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Letteratura in viaggio
La Valchiusa tra Petrarca e Boccaccio
Est in Narbonensi provincia nobilis fons Orge nomine. In eo herbe nascuntur in tantum expetite bubus, ut totis eas querat viribus. Sed illas in aqua nascentes certum est non nisi ymbribus ali.[1] [Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, par. lat. 6802, f. 143v]
Accanto a questo passo del codice parigino della Naturalis Historia compare un’aggiunta di un’altra mano, una “S” che vuole correggere il nome del fiume in “Sorge”. A porre questa modifica non fu un amanuense qualsiasi, ma il primo proprietario del manoscritto; Francesco Petrarca, il grande intellettuale medievale reso celebre dal suo immenso sapere ed immortale dalle sue poesie. In particolare, questo passo pliniano sta descrivendo un luogo a lui incredibilmente caro: si tratta di Valchiusa, una località delle Alpi provenzali a pochi chilometri da Avignone, una delle città più frequentate dal sommo poeta girovago. A renderne necessaria la frequentazione era il periodo storico: tra il 1309 ed il 1377 la sede del papato si era trasferita proprio ad Avignone, delineando quella che verrà sempre ricordata come “Cattività Avignonese” con i suoi papi ed antipapi. A Valchiusa Petrarca trovò ben più di un rifugio tranquillo dalla frenesia della nuova città papale: questa località ospitava, così come ospita tuttora, la Fontain de Vaucluse, da qui nasce il fiume Sourge, la cui bellezza incantò così tanto il poeta da diventare l’emblema del suo locus amoenus, il suo personale paradiso terrestre fonte d’ispirazione. È proprio pensando a Valchiusa che scriverà, tra il 1340 ed il 1341, “Chiare, fresche et dolci acque”, la composizione più celebre del suo Canzoniere.
Il manoscritto di Plinio ci regala molto di più di una “S”: poco più sotto appare lo schizzo di un airone cenerino che mangia in mezzo ad un canneto, in lontananza un sentiero che s’inerpica sopra di un monte, sulla cui vetta appare una cappella.
Il disegno è tanto più interessante quando si scopre che a farlo non è stato Petrarca, bensì il suo pupillo più devoto; Giovanni Boccaccio. Grazie al confronto con un altro schizzo certamente attribuibile all’autore del Decameron, infatti, è stato possibile dichiarare anche questo disegno figlio dello scrittore. È certo, d'altronde, che Petrarca gli abbia prestato il manoscritto per permettergli di continuare le sue ricerche per la stesura del De montibus e cosa, più importante, sappiamo che Petrarca apprezzava ritrovare sui propri volumi disegnetti e abbozzi di chi li aveva avuti in prestito.
Il filologo Francesco Rico ha visto qualcosa in più di un semplice omaggio da parte di Boccaccio verso il suo modello. Secondo lo studioso potrebbe trattarsi di una rappresentazione simbolica: l’airone cenerino sarebbe Petrarca stesso, dal momento che condivideva con il nobile uccello non solo le abitudini alimentari (pesci e frutta), ma anche la paura per le tempeste ed un ingegno smisurato (così viene ritratto l’animale nei bestiari medievali). A questo punto, il monte con la cappella in vetta altro non è che il percorso che il poeta ha compiuto per liberarsi dei suoi peccati giovanili per raggiungere la pienezza religiosa, la raffigurazione di un’ascesa “in montem Domini”.
Il disegno è davvero singolare, dal momento che Boccaccio non visitò mai Valchiusa (infatti quello che rappresenta non assomiglia a nessun luogo veramente esistente). Tutto quello che sa di questo posto lo conosce grazie ai racconti del suo maestro, che certamente glielo deve aver descritto numerose volte, prodigandosi nei dettagli.
Ancora alcune lacune ruotano attorno a questo piccolo capolavoro. Non è chiaro, infatti, se Boccaccio lo realizzò di sua libera iniziativa, come sostiene il professor Fico, o se lo fece sotto l’occhio vigile di Petrarca, come, invece, ha ipotizzato Maurizio Fiorilla. Certo è che le parole che seguono appena sotto il disegno sono state vergate da Petrarca stesso, il quale ha voluto omaggiare a modo suo il lavoro del pupillo fiorentino.
Transalpina solitudo mea iocundissima.[2] [par. lat. 6802, f. 143v]
Gabriele Chincoli
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia: Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Codice par. lat. 6802 M. Fiorilla, Marginalia figurati nei codici di Petrarca, Olschki 2005 F. Rico, Ritratti allo specchio: Boccaccio, Petrarca, Antenore 2012
[1] “Nella provincia narbonese c’è una sorgente famosa col nome di Orga. In essa nascono erbe ricercate tanto dai buoi, che le cercano con tutte le teste immerse. Ma è certo che quelle che nascono nell’acqua non sono alimentate se non dalle piogge” [traduzione libera del passo non corrotto]
[2] “Il mio dolcissimo eremo transalpino”
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Letteratura in viaggio
Zerocalcare e l’ascesa al monte
Ognuno di noi nella vita ha un’attività principale. Non c’entra il lavoro o il reddito, eh. Cioè, non per forza. È proprio una cosa in cui uno investe la maggior parte del suo tempo o della sua energia. Una specie di vocazione coatta.
Michele Rech, in arte Zerocalcare, è un fumettista romano, classe 1983. È cresciuto nel quartiere di Rebibbia, una zona in periferia lontana, tanto geograficamente quanto concettualmente, dalle vetrine dei negozi e dai locali in del centro. Si tratta di un quartiere di case popolari, di proletari e figli di proletari, un luogo dove il punk è ancora vivo ed il rock è più sulle note di Kurt Cobain che quelle di Jon Bon Jovi. Qui vive la realtà dei centri sociali e fa suoi i valori della lotta al sistema, al potere, al conformismo, imparando a schierarsi con i suoi compatrioti, gli oppressi, gli ultimi. I suoi disegni s’impregnano di questo background culturale, trasportandolo nero su bianco così com’è, senza veli o censure. Il suo linguaggio marcatamente romano, così denso di sfumature tipiche, spesso fonte d’ilarità, il continuo riferirsi agli elementi cult degli anni ‘80 e ’90, le citazioni di fumetti, film, videogiochi, i racconti delle risse di strada, delle proteste contro il governo, degli eccessi delle forze dell’ordine (è del 2006 il suo GeVsG8, mentre A.F.A.B., in cui racconta gli eventi a lui capitati in quanto partecipante, è del 2011, pubblicato in occasione del decennale dalla strage), tutto questo è espressione non solo della sua identità, ma di una fetta della generazione Y, quella cresciuta con MTV, ma la vera MTV, quella che mandava in onda i Nirvana, non Riccanza.
Nel 2011 pubblica il suo primo albo, La profezia dell’armadillo, del quale quest’anno è uscita una fedele trasposizione cinematografica. Zerocalcare inaugura, così, una serie di volumi dedicati alla sua autobiografia, la quale è il pretesto per donare ad un vasto pubblico la possibilità di leggere nella mente di una delle generazioni più evasive ed indecifrabili degli ultimi due secoli. È la generazione dei valori, ma non degli eroi, che sa riconoscere cosa è sbagliato, ma all’orizzonte non vede nessuno che si ponga a paladino di ciò che è giusto e allora eleva a suo modello l’Uomo Tigre o Sirio il Dragone. È la generazione che viene dopo i baby boomers, la quale vede il mondo che questi hanno creato e non sa che farsene, poiché le fondamenta sono macerie e rimboccarsi le maniche per migliorarlo sembra più un accanimento terapeutico che un’opera umanitaria.
Nel 2015 pubblica il suo albo più famoso, destinato a consacrarlo non solo tra i fumettisti italiani, ma anche tra gli scrittori: è Kobane Calling, il racconto di due spedizioni che l’autore ha realmente fatto in territorio curdo per dare sostegno e solidarietà alle popolazioni locali, strette in una morsa letale tra le azioni repressive del governo turco, guidato dal sanguinario presidente Erdogan, e gli attacchi dell’ISIS.
Nello stesso anno esce anche L’elenco telefonico degli accolli, un’opera che racchiude diversi episodi slegati della vita di Zerocalcare contornati da una trama di fondo. In questa, l’autore deve intraprendere un viaggio dantesco, accompagnato da una guida molto più zen di Virgilio: il suo amico immaginario Armadillo. La spedizione da portare a termine è quella verso la cima del Monte Fato, sulla cui sommità potrà liberarsi di tutti i fardelli che si porta dietro: i sogni da bambino e quelli da adulto, l’amore dei propri cari, la fiducia di amici e fan e, cosa più importante, la propria tribù, quella che non si vuole deludere a qualsiasi costo, per la quale è più importante essere fedeli che essere famosi. Così sovraccaricato di tutto ciò che lo identifica, su un sentiero ricoperto di uova da non rompere, il protagonista s’inerpica fino alla cima del Monte, dove lo aspetta un finale inatteso. Se, infatti, era convinto che una volta terminata l’ascesa si sarebbe potuto alleggerire, non solo l’Armadillo gli fa notare l’insensatezza di abbandonare ciò a cui più si tiene, ma anche l’egocentricità dell’autore, così concentrato sui propri problemi da non rendersi conto che il sentiero è gremito di persone, ognuno coi suoi fardelli, ognuno con la sua strada da percorrere.
Z. -E che ne so, so’ arrivato in cima a Monte Fato…- A. -Io pensavo per pippare i gas del vulcano. Col fatto che sei straight edge giusto giusto quello puoi fa’. […] Ma poi scusa, hai fatto tutta la pippa emo sulla tua identità e mo’ la butti via così?- Z. -E che faccio? Mi incollo ‘ste scatole per tutta la vita?- A. -SÌ. Funziona così la vita-
Gabriele Chincoli
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
BIBLIOGRAFIA Zerocalcare, La profezia dell’armadillo, Bao Publishing 2011 Zerocalcare, Kobane Calling, Bao Publishing 2016 Zerocalcare, L’elenco telefonico degli accolli, Bao Publishing 2015
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Letteratura in viaggio
Gunnar Gunnarsson
Landa petrosa, neve e tempesta
Fanno piede sicuro e gamba lesta
Chi al riparo sempre resta
La sua vita perderà
Nato in Islanda nel 1889 in una fattoria, Gunnar Gunnarsson fu fin da piccolo immerso nella natura indomita, costretto assieme alla famiglia a condurre l’ardua vita del contadino. Il suo ardente desiderio di avere successo in campo letterario fu ciò che gli diede lo stimolo per fuggire dalla sua condizione, ottenendo a diciotto anni di poter accedere ad una scuola superiore in Danimarca. Nonostante il trasferimento avesse migliorato notevolmente le sue condizioni, consacrandolo velocemente a grande scrittore, non gli fu mai possibile dimenticare la propria patria, la quale divenne l’argomento principale delle sue opere. Fu questo dettaglio, la scelta di parlare dell’Islanda e della sua natura, la chiave della sua fama, poiché i lettori, sofisticati danesi assorbiti dal progresso tecnologico e culturale di cui erano parte integrante, presero subito a cuore i racconti di terre desolate, uomini austeri e nevi perenni.
Nel 1939, dopo una vita consacrata al successo letterario e la spiacevole adesione alla Società Nordica (testa di ponte del nazionalsocialismo nei paesi nordici), tornò finalmente nella sua isola natia, dove tentò di ricostruire l’idillio del suo passato stabilendosi in una fattoria isolata assieme alla moglie: l’esperimento si rivelò un insuccesso, soprattutto dal momento che l’Islanda dei suoi ricordi ormai non esisteva più, trasformatasi velocemente dal secondo dopoguerra, abbandonando la sua tradizione pastorale per votarsi al progresso. Si spegnerà nel 1975, dopo aver speso l’ultima parte della sua vita a tradurre e ritradurre i suoi scritti.
Con prudenza infinita fece due passi avanti, lunghi ma attentamente calcolati, conficcò il bastone nella neve, prima qui, poi là, l’ultima volta gli arrivò un suono cavo, era l’imposta, aveva trovato il rifugio: era a casa.
Scritto nel 1936 in seguito a fatti realmente accaduti, Il pastore d’Islanda è la storia di Benedikt, un povero pastore in procinto di realizzare la sua annuale ascensione sui pendii innevati durante l’ultima settimana dell’Avvento. A muoverlo non è certo lo spirito alpinistico, quanto la misericordia: l’obbiettivo è quello di battere gli alpeggi estivi e trarre in salvo le pecore degli altri greggi rimaste indietro. Si tratta di un viaggio duro e rischioso, da tutti gli altri giudicato privo di senso, eppure questo non basta a fermarlo, acceso dal suo amore per la vita e non trovando differenza tra la quella umana e quella animale.
Ad aiutarlo nell’impresa ci sono due fidati compagni, il cane Leò ed il montone Roccia. Di temperamento assai diverso, questi inseparabili amici non lo abbandoneranno nemmeno quando la tempesta lo sorprenderà sulla cima della montagna, in pieno inverno, nel paese più rigido d’Europa. Questi, però, sebbene ottimi compagni dal punto di vista del sostegno fisico, nulla possono sul piano psicologico, motivo per cui è possibile dire che Benedikt sia effettivamente un uomo solo in balia della Natura.
Neve, gelo e solitudine.
Il fatto che sia la ventisettesima spedizione non è casuale, poiché Benedikt la compie a cinquantaquattro anni, dunque per metà della sua vita si è dedicato a quest’opera di carità e gli è piuttosto facile tornare con la mente a quando aveva iniziato con la sua missione, esattamente all’età di ventisette anni; allora a muoverlo verso le cime innevate era stata la decisione di seppellirvi i suoi sogni e desideri, tornando alla civiltà come un uomo piegato dalle regole della vita adulta. Andare in montagna prende, di conseguenza, il significato di un pellegrinaggio, un tributo alla tomba della sua gioventù.
In particolare, a destare la malinconia del protagonista è la convinzione che, non essendosi mai creato una famiglia, nessuno coglierà mai l’eredità del suo lavoro misericordioso, lasciando cadere il suo gesto nell’oblio. Con sua grande sorpresa, invece, qualcun altro è pronto a prendere il suo posto e a raccogliere il messaggio evangelico: si tratta di un giovane Benedikt, cresciuto con il modello del vecchio pastore sempre davanti a sé a dare il buon esempio, a dimostrazione che non serve un legame di sangue per mantenere vivo il ricordo di un uomo e preservarne le opere.
Basterà tutto questo ad acquietare il suo spirito ed a fermarlo dal compiere la sua annuale impresa?
E così finì il cammino dell’Avvento. Il compito era stato portato a termine e Benedikt era tornato tra gli uomini - ancora per un po’.
Gabriele Chincoli
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Bibliografia: G. Gunnarsson, Il pastore d’Islanda, Iperborea 2017 A. Zironi, Gunnar Gunnarsson e la fine dell’idillio islandese, Iperborea 2017
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Letteratura in viaggio
Niccolò Machiavelli
Dopo Dante Alighieri, la figura del politico letterato rimase senza un degno successore per oltre un secolo, periodo che la città di Firenze visse in costante tumulto: alla faida tra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, con la quale era stato inaugurato il XIV secolo, seguirono sommosse, guerre e l’ epidemia di peste del 1348. Forte del sostegno popolare, la famiglia Medici, impersonata dal patriarca Cosimo, nel 1434 riuscì a spezzare il dominio oligarchico che guidava la città, ottenendone un controllo esclusivo, pur mantenendo le sembianze di una repubblica. La situazione rimase immutata fino al 1494, anno in cui la scelta politica di Piero de Medici di sottomettersi senza esitazione al re di Francia gli valse la perdita del sostegno del popolo, che lo accusò di viltà. Seguì il governo di Savonarola, il frate domenicano tanto ortodosso e intransigente da meritarsi la scomunica di papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia) e la condanna al rogo (1498). A dominare la città fu una confusa repubblica, che durò fino al 1512, anno in cui Giovanni de Medici, futuro papa Leone X, si fece riconsegnare la città , che governò tramite delegati di famiglia.
È proprio in questi anni che si fa largo nello scenario politico cittadino Niccolò Machiavelli (1469- 1527), segretario presso la seconda cancelleria della Repubblica. Il suo compito, iniziato nel 1498 e terminato nel 1512, era, de facto, quello di rappresentante della città e in qualità di tale si adoperò con viaggi nei regni attorno per mantenere i fragili equilibri politici del periodo, già minacciati dall’ impresa militare di Cesare Borgia. Per questo visitò il campo d’assedio di Pisa e fu ricevuto presso la corte degli Sforza a Forlì e di Luigi XII in Francia. Fu ospite anche a Pistoia, quindi ad Urbino e Imola presso lo stesso Valentino, poi a Roma, Mantova, Siena e Civitacastellana. Nel 1507 era alla corte dell’imperatore Massimiliano, in Tirolo, e nel 1510 a Blois, presso il re francese.
Il ritorno della famiglia Medici segnò la fine della sua carriera politica: fu allontanato da ogni incarico di ambasceria, poiché ritenuto troppo legato alla vecchia Repubblica. Accusato di aver complottato contro Giuliano de Medici, nel 1513 fu processato e torturato. Ferito, distrutto politicamente ed esiliato da Palazzo Vecchio, si ritirò ad Albergaccio, dove iniziò la stesura dei Discorsi sopra alla prima deca di Tito Livio. Appena iniziato, tuttavia, s’interruppe per buttare giù di getto la sua opera più celebre, De principatibus (Il Principe), che scrisse in soli 6 mesi. L’ obbiettivo di questo trattato era quello di mettere in mostra le proprie conoscenze nell’arte della conduzione di uno Stato, in modo da farsi riammettere alla corte fiorentina come consigliere. A rendere davvero interessante l’opera, con il suo taglio meticoloso e il suo pensiero così logico e lineare, non è tanto il suo studio della politica presente e passata, quanto il suo valore antropologico: Niccolò Machiavelli è un analista del comportamento umano, analisi che compie senza alcuna sfumatura moraleggiante, ma con chiarezza e senza veli o censure.
“Sendo adunque, un principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione […]. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro”
[De principatibus, Cap.XVIII]
Anche nel teatro si affermò come impareggiabile autore: molto probabilmente del 1518 fu la Mandragola, una commedia in volgare che seguiva le orme dei capolavori di Ludovico Ariosto. Proprio in quest’opera, Machiavelli riesce ad imprimere i dettami del Principe a tutti i personaggi: a cominciare dal protagonista Callimaco, disposto a tutto pur di passare una notte con la bella Lucia, fino a Messer Nicia, marito di lei, il quale è pronto a credere ai miracolosi prodigi di una radice purché sua moglie resti incinta. Ma il vero Principe è certamente la stessa Lucia, la bellissima giovane moglie di un vecchio e ricco avvocato dalle tendenze omosessuali, la quale, poiché si vede spinta da tutti (marito, madre e confessore) tra le braccia di un giovane, decide di mutare la sua natura casta e remissiva e di trarre tutto quel che può dalla vita, facendo del suo amante di una notte il suo eterno compagno di letto.
“Però, io ti prendo per signore, padrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene; e quel che ’l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch’egli abbia sempre.”
[Mandragola, atto V, scena IV]
L’opera, dai tratti a volte sfacciati e dai temi alquanto moderni, come tutto il filone della commedia moderna italiana, vuole essere da un lato maestra di vita, dall’altro una fotografia critica dei costumi dell’epoca; a fare vero scandalo è la figura di Fra’ Timoteo, il quale è subito pronto, dietro compenso, ad abbandonare i precetti del suo Credo per venire incontro ai desideri dei ricchi borghesi.
Gabriele Chincoli
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia:
R. Bruscagli, Machiavelli, Il Mulino 2008
R. Bruscagli, Il Quattrocento e il Cinquecento, Il Mulino 2005
G. Ferroni, Storia della letteratura italiana: dal Cinquecento al Settecento, Einaudi 2012
N. Machiavelli, Il Principe, Barbera Editore 2011
N. Machiavelli, Mandragola, Garzanti 2010
Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi e A. M. Cabrini, Cisalpino 2005
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Letteratura in viaggio
Giacomo da Lentini
Spostarsi da un luogo all’altro, vicino o lontano che sia, è oggi parte della quotidianità, eppure questo è un traguardo che la società ha raggiunto solo dalla fine del secolo scorso.
Storicamente, infatti, gli unici ad intraprendere lunghi spostamenti, al di là degli eserciti, sono sempre stati solo i membri più facoltosi delle famiglie nobiliari, i mercanti in cerca di fortuna… e i grandi letterati: da Dante a Machiavelli, da Tasso a Goldoni, da Manzoni a Pirandello, tutti i più celebri scrittori che sono annoverati nel patrimonio italiano sono stati prima di tutto viaggiatori.
Anche volendo risalire alle origini dello sviluppo letterario italiano, comunque avremo a che fare con dei viaggi. A compierli sono i trovatori, poeti lirici resi celebri dal fatto che non si esibivano in latino, ma nobilitando prima il volgare occitano, poi quello italiano. Questi uomini, sempre in cerca di una corte in cui esibirsi, confluiscono lentamente verso il Regno di Sicilia andando a generare quella che, poi, diverrà nota come Scuola siciliana. Tale fenomeno culturale, iniziato nella seconda metà del XII secolo, vede la sua massima fioritura tra il 1230 e il 1250, sotto la guida dell’imperatore Federico II di Svevia: in questo periodo a comporre non sono artisti al soldo di un mecenate, bensì gli stessi funzionari e membri politici della corte imperiali, i quali hanno ereditato due caratteri fondamentali dai trovatori: il tema dell’amor cortese (giunto direttamente dalla Francia) e l’uso del dialetto locale. La letteratura, così, si svincola per la prima volta dal latino ed inizia la sua simbiosi con il volgare, nobilitandolo a tal punto da diventare ufficialmente la lingua della produzione letteraria.
La lingua utilizzata dai membri della Scuola è il siciliano illustre, che non riflette propriamente il parlato, ma è corretto e valorizzato da latinismi e da alcune rimanenze provenzali.
Alla guida di tutti i compositori, riconosciuto dallo stesso Dante come capo della Scuola, c’è Giacomo da Lentini (1210 ca. – 1260 ca.), funzionario, notaio e compositore di canzoni, canzonette ed inventore del sonetto, il componimento poetico che si spanderà ben oltre i confini nazionali, sfociando in tutta Europa. Temi principali delle sue opere sono la gioia contemplativa della bellezza esteriore della donna, o vagheggiamento, e l’innamoramento timido, assai diffuse tra i vari poeti della corte imperiale, ma che in Giacomo da Lentini, si sviluppano in maniera più vivace e leggera, come dimostra la canzonetta Meravigliosamente
Meravigliosamente un amor mi distringe e mi tene ad ogn’ora. Com’om che pone mente in altro exemplo pinge la simile pintura, così, bella, facc’eo, che ’nfra lo core meo porto la tua figura. (vv. 1-9)
L’uso del volgare e le tematiche amorose saranno riprese da un altro fenomeno culturale italiano, contemporaneo alla Scuola siciliana ma destinato ad una fama internazionale ed eterna: il dolce stil novo.
Gabriele Chincoli
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Bibliografia: R. Luperini, Letteratura Storia Immaginario, vol.1, Palumbo Editore 2008 L. Surdich, Il Duecento e il Trecento, il Mulino 2005 S. Torno, G. Vottari, Letteratura italiana: Dalle Origini al Quattrocento, Alpha Test 2000
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Letteratura in viaggio
Thor Vilhjálmsson
Procedevano al passo attraverso la brughiera che cominciava dopo il campo di lava. Dietro, la lava, dove il sentiero si snodava come un serpente subdolo, e bisognava stare attenti ai crepacci e alle buche, e aggirare gli scontrosi troll di roccia che emergevano dalle macchie di muschio grigio nel silenzio stridente del loro regno; e ogni tanto i due uomini conversavano a voce alta, ogni tanto i cavalli nitrivano, davanti, una collina violacea e il percorso che si faceva più lineare.
Thor Vilhjálmsson (1925-2011), nato a Edimburgo ma cresciuto a Reykjavík, è stato uno tra i più importanti scrittori islandesi, insignito di prestigiosi premi. Romanziere e poeta, è stato anche traduttore, occupandosi di trasporre nella propria lingua le opere di alcuni grandi artisti, tra cui Paulo Coehlo, Isabel Allende e Umberto Eco. Autore attivo dal 1950 fino a pochi anni prima della sua morte, ha visto alcuni esemplari della sua produzione letteraria riconosciuti dalla critica: Grámosinn glóir, titolo originale de Il muschio grigio arde (prima edizione del 1986, tradotto in italiano nel 2002), ha vinto nel 1988 il Nordisk råds litteraturpris (Premio letterario del Consiglio nordico).
Il romanzo ha per protagonista Ásmundur, un giovane magistrato islandese che vive immerso in un affollato, caotico e vivo paese caldo, nel quale la sua anima di poeta può creare liberamente. Eppure esiste ancora un legame con la sua terra natia: il suo ruolo istituzionale lo richiama in patria, dove lo aspetta il suo primo caso. Tornare a casa non significa solo riabbracciare con lo sguardo gli scenari della sua giovinezza, così antichi e immutati da rievocare i racconti medievali di grandi eroi, di saghe leggendarie e di esseri magici; il suo compito lo porta inevitabilmente a misurarsi con il padre, anche lui magistrato e noto in tutta l’Islanda per aver condannato a morte un colpevole nel suo processo più famoso.
Mentre Ásmundur osserva nuovamente la natura islandese in un itinerario lungo e solitario, non fosse per il suo taciturno compagno di viaggio, non può fare a meno di giudicare il proprio paese alla luce di quanto ha avuto modo di vedere e apprendere al di fuori di esso: l’immobilismo che caratterizza i suoi abitanti è in aperto contrasto con la società moderna che si sta affermando nel resto del mondo, rendendo la realtà islandese anacronistica.
Benché non lo si potesse dire vecchio, e fosse considerato giovane nella città in cui aveva dimorato, aveva una vita in più rispetto al suo compatriota, aveva un altro mondo nella sua anima che gli dava la certezza di albergare due uomini dentro di sé, di vivere contemporaneamente due esistenze.
Il suo amore per la giustizia, la sua esuberanza politica, dettata anche da un idealismo giovanile, e la sua anima di poeta sono costretti allo scontro nel momento in cui è chiamato a fare il suo dovere: giudicare una coppia di innamorati, il cui unico reato è quello di non avere mai avuto nulla dalla vita eccetto loro stessi.
Attraverso una prosa romanzesca che quasi travalica il labile confine che la separa dalla poesia, Thor Vilhjálmsson racconta la storia di un uomo realmente appartenuto alla Storia dell’Islanda, Einar Benediktsson, uno scrittore e poeta vissuto tra il XIX e il XX secolo che, prima di dedicarsi interamente a letteratura e politica, fu anche giurista.
Gabriele Chincoli
Bibliografia: T. Vilhjálmsson, Il muschio grigio arde, Iperborea 2002.
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Letteratura in viaggio
Alla scoperta del Nord attraverso Hans Christian Andersen
Ecco! Ora cominciamo. Quando saremo alla fine della storia sapremo più di quello che sappiamo ora, perché parla di un troll cattivo! Era uno dei peggiori, era il “diavolo”!
Questo è l’incipit di una delle fiabe di più ampio successo dello scrittore danese Hans Christian Andersen (1805-1875), di tale portata da essere impiegata ancora oggi, anche se in forme molto rivisitate.
Nato nel 1805 in una famiglia poverissima, è costretto a crescere nella miseria, resa ancora più opprimente dalla prematura morte del padre e dall’assenza di un’educazione scolastica. Desideroso di sfondare come attore o poeta, lascia la casa della madre per trasferirsi a Copenaghen a soli 14 anni, convinto che lì inizierà la sua carriera artistica, la quale, in verità, si rivela un vero fiasco; rifiutato ovunque, riesce solo nel 1822 ad accaparrarsi un mecenate, il direttore del Teatro Reale Jonas Collin, il quale finalmente gli finanzia gli studi.
Ha 17 anni la prima volta che va a scuola.
Terminati gli studi, necessari per acquisire una scrittura fluida e diventare padrone della lingua, inizia la sua carriera letteraria, dapprima traballante, ma, dopo alcuni viaggi al di fuori della patria che gli consentono una visione più ampia del mondo, i suoi scritti raggiungono la fama: il romanzo L’improvvisatore, pubblicato nel 1835, è un successo europeo. E mentre alcuni esponenti della critica, tra i quali lo stesso Kierkegaard, lo screditano come scrittore, è proprio nello stesso anno che inizia la sua smisurata produzione di fiabe e storie, le stesse che lo consacreranno come autore immortale mentre è ancora in vita.
A destare tanto interesse sono senza alcun dubbio sia le tematiche che traspaiono dai suoi testi, così ricchi di allusioni verso il diverso e ciò che è ambiguo, sia la sua destrutturazione dei canoni della fiaba fino alla creazione di una vera e propria “anti-fiaba”, nella quale i personaggi non sono vaghi, ma persone vere e proprie, che agiscono nel mondo reale, spesso in luoghi noti o riconoscibili e che difficilmente riescono a guadagnarsi un lieto fine; la morte è sempre presente nelle sue opere, anche nelle più dolci. Tanta innovazione non è un frutto del caso, ma deriva da un forte autobiografismo. C’è tanto di Andersen e della sua vita personale, la quale fu tormentata a causa del suo poco apprezzabile aspetto fisico, delle delusioni amorose, della latente omosessualità, delle umili origini in cui aveva vissuto e da cui cercava di distanziarsi e del suo sogno infranto di diventare un attore; da qui i suoi toni più tetri, i suoi continui riferimenti al doppio e all’ambiguo e la scelta di inserire spesso il tema del diverso.
Infine, una grossa fetta del successo è dipesa dall’oculato studio del pubblico che ha sempre caratterizzato l’autore. Egli era solito circondarsi di amici ai quali leggeva in anteprima le sue storie: nel mentre, teneva d’occhio i presenti, osservandone le reazioni, quindi andava a modificare la fiaba prima di farla pubblicare, aggiustando quelle parti che non avevano destato l’interesse desiderato.
I fiocchi di neve diventavano sempre più grandi, alla fine sembravano grandi polli bianchi; d’un tratto fecero un balzo da un lato, la grande slitta si fermò e la persona che c’era dentro si alzò, la pelliccia e il cappello erano fatti di neve; era una donna alta e snella, di un bianco splendente: la regina delle nevi.
Pubblicata per la prima volta nel 1844, La regina delle nevi è tra le sue fiabe più famose e più interessanti. I temi predominanti sono il viaggio, compiuto dalla protagonista Gerda che vuole ad ogni costo ritrovare il suo amico d’infanzia Kay, rapito dalla regina, e la visione del Nord, la meta della bambina. Qui l’autore, infatti, ci concede una visione attraverso gli occhi degli stessi danesi, già considerabili come nordici. A mano a mano che la bambina prosegue nel suo cammino farà la conoscenza di personaggi estremamente pittoreschi, i quali incarnano diversi stereotipi degli abitanti delle regioni più fredde. Appena fuori Copenaghen Gerda incontrerà una donna all’apparenza gentile, la quale si rivelerà una strega che non vuole lasciarla proseguire. Di seguito, sarà la volta del principe con la sua consorte, indubbiamente gentili e prodighi nei suoi confronti, ma freddi tra loro e decisamente anaffettivi, a cui seguirà una figlia di briganti, rude e violenta, ma anche in grado di provare compassione. Gli ultimi due incontri lungo la strada sono la donna lappone e la donna finnica e, mentre la prima è tanto bizzarra da scrivere un messaggio su uno stoccafisso secco, la seconda riesce a stupire ancora di più, presentandosi seminuda, sporca e in una casa fatta a sauna; proprio loro, tuttavia, saranno decisive per la bambina, fornendole un aiuto essenziale per il suo proseguimento.
L’ascesa verso il Nord, dunque, viene rappresentata con un’escalation di personaggi sempre più distanti dai canoni dell’abitante di città, eppure a mano a mano che la follia cresce aumentano anche valori come l’empatia, la solidarietà e l’amore per il prossimo.
Il finale di questa fiaba, indubbiamente lieto, viene, ad ogni modo, stemperato da una morte decisamente inaspettata e inutile ai fini della trama: si tratta della cornacchia, uno degli amici che Gerda si era fatta lungo la strada. Questa nota lugubre è sufficiente per rivalutare quanto appena accaduto, ponendo in evidenza per il lettore tutte le sofferenze che la protagonista ha patito per riavere il suo Kay e quanto le è costato il viaggio; tutta la propria infanzia.
Entrarono e andarono verso la casa della nonna, salirono le scale, e si ritrovarono nella stanza dove tutto era rimasto come prima: l’orologio diceva “Tic!Tac!” e la lancetta girava; ma quando varcarono la porta sentirono di essere diventati adulti.
Gabriele Chincoli
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia: Hans Christian Andersen's correspondence, ed Frederick Crawford 6, London. 1891 H. C. Andersen, Fiabe e storie, Feltrinelli Editore 2016 R. Lepage, Bedtime stories, The Guardian 19 July 2006
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Letteratura in viaggio
Dante Alighieri
E io a lui: «I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo Ch’e’ ditta dentro vo significando». [Purgatorio, XXIV 52-54]
L’esempio della Scuola siciliana, una traduzione in volgare dell’Amor cortese sviluppatosi in Francia, ebbe un’evoluzione unica a Firenze; il Dolce Stil Novo. L’amore di trovatori e trovieri e degli autori presenti alla corte di Federico II di Svevia, come Giacomo da Lentini, da pulsione carnale, passionale ed erotica muta in un amore puro, spirituale e divino. La componente extraconiugale resta, ma l’unico atto che gli autori chiedono alle proprie muse, delle vere e proprie “donne-angelo”, è quello di salvare la loro anima degnandoli di un gesto affettuoso, qualunque esso sia.
Vero capostipite del movimento è Dante Alighieri (1265-1321), cavaliere e politico di una Firenze assai instabile a causa della lotta intestina che vedeva schierate due fazioni: guelfi neri, sostenitori del papato, e guelfi bianchi, difensori della città dall’influenza di papa Bonifacio VIII, visto come l’emblema della decadenza spirituale del periodo. Schierato con questi ultimi, Dante viene mandato nel 1301 a Roma come ambasciatore per accordarsi con il pontefice affinché non invii in città Carlo di Valois, ufficialmente incaricato di fare da paciere, ma in realtà conquistatore papale. Proprio mentre è trattenuto nello Stato della Chiesa, le truppe papali irrompono a Firenze, deponendo il governo dei Bianchi in favore dei Neri. Con un’accusa di baratteria Dante è spinto l’anno successivo all’esilio, prima per due anni, poi fino alla morte e con estensione a tutti i suoi famigliari.
Dal 1302 il poeta è un ramingo: abbandonato dalla propria patria e senza più un partito a difenderlo, tutto ciò che gli resta è cercare ospitalità negli stati italiani, prestando di tanto in tanto i propri servizi come ambasciatore e allietando le corti con le proprie opere. Da Firenze si sposta a Forlì, poi Verona, Treviso, Bologna, Padova, Venezia e ancora Treviso. Da qui si dirige nella Lunigiana ed è proprio durante questo tragitto che, probabilmente, visita la Pietra di Bismantova, immortalandola per sempre come paragone per il monte del Purgatorio. In seguito è la volta del Casentino, poi Lucca e, infine, ritorna a Verona nel 1312, dove rimarrà come ospite di Cangrande della Scala fino al 1318, anno in cui si sposterà a Ravenna, la città in cui morirà e rimarrà sepolto fino ai giorni nostri.
Il lungo e incessante peregrinare non impedisce al poeta di scrivere, anzi è proprio la sua condizione di esule che in parte sprona il suo estro; solo un’amnistia per meriti culturali può permettergli, infatti, di ritornare in patria non da pentito e sconfitto. Ed è proprio frutto di questi anni uno dei trattati più interessanti: il De vulgari eloquentia. Prodotto tra il 1303 e il 1305 in latino (sceglie questa lingua e non il volgare perché si tratta di uno scritto destinato a colleghi studiosi ed intellettuali e non alla borghesia neo-lettrice, per la quale, invece, elaborerà il Convivio) e rimasto incompiuto, l’opera è uno studio sui volgari presenti nella penisola, studio che Dante conduce nel tentativo di elevarne uno a lingua italiana. L’autore è, infatti, desideroso di poter vedere un’Italia unita e, poiché non era possibile dal punto di vista politico (tasto per lui dolente, a tal segno da trasparire in ben tre canti della Commedia, il VI di ciascuna cantica), poteva esserlo sul piano della scrittura. L’analisi dei quattordici dialetti allora presenti sul territorio, tuttavia, si rivela infruttuosa, dato che nessuna di queste gli pare degna. Il trattato prosegue, allora, con una descrizione di come dovrebbe essere il volgare da lui tanto cercato: illustre, in altre parole splendente, cardinale, cioè stabile e non mutevole come tutte le lingue parlate, aulico, dunque degno delle corti, e curiale, quindi impiegato dalla corte di giustizia. La scelta di non accostarsi a nessuno dei dialetti è dettata anche dal fatto che tutti i grandi poeti fino ad ora sono riusciti a scavalcare i loro confini regionali esprimendosi in un volgare sovraregionale unitario.
Ecco dunque che abbiamo raggiunto ciò che cercavamo: definiamo in Italia volgare illustre, cardinale, aulico e curiale quello che è di ogni città e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati. [De vulgari eloquentia, I, XVI, 6]
La questione della lingua italiana è rimasta in sospeso per secoli: nel 500 Pietro Bembo eleggerà a lingua dei dotti il toscano di Petrarca e Boccaccio, dunque un volgare vecchio di due secoli e ormai desueto, ma altri umanisti proporranno alternative differenti, senza riuscire a trovare un accordo. Inoltre, la condizione frammentata della penisola poneva in secondo piano quella linguistica, resa ancor meno importante dall’elevatissimo tasso di analfabetismo. Tornerà in auge come argomento solo nella seconda metà dell’800, quando spetterà ad Alessandro Manzoni porsi il quesito di quale lingua scegliere da far parlare all’Italia appena sorta, un’Italia divisa, fragile ed esclusivamente dialettale.
Gabriele Chincoli
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia: D. Alighieri, La Divina Commedia, Clio 2014 G. Ledda, Dante, il Mulino 2008 R. Luperini, Letteratura Storia Immaginario, vol.1, Palumbo Editore 2008 L. Surdich, Il Duecento e il Trecento, il Mulino 2005
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