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Teletrasporto e Identità: La Persona Ricreata è la Stessa o Solo una Copia?. Scenari e Paradossi del Teletrasporto: Identità, Originalità e Duplicazione
La tecnologia del teletrasporto, resa famosa dalla fantascienza, porta con sé interrogativi profondi e complessi riguardo all'identità e all’essenza dell’individuo
La tecnologia del teletrasporto, resa famosa dalla fantascienza, porta con sé interrogativi profondi e complessi riguardo all’identità e all’essenza dell’individuo. Una delle questioni più dibattute è se la persona “teletrasportata” sia effettivamente la stessa o solo una copia dell’originale. Immaginiamo un teletrasporto che funzioni scansionando ogni molecola del corpo, distruggendo l’originale…
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In terzo luogo, infine, l’idea stessa di una libera autodeterminazione dell’identità del singolo si basa, almeno in parte, su un’illusione. Di fatto non è vero che la natura umana sia interamente plasmabile dalla cultura, e non lo è certamente dalla volontà: in pratica, è una favola che chiunque possa diventare cuoco, pescatore, ingegnere, miliardario o presidente della repubblica a seconda di come gli aggrada, purché beninteso lo voglia con forza sufficiente e purché — come aggiungono tradizionalmente gli americani, che amano credere in queste cose — sia guidato da sani intenti morali. Anche se di rado accettiamo di tenerne il debito conto, noi non siamo tutti uguali né per motivi culturali né sul piano strettamente psicologico: ciascuno di noi dovrà fare pur sempre i conti con i condizionamenti primari che lo hanno modellato e dunque con i limiti della propria intelligenza e personalità. [...]
GIOVANNI JERVIS – Il mito dell'interiorità. Tra psicologia e filosofia.
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Nancy Fraser
Per me, il femminismo non è semplicemente una questione di portare un numero limitato di singole donne in posizioni di potere e privilegio all’interno delle gerarchie sociali esistenti. Si tratta piuttosto di superare quelle gerarchie. La divisione gerarchica e di genere tra “produzione” e “riproduzione” è una struttura determinante della società capitalista e una fonte profonda delle asimmetrie di genere in essa insita. Non potrà esserci “emancipazione della donna” finché questa struttura rimarrà intatta.
Se il capitalismo fonda la propria possibilità di esistere sullo sfruttamento del lavoro silenzioso, e non riconosciuto, che le donne dedicano alla cura di bambini, malati e anziani, per poter arrivare a vedere riconosciuto il valore, anche economico, del lavoro di cura, è necessario immaginare un modello alternativo.
Il neoliberismo, per poter prosperare, distrugge l’ambiente, sfrutta le minoranze, depreda il Sud del mondo di materie prime, in un clima di sempre crescenti disuguaglianze.
Nancy Fraser, filosofa e teorica femminista, è tra le più importanti intellettuali della nostra epoca.
È stata tra le principali organizzatrici dello sciopero internazionale delle donne negli Stati Uniti.
Punto di riferimento del dibattito internazionale sulle ingiustizie globali, insegna Politica e Filosofia alla New School for Social Research di New York, dal 1995.
Conosciuta per la sua critica alla politica dell’identità e il suo lavoro filosofico sul concetto di giustizia, è anche una strenua critica del femminismo liberale contemporaneo e del suo abbandono delle questioni di giustizia sociale.
Ha ricevuto dottorati onorari da sei università in cinque paesi, la Legion d’Onore Francese e fa parte dell’American Academy of Arts and Sciences.
Ex presidente dell’American Philosophical Association Eastern Division, ha ricevuto il premio Alfred Schutz per la filosofia sociale e il Prix Mondial Nessim Habif dall’Università di Ginevra nel 2018.
Il suo lavoro è stato citato tre volte dai giudici della Corte Suprema brasiliana, in pareri che affermano l’uguaglianza matrimoniale, la discriminazione positiva e i diritti alla terra collettiva delle persone afro-discendenti.
È nota principalmente per il suo lavoro sulle concezioni filosofiche di giustizia e ingiustizia. Affronta i problemi delle ingiustizie strutturali che pervadono la nostra società e si allineano con le divisioni sociali come genere, razza/etnia e classe.
Ha scritto su un’ampia varietà di argomenti. In libri e saggi recenti, ha proposto una nuova teoria critica della società capitalista, che rivela la sua tendenza intrinseca a svuotare la democrazia, ad approfittarsi del lavoro di cura delle donne, a espropriare la ricchezza delle comunità di colore e a degradare la natura.
Tra le sue più recenti pubblicazioni in lingua italiana ci sono: Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberismo progressista a Trump e oltre (2019); Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi (2019); Femminismo per il 99%. Un manifesto (con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya, 2019); Redistribuzione o riconoscimento? Lotte di genere e disuguaglianze economiche con Axel Honneth, (2020); Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo? (2020); Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta (2023).
Nata a Baltimora il 20 maggio 1947, in una famiglia mista di immigrati di seconda generazione con origini ebraiche e cattoliche, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Bryn Mawr nel 1969 e un dottorato di ricerca in filosofia presso il CUNY Graduate Center nel 1980.
Ha insegnato nel dipartimento di filosofia della Northwestern University ed è. stata professoressa in visita presso università in Germania, Francia, Spagna, Austria, Germania e Paesi Bassi.
Oltre alle sue numerose pubblicazioni e conferenze, è stata co-editrice di Constellations, rivista internazionale di teoria critica e democratica, dove continua a far parte del Consiglio editoriale.
Nel marzo 2022, è stata tra le 151 femministe internazionali che hanno firmato il Manifesto della Resistenza femminista contro la guerra, in solidarietà con le femministe russe dopo l’invasione dell’Ucraina.
Nel 2024 è salita alla cronaca internazionale quando sono state annullate le lezioni che doveva tenere all’Università di Colonia dopo che si è scoperto che aveva firmato la lettera “Filosofia per la Palestina“.
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Cosa vuol dire genderless o gender fluid?
Il termine indica appartenere al genere non binario, che non è né uomo né donna. La fluidità è propria dell’identità.
Per tanti ragazzi non sono solo il maschio e la femmina a definire la propria identità di genere, c’è un “terzo genere” una realtà vissuta, da protagonista o osservatore, con sempre più naturalezza. Gender fluid vuol dire non sentirsi rappresentati da entrambi i generi binari, è il rifiuto dell’appartenenza rigida all’uno o all’altro.
Sono proprio le persone gender fluid che affermano di trovare sfogo nella possibilità di vestirsi e di apparire senza seguire i canoni estetici prettamente maschili o femminili. Il cambio generazionale è sempre più veloce e anche le nuove generazioni hanno accelerato i processi di cambiamento.
In questo caso parliamo di chiunque ritenga che la propria identità di genere non combaci né con il sesso attribuito alla nascita, né necessariamente con la dicotomia maschio/femmina. Possiamo dunque avere a che fare con un terzo genere, i gender fluid possono anche sentire di appartenere a entrambi, oppure a nessuno. Possono anche scegliere un percorso medicalizzato per avvicinarsi di più alla rappresentazione fisica cui sentono di appartenere, ma non è una scelta obbligatoria.
È una nuova terminologia che tende a rispecchiare soprattutto una filosofia sempre più comune tra molte giovani star. Degli esempi? Lily Rose Depp, o Jaden Smith. Chi è gender fluid, semplicemente, non vuole essere etichettato secondo nessuno schema, e vive liberamente la propria identità sessuale, senza costrizioni di alcun tipo. Questo non significa affatto essere etero, bi o transessuale, ma solo di sentirsi “a volte un ragazzo, altre una ragazza”.
What we think (unpopolar opinion)
Dopo aver analizzato varie interviste, libri ed articoli, ci siamo accorti che il detto “il troppo stroppia” è più che valido. Crediamo che il proprio essere/ sentirsi debba rimanere stretto all’intimità soggettiva e non spesso sbandierato facendo in modo che si apra un dibattito pubblico, così come non è obbligatorio che ogni persona conosciuta debba prendere accorgimenti o cerchi di cambiare il proprio atteggiamento in relazione alla propria situazione di gender fluid. Certo, il rispetto deve essere reciproco, come è normalità che io debba rispettarti in quando gender fluid, deve esserci anche altrettanto rispetto inteso come capacità di capire che per altri, persone non appartenenti a questa sessualità, è difficile capire e al contempo relazionarsi con questa tipologia di persone. Il nostro pensiero si rivolge non alla persona presa singolarmente, ma piuttosto alla “cassa di risonanza” che si è creata intorno: l’ultima cosa per la quale la società potrebbe discriminare qualcuno è proprio la fluidità di genere -prendendo a confronto altri tipi di sessualità come transessualità/omosessualità che hanno bisogno per esempio anche a livello burocratico di leggi apposite per il cambio di nome/sesso all’anagrafe, il matrimonio, ecc.- mentre per quanto riguarda i gender fluid, si tratta di una scelta puramente personale che non influenza l’aspetto sociopolitico.
Pur essendo anche all’interno del nostro gruppo divisi su questo argomento, sentiamo di trarre alcune conclusioni: allo stesso modo con cui rinneghiamo l’ostentazione degli ultimi anni intrapresa nell’esecuzione delle manifestazioni LGBTQIA+, senza ovviamente escludere le giuste motivazioni dalle quali sono portate avanti, vogliamo alla stesso tempo porre un freno all’esasperazione ed all’esagerazione che avviene nel momento in cui si partecipa alle stesse. Allo stesso tempo, la questione gender fluid deve essere portata avanti con l’obiettivo di far conoscere e capire l’argomento senza creare un’enorme nuvola di discussioni con le quali alla fine dei conti fa si che ci si ritrovi solo con un’eternità di parole e di frasi senza una conclusione.
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Modena, Palazzo Solmi sarà completamente riqualificato
Modena, Palazzo Solmi sarà completamente riqualificato. A Modena c'è un progetto per un palazzo Palazzo Solmi tutto nuovo. Nel Camerino degli specchi, al posto del parquet industriale, sarà posato un pavimento antico in noce-ciliegio e verrà realizzata una cornice perimetrale in lastre di cristallo retroilluminate. Al centro della sala sarà appeso un lampadario in vetro di Murano completo di lampade a led dimmerabili (regolabili in intensità), così come dimmerabili saranno tutti gli apparecchi illuminanti del piano nobile. Su tutti i piani verranno integrati e predisposti gli access point wifi e saranno installate 14 telecamere di videosorveglianza. Nelle scale di servizio, inoltre, la ringhiera inizialmente prevista in ferro sarà sostituita con una balaustra in cristallo antisfondamento, mentre nei cortili esterni al pian terreno verrà effettuato un trattamento idrorepellente e antivegetativo per tutelare la pavimentazione in cotto. Il valore dell'intervento Il cantiere è stato consegnato oggi, martedì 20 dicembre, dal Comune di Modena al Consorzio Innova Società cooperativa e alle ditte consorziate esecutrici As Costruzioni e Servizi srl di San Felice sul Panaro e Baschieri srl di Sassuolo. L’intervento, che ha ottenuto il via libera dalla Soprintendenza, ha un valore di circa 2 milioni 600 mila euro, di cui 2 milioni 500 mila derivanti da mutuo erogato dall’Istituto per il Credito sportivo, e avrà una durata intorno all’anno e mezzo. La consegna del progetto Al momento della consegna hanno partecipato il sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli, gli assessori ai Lavori pubblici e alla Cultura Andrea Bosi e Andrea Bortolamasi e i rappresentanti di enti e associazioni rappresentative delle tradizioni e dell’identità di Modena che troveranno sede nell’area dell’edificio trasferita al Comune dal Demanio, destinata a diventare sempre più la “Casa della Modenesità”. Alla consegna hanno preso parte infatti Daniele Francesconi, direttore del Festival Filosofia; Giancarlo Iattici, presidente della Società del Sandrone; Ermanno Zanotti delle Società Centenarie; Roberto Fazzini, collezionista di riproduzioni in latta di allestimenti circensi. All’iniziativa erano presenti anche i familiari di Maria Grazia Badiali cui sarà intitolata una sala all’interno del Palazzo, come riconoscimento per il suo impegno e profondo spirito di solidarietà nei confronti delle persone più deboli attraverso le tante iniziative promosse dall’Associazione internazionale Regina Elena onlus. Le associazioni Gli spazi dell’edificio del XVIII secolo oggetto di riqualificazione saranno destinati per circa 220 metri quadrati a sede del Consorzio Festival Filosofia, per 456 metri quadri alla Società del Sandrone, mentre altri 920 metri quadrati, di cui metà nei cortili interni, rimarranno a disposizione per esposizioni temporanee ed eventi aperti ad altri soggetti e alla città. Tra le raccolte dal forte legame con il territorio che potranno essere ospitate nello storico edificio, potrà esserci anche la collezione di giocattoli e modellini in latta che riproducono decine di circhi di tutto il mondo del collezionista Roberto Fazzini, divenuto negli anni il più grande collezionista al mondo di riproduzioni in latta di allestimenti circensi. I modellini, che Fazzini ha espresso la volontà di donare al Comune, che si impegna a valorizzarli, sono fatti a mano e vanno dall’Ottocento fino alla prima metà del Novecento. Read the full article
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Credo ancora alla democrazia, ma sono una persona all’antica e un conservatore, quindi penso che sia meglio dirigere le masse. L’Argentina stava meglio quando era governata da un piccolo gruppo di persone che forse imbrogliavano un po’ quando facevano politica, ma consentivano al paese di crescere. Non so se le masse siano capaci di pensare la politica o di avere un qualunque altro pensiero. La maggior parte delle persone sono ignoranti in filosofia, letteratura, pittura, musica. Io ho qualche conoscenza in letteratura, ma su tutto il resto sono ignorante come gli altri. Perché mai le persone dovrebbero avere conoscenze in politica, che è una materia ancora più difficile? Perché possiamo ignorare l’algebra e invece dovremmo sapere per chi votare alle elezioni? Tutto ciò non mi sembra ragionevole. Ma forse la penso in questo modo solo perché la politica mi annoia profondamente. Posso interessarmi del tempo, dello spazio, dell’io, dell’identità o dell’eternità. Tutto ciò m’interessa perché si tratta di problemi irrisolvibili, mentre per quanto riguarda le soluzioni immediate non ho niente da dire. Anche sul piano letterario
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. IDENTIKIT [ Riflessi ] . Da qualsiasi prospettiva si osservare la questione dell’identità, si finisce sempre di fronte a un impossibile… Quella cosa che chiamiamo “identità”, potremmo dire che non esiste o, meglio: esiste sempre in un divenire: da perseguire ma non raggiungibile; tanto da far risultare improprio ogni: “io sono” e, tanto più, ogni “tu sei”. Il “conosci stesso” socratico racconta di un viaggio che inizia e non ha fine, non può averla, una maledizione se non la si vive nel solo senso benefico che dovrebbe avere ogni viaggio: dare spessore al tragitto e non all’ansia della meta; non fare i turisti ma i viaggiatori. Certo la metà è importante, ma non tanto come obiettivo da raggiungere. Se è vero che la vita non ha senso, ma è dare un senso alla vita il senso, allora questo senso non si può comprenderlo durante il tragitto. Solo alla fine del viaggio si capisca il senso del viaggio. Questo è il concetto di identità che dovremmo incarnare, cosa non di meno complessa, poiché significa abbandonare ogni presunta credenza rispetto all’esistenza di un “io sono” e accettare l’idea dell’erranza, del vagabondare, muniti solo di quella bussola che segna il nord della sperimentazione del benessere e quindi capaci di accogliere le verità che ci vengono incontro e ci cambiano e ci trasformano, così come di dismettere le verità che più non si accordano. Impresa, insomma, tutt’altro che facile. La cura, una volta superati gli scogli del malessere che ci affligge, deve allungarsi verso questi confini, oltre quelle colonne d’Ercole dove inizia il vero viaggio verso la “scoperta” dell’identità. . ⛔️ COSA NE PENSI❓Scrivi nei commenti ✏️ . 🤐 Quando riesco COMMENTO il post con un video nelle STORIES…. prova a sbirciare o ATTIVA le notifiche 🔔 per non perderti le news ▪️ ▪️ 🆘 SEGUI: @massimo.silvano.galli ▪️ ▪️ Un’opera di @giusepperagazzini #pedagogia #salute #amore #psicologia #cura #benessere #curare #prendersicura #emozioni #terapieonline #psyche #psicoterapia #filosofia #spiritualità #massimosilvanogalli #filosofiadivita #identità #viaggio #scoperta (presso Milan, Italy) https://www.instagram.com/p/CTkk4bEKcHK/?utm_medium=tumblr
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Dare forma e raccontare se stessi, tra teologia e neuroscienze
Se la relazione è momento di apertura fondamentale per lo sviluppo dell’identità e la condizione di base dell’agire umano, ecco che la relazione con Dio diventa uno dei poli che definiscono l’identità umana, tuttavia questo discorso assume maggiore spessore in senso sociale: l’esperienza diretta del credente è in relazione con altri credenti, o con linguaggi portati da manufatti culturali, nel Cristianesimo rappresentati da elementi come la scrittura, la catechesi e la liturgia. Quindi le identità e l’agire religioso si configurano primariamente come identità e agire di gruppo; e le concezioni di Dio sono l’elemento semantico fondativo dei linguaggi che veicolano tali identità. Proprio in vista del peso dell’aspetto sociale, i temi della comunicazione, dell’educazione e della riforma morale, della coscienza di se e della relazione umana sono il centro del dialogo interdisciplinare, che si rivela utile in primo luogo per la teologia pratica e la pastorale. La teologia pratica, come ricordato all’inizio del saggio, ha infatti da tempo scoperto l’utilità di confrontarsi con le discipline che studiano l’essere umano. Nella misura in cui si riesce ad abbattere alcune barriere, tanto epistemologiche quanto ideologiche, anche le neuroscienze possono entrare in questo confronto.
Nel tentativo di superare le difficoltà insite nel dialogo, il teologo Leonardo Paris propone un confronto aperto. Come Vantini, anche Paris paragona la rivoluzione scientifica attuale a quella del 1600; e nota in particolare come il dualismo sia, a livello epistemologico, una costruzione moderna. Prende le mosse proprio dall’esigenza di superare quel “muro cartesiano” che separa anima e corpo (Paris,T eologia e Neuroscienze. Una sfida possibile, Brescia: Queriniana, 2017, p 12). Muro che le neuroscienze cercano di oltrepassare, mentre la teologia rischia di voler utilizzare come baluardo verso le ricerche di matrice scientifica: “Sul versante della teologia, un mondo unificato significa che le neuroscienze si possono permettere di intervenire su ogni cosa possibile e immaginabile, dall’esistenza di Dio, alla mistica, alla morale.” (ivi, p 18). Questa apertura genera timore, il paradigma epistemologico ateo della scienza moderna entra in temi che fino a pochi anni fa erano ad esso preclusi. In risposta a questo timore, il teologo suggerisce di porre l’attenzione sul tema dell’onestà intellettuale, nel pensiero scientifico e teologico. Il rischio, infatti, è che la disposizione intellettuale sia quella di cercare Dio nel buio. Ovvero di rifugiarsi nei vuoti di conoscenza, sottraendosi al confronto con il pensiero naturalizzante, che invece è in grado di cogliere il divino nella luce, nella bellezza, nell’armonia e nella regolarità della natura (ivi, pp 58-9). Partendo da questa posizione, che richiama la teologia naturale, Paris distingue il materialismo, posizione epistemologica accettata come punto di partenza della ricerca sul cervello, dal determinismo, che è invece è una posizione metafisica, non necessaria (ivi, pp 76-7). Il teologo pone in tensione, da un lato, il monismo materialista con il dualismo anima-corpo, affermando che il primo richiede spiegazioni, ossia cerca di spiegare come l’attività cerebrale si correli ai fenomeni mentali, mentre il secondo offre risposte semplici, di fatto attribuendo al concetto di anima le facoltà mentali senza fornire alcuna spiegazione di come l’anima stessa possa esprimere coscienza e volontà; dall’altro pone in tensione il determinismo con la libertà, sollevando il problema di come si qualifichi la libertà umana in un sistema determinista. Paris si orienta verso un materialismo non determinista, ritenendo che le persone umane siano esseri fisici e capaci di libertà, ossia in grado di auto-determinarsi (ivi, pp 82-3). Una libertà, che viene considerata come qualcosa che emerge dalla biologia, e quindi voluta da Dio, ma non dono diretto, spirituale (ivi, p 93). Il teologo sostiene un’antropologia cristiana che pone la persona umana come un essere che Dio ha impastato dalla terra, e con il quale si relaziona. L’autore pertanto sente l’esigenza di recuperare il dato corporeo, mentre la teologia si è storicamente focalizzata più sul soffio nelle narici (Gen 2,7). Parallelo è il problema dell’incarnazione: se Dio si è fatto carne (Gv 1,14) significa che ha condiviso la biologia umana, mantenendo tanto la propria libertà quanto la propria grazia, e impostando una relazione con l’essere umano (ivi, p 95). Un Dio incarnato che si mette di fronte, faccia a faccia, con l’umanità incarnata: tutto è avvenuto sulla terra, le manifestazioni di coscienza e libertà, tanto umane quanto divine, si sono palesate nella storia della realtà materiale. Dunque una relazione tra Dio e umanità mediata da corpi, che non prescinde da un sistema nervoso risultante dalle disposizioni genetiche selezionate dall’esperienza; in altre parole, da un’organizzazione di circuiti cerebrali dipendente sia dalla predeterminazione genetica sia dall’affinamento dovuto all’uso in risposta all’ambiente.
Il grande problema del materialismo monista è, tuttavia, spiegare la coscienza. Allo stato attuale ci sono diversi approcci allo studio della coscienza, una delle ipotesi più promettenti, che l’autore riprende, è quella di Crick e Koch (Una trattazione sintetica si trova nel saggio “Verso una teoria neurobiologica della coscienza”, in Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi delle neuroscienze, Torino: Bollati Boringhieri, 2004), i quali mettono in relazione l’attività mentale cosciente con una specifica attivazione neurale, considerando la coscienza una convergenza di memoria e attenzione. La conclusione tratta da Paris è ricordare che la coscienza non è una cosa, ma è un processo che riguarda gli esseri viventi, corporei (ivi, p 108). Riprendendo i neurologi Edelman e Damasio, Paris segue la concezione secondo cui la coscienza umana si suddivide in coscienza primaria, che comprende la sensazione interna del corpo, la percezione esterna e la memoria, in particolare la memoria associativa e l’apprendimento di comportamenti adattivi; e in coscienza di ordine superiore, che implica il senso del sé, il pensiero astratto e il linguaggio, la consapevolezza sociale e il sé ricordato o autobiografico. Il riferimento alla coscienza di ordine superiore è molto importante per via del parallelismo tra la nozione di identità autobiografica di Damasio, e quella di identità narrativa proposta da Paul Ricoeur. In effetti, il dibattito tenuto alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso tra il filosofo Ricoeur e il neuroscienziato Changeux, compendiato nel testo “La nature et la régle”, mostra una divergenza di posizioni, in particolare a causa del riduzionismo di Changeux, che ha impedito l’inizio di uno scambio interdisciplinare fruttuoso. La posizione dello studioso del cervello non riusciva a venire incontro all’esigenza di considerare la dimensione narrativa, portata avanti dal filosofo. Tuttavia, la posizione di Damasio supera il problema, anzi mostra una forte similarità con quella di Ricoeur. La capacità di narrare è per Damasio un guadagno evolutivo “Individui e gruppi, che grazie al loro cervello erano capaci di inventare giuste narrazioni o di usarle per migliorare se stessi e le società in cui vivevano, ebbero abbastanza successo perché le caratteristiche di quel cervello fossero favorite dalla selezione sia a livello individuale, sia di gruppo” (Damasio, Il Sé viene alla mente, Milano: Adelphi, 2012, p 366).
Tanto secondo Damasio, quanto secondo Paris, la formazione del soggetto, la presa di coscienza di sé stessi, in seno ad una cultura e ad una società, sono processi attraverso cui si strutturano tanto l’identità personale quanto i circuiti cerebrali, studiabili contemporaneamente dalle neuroscienze, dalle scienze umane e, negli aspetti religiosi e di fede, dalla teologia. Mentre Ricoeur pone l’attenzione principalmente alla persona davanti al testo biblico, Paris sottolinea come la dimensione sociale sia essenziale: il cervello umano è sociale tanto nelle disposizioni genetiche quanto in relazione all’ambiente cui si adatta. La libertà umana si schiude nell’agire sociale. Una libertà essenziale per costruire il sé esteso, che risponde alla dimensione volitiva del desiderio che si confronta con l’ambiente sociale. Il problema fondamentale del dialogo tra neuroscienze e teologia, ossia il ripensamento dell’anima, viene quindi risolto nella storia corporea, che genera un io cosciente, autobiografico, che è in grado di formare, pensare e raccontare se stesso.
Questo, ovviamente, cozza con l’idea di anima come elemento immateriale separato dal corpo, che implica che l’io umano sia un elemento spirituale dotato di volontà e coscienza, sussistente anche in assenza dell’elemento corporeo. Di fronte a questa concezione classica della teologia cristiana, Paris ribadisce che il concetto di anima viene considerato quale strumento verbale indispensabile per sostenere la fede cristiana, tuttavia pone l’accento sulla proposizione di fede, ossia sulla funzionalità del concetto alla vita cristiana (Paris, 2017, pp 171-2): valutando il cambiamento generale della cultura, il teologo propone il rinnovarsi anche del linguaggio religioso; in caso contrario la vecchia idea di anima, in mancanza di un aggiornamento semantico, non riuscirebbe più a garantire le funzioni tradizionalmente svolte, finendo infatti per venire usata sempre meno nell’azione pastorale (ivi, p 174). L’autore fa notare come la dottrina cattolica del corpo e del suo rapporto con l’anima debba molto del suo sviluppo alle polemiche contro lo gnosticismo (ivi, p 181). Quindi invita a domandarsi quali siano le funzioni del concetto di anima nella religiosità attuale, e come questa sia rilevante nella relazione tra Dio e esseri umani. Paris, a livello operativo, propone di iniziare ad usare una definizione materiale-sistemica dell’anima, che si riconosce nella concretezza dell’incarnazione, e che presenta grossi vantaggi in termini cristologici: senza l’elemento del corpo non ci sarebbe il Cristo, né la Sua Chiesa, né la risurrezione finale dei corpi (ivi, p 190).
Ovviamente, la teologia si trova comunque a dover salvaguardare l’immortalità dell’anima. In effetti la teologia risente di antiche concezioni filosofiche, quel platonismo e quell’aristotelismo che hanno condizionato la storia del pensiero, tuttavia ci sono oggi forti resistenze all’aprirsi alla razionalità scientifica. L’importante allora diventa, da un lato evitare di usare il concetto di anima come scorciatoia, dall’altro confrontarsi con il tema della materialità, della corporeità nella cristologia e nella salvezza (ivi, p 198). In altri termini, evitare che l’anima venga usata come finta spiegazione: come fa l’anima infatti ad essere cosciente? Più utile studiare come la coscienza si rapporti con Dio e con la fede.
Paris finisce per rileggere il tema dello spirito e dell’antropologia tri-partita. Il corpo è considerato come dato concreto, l’anima come l’aspetto strutturato, sistemico-funzionale del corpo, mentre lo spirito come aspetto particolare di certe anime, prerogativa delle coscienze di ordine superiore (ivi, p 201). Lo spirito è la capacità di relazionarsi con l’altro e di costruire consapevolmente se stessi. Pertanto esso è caratteristica distintiva dell’anima umana (ivi, p 206), venendo a corrispondere allo spazio di libertà costruito attraverso la relazione sociale, sulla base della plasticità cerebrale.
Per concludere, lo sfondo di fede che promuove il dialogo interdisciplinare crede che il polo umano possa trovare nel polo divino il proprio significato. L’umanesimo senza Dio viene percepito come autoreferenziale, ricerca di una salvezza senza fede. Questa posizione tende quindi a rifiutare l’atteggiamento non-teista, che è proprio delle scienze umane e naturali moderne. Uno degli ostacoli principali da superare per avviare un dialogo proficuo tra teologia e neuroscienze, consiste proprio nel confrontare i due linguaggi senza sciogliere le specificità di ciascuna disciplina nell’altra: tentare di ridurre il divino all’umano, o viceversa divinizzare l’umano, renderebbe unilaterale il discorso. La cosa interessante è che, di fatto, questa impresa intellettuale implica comunque una fusione, almeno parziale, di due orizzonti di pensiero caratterizzati da una forte alterità e da concezioni ontologiche opposte. Ad ogni modo, sia che si concepisca l’essere umano come creatore del divino, sia che si creda l’opposto, l’oggetto di studio del dialogo è l’attività mentale e cerebrale, con i relativi effetti, che si produce ponendo un elemento di alterità, comunicato da una comunità di persone e dalle loro parole, da scrittura e predicazione, gesti e ritualità. Ne risulta una costellazione di significati che non sarebbero fruibili senza la dotazione cerebrale simbolica, affettiva, relazionale e linguistica umana; e che non è riconducibile alla produzione interna di alcun individuo, ma è sempre incontrata nella relazione con altre persone, e che incide sui credenti, contribuendo a farli diventare quello che sono. In sintesi, una identità umana e personale che si forma a partire dalla relazione, e prende consapevolezza nel raccontarsi.
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MA I SENTIMENTI, IL SESSO SONO NATURALI E LIBERI O COSTRUZIONE SOCIALE E NORMATIVA (e poi chi può dare queste norme)? SESSO, IDENTITÀ E GENERE Le identità di #genere e il modo in cui si esprime la #passione sessuale, se è naturale, non può essere irregimentata entro regole e schemi preconfezionati altrimenti è creazione umana e non fenomeno naturale. IL GENERE COME COSTRUZIONE SOCIALE Siamo sicuri che la costruzione sociale spesso non si sostituisca al naturale sentire e percepirsi con il mondo circostante e gli altri esseri umani? Il dato biologico può essere anche dato emozionale e sentimentale e implicazione della passione oppure queste pulsioni devono albergare in un recinto libero, quindi non normabile, e privato, quindi non giudicabile dagli altri esseri umani? IL SESSO NATURALE Siamo sempre sicuri che il genere, possa essere “naturale” e nello stesso tempo vero e libero? O forse possa accadere che esso sia la risultanza della ripetizione, spesso imposta dal contesto o dalla politica o dalla cultura, di atti e discorsi specifici che, performati, cioè recitati, divengono norme comportamentali e come tali strutturino la #personalità e si sostituiscano ai #sentimenti identitari di ognuno? « Il corpo viene rappresentato come un mero strumento o medium attraverso il quale vengono messi in relazione significati culturali in modo meramente estrinseco. Ma il ‘corpo’ è di per sé un costruzione […]. Non si può dire che i corpi abbiano un’esistenza dotata di significato prima che siano marcati dal punto di vista del genere.» [Judith #Butler, filosofa (1956-), Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità). #giornatamondialecontrolomofobia #omofobia #gender #queer #pensieri #thoughts #pensamientos #denken #pensées #filosofia #philosophy #filii #filosofía #philosphie #philosophie https://www.instagram.com/p/CASWWdZqF81/?igshid=19exy3bjcn94y
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Durante il #benvenutobrunello di quest’anno sono riuscita a fare un bel giro per #montalcino e a visitare nuovamente la Cantina di poggiolandi , una delle cinque bellissime proprietà del gruppo Dievole, insieme a Podere Brizio, Dievole, Tenuta Meraviglia e Tenuta Le Colonne, disseminate tra il territorio di Montalcino, Chianti Classico e Bolgheri. Questa realtà racchiude, in circa 74 ettari vitati di cui 33 a Brunello DOCG, distribuiti su tre macro zone: la collina di Montosoli, San Polo-La Crociona e Torrenieri, terreni di diverse tipologie ed esposizioni, dislocati su altezze che spaziano dai 175 e i 500 m sul livello del mare, permettendo al vino di racchiudere in un sorso la grande ricchezza di sfumature di questi terroir. Quello della Biodiverità è considerato uno dei punti saldi dell’identità di questa cantina, unito al forte senso di rispetto per la storia e per il territorio. Nonostante ciò stanno andando sempre di più verso l’espressione dei diversi vigneti e della territorialità quindi non è da escludere che possano presto nascere delle selezioni di singoli appezzamenti. La filosofia produttiva punta alla freschezza e all’eleganza, prediligendo nella bellissima cantina le grandi botti a discapito delle barrique che sono state eliminate. Tutta la struttura di accoglienza ha un grande fascino ed è ricca di particolari che la contraddistinguono, che vale la pena visitare, tanto che la parte ospitalità gioco un ruolo sempre più importante anche grazie alla ristrutturazione delle stanze destinate all’accoglienza. Per approfondire ulteriormente questa ampia realtà , insieme a Cantina Social abbiamo intervistato il direttore di Dievole, Stefano Capurso, che ci ha raccontato qualche curiosità in più sulla Cantina e sulla nuova annata di Brunello di Montalcino 2015 in uscita. • • ———————————————— 🍷➡️ Brunello di Montalcino @poggiolandi 🙎🏼♂️➡️ Stefano Capurso - direttore del Gruppo @dievole 📍➡️ Montalcino Poggio Landi 🎥➡️ Vino.tv con @chiara_giannotti_vinotv & @cantinasocial con @castlez 📺➡️ link in bio https://www.facebook.com/vinoTV2me/videos/140001823926478/ Special thanks @gd.comunicazione @giulia_dirindelli @caniatoteresa ——————————————— (presso Poggio Landi) https://www.instagram.com/p/B9KUVW3iQMy/?igshid=tekjffo44rdg
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[...]Noto per il suo eloquio ridondante, Fusaro si fa portatore di un pensiero ambiguo imbevuto di filosofia marxista, anticapitalismo radicale, critica alla postmodernità, esaltazione di sovranismo, etnicismo e nazionalismo, furia antisistema e disprezzo per le banche, culto dell’identità, insofferenza per transgender e transessuali, condanna delle migrazioni in quanto forme di deportazione schiavista, conservatorismo radicale veicolato da un ardente esprit rivoluzionario. Musica per le orecchie di grillini, leghisti e Fratelli d’Italia vari. L’aggettivo che Fusaro si è ampiamente meritato è quello di “rossobruno”, il classico intellettuale talmente a sinistra da ritrovarsi a destra con doppio salto carpiato. Insomma, un po’ fascista, un po’ stalinista, una volta si sarebbe detto un nazi-maoista. Perfettamente a suo agio in tempi di populismo postideologico[...]
Meglio soldati che viaggiatori effeminati. Parola di Diego Fusaro
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Realtà Virtuale (Etica)
Caro lettore,
questo articolo fa parte di una serie di tre post incentrati sulla Realtà Virtuale, il cui scopo è quello di fornirne una breve e sommaria analisi cercando di spaziare più temi possibili e stimolare la curiosità per ulteriori approfondimenti. Verranno trattate alcune caratteristiche tecniche riguardanti il funzionamento della VR immersiva, alcuni aspetti etici che insorgono con il proprio sviluppo ed, infine, verrà dato uno sguardo alle varie applicazioni che questa tecnologia trova oggi e che troverà in futuro. Nel corso di questo articolo analizzeremo alcune tematiche etiche con l’obiettivo di fornire uno spunto di riflessione su quelli che sono i problemi emergenti con lo sviluppo di questa nuova tecnologia. Se sei interessato agli altri articoli, qui trovi il link diretto:
Realtà Virtuale (Tecnica)
Realtà Virtuale (Applicazioni)
Nel 1977, il filosofo argentino Mario Bunge conia il termine “technoethics” per fare riferimento alla necessità sempre maggiore degli scienziati di sviluppare delle regole chiare, precise ed al passo con le nuove tecnologie. L’etica è una branca della filosofia che allude ai problemi del “cosa è giusto” e “cosa è sbagliato”, circoscrivendosi ai canoni della morale umana. Affinché possa esistere la co-esistenza di più individui in una realtà, è necessario che questi facciano uso di leggi morali e pratiche per regolare la propria attività nel mondo in cui vivono. Oggi che la tecnologia digitale permea la nostra vita, è evidente che sia nata la necessità di definire delle regole ben precise per mezzo delle quali scienziati e filosofi devono orientarsi; oggi che l’essere umano ha la possibilità di co-esistere con altri individui all’interno di un ambiente simulato, quali sono i canoni morali che deve seguire per relazionarsi con gli altri?
By Prof. Mario Bunge - Mario Bunge, CC BY-SA 3.0, Link
Abbiamo visto nel corso di <<a href="https://coscienzadigitale.tumblr.com/post/185849093966/realt%C3%A0-virtuale-tecnica">questo articolo che uno degli obiettivi della Realtà Virtuale è quello di rendere completa l’esperienza del soggetto all’interno della simulazione. Se è vero però che, un’esperienza completa comporta una gamma di vantaggi più ampia ed un numero di applicazioni maggiori, è anche vero che la stessa esperienza necessita parimenti di più regole. Quali sono allora le questioni etiche che insorgono con la diffusione capillare sempre maggiore della Virtual Reality (si noti che nel 2019 il numero di “users” è quasi raddoppiato rispetto all’anno scorso, più del triplo rispetto al 2017 e ben il 1400% in più rispetto a 5 anni fa)?
Schema delle questioni etiche riguardanti la Realtà Virtuale - Fonte: IEEE Technology
Un particolare esempio di grande rilevanza per le applicazione etiche della VR riguarda il problema della determinazione dell’identità di un agente nella Realtà Virtuale (con il termine “agente” si indica colui che svolge qualsiasi operazione attiva nella simulazione). In tal senso, se voglio relazionarmi con un’altra persona all’interno della VR è necessario essere a conoscenza dell’identità della persona che controlla l’avatar virtuale o che è identificata con quel particolare avatar. Questo porta quindi al problema dell’“avatar ownership” e dell’identificazione. Quando si parla di “avatar” nella VR ci si riferisce a tre particolari tipi di agenti:
Human Agent: uomo inteso come reale organismo biologico che agisce fuori dall’ambiente virtuale;
Virtual Agent: rappresentate virtuale (all’uopo, umanizzato) controllato da un computer (in genere, da una particolare Intelligenza Artificiale);
Human Avatar: rappresentante virtuale controllato da un “Human Agent”.
Si noti che, all’interno di una simulazione immersiva e completa, per un agente umano potrebbe essere impossibile distinguere tra un agente virtuale ed un avatar. Talvolta, è possibile che degli avatar siano controllati da un numero plurimo di utenti, generando problemi di multipla personalità e responsabilità, o contemporaneamente da una AI e da un Human Agent (tale ente viene anche chiamato “Agente Virtuale del secondo ordine”). Questo problema porta gli scienziati ed ingegneri a ricercare un metodo efficace e sicuro per rendere univoca l’identificazione di un agente: già esistono dei sistemi di identificazione digitale, detti DOIs (Digital Object Identifiers) che associano a degli oggetti virtuali (i.e. documenti online) un particolare ed univoco numero (come avviene per le targhe di circolazione delle macchine). Ma come bisogna comportarsi con degli oggetti virtuali controllati da esseri umani o AI? Sarà sufficiente associare a questi enti una “targa” identificativa?
Altri problemi etici della VR riguardano, ad esempio, le conseguenze che il soggetto porta con se nel mondo esterno alla simulazione. Se, infatti, il nostro tentativo è stato quello di rendere l’esperienza virtuale il più realistica possibile, è necessario tenere conto dei riscontri che questa completa immersione provoca nella mente del soggetto una volta tornato alla realtà stessa. Un fenomeno nel quale è facile incappare viene etichettato come “desensibilizzazione”: il soggetto (si pensi, ad esempio, ad un soldato che si allena per giorni nella realtà virtuale a stretto contatto, quindi, con la violenza), una volta fatto ritorno al mondo reale, può essere meno sensibile ai comportamenti estremi (i.e. violenza) e cessa di mostrare empatia o compassione di conseguenza. Questo fenomeno è stato largamente riscontrato anche nei gamers, i quali, soprattutto per i giochi in prima persona, sono affetti da un maggior grado di immersione. Un’altra importante questione etica da valutare, benché essa a primo acchito possa risultare “strana”, riguarda i crimini commessi all’interno della Realtà Virtuale, o “Virtual Crime”. Come devono essere trattati questi crimini? È possibile che, un soggetto vittima di un crimine all’interno del virtuale, riscontri delle conseguenze psicologiche significative anche fuori? Quali regole del mondo reale sono valide nel mondo virtuale e quali non lo sono? È di fondamentale importanza che vi siano delle leggi ben precise su quello che è lecito e quello che non lo è affinché si possa creare una comunità “sana” di persone anche all’interno di un ambiente virtuale. In ultimo, ma non per importanza, vi sono riscontri sociali negativi nei soggetti che fanno uso della VR? È sempre più diffuso (e non riguarda solo la realtà virtuale in senso stretto, ma ogni realtà in senso lato, i.e. social networks, smartphones, etc…) un sentimento di “apatia sociale” causato da un uso troppo immersivo in una realtà diversa.
Gamer con visore di Realtà Virtule in testa - Fonte: Wikipedia
Numerose altre questioni sono tuttora aperte: è possibile, ad esempio, che il sistema di VR subisca un attacco hacking senza che il soggetto se ne renda conto? Che impatto ha l’età del soggetto sull’esperienza epistemologica e la sensibilità mentale nel mondo reale? Come reagiscono i soggetti di fronte a problemi inaspettati all’interno della simulazione, se tale simulazione non è distinguibile dalla realtà? Queste ed altre domande devono essere oggetto di ricerca e di pensiero e, nella speranza che questa breve trattazione sia stata fonte di curiosità ed interesse, allego ora un interessante articolo al quale sono stati fatti numerosi riferimenti in questo post: frontiers.
Davide Arcolini
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Nasce "L'Ateneo del vino narrato" in Cilento
È il primo modello in Europa. Nasce in Cilento, nel piccolo borgo di Vatolla, frazione del Comune di Perdifumo, il primo "Ateneo del Vino Narrato". L'idea è di Claudio Aprea, direttore della Fondazione "Giambattista Vico", che lancia nuove sfide per lo sviluppo del territorio in chiave culturale. Non a caso, l'Ateneo è collocato presso la nuova ala di Palazzo De Vargas. Qui, sorge il museo vichiano: tra queste mura il filosofo napoletano ritrovò la salute, scrisse la Scienza Nuova e soffrì per amore di Giulia Rocca. "L’Ateneo del Vino Narrato è una scommessa che vinceremo – sostiene il presidente della Fondazione Vincenzo Pepe – sarà il primo esempio in Europa di un progetto di tal genere e noi lo coltiveremo affinché possa affermarsi non soltanto a livello territoriale, tant’è che a breve sarà aperta una sede anche a Roma. L’Ateneo si occuperà della narrazione del vino alla ricerca dell’identità all’ombra della filosofia vichiana dato che Vico è il padre dell’identità. Dal Cilento partiranno varie attività che approderanno poi in altre località idonee. L’Ateneo – conclude – avrà anche il riconoscimento del Governo attraverso il dicastero dell’ambiente ed è probabile che in futuro avremo come ospite proprio un esponente governativo". Porte aperte all’Ateneo per il contadino, per il trasformatore, per le aziende, per i distributori, per i semplici appassionati, per gli addetti ai lavori, per studiosi ed estimatori. Non sarà un luogo semplicemente per degustare ma un posto dove confrontarsi con produttori che vengono da lontano e dove sarà possibile trovare il risultato del connubio tra vino e cultura, concretizzato in quel valore territoriale che il Cilento esprime.
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Arishadvargas i sei nemici della mente umana !
Fare yoga si sa non è solo esecuzione sterile degli asana ma è un cammino profondo e globale che - premessa una certa disponibilità - può realmente coinvolgere ogni singolo aspetto della nostra vita, dando forma e sostanza.
Le antiche scritture induiste testimoniano sin da sempre questa sua pervasività, svilendo a volte anche i nostri più nobili sforzi e ricordandoci come fa il filosofo Adi Sankara nel suo Vivekacūḍāmaṇi che “la liberazione (moksha) non si ottiene né con lo Yoga, né col Samkhya (filosofia indiana), né con i riti, né con la conoscenza erudita, ma con il riconoscimento dell’identità dell’ātman col Brahman. Non vi è altro mezzo”.
Fin dai primi sūtra del Vivekacūḍāmaṇi infatti, Adi Śaṅkara avverte il lettore che in esso non troverà nulla di "consolante" che possa offrirgli conforto o sicurezza; ma al contrario troverà delle chiavi per affrancarsi da qualunque tipo di sostegno, ed alla luce di questo, la lettura del Vivekacūḍāmaṇi può risultare particolarmente destabilizzante o pericolosa se non spiritualmente maturi per accettare e comprendere le verità in esso contenute.
E tra le prime chiavi di liberazione Adi Śaṅkara offre una via per comprendere ed individuare chiaramente i 6 principali nemici della nostra mente e insiti nello spirito umano, in grado di determinare il nostro destino governandoci completamente. Adi Śaṅkara li chiama “Arishadvargas” ed essi sono:
Kama - il desiderio sfrenato, lussuria
Krodha - la rabbia, l’odio
Lobha - l’avidità
Moha - l’attaccamento emotivo
Mada o ahankara - l’orgoglio e l’ostinazione mentale
Matsarya - l’invidia, la gelosia o vanità
Kama e krodha sono responsabili di ogni tipo di esperienze difficili che ci capitano nella nostra vita. Con Mada o ahankar, tutto il nostro agire nel mondo diventa egoista. Queste Arishadvargas (e le loro numerose varianti) chiamate anche passioni malvagie, possono essere pensate come dei “ladri interni” che saccheggiano continuamente il nostro patrimonio spirituale, portandolo a perdere conoscenza del suo vero essere. Se una persona è prigioniero di uno o più arishadvargas allora la sua vita sarà totalmente governata dal destino. Quando invece si avanza sul cammino dell'autorealizzazione, la presa del destino diminuisce e si è parte integrante di esso. Quando riusciamo infatti ad identificarci con il sé inteso come Brahman, allora si diventa parte del tutto, potere del destino incluso. Il nostro Sankalpa (la nostra intenzione) diviene sufficientemente “buono” per materializzare e cambiare qualsiasi situazione per il bene o il male secondo la nostra volontà.
Detto così sembra tutto facile e magico ma credo che siano veramente in pochi a sottrarsi totalmente a uno o più dei sei Arishadvargas. Tutti sotto forme più o meno consapevoli, più o meno consce, siamo a mio avviso in balia del potere degli Arishadvargas: la meditazione, lo yoga, ma così come una bella passeggiata o un momento per re-inserisi nel flusso del qui e dell’ora, possono forse sottrarci per qualche istante alla tirannia continua delle sei passione malvagie facendoci scorgere per un attimo le potenzialità infinite dell’essere.
Appartiene probabilmente solo ai grandi guru del passato a o qualche nostro santo, la capacità di astenersene completamente e con essa la loro capacità di realizzare cose inspiegabili, miracoli così misteriosi alle nostre menti così umanamente limitate.
Namasté!
#ciaoyoga#yogagirl#iloveyoga#Arishadvargas#brahaman#Vivekacūḍāmaṇi#adhisankara#mente#nemici della mente#kama#kroda#lobha#moha#mada#mastaraya
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Christo: l’uomo che ha immaginato l’inimmaginabile, ha estratto l’anima dalle pietre e non ha avuto paura dell’enorme. Un ritratto & un ricordo di Tiziana Cera Rosco
Per prima cosa c’è la parola apolide. A cui segue l’aporia dell’identità. Forse è per questo che impacchettava i monumenti, per riprodurre la forma formandone un’altra, profonda. Come estrarre un’anima dalla pietra – ostentare l’invisibile e la sua ostinazione. Ripetere una parola, un nome, insistendo sulla consonante più acuta, ruotandola. Penso al viaggio, a piedi, di Constantin Brâncusi, all’esilio di Iosif Brodskij, al vagabondaggio di Paul Celan, a quello di Milan Kundera e di Vladimir Nabokov. Il trasferimento da Est a Ovest complica l’alchimia linguistica: bisogna trasferirsi con un esercito di millenni, monolite dentro monolite. Così, Christo Javacheff, nato nel giugno del 1935 nei Balcani bulgari, a vent’anni è a Praga; poi da Praga va a Vienna; poi a Parigi; poi – dal 1964 – negli Stati Uniti, dove sosta e muore, a New York, è noto. Come il riassunto di un millennio in un millimetro: figlio di un chimico, industriale di successo, il piccolo Javacheff è, come tutti, membro della gioventù comunista, apprende il rigore artistico del realismo. A Parigi – dove diventerà amico di Arman, Yves Klein, Jean Tinguely – faceva ritratti, firmandosi Javacheff. La moglie – Jeanne-Claude Denat de Guillebon – la conosce così: stava facendo il ritratto della madre, s’innamorò della figlia. Ma a Praga Klee e Matisse gli avevano uncinato gli occhi – sempre (leggete sotto) un’opera è l’attraversamento di molteplici altre, un artista è uno che si inginocchia.
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The Floating Piers, 2016
“Il mio lavoro è la cosa in sé. Se vogliamo, è politica in sé. Avete idea di cosa può voler dire ottenere i permessi per impacchettare il Reichstag? Convincere Mister Kohl e tutto il Bundestag? Costringerli a votare qualcosa che non esiste ancora, se non nell’immaginazione?”. Così ad Alessandra Mammì, su ‘L’Espresso’, il 14 settembre 2017. Javacheff diventa Christo tra il 1958 e il 1961, impacchettando oggetti. L’oggetto, cioè, viene avvolto in un sudario, in un sepolcro. Se lo spacchetti, risorge, rinnovato e ritrovato. Ma è nell’attesa l’espressione: dell’oggetto, il feto, la fatalità.
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Immaginare l’inimmaginabile significa convertirsi. Immaginare che un luogo possa cambiare volto, anzi, adattarsi a un altro voto – ogni cosa è sidone di chi la guarda. Quindi: avvolgere a Roma, nel 1974, il tratto di muraglia arcaica tra via Veneto e Villa Borghese, Porta Pinciana; rendere il Reichstag, nel 1995, qualcosa di fragile come un sussurro. I progetti sono meditati a lungo – vent’anni, il Reichstag – d’altronde dell’immobile e del saturo, del ‘potere’ viene estratta l’entità diafana, fragile, redenta. Altre volte si creano spazi inediti, come il Valley Curtain in Colorado; le coste australiane, a Little Bay, Sydney, avvolte nel 1968 sono una resa agli angeli, il monte del Purgatorio.
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Bisognerebbe parlare anche dei progetti falliti, pensati fino al passo supremo, disatteso. Tutte le volte che Christo è morto, intento. Il crollo è altrettanto importante.
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Wrapped Reichstag, 1971-1995
Non avere paura dell’enormità: credo che anche questo appartenga a un destino. Pensare che le isole di Biscayne, a Miami, possano essere cintate di fucsia, era il 1983 – non si tratta di un approccio estetico, ma andare all’estero di sé. Che l’arte, cioè, sia anche una impresa, un avvenimento nell’avventato. La scelta del luogo richiede un amore tale da spazzare ogni convenzione topografica. Così, The Floating Piers, i ponti fluttuanti sull’Iseo, con linearità geometrica da architetto di alcove per beati. Era il 2016. Ciò che appare ‘naturale’ – un segno perfino delicato, giallo – è l’esito di un lavoro ossessionante, dove pazienza e costanza sono gli altri polmoni della creatività. In affetti, Christo avrebbe potuto anche svuotare il lago – a noi sarebbe parso facile, come uno schiocco di dita, come si rovescia la pietra del sepolcro. (d.b.)
***
Il 3 luglio 2016 Tiziana Cera Rosco attraversò l’opera di Christo compiendo un’altra opera, una comunione, infine. Ecco cosa ne ricavò.
C’è una frase che ha sempre accompagnato il mio lavoro, «Ogni opera d’arte è di una solitudine infinita». La frase è di Rilke, lo stesso poeta che scrisse che l’amore è fatto di due solitudini che si custodiscono, si delimitano, si salutano.
Ed è con questo spirito che ho intrapreso questo «passaggio».
Quando l’opera di Christo è comparsa mediatamente ne ero quasi delusa. Tanta filosofia e astuzia per vedere un carnaio di persone che si accalcava a qualunque ora del giorno e della notte per farsi una passeggiata tra selfie, panini e calzoncini corti, in giorni torridi che emanavano odore solo al pensiero. Cosa che mangiava ogni attrazione critica e detonava completamente l’idea che io ho di opera. Ossia l’esposizione di un punto di universo che si comunica tramite silenzio (e da quel silenzio riforma un linguaggio comune da cui l’opera può essere letta). Poi c’è stato un episodio: stavo guidando e appuntavo vocalmente col telefono alcuni pensieri circa i gesti di attraversamento di un corpo, quando mi arriva una mail con una foto dell’opera di Christo vista dall’alto. È stato come uno shock addizionale che ha cambiato la valenza morfologica dell’estetica che assorbivo dall’immagine del progetto in generale. Si è aperto un livello di comprensione, forse – non lo so –, ma è arrivata un’idea performativa (termine che sopporto mal volentieri, ma lasciamolo). Per prima cosa l’arancione: colore potentissimo in tutte le simbologie, colore del legame, dell’affetto verso il mondo dei legami. L’ho visto per la prima volta vuoto, The Floating Piers. L’opera lasciata sola. Da lì mi ha parlato.
Tiziana Cera Rosco attraversa l’opera di Christo; photo Alex Astegiano
Ho sempre lavorato con lenzuola (e con l’idea di errore, deposizione, perdono, pulitura), ossia con materiali che prevedono dei corpi distesi, che giacciono su e che per me sono, verticalmente, l’immagine più vicina alla preghiera, anche laica. Lo dico senza cultura. La prima sensazione che mi è arrivata è stata quella di camminare su quel ponte fluttuante in silenzio, con la mia gonna lunga fatta appunto di lenzuola. un movimento semplice e disarmante, camminare sola su un’opera solitaria. Camminare con una gonna nera, lunga: 7 lenzuola nere, che mia madre ha cucito per me (il 7 vuole solo richiamare il 70 volte 7, ossia il numero infinito del perdono). Ho immaginato di attraversare il pontile come una specie di abluzione, ripulendo l’opera dai rumori che inevitabilmente assorbe. Dal chiasso. Dalle cose che si sopportano quando si rende disponibile un lavoro. Un piccolo e semplice rito di cura bonificante.
Certo io non sono nessuno per fare questa cosa. Sono solo una che dalla mattina alla sera lavora con questi significati e cerca di mettere in contatto la sua isola (anche per salvarla da uno sprofondamento) con la terraferma del mondo. Cerca un ponte, la formazione di un linguaggio per quel ponte. Un lavoro inutile, per lo più. Ma è la parte di dialogo di cui sono titolare e cerco di assolverla come posso.
Così questa che ho intrapreso è una performance di attraversamento. È un’opera che cammina su un’altra opera, percorrendola, avendo fiducia di poterci davvero camminare su, galleggiando su un abisso. Insomma, un’opera attraversata da un’altra opera. Possiamo discutere mille anni su cosa sia un’opera e ciò non cambierebbe la valenza di questo gesto, almeno per me. Un artista come Christo realizza delle vocazioni artistiche che sono visioni collettive. E in questo caso, mettendo in contatto territori come terraferma e isole, compie un gesto ancora più significativo e soprattutto comprensibile (fino al populismo), comprensibile anche dalle nostre psicologie a buon mercato come dalle nostre solitudini meno codificate.
Il gesto è quello di riuscire a camminare dove altri affonderebbero. E non fa questo l’arte? Cammina dove altri potrebbero annegare, e permette attraversamenti. Con un legame assurdo tiene molti più equilibri di quelli che disfa.
Ed è questo che ho desiderato: camminare sulla possibilità che l’arte rappresenta cercando di togliere rumore. Non per calpestarla nel senso dispregiativo della parola, ma per attraversare lo spazio della comunicazione pura che l’opera è. Nella performance ho il viso annerito e le mani sporche, perché per ripulire non siamo così ingenui da pensare che non ci si faccia carico anche di un petrolio pesantissimo di cui tutti siamo portatori con le nostre ambiguità e sporchi di senso.
Ho fatto questo col mio modo e col mio limite, che è un modo e un limite lirico, perché tengo al soggetto e alla persona nella sua solitudine come punto di universo che può cantare (e qui ancora Rilke quando dice che «canto è esistenza»).
La lunga gonna nera, che assorbe e pulisce sul ponte fluttuante arancione, ha la sua voce silenziosa, come una nota allagata su una piattaforma che la regge.
È anche un ringraziamento, perché con una voce, che non è solo la mia, ma una relazione che permette la voce, è come se potessi ringraziare le opere che mi hanno permesso negli anni di sentirmi espressa attraverso il lavoro di altri (che io non posso assolvere e che mi accompagna come colloquio con l’umanità), adempiuta nelle parti di me, anche minime, che faticavano a vivere, quelle sottovuoto che prendendo fiato mi hanno permesso di salvare la mia di isola, di non lasciarla affondare nell’inconsistenza della non espressione o nell’oscurità delle cose che ancora non riesco a realizzare e che mi minacciano con la loro potenza vitale.
In fondo queste due opere di attraversamento si somigliano nel loro intimo.
Sono due solitudini che si custodiscono, si delimitano e si salutano.
Non penso di avere un compito migliore oggi se non questo lavoro di incontro da cui si generano linguaggi. E questo mano mano mi aiuta a capire cos’è l’amore.
Tiziana Cera Rosco
*Il testo è stato originariamente pubblicato su “Alfabeta 2” come “Attraversare un attraversamento”
**In copertina: Tiziana Cera Rosco sull’opera di Christo, 2016
L'articolo Christo: l’uomo che ha immaginato l’inimmaginabile, ha estratto l’anima dalle pietre e non ha avuto paura dell’enorme. Un ritratto & un ricordo di Tiziana Cera Rosco proviene da Pangea.
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Scienza e fede: lo statuto ontologico dell’embrione umano
Scienza e fede: lo statuto ontologico dell’embrione umano
Scienza e fede: lo statuto ontologico dell’embrione umano è il titolo di un incontro che si svolgerà a Roma martedì 25 febbraio 2020.
Si parlerà dell’embrione umano, tra scienza, fede, filosofia: dell’identità biologica, filosofica e teologica degli embrioni umani, considerati come persone già nelle loro prime fasi di sviluppo, ciascuno con una sua propria specifica individualità. Relatore sarà…
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