#Barbara Voghera
Explore tagged Tumblr posts
globalhappenings · 3 years ago
Text
The Orchestra of Aeschylus in national premiere in Lenz di Parma
The Orchestra of Aeschylus in national premiere in Lenz di Parma
(ANSA) – PARMA, 11 NOV – The stage project by Lenz Fondazione di Parma dedicated to Aeschylus’s Orestea, the result of three creations made between 2018 and 2020, will be presented as a national premiere in a scenic unicum at Lenz Teatro from 13 to November 20 as part of the twenty-fifth edition of the Festival Natura Dèi Teatri. On the stage six actresses from different generations and origins…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
persinsala · 5 years ago
Text
De rerum natura et cultura: il perturbante secondo Lenz
De rerum natura et cultura: il perturbante secondo Lenz
È andato in scena al Teatro Farnese, nel Complesso Monumentale della Pilotta, l’Hamlet solo firmato Lenz e interpretato da una indimenticabile Barbara Voghera. (more…)
View On WordPress
0 notes
gregor-samsung · 7 years ago
Quote
Nel mese di maggio Cristina Demartino ricevette un giornale politico letterario di Forlì, il "Satana", dove era pubblicata una ode barbara di Aldo Fiorello, dedicata a "una fanciulla sciocca". In essa l'autore si burlava, in metro alcaico, di una fanciulla provinciale, bacchettona, che ancora aveva la volgarità di credere nel "vecchio Jehova dei sacerdoti", che era anemica, ammalata d'isterismo, ipocrita e desiderava l'amore solo sotto il giogo coniugale, che è la galera dei liberi cuori. L'autore, Aldo Fiorello, dichiarava d'essere stato ingenuo sino al punto di amare questa stupida, ma che allargatoglisi innanzi l'orizzonte, "sapute le tempeste", egli preferiva, sì, preferiva l'amore che la "chellerina" gli offriva, insieme con la tazza spumante di birra. Di questa poesia Cristina non capì la parola "Jehova", ma la credette una bestemmia e si segnò; non capì la parola "chellerina", ma intese, in generale, che lo studente si permetteva d'insultarla e pianse di collera.
Matilde Serao, Cristina, Enrico Voghera Editore, Roma, 1908.
1 note · View note
todayclassical · 8 years ago
Text
January 02 in Music History
1678 Opening of the Gaensemarkt Theater, Hamburg’s first opera house.
1726 Death of Italian composer Domenico Zipoli in Córdoba, Argentina. 
1732 Birth of Bohemian composer of church music and organist Franz Xaver Brixi in Prague. 
1747 Death of French composer, violinist, and conductor Jean-Fery Rebel in Paris.
1825 Opening of the Munich Opera House.
1837 ( Birth of Russian composer Mili Balakirev in Nizhny-Novgorod.  1843 FP of Wagner’s Flying Dutchman opera, in Dresden. 
1880 Birth of Italian conductor Antonio Guarneri.
1884 Death of Italian soprano Marietta Gazzaniga in Voghera. 
1890 Death of French tenor Julian Gayarre.
1891 Death of French composer Alexis Roland-Manuel in Paris. 
1894 Birth of Polish American conductor Arthur Rodzinski.
1895 Birth of Czech mezzo-soprano Marie Hlouskova in Caslav. 
1901 Birth of Swedish tenor Torsten Ralf in Malmo, Sweden. 
1904 Birth of American tenor James Melton in Moultrie, Ga.
1904 Birth of Finnish soprano Lea Piltti. 
1905 Birth of British composer Michael Tippett in London. 
1907 Birth of Austrian tenor Todor Mazaroff in Vienna. 
1912 Birth of Italian bass Antonio Cassinelli in Noceto, Parma. 
1912 Birth of Canadian composer Barbara Pentland in Winnipeg.
1913 Birth of American composer Gardner Read in Evanston, IL. 
1913 Birth of American organist and composer Robert Hall Elmore. 
1915 Death of Austro-Hungarian composer Karl Goldmark, in Vienna. 
1925 Birth of Russian mezzo-soprano Irina Arkhipova in Moscow. 
1928 Birth of Italian conductor Alberto Zedda.
1930 Death of Austrian soprano Therese Malten. 
1936 FP of Morton Gould’s Chorale and Fugue in Jazz. Philadelphia Orchestra, Leopold Stokowski conducting. 1944 Birth of Hungarian composer and conductor Peter Eotvos.
1947 Death of Swedish soprano Ellen Gulbranson. 
1950 Birth of  Japanese tenor Taro Ichiara in the city of Sakata in Yamagata Prefecture, Japan. 
1951 Birth of German composer Volker Blumenthaler in Nuremburg. 
1955 American debut of Canadian pianist Glenn Gould in Washington, D.C. 
1958 Birth of Russian pianist Vladimir Ovchnnikov. 1960 Death of mezzo-soprano Leila Megane. 
1963 Birth of American pianist Tzimon Barto. 
1997 Death of Italian bass Federico Davia. 
1999 Death of Swiss composer Rolf Liebermann in Paris. 
2000 FP of Bright Sheng’s Naking, Naking in Hamburg. North German Radio Symphony, under Christoph Eschenbach. 
2000 FP of Christopher Rouse’s Concert de Guadi for guitar and orchestra, guitarist Sharon Isbin.
0 notes
persinsala · 7 years ago
Text
Al Festival Verdi di Parma, Lenz presenta Paradiso. Un pezzo sacro, «la nuova installazione sonora e visuale creata da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto […] a partire dai Quattro Pezzi Sacri di Giuseppe Verdi». È una sera di metà autunno quella che si raccoglie attorno al Ponte Nord. L’aria è umida, il torrente Parma, come spesso accade, in secca, gli unici odori circostanti provengono dallo scorrere del (ridotto) traffico su una spettacolare infrastruttura, un «monumento in vetro e acciaio» (note di regia)  polifunzionale nelle intenzioni, ma che, nella realtà, dal 2012, rappresenta una cattedrale, alta tre piani e lunga oltre 150 metri, abilitata a ospitare esclusivamente eventi limitati nel tempo perché illegale rispetto a norme urbanistiche che vietano ogni costruzione stabile e a uso permanente sui letti dei corsi d’acqua.
Uno spazio, dunque, abortito, non venuto al mondo, fallace nella sua stessa essenza, spento, buio e privo di anima, che, tuttavia, brulica di corpi in movimento (d)al suo esterno e, per una volta, anche al suo interno. Ed è su questa antitesi concreta che Lenz decide d’innestare il proprio Paradiso, terza cantica dantesca e secondo step del progetto biennale sulla Divina Commedia (iniziato con il Purgatorio all’Ospedale Vecchio), atto terminale in cui, lasciata ogni Ragione (Viriglio), incontrata la Grazia della Fede (Beatrice) e invocata la Mistica dell’Estasi (san Bernardo), Dante – e noi con lui – verrà avvolto dall’intonazione dei versi delle Laudi alla Vergine Maria, Pezzo Sacro di Giuseppe Verdi più volte declamato nel corso dello spettacolo dalle trenta coriste dell’Associazione Cori Parmensi.
Non indugeremo sulla tensione etico-estetica e sul rigore che, da canone, contrassegnano l’ideazione e la messa in scena di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, sarebbe troppo facile e probabilmente inutile tesserne le lodi; tantomeno ci soffermeremo sull’immediato parallelismo tra uno spazio che anela nuova vita e la capacità di tutto l’ensemble lenziano «di ripensare continuamente lo spazio dell’arte quale condizione necessariamente propedeutica per ogni esperienza artistica» (Purgatorio). Dello sviluppo, per quanto appena scritto e nei limiti del possibile, eviteremo ogni descrizione che sarebbe pedante e, questa sì, certamente inutile (oltre che insensata dal punto di vista di una critica adulta); cercheremo, invece, di restituirne la portata linguistica, essendo ormai terminato il tempo di allestimento, ma non il suo essere momento funzionale al modo in cui Lenz concepisce la propria dimensione artistica e pedagogica, e realizza un teatro in cui enuclea una radicale e rivoluzionaria poetica educativa nei termini non della narrazione alternativa (come goffamente proposto da tanto teatro civile, politico o sperimentale di casa nostra), quanto del lessico e della sintassi che ne sta alla base.
Sarà, ancora e per l’ennesima volta, arduo non rimanere sconcertati dalla capacità di Maestri e Pititto di «restituire capolavori della cultura nazionalpopolare in vesti rinnovate e perfettamente aderenti […] diversamente modulati di una poetica in grado di sfoggiare vertici assoluti in termini di esperienza e qualità attorale, registica e scenica» (Verdi Re Lear) e, in tal modo, di attualizzare la frattura annunciata da Hegel di un’arte che senza lotta mostrerebbe solamente delle pagine bianche.
Dalle suggestioni imagoturgiche alla modalità itinerante, dalla vestizione plastica delle scenografie alle strepitose restituzioni attorali, dalla povertà dei costumi alla quiete caotica dell’impianto sonoro, questo Paradiso. Un pezzo sacro è, infatti, una vera summa di gran parte delle virtù lenziane, un oltremondo in cui, ad aspettarci senza accoglierci, si troverà una vertiginosa galleria di personaggi posti nel sontuoso (ma a tratti disomogeneo) equilibrio di chi dall’Empireo, ormai asceso alla delizia di un regno ineffabile e alla diretta contemplazione di Dio (la Candida Rosa), intende, di cielo in cielo, di sfera in sfera, di piano in piano, farsi rappresentabile agli umani sensi di chi, mortale viaggiatore, è pellegrino di «un viaggio di progressivo apprendimento estetico, [di] una salita collettiva di coro, attrici e spettatori verso una superiore dimensione etica, una ricerca costante della verità illuminata che solo una particolare sensibilità oltre l’intelletto, uno stato sovrasensibile e misterioso, nella sua estrema debolezza, può raggiungere».
Bisbigliando parole alle quali sarà necessario avvicinarsi per tendere l’orecchio (il tempo umano non è eterno e bisogna far presto per giungere a Dio: «Dai’, guarda in alto, vai dentro quella Luce» dirà san Bernardo), reiterando versi per disperderne efficacia discorsiva, acquisire potenza semantica e concorrere all’edificazione di un’atmosfera di comunione e misticismo, un coro di «involucri-sarcofagi molli sacchi mortuari collocati a terra» emergerà per tutta la lunghezza del piano terra del Ponte Nord, immerso nella profondità di una luce che ne innerva la struttura fino alla fine. Un coro di privo di certezza naturalistica, al cui interno si canta in modo diverso la preghiera affinché la Vergine Maria interceda alla contemplazione del mistero di Dio («Luce, che da sé è vera»), ma che, con audace e credibile aderenza, restituisce quel senso di circolarità, perfezione e armonia che, nell’intenzione edificante di Dante, lega per mezzo dell’amore e della luce la realtà alla sua estrema origine e ogni creatura all’unità da cui «depende il cielo e tutta la natura» (il Motore Immobile).
Incalzato dall’insistenza sulle ripetizioni e sulle «variazioni di tempo e timbro, fluttuazioni e ondulazioni d’altezza e sull’elaborazione degli accordi» con cui la «drammaturgia musicale […] a cura di Andrea Azzali» tende a ridurre all’unità la varietà della «forma musicale della composizione sacra verdiana», il sommo poeta che osò descrivere Dio giunge al secondo piano, alla circostanza in cui lo vedremo incontrare dieci Sante vestite da sposa. È questo un passaggio cruciale, perché in esso, in una splendida parafrasi visiva di individualizzazione dell’unicità della Vergine, si trasfigura proprio quel coro di donne gravide e mai inseminate e con esso si consegna l’«evidente impossibilità biologica del concepimento» non tanto all’auspicata riflessione sulla «natura filosofica della maternità: la tensione al divenire due, al trasformarsi in nuovo, in altro, in ignoto», quanto alla questione vivente e concreta dell’essere al mondo e della dimensione tragica della vita.
Oltrepassata con estrema coerenza «l’unica cantica sinceramente terrena, quella di un Regno […] che – paradosso della Divina Commedia – conosce il trapassare del giorno nella notte e scopre il buio tornare a farsi luce» (Purgatorio), Paradiso. Un pezzo sacro di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto realizza, allora, un fedelissimo, e per questo clamoroso, ribaltamento del patrimonio originario, declinando i tre archetipi danteschi della divinità – semplicità (dell’Uno), perfezione (della Generazione) e infinità (della Specie) – in una ludicissima corrispondenza spirituale e sentimentale con il «sacco amniotico che contiene l’essere vivente», testimoniato su tutti dal meraviglioso contrappunto con cui Maria (e anche Dante nelle ultimissime battute) risponde all’invocazione (coro cantato: «Vergine madre, figlia del tuo Figlio, / Umile ed alta più che creatura, / Termine fisso d’eterno consiglio, / Tu se’ colei che l’umana natura / Nobilitasti sì, che ‘l suo Fattore / Non disdegnò di farsi sua fattura. / Nel ventre tuo si raccese l’amore / Per lo cui caldo nell’eterna pace / Così è germinato questo fiore. […]»; Maria: «Io sono la Vergine madre, figlia di mio Figlio. / La creatura più Umile e alta della Terra / punto fisso del Paradiso. / Io sono colei che l’umana natura / ha nobilitato / tanto che il suo Fattore non disdegnò / di farsi sua fattura. / Nel ventre mio si raccese l’amore / per questo caldo nell’eterna pace / è germinato questo fiore […]»).
Un incedere solo apparentemente semplice nella sua lineare progressione, capace di attraversare tre macrosequenze poetiche (l’incrocio tra Dante, san Bernardo da Chiaravalle, Beatrice e la stessa Maria; il monologhi tra Dante e le Sante; l’esposizione di Dante alla Luce) e, con estremo paradosso, di portare Lenz sullo stesso solco tracciato dalla ricerca di Dio, sul cammino che aveva condotto Dante al di là del mondo terreno a (ri)scoprire in Lui il volto dell’essere umano (Paradiso, Canto XXXIII: «dentro da sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effige / per che il mio viso in lei tutto era messo»; Paradiso. Un pezzo sacro: «Luce, lasciami il ricordo. / Guardo e vedo, solo io, guardo e vedo. / Per un istante. Io sono solo. / E vedo me / ma non mi vedo davvero, / perché non ho più gli occhi, non ci sono occhi, / ma sento, sento me / – / e la luce sono adesso Io»).
Dunque, pur partendo da direzione contraria, Lenz individua un medesimo percorso di ossimori e di antitesi drammaturgiche e sceniche, una compiuta ringkomposition che si apre e chiude – rispettivamente – sul testo delle Laudi alla Vergine Maria e sull’immagine finale del feto con cui richiama quella iniziale della gravidanza, accostando l’ascesa al Ponte Nord all’adempimento di un vero e proprio principium individuationis di chi «solo attraverso il corpo di Lei […] può vivere, non vedere, la Luce», quel Figlio dell’Uomo laicamente inteso come singolo, come parte del genere umano e come umanità nel suo complesso («irrompe su Dante, l’immagine del nascituro benedetto, a sua somiglianza, il riflesso e la nostalgia di tornare ad essere Persona»).
Nonostante perplima la sottotraccia di sofferenza che accompagna vocalmente Dante nella sua ascesa, Lenz propone allora un rinnovato dissidio nel duplice rapporto tra l’io e la mondo e tra la scena e il realtà, e, attraverso una Cantica non pacificata, rilancia prepotentemente il senso inclusivo della propria proposta artistica.
In Paradiso. Un pezzo sacro, la commistione di fattori sentimentali e intellettuali e di capacità immaginative e cognitive è, da questo punto di vista, esemplare di un atteggiamento che educa l’essere umano nella misura in cui lo provoca ad adattarsi all’ambiente (scenico/reale) senza accettarlo passivamente, ma ricreandolo ricercandosi in esso, e soprattutto di un’arte che denuncia la tentazione dell’autoisolamento e dell’autoconfinamento in uno status di privilegio e merce per classi oziose, quando, al contrario, andrebbe accomunata (per esempio) alla scienza quale funzione del benessere sociale e meritare la stessa gratitudine.
Un teatro adulto che, allontando il rischio di essere percepito quale sterile evasione, cerca di inficiare strutturalmente la possibilità di promuovere quell’assurda e omologante alienazione che spesso disperde tutto e tutti (l’artista, il critico, il pubblico) in sfoghi emotivi o intellettuali autoreferenziali e, di conseguenza, insignificanti.
#gallery-0-3 { margin: auto; } #gallery-0-3 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 11%; } #gallery-0-3 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-0-3 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */
Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro © Francesco Pititto (2)
Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro © Francesco Pititto (5)
Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro © Francesco Pititto (7)
Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro © Francesco Pititto (8)
Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro © Francesco Pititto (9)
Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro © Francesco Pititto (10)
Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro © Francesco Pititto (13)
Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro © Francesco Pititto (14)
Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro © Francesco Pititto
Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Festival Verdi 2017 Ponte Nord Viale Europa, Parma anteprima mercoledì 11 ottobre ore 21 debutto giovedì 12 ottobre ore 21 repliche 13 ottobre ore 21 14, 15 ottobre ore 20 18, 19, 20 ottobre ore 21 21, 22 ottobre ore 20
Teatro Regio di Parma/Lenz Fondazione presentano Paradiso. Un pezzo sacro dalle Laudi alla Vergine di Giuseppe Verdi XXXIII Canto del Paradiso di Dante Drammaturgia imagoturgia Francesco Pititto Installazione site-specific costumi regia Maria Federica Maestri Musica installazione sonora Andrea Azzali Maestro del Coro Gabriella Corsaro In scena Ensemble Lenz Fondazione e Associazione Cori Parmensi Cura Elena Sorbi Organizzazione Ilaria Stocchi Ufficio stampa Michele Pascarella Assistenti Monica Bianchi, Valentina Barbarini, Marco Cavellini Cura tecnica Alice Scartapacchio, Lucia Manghi, Gianluca Losi Shooting fotografico Fiorella Iacono Media video Stefano Cacciani Responsabili progetti riabilitativi Maria Antonioni, Barbara Bezzi, Rosanna Pellegri, Paolo Pediri Produzione Lenz Fondazione Commissione Festival Verdi in collaborazione con Teatro Regio – Festival Verdi con il sostegno di MiBACT, Comune di Parma, Regione Emilia-Romagna, DAI SM-DP Ausl-Sert, Fondazione Monteparma con il patrocinio di Comune di Parma si ringraziano Authority STU Spa, STU Area Stazione Spa, Fondazione Arturo Toscanini, Aurora Domus Coop. Soc. Onlus, Centro P.Corsini, Parma Lirica
Dante Paolo Maccini San Bernardo Frank Berzieri Maria Delfina Rivieri Sante Monica Baroni, Valentina Barbarini, Monica Bianchi, Lara Bonvini, Anna Coccia, Alessia Dell’imperio, Monica De Palma, Emma Galante, Chiara Garzo, Federica Goni, Valeria Meggi, Mirella Pongolini, Silvia Settimj, Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera Coro Elena Alfieri, Linda Azzolini, Caterina Benassi, Damiana Caserta, Giuseppina Cattani, Laura Cavalca, Anella Anna Celentano, Gabriella Corsaro, Dina Germana Dalla Giacoma, Luciana Gerbella, Barbara Gianolini, Maria Giardino, Monica Lodesani, Maria Alessandra Maini, Chiara Masetti, Paola Montermini, Valeria Moscardino, Antonietta Porfiria Napoleone, Elena Nunziata, Cristina Ortalli, Maria Luisa Panizzi, Giuseppina Piccoli, Patrizia Polloni, Renata Sussmann, Daniela Tagliavini, Clelia Tamborini, Anna Maria Ugolotti, Sandra Vitali, Stefania Vitali, Angelica Zannettino dei cori Ars Canto G. Verdi, Cantafabula di Felino, La Fontana di Bannone, Laus Vocalis, Sant’Ilario di Fognano, Renzo Pezzani, Vox Canora
Paradiso. Un pezzo sacro / Festival Verdi Al Festival Verdi di Parma, Lenz presenta Paradiso. Un pezzo sacro, «la nuova installazione sonora e visuale creata da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto [...] a partire dai…
0 notes
persinsala · 8 years ago
Text
Dopo il sublime Kinder (bambini), il progetto di Lenz sulle tematiche «della Resistenza e della tragedia europea durante le dittature nazi-fasciste» prosegue con Aktion T4, una «riflessione contemporanea sull’essere umano e le sue potenzialità espressive nella condizione di massima debolezza» realizzata in collaborazione con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma.
Per quanto sia impossibile, anche a posteriori, dare una interpretazione deterministica dei fatti, l’anelito di riscatto del popolo tedesco fu un elemento fondamentale per comprendere il successo della propaganda nazista in una Germania devastata dall’uscita dalla Grande Guerra, umiliata nell’orgoglio e spogliata sul piano economico. Nonostante ancora oggi si perseveri nel celare le corresponsabilità della gens teutonica e degli Alleati (Francia e Impero Britannico, in primis) e si preferisca fare riferimento a facili categorie emotive, come quella abusatissima della follia, gli esecutori del «male assoluto» (Hannah Arendt) furono, invece, lucidissimi nel sostenere e praticare un’ideologia che, a differenza di quanto successe in Italia con il fascismo, non trovò che un’opposizione residuale.
Solo apparentemente dedicato alla cosiddetta mercy death (termine che, in realtà, vedremo essere improprio), Aktion T4 di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri mette in scena il terrore perpetuato in luoghi forse meno conosciuti rispetto a quelli canonici della memoria come Dachau, Auschwitz e Mauthausen, ma altrettanto spaventosi, da Hartheim Castle in Austria ad Hadamar in Germania per citare i più celebri.
Preceduto da una massiccia operazione mediatica, finalizzato a mostrare l’abnorme costo sulle spalle dei sani e dei migliori (che, ovviamente, coincidevano) o il miraggio di una terapia efficace per patologie psicofisiche (altrimenti incurabili), dopo aver abbandonato la sterilizzazione coatta per contrastare la proliferazione di persone affette da malattie genetiche, dunque ereditarie (via che altri paesi, dagli Stati Uniti alla Svezia, dal Canada al Regno Unito, stavano perseguendo in quegli stessi anni), il programma Aktion T4 stabilì di porre a termine «vite indegne di essere vissute», esistenze – anche tedesche – spesso giudicate sensibili solo perché improduttive e onerose da mantenere, facendo leva sul consenso di famiglie illuse da una finta soluzione per le sofferenze dei propri cari e sull’attivo supporto di ostetriche e medici di famiglia.
Legge non dello Stato, ma di diretta emanazione dal Führer, pertanto sacra, lo scopo di Aktion T4 non fu semplicemente quello di evitare che nascessero vite sbagliate per così favorire la naturale selezione della razza ariana. Abbattendo i costi sociali del welfare e razionalizzando risorse preziose in un periodo di gravissima crisi in cui era prioritario rendere il Reich degno di un esercito imperiale, attraverso l’eliminazione di chi stava rallentando la trionfale marcia della razza superiore, Aktion T4 si propose infatti di diminuire le spese sostenute dallo Stato per il mantenimento in strutture pubbliche di pazienti sensibili o problematici. Accanto a individui socialmente disfunzionali, alcolisti, infermi e degenti psichici, furono innumerevoli i bambini internati in strutture psichiatriche e poi soppressi per quelli che oggi chiameremmo disturbi specifici dell’apprendimento o bisogni educativi speciali.
Figlia del darwinismo sociale tipico della Belle Époque e tanto in voga tra le élite progressista e l’intellighenzia di allora (da Galton a Lorenz), in un tempo privo di dubbi e colmo di certezze, l’eutanasia nazista fu in realtà il totale ribaltamento di quello che attualmente  viene a essere oggetto di dibattito dell’opinione pubblica e di (faticosa) regolamentazione da parte dei governi. Infatti, secondo lo spirito di un’interpretazione numerica della vita purtroppo ancora attuale (pur con le debite proporzioni lo riscontriamo intatto in una legislazione come la nostra che considera la funzione degli insegnanti specializzati nelle attività di sostegno e inclusione un diritto da garantire solo «nell’ambito delle risorse disponibili, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»), Aktion T4 non affermò il sacrosanto diritto all’autodeterminazione della persona, ma la riduzione della vita umana a parametro economico di un bilancio aziendale.
La sintesi di bisogno economico e di ideologia razzista, che Aktion T4 realizzò in una sconcertante manifestazione dell’autocoscienza nazionalsocialista, ce la rivela un elemento quasi freudiano, forse più simbolico che reale, ma che ben ne restituisce l’intima necessità di attuazione; vale a dire la retrodatazione dall’ottobre al 1 settembre 1939, giorno dell’invasione della Polonia, della lettera con cui – motu proprio – Hitler diede comune annunciazione alla purificazione tanto interna quanto esterna del Reich.
Teorie a quel tempo nuovissime usate, dunque, per giustificarne una antica quanto l’invenzione dell’uomo, la discriminazione razziale, che vide già nella declinazione culturale di uno dei padri dell’Occidente, Aristotele, una delle sue firme più illustri («è evidente che taluni sono per natura liberi, altri schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi», Politica I). Reso prima scientifico e poi istituzionale, il «razzismo di Stato» (Michel Foucault) sorse, difatti, proprio alla fine del XIX secolo dall’idea di dover difendere biologicamente non più una, ma la razza, un unico patrimonio biologico titolare della norma e, di conseguenza, di dover combattere ogni deviazione che ne mettesse a repentaglio l’igiene, riuscendo così a sopravvivere ai propri orrori dell’Olocausto e a fomentare una situazione geopolitica di conflitto etnico attuale e permanente.
Sanare piuttosto che avere cura, decidere selettivamente chi vogliamo e chi non vogliamo che venga al mondo, rendere il diritto alla vita una funzione della produttività materiale sono elementi rispetto ai quali la sensibilità di Lenz si pone naturalmente in una direzione ostinata e contraria, convinta che non ci sia nessuna marcia da rallentare, ma un’universale umanità da coltivare. Nel caso di Aktion T4, Lenz si avvale con estrema linearità di tutto il proprio repertorio: dall’imagoturgia di Francesco Pititto – autore del testo originale composto attraverso un sontuoso accostamento di stralci celebri (Re Lear di Shakespeare, Elena di Euripide, La vita è sogno di Pedro Calderón de La Barca, Faust di Goethe, Adelchi di Manzoni e Ifigenia di Euripide) – utilizzata per proiettare con lancinante paradossalità «sequenze di vita quotidiana, di lavoro e di svago, di giochi e di balli […]. Nonostante la tragedia imminente […] dentro e fuori la Germania», all’installazione di Maria Federica Maestri «costituita da un ammasso di macerie monumentali e di resti dei simboli nazisti», esplicito riferimento a quello che l’architetto del regime, Albert Speer, definì il valore delle rovine,  «testimonianza nei secoli a venire della grandezza del Terzo Reich, come quelle dell’Antica Grecia o dell’Impero Romano».
Rispetto all’imponenza delle intenzioni drammaturgiche e all’inclusività dell’ecologia scenica, Pittito e Maestri decidono di potenziare l’impianto polemico della rappresentazione, affidandosi a una costruzione semantica univoca e non polisemica, fenomenologicamente chiara ed evidente. Ponendo l’allestimento sul piano della sovrastrutturalità (dall’emotività dell’accompagnamento sonoro all’iconografia plastica della scenografia e agli inseriti audio documentaristici), dunque facendo largo (e inedito) uso del didascalico, la scelta, tuttavia, paga una condizione di sovraccarico cognitivo che, di fatto, inficia in parte quello che potremmo definire l’apprendimento dalla memoria, ossia il collegamento attivo tra la rievocazione degli stati rievocati (al pubblico) e la consapevolezza degli eventi rivissuti (di chi sarebbe stato vittima di Aktion T4, gli attori e le attrici sensibili), quindi il farsi viaggio nel presente della memoria storica.
La ricerca di un equilibrio tra le profonde suggestioni culturali e le radici esistenziali insite nel senso di Lenz per il teatro, che altre volte abbiamo ammirato promuovere una possibile «uscita dall’inferno» (Antonin Artaud), genera questa volta un freddo piacere estetico, una contemplazione che indugia su un compiacimento a tratti sorprendentemente manieristico.
Una sensazione che, tuttavia e nonostante una stremata restituzione verbale, non regge l’onda d’urto di interpretazioni in grado di incedere poderosamente tra canti, danze e torture, prima del climax finale; momento in cui una sconcertante Alessia Dell’Imperio, accompagnata nella genuflessione da Giacomo Rastelli, Tommaso Sementa, Carlotta Spaggiari e Barbara Voghera, ricorda con immediata semplicità quanto sia attuale la visione promossa per contrarietà da Lenz di un’umanità perduta nella disciplina di una società secolarizzata.
Una società che, dopo aver strappato il legame tra responsabilità e peccato, ha sì addolcito le pene, ma solo sottoponendo il corpo e la mente all’esercizio di norme tecniche per la corretta gestione di attività che Francesco Pititto e Maria Federica Maestri ci ricordano essere anche biologiche e non solo culturali o produttive. Concettualizzando il “senso di vite degne di essere vissute ma solo a condizione che” e, in tal mondo, consegnando il senso della disabilità alla necessità di una sua il più invisibile possibile integrazione, all’idea di costo sociale da compensare (nel sostegno scolastico, nei diritti speciali o, comunque, a carico di qualcuno che con il proprio sacrificio renderà sostenibile il sistema per tutti gli altri), Aktion T4 ci ricorda come, purtroppo, l’età contemporanea non sembri essere poi così distante dagli stessi pròdromi del razzismo contemporaneo.
#gallery-0-3 { margin: auto; } #gallery-0-3 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 20%; } #gallery-0-3 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-0-3 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */
Lo spettacolo è andato in scena: Lenz Fondazione dal 25 al 30 aprile 2017
Aktion T4 testo originale e imagoturgia Francesco Pititto installazione e regia Maria Federica Maestri musica Andrea Azzali performer Alessia Dell’Imperio, Giacomo Rastelli, Tommaso Sementa, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera voce over Marco Musso produzione Lenz Fondazione in collaborazione con ISREC
Aktion T4 Dopo il sublime Kinder (bambini), il progetto di Lenz sulle tematiche «della Resistenza e della tragedia europea durante le dittature nazi-fasciste» prosegue con…
0 notes
persinsala · 8 years ago
Text
Autodafé | Festival Verdi
Va in scena all’interno dell’ennesimo contesto formidabile, l’ultimo di Lenz, Autodafé, tratto dal Don Carlo di Giuseppe Verdi. (more…)
View On WordPress
0 notes
persinsala · 9 years ago
Text
«Si orienta sul macrotema della Materia del Tempo», il triennio 2015-17 che Natura Dèi Teatri dedica al monumentale artista Richard Serra, la cui celebre installazione The Matter of Time, ospitata dal Guggenheim Museum di Bilbao, ha segnato una cesura nelle modalità di percezione pubblica dell’opera d’arte.
In particolare, è Punto Cieco il «tema concettuale» individuato dall’edizione 2016 per declinare l’arte quale «visione […] non necessariamente corrispondente alla realtà», «illusione, immagine irreale, miraggio» che «il cervello solo suppone che […] sia la realtà».
Un programma culturale densissimo che «amplia la propria programmazione strutturandosi in due parti: la prima in apertura della stagione estiva […], la seconda nella consueta collocazione autunnale, dal 17 novembre al 3 dicembre», in cui Lenz presenta il terzo e conclusivo atto del progetto Il Furioso con la messa in scena degli ultimi quattro episodi del capolavoro di Ludovico Ariosto in un contesto di straordinaria e dialettica suggestione, il Tempio per la Cremazione di Valera, luogo dove l’avvento dell’estremo saluto al corpo che fu rimanda, per glaciale contrarietà, all’assolutizzazione di quell’immateriale che accomuna trasversalmente chi è ancora.
Dopo aver suggerito dialoghi anarchici con l’ecologia di allestimento (Promessi Sposi) o avervi forzato il pubblico all’erranza spezzata (Verdi Re Lear, il primo Furioso), è con lacerante, ma discreta complessità che Maestri e Pititto ambientano l’intreccio dell’amore impossibile tra Orlando e Angelica, Bradamante e Ruggero, Zerbino e Isabella in una successione di episodi al limes della linearità e della frontalità, così mostrando una fedeltà narrativa inedita e sospetta, perché incapace di spiegarsi con la ricerca di una completa attenzione e concentrazione, dunque secolare immersione, da parte degli astanti
Lo sviluppo da l’illusione a la follia, da la morte a la luna non è, però, affatto il goffo tentativo di compensare con il didascalico la profondità di un contesto letteralmente lancinante. Nonostante la tentazione alla semplificazione sia pericolosamente alla portata per un ipotetico sguardo tradizionale (accademico, più che medio), l’accostamento dispiega in realtà l’ennesima perturbazione di una poetica che vaga consapevolmente nella piena instabilità creativa, così disvelando il proprio autentico focus nella presenza di attori negativi rispetto all’ordinario estetico e antropologico.
Di fronte alla quasi canonicità dell’apparenza drammaturgica e allo scontato protagonismo del Tempio, emerge adamantina la spontaneità con cui Walter Bastiani, Frank Berzieri, Marco Cavellini, Massimiliano Cavezzi, Carlo Destro, Paolo Maccini, Delfina Rivieri, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera, dando concreta prova dell’ampiezza di un inaudito e virtuosistico controllo della scena, instaurano un’autentica relazione d’improvvisazione esistenziale con l’incontrollabilità del site-specific, modalità non a caso tipica di quell’arte urbana cui Richard Serra è immeso interprete e che, quando presa sul serio, offre all’artista la sfida forse più radicale e di certo senza tempo.
In questo clima di serrato corpo a corpo tra intenzione della e condizionamento dalla realtà la questione culturale della morte accosta quella puramente biologica, ponendo interrogativi che rimandano all’inesprimibile per risposte da «cercare senza mai trovare»: se «morire è tremendo, ma l’idea di morire senza aver vissuto è insopportabile» (Erich Fromm), quante volte accade di vivere o morire? Cosa ne determina l’effettiva estensione? Qual è, di conseguenza, il tempo dell’esistenza?
Ereditando dall’Ariosto ben oltre che la semplice struttura portante di un poema che ha fatto la Storia e sussumendone la natura polemica (dell’antropocentrismo rinascimentale) nel rifiuto di qualsiasi forma di sottomissione al mentalismo, Lenz ne recupera dunque proprio il tempo – l’inattuale annuncio della crisi della natura umana (pars destruens) – e l’essenziale – la concreta inclusione di tutte le sue componenti, anche fantastiche e irrazionali (pars construens).
Un esito, forse sottile da scorgere tra le ingombranti maglie di una strepitosa architettura scenografica e imagoturgica, ma ancora una volta esemplare nel suo essere raggiunto attraverso l’abisso creativo di chi si autorappresenta in funzione estetica e spettacolare e, per esempio, coglie nell’assenza della Luna (compagna nelle precedenti repliche) non l’impossibilità di un dialogo, ma l’apertura al confronto diretto con il cielo e le stelle.
Lo spettacolo è andato in scena all’interno di Natura Dèi Teatri 2016 Tempio per la Cremazione Valera, Parma dal 25 giugno, ore 21:30
Il Furioso (2) #5 L’illusione #6 La Follia #7 La Morte #8 La Luna dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto drammaturgia, imagoturgia, scene filmiche Francesco Pititto installazione, elementi plastici, regia Maria Federica Maestri music Andrea Azzali performer Walter Bastiani, Frank Berzieri, Marco Cavellini, Massimiliano Cavezzi, Carlo Destro, Paolo Maccini, Delfina Rivieri, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera direzione tecnica Alice Scartapacchio cura Elena Sorbi Organizzazione, Ilaria Stocchi comunicazione Valeria Borelli ufficio stampa Michele Pascarella tecnici Lucia Manghi, Stefano Glielmi, Marco Cavellini Assistente | Roberto Riseri produzione Lenz Fondazione progetto realizzato con il sostegno di DAISM-DP Dipartimento Assistenziale integrato di Salute Mentale Dipendenze Patologiche AUSL di Parma in collaborazione con So.Crem Società per la Cremazione, Ser-Cim Servizi Cimiteriali con il sostegno di: MiBact, Regione Emilia-Romagna Comune di Parma, Provincia di Parma, Fondazione Monte di Parma, Università degli Studi di Parma Chiesi Farmaceutici,| Festival Verdi
Il Furioso | Natura Dèi Teatri «Si orienta sul macrotema della Materia del Tempo», il triennio 2015-17 che Natura Dèi Teatri dedica al…
0 notes
persinsala · 9 years ago
Text
Al Festival Verdi, la prima volta di Lenz Rifrazioni è Verdi Re Lear, l’impossibile omaggio al cigno di Busseto.
È una (discutibile) convenzione ormai canonicamente accettata quella che segna nell’età risorgimentale della seconda metà del XIX secolo l’avvio della Storia d’Italia con le ideologie di patria e nazione, i movimenti di popoli e di idee, le circolazioni di merci e persone indiscusse protagoniste dei discorsi di storici, intellettuali e politici.
Al club dei padri si iscrive necessariamente Giuseppe Verdi, tra i compositori più grandi di sempre, maestro di livello internazionale per tecnica ed eleganza esecutiva, nonché incarnazione – non a caso al pari di Alessandro Manzoni – dello Spirito di una nazione, la cui identità culturale e sociale si palesò da subito tanto problematica, quanto con quella innaturale ovvietà che, come tutte le imposizioni dall’alto, fu figlia di necessità politiche volte incoerentemente e/o paternalisticamente al bene comune, essendo in realtà espressione del blocco storico ormai dominante (la borghesia).
Con un drammatico ribaltamento di priorità (in primis l’Italia, poi gli italiani), l’Unità fu, soprattutto a livello popolare, vissuta quale dominio da parte di chi pensava che, «fatta l’Italia, fare gli italiani» fosse una sorta di mission laica (Mazzini), economica (Cavour) o religiosa (Manzoni), così edificando il primato storico dell’essenza sull’esistenza, del dover essere sull’essere autenticamente.
Disvelando – attraverso l’arte – il complesso rapporto tra normalità e diversità, tra cultura e potere, tra norma e rivoluzione, quella antinomia si destruttura sul solco delle analisi di Lenz Rifrazioni delle origini della nostra cultura, il cui conformismo (reale e drammaturgico) ha ridotto al soliloquio un intero mondo di shakespearean fools ritenuto non funzionale ai meccanismi e ai dispositivi di produzione e omologazione. Sfuggendo a ogni tentazione di caduta estremistica e compensandosi in un fantastico equilibrio tra ricerca estetica ed analitica esistenziale, quello raggiunto da Francesco Pititto e Maria Federica Maestri è un compiuto formalismo. Audace nello spingersi oltre, cosciente nel fissare la propria direzione drammaturgica e sempre mirabile nel restituire capolavori della cultura nazionalpopolare in vesti rinnovate e perfettamente aderenti, lo abbiamo ammirato da I Promessi Sposi all’Adelchi, fino a Il Furioso (da Ludovico Ariosto), esemplari diversamente modulati di una poetica in grado di sfoggiare vertici assoluti in termini di esperienza e qualità attorale, registica e scenica.
Da tali premesse archeologiche (culturali e teatrali), ma con un inedito privilegio accordato alla resa estetica, prende corpo Verdi Re Lear – L’Opera che non c’è, ambizioso progetto volto alla realizzazione di ciò che rimase incompiuto, dunque non esistente e impossibile da porre definitivamente di fronte agli occhi: l’opera di Giuseppe Verdi «mai musicata e di cui esiste solo il libretto di Antonio Somma contenente le correzioni dello stesso compositore».
La dimensione itinerante – che, per esempio, ne I Promessi Sposi costituiva la declinazione immersiva attraverso cui dare corpo alla responsabilità del pubblico – viene spezzata senza essere interrotta, resa anch’essa incompiuta perché affidata alla centralità della prospettiva di visione e confinata al momento di cambio di sala tra il primo e il secondo atto, la cui successione diacronica puramente casuale (a sorteggio) scardina aprioristicamente ogni aspettativa e intreccio narrativo.
Due allestimenti nell’allestimento, dunque, che, grandiosi nell’intenzione e titanici nella realizzazione, hanno visto la splendida collaborazione del Conservatorio di Musica A. Boito di Parma con la consulenza musicale di Carla Delfrate, quella al canto di Donatella Saccardi, e la partecipazione di eccellenti cantanti lirici.
Ad accogliere i due gruppi di spettatori sono cast e scenografie diverse. I primi – pur nella diversità tra gli atti – sono abitanti erranti di un mondo cui sono con-segnati per inscenare «la materialità dei corpi che, dialogando con l’immaterialità dell’immagine, genera un’immagine-sogno», realistici brandelli del rapporto asintotico tra libertà e dovere, tra ragione e follia, tra naufragio dell’ego e deriva dei sentimenti, ovvero di quella tragedia dell’eccedenza che fu il King Lear del Bardo. Le seconde, entrambe poste oltre «velari trasparenti» su cui – a seconda della sala – si vedranno agire corpi e volti in proiezione, colpiscono per la diversità e l’efficacia dell’impatto visivo, ma, forse e ancor di più vista la commistione di sensibilità in scena, per la comune capacità di concorrere alla costruzione di una tipica veste operistica povera, condividendo tale merito con la densità sonora delle rivisitazioni verdiane di Scanner, strabilianti per come riescono letteralmente a vestire i volti e le interpretazioni di differenti tonalità caratteriali e drammatiche.
Una rappresentazione, allora, «impassibile e si divide, si sdoppia, senza rompersi, senza agire, né patire» (Gilles Deleuze, Logica del senso), che, nonostante una diversa impressione di omogeneità, dalle strepitose geometrie e coralità della Sala Est all’intensità plastica a tratti calante della Sala Majakovskij, si pone in sublime coerenza con il progetto di Lenz Rifrazioni, testimoniando in pieno la forza, l’urgenza e la potenzialità dell’arte quale strumento espressivo e contesto non coercitivo in cui lasciare che ognuno possa realmente affermare «diventa ciò che sei».
Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Festival Verdi: Verdi Re Lear da Re Lear di Somma-Verdi prima versione con le varianti e King Lear di William Shakespeare ricerca, drammaturgia e imagoturgia, regia Francesco Pititto music + live electronics Robin Rimbaud aka Scanner installazioni e costumi Maria Federica Maestri consulenza musicale M° Carla Delfrate consulente al canto Prof. Donatella Saccardi con Rocco Caccavari, Paolo Maccini, Franck Berzieri, Carlo Destro, Paolo Pediri performer Valentina Barbarini – Cordelia/Delia, Barbara Voghera – Fool/Mica, Giuseppe Barigazzi – Lear in immagine cantanti Haruka Takahashi – Regan/Regana soprano, Ekaterina Chekmareva – Goneril/Gonerilla mezzosoprano Gaetano Vinciguerra – doppio Lear baritono, Lorenzo Bonomi – doppio Lear/Edgar/Edgardo baritono Andrea Pellegrini – doppio Lear basso, Adriano Gramigni – Gloucester basso voce over Rocco Caccavari cura Elena Sorbi organizzazione Ilaria Stocchi comunicazione Violetta Fulchiati ufficio stampa Michele Pascarella direzione tecnica Alice Scartapacchio assistente alla regia Valeria Borelli équipe tecnica Gianluca Bergamini, Gianluca Losi, Stefano Glielmi, Marco Cavellini produzione Lenz Fondazione in collaborazione con il Conservatorio di Musica A. Boito di Parma
Verdi Re Lear | Festival Verdi Al Festival Verdi, la prima volta di Lenz Rifrazioni è Verdi Re Lear, l'impossibile omaggio al…
0 notes
persinsala · 10 years ago
Text
Il Furioso
Il Furioso secondo Lenz, ennesimo atto di un vitalismo artistico che continua a sorprendere e stupire per la sua coerente e instabile tensione verso la libertà. (more…)
View On WordPress
0 notes