turismo sostenibile del “Jugu i Shqiperise” e di fare concorrenza alla costa azzurra del lungomare di Baku o alla costa amalfitana. L'opera pubblica è sinonimo della rinascita della città e buon augurio per l’armonia del territorio con la sua gente e la sua natura.
Boiken Sinaj
(Shqip)
Vjeshta dhe muaji nëntor kanë një kuptim të veçantë për shqiptarët Shqipërinë dhe sidomos për qytetin e Vlorës. A ka kohë më të përshtatshme atëherë  për ta shijuar atë se sa gjatë festave të fund nëntorit? Kështu Marco dhe Boiken dy nga vullnetarët e SCN, vendosën të mos presin pushtimin e turistëve të pranverës dhe verës, ndonëse në këtë perjudhë qyteti ka maksimumin e gjallërisë së saj. Por është pikërisht në nëntor që Vlora u rezervon vizitorëve, dhe mbi të gjitha udhëtarëve, aspektet më të r��ndësishme të personalitetit të saj.
Vlonjatëve u pëlqen t'u kujtojnë miqve të ashtuquajturit tre shpirtra, që dominojnë në natyrën e qytetit dhe banorëve të saj. Kemi pra bregdetin me kryeqëndër Himarën, që me peizazhet e saj të mahnitshme dhe natyrën bregdetare është e lidhur me Mesdheun. Si rrjedhim ekonomikisht është më e përpruar dhe më elitiste po ashtu e hapur kundrejt depërtimit të kulturës Greko-Latine. Midis zinxhirit të maleve Acrokeraun që përfundojnë në Jon dhe shtratin e lumit Shushica, shtrihet zona e Laberisë, e cila përfaqëson pjesën më autentike të identitetit të Vlorës. Zona, e karakterizuar nga një territor i padepërtueshëm dhe nga njerëz bujarë, ende vazhdon të mbetet e vështirë për aksesin dhe me xhelozi pretendon dallimet e saj nga Vlora “dinake” e tregtarëve dhe kozmopolitizmit "jabanxhi" i Himarës. Vlora që në imagjinatën e përbashkët të shqiptarëve simbolizon festën, lumturinë e udhëtimit dhe detit është një sintezë e plotë e këtyre kontradiktave. Për shekuj me radhë është përpjekur të sjellë së bashku natyrën e ashpër, por të lirë të lebëve që duket se ka mbizotëruar në këtë rivalitet me elitizmin melankolik të bregdetit dhe pragmatizmin tipik qytetar.
E populluar nga fiset ilire 2500 vjet para Krishtit, Vlora ishte pre e bastisjeve helenike që shumë shpejt krijuan kolonitë e tyre. Ilirët nuk binin në ujdi me konceptin urban të grekëve dhe u tërhoqën në brendësi ku ata vazhduan të jetojnë ngadalë por në mënyrë paqësore marrëdhëniet e tyre me natyrën dhe progresin. Ndoshta prej këtu mund të gjejmë formën e parë të ndarjes midis identiteteve të qytetit. Por në nëntor të gjitha këto zhduken dhe qendra e Vlorës merr një përmasë tjetër. Kjo dëshiron të jetë një histori e këtij vendi që pas shumë vitesh harrese ndaj tij më në fund jep shenjat e një zgjimi të shumëpritur.
Zbulimi i qytetit fillon megjithatë, menjëherë nga dritarja e furgonit piktoresk që lidh kryeqytetin me bregun jugor. Sapo të largoheni nga qyteti i Levanit dhe të merrni autostradën, do t’ju tërheq pamja e gjirit me gadishullin e Karaburunit dhe ishullin e Sazanit që si gardianë ruajnë qytetin. Është e njëjta pikëpamje e mrekullueshme që në librin "Dimri i vetmisë së madhe" të Kadaresë e kishte tronditur mërzinë e gjeneralit sovjetik Zeleznov i cili shoqëronte Hrushovin gjatë vizitës së tij në Butrint në vitin 1959. Vështrimi i përgjithshëm merr fund në bazën e Pasha Limanit të fshehur në mes të detit dhe lagunes, dhe që mbart dëshmi të çmuara të luftës civile romake dhe kujtime të mbështetjes që Orikumi i kishte dhënë Cezarit gjatë përndjekjes që i bënte Pompeut, i mbrojtur gpo ashtu nga rivalët në Durrës.
Në epokën osmane PashaLimani ishte qëndra më perëndimore e sulltanit në Evropë dhe me ardhjen e rusëve u bë baza kryesore dhe një instrument i rëndësishëm gjeopolitik i Shqipërisë në përbrënda kampit socialist. Roli i Vlorës dhe bazës së saj nuk do të mund të përdoret në mënyrë metaforike më mirë se ajo e bërë nga mjeshtri Kadare në bestsellerin e sipërpërmëndur që është poashtu libri më i rëndësishëm në historinë e letërsisë shqipëtare, ku ai përpiqet të shpjegojë marrëdhëniet e Shqipërisë me botën dhe me vetëveten. Libri përshkruan tensionin me Bashkimin Sovjetik ndërmjet luftës së nervave të dy ushtarëve në bazë, të cilët papritmas kaluan nga aleatët në armiq. Të dy ushtarët ishin ballë për ballë, dhe çështja ishte më e rëndë për Shqipërinë e cila pati pranuar të heq dorë kështu për arsye ideologjike nga i vetmi instrument i dobishëm për zhvillimin ekonomik: bashkëpunimi me Bashkimin Sovjetik. Ilirët e mençur dhe të lashtë zgjodhën edhe një herë vetminë e lirë dhe të egër dhe e lanë opsionin greko- metropolitan të përfaqësuar nga Moska.
Pozita e veçantë gjeografike gjithashtu tregon shumë për festimet e 28-29 nëntorit. Në fakt, Vlora në dtën 28 Nëntor kthehet në qendrën shpirtërore të shqiptarëve dhe mikpret mijëra qytetarë që mblidhen në Sheshin e Flamurit për të kujtuar shpalljen në vitin 1912 nga Ismail Qemal Vlora e pavarësie të shumëpritur. Plani rregullues i vitit 1930 ndryshoi fytyrën e qytetit, duke lënë kryesisht pjesën e lagjes Muradiye, prej nga atje xhamia me të njëjtin emër që lindi në eshtrat e një kishe bizantine të lashtë. Zona, e njohur edhe si lagja hebreje, zhvillohet kryesisht rreth rrugës Justin Godard, e cila merr emrin nga juristi francez mbroi çështjen shqiptare në Konferencën e Paqes të Parisit në vitin 1919. Pikërisht këtu u vendos që nga viti 1600 një komunitet i madh hebre sefardit me prejardhje nga gadishulli iberik që u bë përcjellës i një aktiviteti të mirëfilltë tregtare që kulmoi me themelimin e Bankës Kombëtare të Tregtisë, bankës së parë tregtare të vendit me seli në Vlorë qysh nga viti 1837.
Rruga Godard lidh sheshin e flamurit me sheshin e Bashkisë,kjo e fundit një ndërtesë italiane në stilin neoklasik që për shumë vite ka shërbyer si një zyrë konsullore në jug të vendit. Marrëdhënia e dashurisë dhe urrejtjes me Italinë ka njohur momentet fërkimit dhe sinkronizmi të lartë mes dy popujve në shekullin e nëntëmbëdhjetë. Lufta anti-italiane e vitit 1920, vuri qytetin dhe rrethinat në luftë kundër trupave të Vittorio Emanuele II që gjëndej në Shqipëri për të siguruar protektoratin italian. Në vendin ballkanik ndodheshim në prag të revolucionit demokratik, ndërsa në Itali ishim në një periudhë me tensione të mëdha shoqërore. Qeveria Giolitti u përpoq për të shtypur revoltën e Vlorës por u hasën me një reagim të rëndësishëm popullor në Itali. Gjithçka filloi në bazën Villarey në Ancona me vetëgjymtimin e Bersaljerëve që u ngritën për të kundërshtuar dërgimin e tyre në Shqipëri dhe refuzuan urdhrat e eprorëve duke shkaktuar një ser grevash mes punëtorëve por edhe akte sabotuese siç ishte ajo e rrjetit hekurudhor.
Javët e nxehta të vitit 1920 kishin çuar në kryengritjen italiane të klasës punëtore të ashtuquajturit  “dyvjetori i kuq”  ndërsa ajo e Vlorës kishte hedhur themelet për një ngjarje të rëndësishme në historinë moderne të Shqipërisë. Përtej detit Qeveria italiane vendosi të tërhiqte trupat ndërsa në tokën shqiptare atdhetari kosovar Hasan Prishtina në vitin 1921 mblodhi dhe drejtoi punën e kongresit të Lushnjës në vitin 1921 nga ku lindi Tirana si kryeqyteti i ri shqiptar.
Kontributi i Vlorës për lirinë dhe sovranitetin e Shqipërisë celebrohet gjithashtu çdo 29 Nëntor në kodrën e Kuzum Baba-së që dominon qendrën e qytetit dhe përveç teqe-së, objekti i kultit të sektit shiit të bektashinjve, strehon memorialin e dësmorëve për atdheun. Vizita në memorialin e të rënëve ka rezervuar surpriza që konfirmojnë marrëdhënien e Italisë me qytetin. Në fakt, pranë vendlindjeve si Vlora, Berati apo Tirana i ushtarëve të rënë rendoheshin edhe toponime si Trapani, Milano apo Bari çka nënkupton se edhe bijtë e këtyre vendeve kishin përqafuar shpirtin liridashës të kryeqëndrës së jugut.
Vizita në qytet përfundon në shëtitoren e re që ruan emrin e projektit italian të epokës së Musolinit "Lungomare", e cila u përfundua vetëm këtë vit. Projekti synon të bëhet një nga shëtitoret bregdetare më të bukura në Mesdhe me synimin për të krijuar një brand turistik të qëndrueshme të "Jugut të Shqipërisë" dhe për të konkurruar me Coste Azzurre, Baku-në ose me bregdetin e Amalfitan. Vepra e rëndësishme publike është sinonim i ringjalljes së qytetit dhe një urim i mirë për harmoninë e territorit me popullsinë e dhe natyrën e tij.
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persinsala · 8 years ago
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Dopo il sublime Kinder (bambini), il progetto di Lenz sulle tematiche «della Resistenza e della tragedia europea durante le dittature nazi-fasciste» prosegue con Aktion T4, una «riflessione contemporanea sull’essere umano e le sue potenzialità espressive nella condizione di massima debolezza» realizzata in collaborazione con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma.
Per quanto sia impossibile, anche a posteriori, dare una interpretazione deterministica dei fatti, l’anelito di riscatto del popolo tedesco fu un elemento fondamentale per comprendere il successo della propaganda nazista in una Germania devastata dall’uscita dalla Grande Guerra, umiliata nell’orgoglio e spogliata sul piano economico. Nonostante ancora oggi si perseveri nel celare le corresponsabilità della gens teutonica e degli Alleati (Francia e Impero Britannico, in primis) e si preferisca fare riferimento a facili categorie emotive, come quella abusatissima della follia, gli esecutori del «male assoluto» (Hannah Arendt) furono, invece, lucidissimi nel sostenere e praticare un’ideologia che, a differenza di quanto successe in Italia con il fascismo, non trovò che un’opposizione residuale.
Solo apparentemente dedicato alla cosiddetta mercy death (termine che, in realtà, vedremo essere improprio), Aktion T4 di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri mette in scena il terrore perpetuato in luoghi forse meno conosciuti rispetto a quelli canonici della memoria come Dachau, Auschwitz e Mauthausen, ma altrettanto spaventosi, da Hartheim Castle in Austria ad Hadamar in Germania per citare i più celebri.
Preceduto da una massiccia operazione mediatica, finalizzato a mostrare l’abnorme costo sulle spalle dei sani e dei migliori (che, ovviamente, coincidevano) o il miraggio di una terapia efficace per patologie psicofisiche (altrimenti incurabili), dopo aver abbandonato la sterilizzazione coatta per contrastare la proliferazione di persone affette da malattie genetiche, dunque ereditarie (via che altri paesi, dagli Stati Uniti alla Svezia, dal Canada al Regno Unito, stavano perseguendo in quegli stessi anni), il programma Aktion T4 stabilì di porre a termine «vite indegne di essere vissute», esistenze – anche tedesche – spesso giudicate sensibili solo perché improduttive e onerose da mantenere, facendo leva sul consenso di famiglie illuse da una finta soluzione per le sofferenze dei propri cari e sull’attivo supporto di ostetriche e medici di famiglia.
Legge non dello Stato, ma di diretta emanazione dal Führer, pertanto sacra, lo scopo di Aktion T4 non fu semplicemente quello di evitare che nascessero vite sbagliate per così favorire la naturale selezione della razza ariana. Abbattendo i costi sociali del welfare e razionalizzando risorse preziose in un periodo di gravissima crisi in cui era prioritario rendere il Reich degno di un esercito imperiale, attraverso l’eliminazione di chi stava rallentando la trionfale marcia della razza superiore, Aktion T4 si propose infatti di diminuire le spese sostenute dallo Stato per il mantenimento in strutture pubbliche di pazienti sensibili o problematici. Accanto a individui socialmente disfunzionali, alcolisti, infermi e degenti psichici, furono innumerevoli i bambini internati in strutture psichiatriche e poi soppressi per quelli che oggi chiameremmo disturbi specifici dell’apprendimento o bisogni educativi speciali.
Figlia del darwinismo sociale tipico della Belle Époque e tanto in voga tra le élite progressista e l’intellighenzia di allora (da Galton a Lorenz), in un tempo privo di dubbi e colmo di certezze, l’eutanasia nazista fu in realtà il totale ribaltamento di quello che attualmente  viene a essere oggetto di dibattito dell’opinione pubblica e di (faticosa) regolamentazione da parte dei governi. Infatti, secondo lo spirito di un’interpretazione numerica della vita purtroppo ancora attuale (pur con le debite proporzioni lo riscontriamo intatto in una legislazione come la nostra che considera la funzione degli insegnanti specializzati nelle attività di sostegno e inclusione un diritto da garantire solo «nell’ambito delle risorse disponibili, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»), Aktion T4 non affermò il sacrosanto diritto all’autodeterminazione della persona, ma la riduzione della vita umana a parametro economico di un bilancio aziendale.
La sintesi di bisogno economico e di ideologia razzista, che Aktion T4 realizzò in una sconcertante manifestazione dell’autocoscienza nazionalsocialista, ce la rivela un elemento quasi freudiano, forse più simbolico che reale, ma che ben ne restituisce l’intima necessità di attuazione; vale a dire la retrodatazione dall’ottobre al 1 settembre 1939, giorno dell’invasione della Polonia, della lettera con cui – motu proprio – Hitler diede comune annunciazione alla purificazione tanto interna quanto esterna del Reich.
Teorie a quel tempo nuovissime usate, dunque, per giustificarne una antica quanto l’invenzione dell’uomo, la discriminazione razziale, che vide già nella declinazione culturale di uno dei padri dell’Occidente, Aristotele, una delle sue firme più illustri («è evidente che taluni sono per natura liberi, altri schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi», Politica I). Reso prima scientifico e poi istituzionale, il «razzismo di Stato» (Michel Foucault) sorse, difatti, proprio alla fine del XIX secolo dall’idea di dover difendere biologicamente non più una, ma la razza, un unico patrimonio biologico titolare della norma e, di conseguenza, di dover combattere ogni deviazione che ne mettesse a repentaglio l’igiene, riuscendo così a sopravvivere ai propri orrori dell’Olocausto e a fomentare una situazione geopolitica di conflitto etnico attuale e permanente.
Sanare piuttosto che avere cura, decidere selettivamente chi vogliamo e chi non vogliamo che venga al mondo, rendere il diritto alla vita una funzione della produttività materiale sono elementi rispetto ai quali la sensibilità di Lenz si pone naturalmente in una direzione ostinata e contraria, convinta che non ci sia nessuna marcia da rallentare, ma un’universale umanità da coltivare. Nel caso di Aktion T4, Lenz si avvale con estrema linearità di tutto il proprio repertorio: dall’imagoturgia di Francesco Pititto – autore del testo originale composto attraverso un sontuoso accostamento di stralci celebri (Re Lear di Shakespeare, Elena di Euripide, La vita è sogno di Pedro Calderón de La Barca, Faust di Goethe, Adelchi di Manzoni e Ifigenia di Euripide) – utilizzata per proiettare con lancinante paradossalità «sequenze di vita quotidiana, di lavoro e di svago, di giochi e di balli […]. Nonostante la tragedia imminente […] dentro e fuori la Germania», all’installazione di Maria Federica Maestri «costituita da un ammasso di macerie monumentali e di resti dei simboli nazisti», esplicito riferimento a quello che l’architetto del regime, Albert Speer, definì il valore delle rovine,  «testimonianza nei secoli a venire della grandezza del Terzo Reich, come quelle dell’Antica Grecia o dell’Impero Romano».
Rispetto all’imponenza delle intenzioni drammaturgiche e all’inclusività dell’ecologia scenica, Pittito e Maestri decidono di potenziare l’impianto polemico della rappresentazione, affidandosi a una costruzione semantica univoca e non polisemica, fenomenologicamente chiara ed evidente. Ponendo l’allestimento sul piano della sovrastrutturalità (dall’emotività dell’accompagnamento sonoro all’iconografia plastica della scenografia e agli inseriti audio documentaristici), dunque facendo largo (e inedito) uso del didascalico, la scelta, tuttavia, paga una condizione di sovraccarico cognitivo che, di fatto, inficia in parte quello che potremmo definire l’apprendimento dalla memoria, ossia il collegamento attivo tra la rievocazione degli stati rievocati (al pubblico) e la consapevolezza degli eventi rivissuti (di chi sarebbe stato vittima di Aktion T4, gli attori e le attrici sensibili), quindi il farsi viaggio nel presente della memoria storica.
La ricerca di un equilibrio tra le profonde suggestioni culturali e le radici esistenziali insite nel senso di Lenz per il teatro, che altre volte abbiamo ammirato promuovere una possibile «uscita dall’inferno» (Antonin Artaud), genera questa volta un freddo piacere estetico, una contemplazione che indugia su un compiacimento a tratti sorprendentemente manieristico.
Una sensazione che, tuttavia e nonostante una stremata restituzione verbale, non regge l’onda d’urto di interpretazioni in grado di incedere poderosamente tra canti, danze e torture, prima del climax finale; momento in cui una sconcertante Alessia Dell’Imperio, accompagnata nella genuflessione da Giacomo Rastelli, Tommaso Sementa, Carlotta Spaggiari e Barbara Voghera, ricorda con immediata semplicità quanto sia attuale la visione promossa per contrarietà da Lenz di un’umanità perduta nella disciplina di una società secolarizzata.
Una società che, dopo aver strappato il legame tra responsabilità e peccato, ha sì addolcito le pene, ma solo sottoponendo il corpo e la mente all’esercizio di norme tecniche per la corretta gestione di attività che Francesco Pititto e Maria Federica Maestri ci ricordano essere anche biologiche e non solo culturali o produttive. Concettualizzando il “senso di vite degne di essere vissute ma solo a condizione che” e, in tal mondo, consegnando il senso della disabilità alla necessità di una sua il più invisibile possibile integrazione, all’idea di costo sociale da compensare (nel sostegno scolastico, nei diritti speciali o, comunque, a carico di qualcuno che con il proprio sacrificio renderà sostenibile il sistema per tutti gli altri), Aktion T4 ci ricorda come, purtroppo, l’età contemporanea non sembri essere poi così distante dagli stessi pròdromi del razzismo contemporaneo.
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Lo spettacolo è andato in scena: Lenz Fondazione dal 25 al 30 aprile 2017
Aktion T4 testo originale e imagoturgia Francesco Pititto installazione e regia Maria Federica Maestri musica Andrea Azzali performer Alessia Dell’Imperio, Giacomo Rastelli, Tommaso Sementa, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera voce over Marco Musso produzione Lenz Fondazione in collaborazione con ISREC
Aktion T4 Dopo il sublime Kinder (bambini), il progetto di Lenz sulle tematiche «della Resistenza e della tragedia europea durante le dittature nazi-fasciste» prosegue con…
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occhioriflessopss · 8 years ago
Text
THE NEWZEALANDER (A Dialectical Landscape)
ITA / ENG
Guardando la serie di immagini che Giaime Meloni ha realizzato per Columns of cultures, si potrebbe provare la sensazione di osservare uno scenario familiare, dove è costante la presenza di alcuni elementi: paesaggi, architetture, cemento, vegetazione. Non sappiamo esattamente da dove provengono queste immagini, ma siamo in grado di intuirlo con facilità grazie ad alcuni soggetti ricorrenti: piante, luci, atmosfere e simboli. Uno di questi simboli è il primo che ha attirato l'attenzione di Giaime: la palma, intesa come filo conduttore visivo che collega diversi paesi nell'area del Mediterraneo. L’interesse della serie fotografica si è poi trasferito su soggetti più complessi e articolati, principalmente architettonici, ma questo primo elemento d’indagine ha suggerito la direzione da intraprendere, offrendo la possibilità di collegare diverse esperienze ed elementi che costituiscono l’estetica di questo componimento-saggio visivo. Dal nostro punto di vista, percepiamo il lavoro di Giaime e la sua comprensione del paesaggio come una visione romantica del sud Europa, come immagini dipinte da un osservatore di rovine agli inizi del XIX secolo. Gli inizi dell’ottocento, in Europa, vedono il sorgere di una nuovo approccio ai campi della visione e dell’estetica, il Romanticismo infonde nuovi modi di affrontare la visione, sia nel modo in cui l’osservatore [soggetto] era considerato che nel modo in cui “l’oggetto” era concepito. Nuove categorie estetiche, come la concezione di Kant del sublime, si diffusero nella cultura visiva del tempo, formulando un nuovo modello di rappresentazione del paesaggio. Questo tema in particolare cominciò ad essere utilizzato come mezzo per affrontare questioni storiche e identitarie, con l'obiettivo di avviare una nuova comprensione della cultura nazionale degli stati, che in quel preciso momento cominciavano a delineare la loro attuale forma geopolitica.
Come dicevamo, l’osservatore assunse un nuovo ruolo, fu messo in discussione, così come avvenne per il paesaggio, che incominciò a perdere i suoi connotati classici e arcadici a favore di una scissione tra il sublime e il pittoresco, due modelli visivi e concettuali che rispondono ad istanze estetiche e filosofiche molto diverse tra loro. Il sublime ci parla di un “oggetto” di per sé esistente, al quale non possiamo ottenere un pieno accesso, ma percepire come qualcosa di trascendente e travolgente; è proprio questa nostra condizione limitata che ci permette di percepire, sentire, l’illimitato, generando quel “piacere negativo” che è tradizionalmente considerato l’esito dell’esperienza sublime.
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Looking at the series of images that Giaime Meloni has realized for "Columns of cultures", one could feel as if looking at a familiar scenario, a setting with some constant elements: landscapes, architectures, concrete, vegetation. We don't know exactly where these images come from, but we can figure out quite easily thanks to certain plants, lights, symbols.
One of these is the first that Giaime started investigating: the palm plant, intended as a visual thread connecting various different countries of the Mediterranean. The series later moved on more complex and articulated subjects, mainly architectural, but this first element shaped the direction of the work, connecting very different experiences and visual samples included in this visual essay. Personally speaking, we felt Giaime's work and understanding of the landscape as a romantic overview of southern Europe, as images depicted by a ruin gazer from the early XIX century. It was at the beginning of the XIX century that Europe began witnessing the arising of some very new approaches to the field of vision and aesthetics: Romantic age brought some very new means of addressing vision, both in the way the viewer [subject] was considered and in the way the object was seen. New aesthetic categories, like Kant's  conception of the sublime, were spreading throughout the visual culture of the time, shaping a new model for representation of landscapes. This subject in particular started being used as a mean for addressing historical and identitarian issues, aiming to gather a new understanding of national cultures of the states which at that particular moment were beginning to take their actual geopolitical shape. As we said, the gazer was taking a new role, it started being under question, and the same was for the landscape, which began to leave its classical, Arcadian aspect to start splitting between the sublime and the picturesque, two visual and conceptual models responding to very different aesthetic instances. The sublime speaks of an "object" which exists in itself, that we can't get full access to, but only perceive as something transcendent and overwhelming; it is indeed our limited condition that still can perceive, feel, the unlimited, so to generate that "negative pleasure" which is traditionally considered the outcome of the sublime experience.
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