#fondi decentrati
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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Firmato il Nuovo Contratto Nazionale CCNL Funzioni Centrali: Incrementi e Novità per i Lavoratori Pubblici
La FLP annuncia un traguardo importante per i dipendenti del settore pubblico, con nuove tutele, miglioramenti professionali e conciliazione vita-lavoro.
La FLP annuncia un traguardo importante per i dipendenti del settore pubblico, con nuove tutele, miglioramenti professionali e conciliazione vita-lavoro.. La Federazione Lavoratori Pubblici (FLP) ha recentemente comunicato la firma del nuovo Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) per le Funzioni Centrali, un risultato significativo che include miglioramenti in termini di diritti,…
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lasola · 4 years ago
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[4.1] - Il blocco del Puerto
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Prima di proseguire nelle discussioni che concludevano il post precedente, credo sia utile raccontare gli eventi da cui è nata l’idea di scrivere questo blog i cui contenuti erano parte, per la verità, di una tesi di dottorato che ha seguito un percorso lungo e frastagliato, iniziato 15 anni fa alla London School of Economics e terminato con la sua “cassazione” da parte del Dipartimento di Antropologia Sociale dell’Università di Cambridge. Credendo comunque nella bontà del lavoro svolto e nella qualità del materiale raccolto ho deciso di divulgarlo in altra forma. Per onestà intellettuale, devo però mettere in guardia i possibili lettori sul fatto che non vi è stato un riconoscimento ufficiale ed accademico di queste storie e delle analisi che propongo. Le ragioni sono molteplici e non c’è bisogno di discuterle qui. Questo preambolo è invece necessario perchè le proteste per l’acqua di Buenaventura non furono coperte da nessun organo di stampa. Per lo meno “non fecero notizia” anche se diversi giornalisti erano presenti durante alcune dimostrazioni ed eventi. Quindi esiste materiale video-fotografico ed interviste “archiviati” cui però non ho avuto accesso. I miei personali archivi fotografici di quegli eventi sono andati perduti come già accennavo nel post [3]. Che io sappia l’acqua non ha costituito un tema di primaria importanza nemmeno per gli interventi di ONG o di organizzazioni per i diritti umani della città. L’agenda di quegli anni era dettata soprattutto dai rifugiati e dalla violenza armata. Vennero riprese invece immagini dei blocchi ma le ragioni che li avevano provocati rimasero spesso oscure e molte testate preferirono riportare i commenti di alcuni politici che puntavano il dito sui “soliti banditi” che periodicamente mettevano a ferro e fuoco la Colombia, animati da ansie distruttive e non da recriminazioni politiche. I racconti che seguono non possono quindi che riguardare alcuni punti di vista del Barrio e le modalità con cui entrò in quelle proteste.
Un periodo particolarmente lungo di siccità a ridosso del nuovo anno, tra il dicembre 2010 ed il gennaio 2011, costrinse infatti molti quartieri a razionamenti sempre più lunghi di acqua. Nel Barrio questo significò che le cisterne erano vuote e che in molti avevamo iniziato a lavarci nelle “quebradas” (torrenti) della "Riserva” di solito usate per lavare i panni e solo in alcuni casi per l’igiene personale quotidiana. La siccità è un fenomeno abbastanza inusuale per gli abitanti della regione pacifica colombiana che è una delle zone più piovose al mondo. A renderla ancora più scioccante furono i racconti che arrivavano dalle televisioni e che mostravano immagini opposte della zona atlantica del Paese, intorno al maggiore fiume colombiano, il Rio Magdalena, che più o meno negli stessi giorni era straripato causando inondazioni di enorme portata in diverse aree. Era sorto anche un movimento nazionale di solidarietà per la raccolta fondi per le vittime mentre nel Barrio ci si chiedeva come mai a Buenaventura non piovesse più. Per gli usi quotidiani, soprattutto per cucinare, era disponibile solo una fontana pubblica nel vicino quartiere Mattia Mulumba. Ogni mattina si vedevano molte donne e bambini discendere la strada laterale che portava alla fontana e formare code lunghissime che potevano durare anche qualche ora per riempire una o due taniche di acqua. Alcune di loro, dopo aver atteso lungamente, si trovavano a bocca asciutta perché, senza alcun preavviso, l'acqua smetteva di scorrere.
Nei mesi precedenti avevo seguito da vicino, insieme a Josè, alcuni suoi figli ed altri leader del Barrio, le proteste per l’acqua in città. Come già scritto e come documentammo anche nel 2014, molti quartieri della zona di Bajamar pur essendo allacciati all’acquedotto ricevevano acqua corrente solo per poche ore al giorno. I bisogni di acqua dei terminali logistici assorbivano gran parte della capacità idrica urbana e questa consapevolezza generava non poco malcontento. A questo si aggiungevano razionamenti premeditati delle aree che dovevano essere sgomberate e che rimanevano senz’acqua per periodi molto più lunghi rispetto agli altri quartieri della città. Nel 2014, durante le riprese per Telesur registrammo il caso di un agglomerato di case a ridosso del porto TCBUEN che si incendiarono per via di un corto circuito improvviso. L’incedio si propagò rapidamente anche a causa dell’assenza di acqua in tutto il circondario in quei difficili momenti. Nel biennio del mio lavoro di campo le proteste di fronte al Municipio di Buenaventura ed alla sede della società municipalizzata che gestiva l’acquedotto erano quasi settimanali. In molti casi provenivano direttamente da persone che abitavano nelle zone colpite dai disservizi che non erano legate ad organizzazioni o comitati specifici.Spessoi si trattava di leader locali come i Presidenti delle Giunte di Azione Comunale e dei loro consiglieri di quartiere che erano degli organi decentrati del municipio che servivano proprio a raccogliere lamentale e riportarle agli uffici competenti. Per questo le proteste riguardavano soprattutto gruppettti di persone che si recavano negli ufifci in cerca di spiegazioni che normalmente non convincevano ed anzi generavano urla, spintoni e proteste. A volte si formavano microassembramenti di qualche decina di persone sulle strade in cui si condivideva la rabbia e l’indignazione. La pressione ed il malcontento erano diffusi ma sembravano comunque molto frammentati e disorganizzati.
Nei primi giorni del dicembre 2010 si raggiunse invece un culmine quando furono consegnate le bollette dell’acqua e le ingiunzioni di pagamento di quelle arretrate. Si generò così un rapido passaparola che arrivò fino al Barrio. Quando con Josè arrivammo nella piazzetta antistante gli uffici fummo sorpresi di trovare alcune centinaia di persone che stavano raccogliendo le bollette e le ingiunzioni di pagamento per bruciarle in un grande rogo che diede il via ad un boicotaggio della società dell’acquedotto. Furono queste le prime avvisaglie di una protesta più ampia che stava formandosi a Buenaventura. Nessuno di noi ipotizzò però che dopo poco più di un mese si sarebbe arrivati ad un blocco completo delle strade e di tutta la logistica. Di solito Josè o chi per lui si recava mensilmente in quegli uffici per richiedere l’allacciamento alla rete idrica urbana. I disservizi facevano parte delle condizioni di vita della maggioranza degli abitanti del Barrio. L’assenza di acqua non generava speciali rabbie. Semmai partecipava di sentimenti di abbandono e di deprivazione più generali. Quelle due settimane senza pioggia e l’essere costretti ad ore in fila senza la certezza di ricevere l’acqua alimentarono però un generale senso di sfinitezza. Quando in quegli stessi giorni corse voce che la società municipalizzata si era dichiarata in dissesto finanziario e venne fatta richiesta di terminare il boicotaggio dei pagamenti, nel Barrio in molti iniziarono a parlare dell’ennesima ruberia perpetrata da un’amministrazione corrotta. Come si arrivò da questo malcontento ai blocchi delle strade è difficile però da spiegare. Da un giorno all’altro, ci trovammo circondati da barricate improvvisate con copertoni d'auto, elettrodomestici non funzionanti e rami di alberi tagliati per l'occasione che avevano fermato tutta l'Avenida Bolivar in diversi punti. Non si poteva nè uscire nè entrare in città e solo le ambulanze ed alcune moto avevano il permesso di circolare.
Per diverse ragioni mi trovai a percorrere le barricate. Dovevo espletare alcune questioni burocratiche per la mia affiliazione alla locale Università del Pacifico dove avrei iniziato poco tempo dopo dei corsi di metodo etnografico nel Dipartimento di Sociologia. Uno dei maggiori blocchi si trovava fuori dall’Università e sulla via per arrivarci. Inoltre proprio in quei giorni ricevetti una visita di un gruppo di amici dall’Italia che dovevano stabilirsi per una settimana nel Barrio alla ricerca di atmosfere diverse rispetto a quelle della Colombia turistica. Tutto ciò avvenne proprio durante l’inizio dei blocchi stradali e mi mise nella strana situazione di fingere con i miei ospiti, due dei quali un pò anziani e certamente non avvezzi a certe atmosfere, che tutto fosse sotto controllo mentre la città era nel pieno di una rivolta. Di lì a pochi giorni dovetti organizzare una vettura per riportarli nella vicina Cali. La necessità di trovare un modo di andare via oltre quella di passare attraverso diverse barricate per arrivare all’università mi diede la possibilità però di relazionarmi direttamente alla logistica del blocco. Scoprii così che ad ogni barricata della comuna c’erano i muchachos dei diversi quartieri che per l’occasione avevano deposto le locali inimicizie e se la passavano giocando a domino, a dama o a dadi, oppure a fumare una sigaretta per far passare il tempo o a mangiare un sancocho de pollo (stufato di pollo) cucinato per l’occasione da qualcuno. Nel Barrio solo due motorattones avevano il permesso di circolare e facevano la spola continua tra le strade del quartiere e l’Avenida Bolivar. Uno di loro, “Hector”, mi prese sotto la sua ala e mi accompagnò per tre giorni nei luoghi dove dovevo andare per svolgere le commissioni ed avere un’idea generale di quanto accadeva.
L’apparente calma che si viveva nel Barrio, nella quasi assenza di rumori dalle strade e le visite praticamente azzerate nella casa di Josè era in chiaro contrasto con l’eccitazione delle barricate. Visi sorridenti, adrenalina, cibo, birre e Viche animavano una conviviliatà per me completamente nuova perchè uscita dai luoghi noti e sicuri delle case o dei bar della esquina e si era propogata lungo le frontiere in spazi improvvisati della calle. Con semplicità disarmante Josè descriveva quei momenti come “la lucha del pueblo” (la lotta del popolo) e continuava “No hay que agachar la cabeza” (non dobbiamo abbassare la testa). Nel Barrio lo chiamavano un “Poeta Naturale”. Non sapeva scrivere ma cantava in decime e quando accusava i suoi nemici politici usava le rime. Faceva parte del suo carisma, del suo bagaglio energetico che lo manteneva un “Qualcuno” nel Barrio nonostante le difficoltà cui era costretto. Durante i giorni del blocco camminò in lungo e in largo per la comuna ad invocare la lucha del pueblo. Le sue azioni erano radicate nella convinzione che i cambiamenti che contavano erano quelli che arrivavano direttamente dai quartieri e non quelli che si determinavano dentro incontri sproporzionati che imponevano ricollocamenti di massa e che stavano sottraendo alla cittadinanza un servizio vitale come l’accesso all’acqua.
Fra i tanti effetti provocati, Il blocco fece emergere un paradosso. Mentre costringeva la città a fermarsi, aveva ridotto le paure di muoversi. Ciò avvenne per la semplice sostituzione delle “frontiere invisibili” con delle barricate fisiche dove c’erano persone avvicinabili, non armate ed anzi alle prese con attività comuni, in semplice attesa. Certi confini quotidiani scomparvero mentre la gente trovava il coraggio di protestare contro un nemico che non aveva solo il solito volto del "Gobierno" o de “los malos". Incontri improvvisi intorno alle barricate sulla calle avvenivono sia di giorno sia di notte, quando normalmente quasi tutti nella comuna preferivano stare in casa o al chiuso dentro un bar. Si creò così un campo aperto da cui si aspirava a fermare il divenire “straniero" del Puerto. Si  fermò di fatto e per un attimo un processo che pareva inarrestabile e che stava espropriando pezzi sempre più grandi della città per le necessità economiche di un altrove che impoverivano gli abitanti dei quartieri. Il “Paro” riconquistò la città dentro un interregno che non era limitato ad una singola strada o ad un quartiere ma si estendeva su dimensioni inusitate e riguardava in profondità la natura dei sistemi politici locali che ho cercato di descivere fin qui e i modi in cui nella protesta gli abitanti risignificavano le classi pericolose o i soggetti da marginalizzare.
Gli studi di sociologia urbana di Elijah Anderson (2000:35-65) citati in precedenza sono uno strumento prezioso per impostare una griglia interpretativa di queste dinamiche. Caratterizzano le comunità afro-americane in base alle divisioni tra persone decenti (decent) e quelle della strada (street). Di solito i secondi hanno azioni giudiziarie pendenti e una lunga storia di fermi ed incarcerazioni oltre che una vita segnata da lavori di frontiera. Questa caratterizzazione guiridico-legale definisce ulteriori suddivisioni e demarcazioni in base alla fedina penale tra persone pulite (clean) o sporche (dirty) o rispetto alla reputazione che ne deriva tra pericolose (dangerous) o tranquille (chilled). Ne risultano così delle potenti tipificazioni sociali che orientano svariati aspetti della vita di quartiere oltre che, in senso più ampio, dei percorsi di socializzazione o marginalizzazione delle diverse "tribù” urbane. Questo insieme di distinzioni e le modalità con cui esse vengono incorporate a livello discorsivo e disciplinare da istituzioni dello Stato rappresenta un elemento centrale degli studi di Foucault (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7). Dalla storia dei sistemi penitenziari e penali alle ricerche sulla clinica ed i manicomi, il filosofo francese osservò le dinamiche di potere attraverso la creazione di anormalità o di degenerazione rispetto a quanto via via si affermava come “virtuoso” o “giusto” o “utile” o “sano”. Nei suoi seminari del 1976 (1) appare fare un passo in più fino a rintracciare nella “funzione del razzismo” una strategia più complessiva che permette a dispositivi di biopotere, il cui scopo non è più decidere sulla vita e sulla morte dei cittadini ma “far vivere” e “lasciar morire”, di utilizzare la forza della morte in forma positiva. La domanda che conclude quelle lezioni ed apre i suoi anni di studi successivi è proprio questa: “In un sistema politico incentrato sul biopotere, in che modo è possibile esercitare [...] la funzione della morte” (p.220), cioè il lasciar morire? Per rispondere Foucault spiega che il razzismo ha una prima funzione essenziale che è quella di stabilire una cesura nel continuum biologico della specie creando una separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire. Stabilisce però anche una relazione positiva con ciò che deve morire. Per farlo ripropone una “relazione guerriera” del tipo “se vuoi vivere occorre che l’altro muoia”. Tuttavia questa relazione non assume una dimensione militare ma biologica ed evolutiva per cui “più le specie inferiori tenderanno a scomparire, più gli individui anormali saranno eliminati, meno degenerati rispetto alla specie ci saranno”. In questo modo il nemico cambia forma e da relazione politica o militare o da avversario diventa un “pericolo per la popolazione”, in cui la popolazione è da intendersi come un concetto demografico e non più sociologico. In questo senso la razza ed il razzismo sono la condizione di accettabilità della messa a morte del pericolo (220-227).
L’identificazione della malavida o della locura con il pericoloso sono esattamente il punto di unione tra i racconti etnografici fatti nella sezione 3 del blog e questi approcci teorici. Metterli assieme mi permette quindi di scorgere una modalità del razzismo che entra fin dentro gli stili di vita, definendo un campo “di scelte sbagliate” da cui deriva un “destino” avverso che sancisce l’accettabilità di un “lasciar morire”. Uno degli intrecci che ha cercato di dare coerenza ai post di questo blog è stato proprio il tentativo di spiegare il passaggio da geografie del terrore, come le definì Ulrich Oslender [1], da zone rosse o frontiere caratterizzate dall’assenza dello Stato come le ha interpretate Margarita Serje [1] o da località dove è meglio non andare se non accompagnati (si veda il post [3]), ad un’identificazione comunque ambigua e non definitiva del male in un gruppo di persone (los malos). A rafforzare i processi di stigmatizzazione, si inserisce un dispositivo dell’altrove come “la guerra alle droghe” che seguendo quelle modalità specifiche cittadine descritte nei post [2.2], [2.3] e [2*], produce macrocategorie caotiche che spiegano in maniera superficiale eventi complessi. Nelle ricostruzioni di cronaca nera locale vi è ad esempio un ricorso continuo ad enunciati formali come i cosiddetti “scontri tra gang” o “gli aggiustamenti di conti”o ancora “guerre tra narcos” spesso presi a prestito da fonti poliziesche, che non sono molto descrittive degli eventi dal punto di vista dei quartieri. In maniera analoga, come scritto più volte, il nominare un gruppo con un nome specifico costituisce sempre un’operazione parziale che difficilmente rappresenta dinamiche locali. Tutte queste operazioni iscrivono però certe storie in un immaginario più complessivo che spinge ed aiuta a materializzare il male in specifiche modalità di vita, segnate da malavida e da locura, appunto, e la cui messa a morte deve essere stabilita quasi automaticamente per permettere il “far vivere” degli altri.
Esiste una variegata letteratura storiografica che analizza questi temi con maggiori livelli di dettaglio purtroppo però non specifica della Colombia. Alcuni studi sul sud Italia, in particolare, mi sono stati di grande aiuto per comprendere l’intrecciarsi tra dinamiche di controllo e quelle di produzione di pericolo e come da qui si sviluppino criminologie del quotidiano. Benigno (2015) in La Malasetta, ricostruisce, attraverso accurate indagini di archivio, i diversi dispositivi che si mettono in moto nella costruzione delle cosiddette classi pericolose e che portarono a una sistematizzazione delle definizioni di Camorra e Cosa Nostra negli atti giudiziari e governativi del XIX secolo di Napoli e Palermo. In alcuni passaggi del suo testo mostra con estrema chiarezza come diverse operazioni di polizia, già praticate nella Parigi post-rivoluzionaria e che includevano delatori, infiltrati e sicari assoldati per omicidi selettivi, concorsero alla costruzione dell'idea di “mafioso” o di “camorrista” non solo tra gli organi istituzionali che cercavano di delimitare un certo fenomeno “anti-stato” ma tra gli stessi aderenti alle due organizzazioni. In alcuni casi furono quasi spinti ad aumentare la segretezza dei loro incontri e la ritualità di accesso dei membri alla “malasetta” per ridurre questa capacità di penetrazione da parte di agenti esterni. Seguendo una prospettiva diversa, Barbagallo (2010) documenta come, a Napoli, organi di sorveglianza dell'epoca coloniale borbonica avessero costruito degli spazi di conflitto con la camorra non tanto per la sua eradicazione ma per competere per la gestione di gioco d'azzardo, prostituzione e contrabbando nelle zone del porto. Inoltre, sia Barbagallo sia Lupo (2004), seppur in modi diversi, descrivono come, in diverse fasi di transizione politica, a Napoli come a Palermo mafiosi e camorristi ebbero ruoli ufficialmente riconosciuti per la gestione dell'ordine pubblico. In maniera opposta Lupo dimostra anche con dovizia di dettagli come a Palermo molte proteste per l’aumento di prezzi o di tasse fossero descritte come “inflitrate” da esponenti della Mafia locale. In questo modo si mettevano in moto percorsi di stigmatizzazione istituzionale della protesta che permettevano maggiori finanziamenti per la repressione. In una continua oscillazione di prospettive, in alcuni carteggi tra magistrati vi sono invece manifestazioni di apprezzamento per mafiosi locali capaci di mantenere l’ordine pubblico seguendo modalità “socio-culturali” ancora sconsciute agli organi di polizia del neonato Stato italiano.
Su tutte queste dinamiche “in divenire” agiscono quei dispositivi di potere descritti nelle opere di Foucault. In particolare è qui utile notare come il passaggio dalla pena pubblica, il supplizio, la gogna e smili agli internamenti ed al nascondere in un fuori del sociale malavida e locura, concorrano a produrre quegli immaginari sulle “scelte di vita sbagliate” che devono essere “eliminate” per il far vivere degli altri. Tuttavia, nel caso colombiano ed in particolare di Buenaventura, si assiste ad un’ibridazione dei meccanismi della punizione. Vi è infatti un ritorno al supplizio ma non nel momento in cui la giustizia si fa pena agendo in pubblico sul corpo del condannato. La guerra alle droghe mantiene la pena privata. Come visto si può essere partecipi del “far urlare” del torturatore o degli spari che si ascoltano di notte se non proprio di una sparatoria o di un pestaggio sulla calle. Ma ciò cui si viene messi di fronte ripetutamente sono i corpi martoriati ed in decomposizione; il risultato mediato di uno scontro avvenuto “privatamente” per “una guerra tra narcos” o per “regolamenti di conti”. Vi è quindi un ritorno dello spettacolo della violenza perchè le pratiche di internamento sono giudicate insufficienti o perchè le regole della calle vengono prima di quelle dei tribunali. Tuttavia, l’orrore che si mostra afferma anche un pericolo assoluto, indubitabile che afferma la certezza di una pena che lo Stato ha grande cura a separare dal suo progetto eterno. L'orrore si iscrive per questa ragione nel destino e nelle “scelte di vita sbagliate” de “los malos”. E’ in queste dinamiche che scorgo “la funzione del razzismo”, cioè la progressiva affermazione di un nemico biologico che non è un virus ma un male che penetra attraverso la malavida e la locura aprendo un mondo di pericolo assoluto identificabile con precisione in certe persone.
Tuttavia, la vita supera sempre concezioni ed immaginari troppo normativi. Nei territori dove agisce “la guerra alle droghe”  si mettono in moto dei meccanismi di controllo e di accumulazione schizofrenici dove la proibizione decretata si intreccia con dinamiche di potere e di pragmatismo economico. In quella zona grigia descritta nei post [2.2] e [2.3], si genera la necessità di spendere interi segmenti della popolazione in funzione di una produzione proibita che non può fermarsi. Se da una parte si delineano combos che in base alle loro relazioni nomadiche con gli apparati dello Stato diventano pandillas, simmetricamente vi sono strutture di emanazione statale, in teoria preposte al controllo ed all'eradicazione delle produzioni clandestine, che si muovono a specchio, anche loro nomadiche, fluttuanti, nascoste, capaci di entrare ed uscire dall'istituzionalità dello Stato in base ad una pragmatica del potere che si definisce quasi quotidianamente. L’apparente contrapposizione si articola dentro la simultanea necessità di produrre e distruggere. In questo modo tutti gli attori coinvolti partecipano tanto dello Stato (o della sua forma eterna), quanto del suo contrario che ho più volte chiamato Clan o forma-clan (si veda il post [3.2]). Il corpo sociale si trova così continuamente trapassato da flussi di sostanze, persone ed entità che convergono in spazi rappresentabili solo dentro generali nozioni di ''Segreto'', in cui intere ''narrazioni sociali'' vengono nascoste o cancellate. Nel “Segreto” coesistono sia la guerra per la proibizione di certe sostanze, sia il consumo di quelle sostanze, sia il reinvestimento dei proventi che ne derivano, sia le narrazioni necessarie per mantenere la legittimità di poteri burocratico-governativi incapaci di imporre una legge. Si sviluppa quindi un'economia complessiva, essenzialmente bellica, che riguarda molteplici settori produttivi e raccoglie una moltitudine di attori e reti.
Questa contraddizione sistemica si svela e si riproduce nei quartieri, all'interno di subregioni sociali costruite a loro volta nella coesistenza di forze opposte dove il “segreto” viene interiorizzato e codificato dentro regole del silenzio come quelle descritte nel post [3.1] ed intorno a cui si articolano complicità e legami degli abitanti con “los malos”. Nei post precedenti ho descritto i processi di divenire-”un certo gruppo” all’interno delle strutture di sapere-potere prodotte dalle frontiere. Gli abitanti vivono cioè in uno spazio politico sospeso che li costringe periodicamente a cambiare alleanze e reti per risolvere problemi di sopravvivenza quotidiani cercando di limitare i costi emotivi di certe decisioni. Sono immersi in mille piani di significazione che costringono tutti ad abitare uno spazio di indicibilità reso però vitale da concetti della saggezza locale come il jugar vivos descritto nel post [3.2], o da prediche come quelle dell’anziano (si veda il post [1 di 3]) secondo il quale senza aver cura del modo di parlare non si può aver cura del proprio cuore.
In una cultura prevalentemente orale come quella afro-colombiana parlare di regole del silenzio può sembrare abbastanza strano se non addirittura fuorviante dell'esperienza di lavoro di campo. Il rumore, il vociare, la musiche insieme ai tanti canta storie della strada sembrano connotare le atmosfere locali meglio del silenzio. Eppure rintracciare un codice degli enunciati che si possono dire e quelli invece che rimangono nascosti appare necessario per comprendere un'ampia gamma di dinamiche sociali. Come avevano già notato nei loro studi sulla Grecia antica la Loraux (1997) e la Montiglio (2000), in un mondo in cui la parola si erge a principio organizzatore, il silenzio rappresenta una minaccia di interruzione del flusso vitale. Appartiene al mondo delle punizioni, di quando si viene mandati in esilio o in isolamento e si perde la capacità di entrare in relazione dialogica con gli altri cittadini. Ma ha anche una funzione rituale di purificazione (2000:292) in cui non è più semplice assenza di parole ma uno stato o un modo di comportarsi che implica un atto specifico, un "fare" il silenzio (2000:289). Ai suoi codici appartiene però anche la parola detta a bassa voce che sussurra un segreto all'orecchio di qualcuno rompendo l'assenza per aprire un mondo di cospirazioni fatto di una conoscenza che trasforma il non detto in un sapere disponibile solo a poche persone. Qui si origina un potere, quel monopolio, che alimenta circuiti paranoici e che stava al cuore della speranza di Rudi di "saberlo todo" (si veda ancora il post [3.2]). Così nel Barrio piuttosto che ritrovare una divisione tra persone decentes e callejeras come nei ghetti afroamericani descritti da Elijah Anderson, si incontravano persone che organizzavano la loro routine quotidiana per evitare l'incontro con il segreto ed essere liberi in questo modo dall’atto di dover fare silenzio. Dall’altro lato vi erano invece quelli che lo abitavano con la loro vita, vera e cinica, “los malos”, cioè i personaggi di frontiera. 
Durante i giorni di blocco delle strade gli abitanti del Barrio assistettero timidamente a quanto accadeva sulle strade, a pochi minuti di cammino dalle loro case. Non se ne discuteva mai per la strada e in qualche modo tutto seguiva i suoi ritmi di sempre anche se si era certamente in attesa di qualcosa; di notizie, di storie, di risultati o chissà cos’altro. Le partite di domino non cessarono così come il bingo pomeridiano. Le tienditas continuavano ad essere aperte e i bambini che non dovevano andare a scuola ne approfittavano per lunghe avventure tra le quebradas. Alcune signore però la mattina cucinavano un pò più di riso del solito o mandavano un figlio a comprare qualche pane in più. Altri si indaffaravano a cercare piante commestibili nella Riserva mentre nei progetti produttivi dove lavoravamo le uova stranamente scarseggiavano e qualche gallina iniziò a mancare rovinando i perfetti conti della nostra contadora (contabile). “Se la llevò la Tunda” (se l’è portata via la Tunda) mi diceva “Hector”. La Tunda era una fata maligna della selva del pacifico colombiano che di solito ammaliava con la sua bellezza il cacciatore che iniziava a seguirla fino a perdersi e non riuscire più a tornare al campo. Le sue storie mettevano in guardia chiunque si avventurasse nel “monte” a prestare il giusto rispetto e la giusta attenzione ai segni dei cammini già solcati. Nelle notti di ubriachezza si evocava la Tunda per descrivere qualche bevitore ormai perduto nei suoi sogni. In quei giorni, invece, si portava via le galline. Dentro queste pratiche nel blocco si riaffermò una relazione altrimenti da censurare tra segreto e coraggio della verità, tra gli abitanti comuni e los malos. Lontani dal business della parola, da una libertà di dire permessa da logiche economiche e geopolitiche,  emerse un interregno che assunse le sembianze di “uno <<Stato ombra>> che esiste solo in una forma mistica, come spiriti che possiedono un medium” e in cui emersero “re che regnano ma non comandano” (Bloch 2013:34), slegati in forma definitiva dalla sovranità normalmente associata alla loro funzione. Partirò da qui per descrivere nel prossimo post questi “Stati altri” assorbiti dai continui processi di colonizzazione ma che paiono non morire mai, anzi riemergono in continuazione.
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