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Al Conservatorio Vivaldi di Alessandria il Tricolore dei Lions: “Onore al Tricolore 2025”
Il Lions Club Bosco Marengo Santa Croce celebra l’identità nazionale donando la bandiera italiana a un’istituzione simbolo di cultura e fratellanza. In occasione della Settimana dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera, il Lions Club Bosco Marengo Santa Croce, presieduto da Orietta Bocchio, ha reso omaggio al simbolo dell’identità nazionale donando il Tricolore al…
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Discorso di Albert Einstein a un incontro studentesco per il disarmo (1930)
Signore e signori,
sono molto contento dell’opportunità di dirvi qualche parola sul problema del pacifismo.
Il corso degli eventi negli ultimi anni ha mostrato ancora una volta quanto poco siamo giustificati nell’abbandonare la lotta agli armamenti e allo spirito bellico dei governi. D’altro canto, la formazione di grandi organizzazioni con un vasto numero di membri non può da sola avvicinarci alla nostra meta.
Secondo me, in questo caso il sistema migliore è quello violento dell’obiezione di coscienza, con l’aiuto di organizzazioni per dare un supporto morale e materiale ai coraggiosi obiettori di coscienza in ogni paese. In questo modo potremmo riuscire a rilanciare il problema del pacifismo, rendendolo una vera lotta che attrae nature potenti.
Si tratta di una lotta illegale, ma è una lotta per i veri diritti della gente contro i loro governi, nella misura in cui questi ultimi richiedono da parte dei cittadini degli atti criminali.
Molti che ritengono di essere dei buoni pacifisti scalpiteranno a questo totale pacifismo, per motivi patriottici. Non si può fare affidamento su questa gente in tempo di crisi, come ha ampiamente dimostrato la guerra mondiale.
Vi sono assai grato per avermi concesso l’opportunità di dirvi personalmente le mie opinioni.
Precedenti generazioni ci hanno fatto, mediante una scienza altamente sviluppata e conoscenze tecniche, un dono di grandissimo valore che porta con sé le possibilità di rendere la nostra vita libera e bella come non l’aveva mai goduta nessuna generazione precedente.
Il destino dell’umanità civilizzata dipende più che mai dalle forze morali che è capace di generare.
Perciò il compito che spetta alla nostra epoca è certamente non più facile dei compiti che i nostri immediati predecessori hanno realizzato con successo. Gli alimenti e gli altri beni di cui il mondo ha bisogno possono essere prodotti in meno ore di lavoro di prima.
Tuttavia questo ha reso il problema della divisione del lavoro e quello della distribuzione dei beni di prodotto molto più difficoltoso.
Comprendiamo tutti che il libero gioco delle forze economiche, la ricerca sregolata e illimitata della ricchezza e del potere da parte del singolo non portano più automaticamente a una soluzione tollerabile di questi problemi. Produzione, lavoro e distribuzione devono venir organizzati secondo un piano definito, al fine di impedire che valide energie produttive vengano sprecate e che sezioni della popolazione impoveriscano e ricadano nella condizione dei selvaggi.
Se non viene limitato, il sacro egoismo porta a disastrose conseguenze nella vita economica ed è una guida anche peggiore nelle relazioni internazionali. L’importanza di questo obiettivo è uguagliata solo dall’inadeguatezza dei tentativi fatti finora per raggiungerlo.
La gente cerca di minimizzare il pericolo limitando gli armamenti e promulgando leggi restrittive per la conduzione della guerra.
Ma la guerra non è un gioco di famiglia in cui i giocatori sono lealmente ligi alle regole.
Dove sono in gioco la vita la morte, obblighi e regole vengono meno.
Solo il rifiuto di tutte le guerre può essere d’aiuto in questo caso.
La creazione di una corte internazionele di arbitrato non basta. Vi devono essere dei trattati che garantiscano che le decisioni prese da questa corte siano rese effettive da tutte le nazioni armonicamente. Senza questa garanzia le nazioni non avranno mai il coraggio di procedere seriamente al disarmo.
Immaginate, per esempio, che i governi americano, inglese, tedesco e francese insistano che il governo giapponese interrompa immediatamente le esercitazioni belliche in Cina, pensa un completo boicottaggio economico. Pensate che ci sarebbe un governo giapponese disposto a prendersi la responsabilità di gettare il paese in un’avventura talmente perigliosa? Ma allora perché non viene fatto? Perché ogni individuo e ogni nazione devono temere per la propria esistenza?
Perché ognuno insegue il suo sciagurato vantaggio immediato e rifiuta di sottometterlo al benessere e alla prosperità della comunità.
Ecco perché all’inizio ho detto che oggi il destino della razza umana dipende più che mai dalla sua forza morale. La strada che porta a uno stato felice passa ovunque attraverso la rinuncia e l’ autolimitazione.
Da dove può venire la forza per realizzare tale processo? Solo da coloro che in gioventù hanno avuto la possibilità di fortificare le menti e allargare il proprio modo di vedere le cose tramite lo studio. Per questo, noi della generazione più vecchia, guardiamo a voi e speriamo che tenderete con tutta con tutta la vostra forza a ottenere quello che a noi è stato negato.
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Ho voluto sentire le parole di Alberto Angela al funerale del papà e mi è capitato di vedere le immagine dei sei o sette nipoti del defunto divulgatore, tutti giovanissimi, molto distinti, sobri nel portamento e nell'abbigliamento, dignitosi nel loro dolore in una occasione assolutamente riservata, intima e familiare. In questi giorni mi è capitato di vedere qualche immagine del funerale a cui hanno partecipato tutti i grandi della terra e milioni di spettatori collegati, ponendo l'attenzione sui quattro figli che hanno partecipato al maestoso rito. Essi erano abbigliati in uniformi militari, tranne uno credo per indegnità, con vistose medaglie e onorificenze appuntate al petto, chiedendomi cosa significassero e quali fossero i meriti per detenerli. Ogni popolo ha il diritto di credere e onorare i propri simboli patriottici ed è giusto rispettarli da chi non ne fa parte. Ho citato due esempi di eventi in cui l'amore, i ricordi, il senso di appartenenza, la comunione di valori e ideali e il conseguente dolore per la perdita della persona cara è massima. Oggi la disparità, il disequilibrio, la dissonanza di valori del presente e di aspettative per il futuro ha raggiunto livelli incredibili. Anche in queste due occasioni è risaltato il fatto che, se difronte alla morte le persone sono tutte uguali, la celebrazione del rito può assumere significati e rappresentazioni molto differenti. Questo mondo gira all'incontrario, basti pensare a ciò che è accaduto con il virus, oltre ai morti, la detenzione domiciliare di quasi tutta la popolazione mondiale, con una guerra alle porte che divampa e che rischia l'olocausto nucleare. Forse si è raggiunto il limite oltre il quale qualcuno, qualcosa o la semplice concatenazione degli eventi provvederà ad invertire la rotta sbagliata in cui naviga l'umanità. (F)
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Il Generalissimo e il Genio. Gli incontri tra Francisco Franco e Salvador Dalí: “io sono sempre lo stesso, è il mondo che è cambiato…”
I diari inediti del collezionista e filantropo Reynolds Morse – fondatore del Salvador Dalí Museum a St. Petersburg, Florida –, conservati negli archivi dello Smithsonian of American Art, fanno luce sui rapporti personali tra il pittore catalano e Francisco Franco. Morse aveva l’abitudine di registrare le sue conversazioni con l’artista: quando gli chiese se avesse paura di morire, con il possibile avvento della Rivoluzione in Spagna e la fine di Franco, “Certo”, gli rispose Dalí, “se non avessi lasciato la Spagna prima della guerra sarei certamente morto, mi avrebbero ucciso, come hanno fatti quegli ignoranti contadini con García Lorca… aveva una relazione con un ragazzo e la gente lo ha fucilato”.
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Il franchismo onorò a dovere l’artista, tornato dagli Stati Uniti in Spagna nel 1948, ma il riconoscimento personale di Franco si fece attendere. “Sono il simbolo che dimostra la tolleranza di Franco”, diceva Dalí a Morse. La scelta del Cestino del pane di Dalí come immagine per raffigurare il Piano Marshall, pubblicata nel 1948 sulla copertina di “The Week Magazine”, rivista con una tiratura da 15 milioni di copie, mostrava l’artista del genio e della follia che rimedia alla sua vita di scandali in un tempo in cui l’amministrazione Truman riteneva Franco un argine al comunismo. Ciò contribuì a preparare il ritorno di Dalí in Spagna.
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Secondo il racconto di Morse, nel 1955, sullo yacht Azor, il dittatore si ancora nella baia di Cadaqués, con l’intento di incontrare Dalí. Poliziotti pattugliano le colline. Il pittore si prepara, si rade, indossa una uniforme da ammiraglio, bianca. Dalí attende invano la visita. Il giorno seguente, lo stesso annuncio: Franco vorrebbe fargli visita. Dalí si prepara di tutto punto, il dittatore non arriva. Il terzo giorno, stessa situazione. Nulla di fatto. Franco, in realtà, è lì per incontrare Miguel Mateu, uno dei suoi più stretti consiglieri.
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Nel 1956, finalmente, l’incontro. “Dalí intraprese un lungo viaggio a Madrid per vedere Franco, aspettando con ansia la conferma della visita. Dalí, accompagnato da Gala, era ansioso di tornare a Port Lligat per continuare a dipingere, così, dopo tre giorni di attesa vana vi tornarono. Appena arrivati, furono sorpresi da un telegramma che notificava l’incontro con Franco. Allora si spostarono a Barcellona per prendere il treno: a Dalí non piaceva volare”. L’incontro si tenne a El Pardo, il 6 giugno, fu il primo di cinque.
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Dalí disse a Morse che Franco gli era apparso “molto intelligente e interessato all’arte”, lo elogiò per aver creato “una monarchia con la stessa genialità con cui Velázquez ha creato Las meninas… Franco rise, rifiutò di ritenersi un genio come lo voleva Dalí, l’idea di monarchia era piantata nella sua testa, Franco voleva restaurare la monarchia in Spagna, con lui come capo degli eserciti”.
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Morse ricorda un giorno di marzo del 1958 in cui Dalí, furibondo, gli telefona nella casa a Denver. Sulla rivista “Art in America” aveva scritto che la pittura religiosa di Dalí era un modo di legarsi a Franco. “Non ho mai dipinto per far piacere a qualcuno oltre me stesso! Sei un nessuno! Una troia!”, urlò l’artista. “Il corso degli eventi mi ha portato dall’anarchismo al conservatorismo, dall’ateismo sacrilego al mondo mistico. Sono lo stesso di quando ero giovane, è cambiato il mondo: la guerra civile, la bomba atomica”. Dalí e la sua pittura storica e religiosa erano il modo con cui il regime tentava di contrastare Picasso, esiliato a Parigi, e Miró, ritiratosi a Maiorca, orgogliosamente antifranchista.
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Dalí dettagliò a Morse l’incontro con Franco accaduto nel castello di Peralada, nel 1970. “Prima arrivò un elicottero, poi i soldati con i fucili, infine due limousine. Da una di queste uscì un vecchio traballante, che teneva tutto sotto controllo”. Dalí fu sorpreso dall’energia dimostrata da un uomo così fragile, “Deve essere un mistico”. Durante quell’incontro, il pittore fece il ritratto della moglie di Franco, Carmen Polo, accettò di dipingere una nipote. Dalí avrebbe cercato di ottenere dal dittatore un sostegno finanziario per i propri lavori mistici e patriottici e per la costruzione del suo Teatro Museo a Figueres, che presentò come contrappunto alla creazione del Museo Picasso a Barcellona.
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Dalí si credeva di gran lunga superiore a Picasso e a Miró, accettò di trarre profitto dalla collaborazione con una dittatura che aveva bisogno di usare la cultura come campagna di immagine contro le democrazie occidentali. Durante la prima biennale di arte ispanoamericana del 1951 una fotografia ritrae Franco, in uniforme militare, che ride. Tàpies racconta che l’immagine cattura il momento in cui il dittatore è informato di camminare nella “sala degli artisti rivoluzionari”, mentre risponde, “Ah, beh, finché fanno la rivoluzione così…”.
Josep Massot
*L’articolo è stato pubblicato su “El País”; la copertina con Salvador Dalí è tratta da qui
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MONTEFELCINO – Sabato 3 agosto la Banda Musicale di Montefelcino compirà 105 anni. Una ricorrenza che condividerà con il pubblico, organizzando, con i patrocini della Regione Marche (Consiglio regionale), della Provincia di Pesaro e Urbino, di Ambima (Associazione nazionale bande italiane musicali autonome) e del Comune di Montefelcino un concerto alle ore 21 in Piazza Francesca da Rimini, che vedrà alternarsi sul palco le Bande Musicali di Fossombrone, Colli al Metauro e la stessa banda di Montefelcino.
Il concerto sarà preceduto alle ore 20.45 da una sfilata delle tre bande per le vie del paese e seguito da un rinfresco per tutti i partecipanti. L’anniversario dei 100 anni, festeggiato nel 2014 (molti gli eventi tra cui concerti, gite, concorsi per studenti, mostre) ha lasciato una ricca eredità: la stampa di un volume, di un CD musicale e la posa di una stele commemorativa nel parco delle Rimembranze a ricordo di tutti i bandisti defunti.
LA PRIMA BANDA AD INSERIRE LE DONNE
L’iniziativa per i 105 anni è stata illustrata in una conferenza stampa in Provincia dal consigliere provinciale e componente della Banda Musicale di Montefelcino Margherita Mencoboni, dal presidente della banda Denis Battisti e dal Maestro Sauro Piersanti, alla presenza del vice presidente Giancarlo Francini (da 50 anni nella banda) e di una delegazione in divisa ufficiale.
“Nel mio ruolo istituzionale – ha detto Margherita Mencoboni – porto il saluto del presidente della Provincia Giuseppe Paolini che parteciperà al concerto del 3 agosto e che è legato a questa banda per la presenza, sia in passato che ora, di alcuni componenti di Isola del Piano, di cui è sindaco. Nell’altro mio ruolo di componente della banda, posso dire che è diventata per me una seconda famiglia, dove si coniugano i valori dell’amicizia e della tradizione. La presenza di una banda è molto importante in una comunità. Quella di Montefelcino è stata la prima nelle Marche ad introdurre nell’organico, nel 1964, la presenza femminile, aprendo la strada per tante altre bande”.
I CORSI DI ORIENTAMENTO MUSICALE
“Metà delle famiglie di Montefelcino – ha spiegato il presidente Denis Battisti – ha avuto negli anni un musicista nella banda e questo vuol dire aver piantato radici che ci consentono di mantenere vivo questo albero che dà i suoi frutti. La nostra è un’associazione di volontariato, cerchiamo di trasmettere ai ragazzi dei valori. Se nel 1914 la banda era formata da 15 – 16 componenti, oggi ha circa 50 elementi, in gran parte giovanissimi, grazie ai corsi annuali di orientamento musicale ad indirizzo bandistico che preparano all’esercizio con lo strumento e all’esibizione in pubblico. Abbiamo anche avviato una collaborazione con l’Istituto comprensivo di Montefelcino, dove il Maestro Sauro Piersanti ha sempre insegnato. Molti dei nostri ragazzi studiano al Conservatorio, altri continuano anche dopo il diploma a suonare nella banda”.
MANIFESTAZIONI E GEMELLAGGI
“Sono entrato nella banda di Montefelcino all’età di 8 anni – ha sottolineato il Maestro Sauro Piersanti – suonando per 15 anni e poi insegnando nel corso di orientamento musicale. Dirigo la banda da 38 anni e con il tempo abbiamo potenziato il genere musicale: arrangiamenti di musica lirica e classica, operette, musica popolare o folcloristica, brani religiosi e patriottici, musica moderna. Partecipiamo a manifestazioni, concerti, raduni e scambi in Italia e all’estero. Tra gli eventi, il Centenario dell’Unità d’Italia, Tromba d’Oro, Bandinsieme, Bande in Vaticano per l’Anno Santo e, di recente, il terzo viaggio in Germania, dove ci siamo esibiti a Loffenau per il 20° anniversario del gemellaggio con il Comune di Montefelcino.
Un importante appuntamento è il tradizionale Concerto a scopo benefico che organizziamo ogni anno nel periodo natalizio nella Chiesa di Sterpeti, in collaborazione con l’Istituto comprensivo di Montefelcino, con l’esibizione, insieme alla banda, del coro degli alunni delle scuole elementari e medie, devolvendo le offerte in beneficenza”.
PROGETTO “SI FA MUSICA”
Oltre ai seguitissimi corsi di orientamento musicale, che si svolgono da ottobre a giugno articolati in 4 sezioni (“ottoni” con Sauro Piersanti, “propedeutica e flauti” con Noemi Rossi, “sassofono e clarinetto” con Giulia Giambartolomei, “solfeggio e propedeutica” con Elisa Piersanti), la Banda musicale ha avviato anche il progetto “Si fa musica”, che coinvolge le prime tre classi dell’istituto “A. Bucci” di Montefelcino.
“La pedagogia musicale è molto importante – ha spiegato Noemi Rossi –, il progetto aiuterà i bambini ad essere coscienti che tutto ciò che li circonda è musica, a partire dall’ambiente, così come ad essere maggiormente consapevoli delle loro emozioni. La musica è fatta di note ma anche di pause, è importante ascoltare i suoni ma anche il silenzio”.
Per info sulle attività della banda e sui prossimi corsi di orientamento musicale: cell. 328.7683109, mail: [email protected]
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/04/giuseppe-mazzini-e-i-mazziniani-salentini/
Giuseppe Mazzini e i Mazziniani salentini
G. Toma, O Roma o morte
di Maurizio Nocera
Perché ricordare oggi Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872), a 146 anni dalla morte? Semplicemente, almeno questo vale per me, perché sembra che in questo nostro Paese di gambe all’aria e di false notizie propalate a piene mani da ogni parte, ci si sia dimenticati della storia e delle buone maniere anche nelle minime faccende quotidiane. E allora, e questo vale sempre in primo luogo per me, ricordare Mazzini significa ricordare un esempio di buona patria, di buona politica repubblicana, di democrazia concreta, ed anche, perché no?, di buona letteratura, se pensiamo che, sin da giovinetto, egli amò la musica (suonava la chitarra) e lesse Goethe, Alfieri, Leopardi, Foscolo, Shakespeare, Manzoni, altri ancora.
Oggi i suoi scritti hanno ancora un loro valore politico-letterario. Li cito a partire dal primo, che fu Dell’amor patrio di Dante (1926). Mazzini fu giornalista, e il suo primo impiego in quanto tale fu presso «l’Indicatore Genovese» (Genova, 1827-1828, chiuso dalla censura), sul quale, ancora giovanissimo, iniziò a pubblicare recensioni di libri patriottici, fino, successivamente, da uomo maturo, ad arrivare alla fondazione e direzione di importanti periodici come «l’Apostolato Popolare», «Il Nuovo Conciliatore», «L’Educatore», «Le Proscrit. Juornal de la République Universelle», «Il tribuno», «Pensiero e azione», «Roma del popolo». Scrisse importanti opere come Atto di fratellanza della Giovane Europa (1834), Scritti politici inediti (Lugano 1844), Del dovere d’agire (1855); Ai giovani d’Italia (1859); e l’importanti libro Dei doveri dell’uomo. Fede ed avvenire (Lugano, 1860), non a torto ritenuto il primo manifesto di libertà e democrazia dei popoli della nuova epoca, nel quale inserì un appello Agli operai italiani:
«A voi, figli e figlie del popolo, io dedico questo libretto nel quale ho accennato i principii in nome e per virtù dei quali voi compirete, volendo, la vostra missione in Italia: missione di progresso repubblicano per tutti e d’emancipazione per voi. Quei che per favore speciale di circostanze o d’ingegno, possono più facilmente addentrarsi nell’intelletto di quei principii, li spieghino, li commentino agli altri, coll’amore, col quale io pensava, scrivendo, a voi, ai vostri dolori, alle vostre vergini aspirazioni alla nuova vita che – superata l’ingiusta ineguaglianza funesta alle facoltà vostre – infonderete nella Patria Italiana […] Le divisioni naturali, le innate spontanee tendenze dei popoli, si sostituiranno alle divisioni arbitrarie sancite dai tristi governi. La Carta d’Europa sarà rifatta. La Patria del Popolo sorgerà, definita dal voto dei liberi, sulle rovine della Patria dei re, delle caste privilegiate. Tra quelle patrie sarà armonia, affratellamento. E allora, il lavoro dell’Umanità verso il miglioramento comune, verso la scoperta e l’applicazione della propria legge di vita, ripartito a seconda delle capacità locali e associato, potrà compiersi per via di sviluppo progressivo, pacifico: allora, ciascuno di voi, forte degli affetti e dei mezzi di molti milioni d’uomini parlanti la stessa lingua, dotati di tendenze uniformi, educati dalla stessa tradizione storica, potrà sperare di giovare coll’opera propria a tutta quanta l’Umanità» […] La Patria è una, indivisibile. Come i membri d’una famiglia non hanno gioia della mensa comune se un d’essi è lontano, rapito all’affetto fraterno, così voi non abbiate gioia e riposo finché una frazione del territorio sul quale si parla la vostra lingua è divelta dalla nazione» (vd. G. Mazzini, I doveri dell’uomo, Sansoni – La Meridiana, Firenze, 1943, pp. 5, 57 e 61).
Va subito detto che se non ci fosse stato Giuseppe Mazzini, e con lui Giuseppe Garibaldi, Liborio Romano e, per alcuni eventi specifici, Cavour (che non amò mai il patriota, anzi fece di tutto per incarcerarlo e persino farlo condannare a morte), mai si sarebbe raggiunta l’Unità d’Italia; unità che significò in primo luogo liberare l’Italia dalla presenza sul suo suolo degli eserciti di altre potenze europee. Per questo suo alto obiettivo politico (Unità nazionale retta da una Repubblica con un governo centrale) fondò e diresse movimenti politici e diversi periodici.
Si pensi alla “Giovine Italia” (1831), alla “Associazione Nazionale Italiana” (1848) e al “Comitato Nazionale Italiano” (1850) e, nello spirito di un sincero internazionalismo patriottico, si spinse a fondare la “Giovine Germania” (1834) e la “Giovine Polonia” (1835) per l’unificazione nazionale di quei paesi, ai quali si deve aggiungere la fondazione della “Giovine Europa” (1866) per l’unificazione dello stesso vecchio continente attraverso un Fronte unito che chiamò “Alleanza Repubblicana Universale”, da cui nacque il “Comitato Centrale Democratico Europeo” (1850). Uno dei capolavori politici di Mazzini, purtroppo sconfitto poi dalla reazione più nera, fu la Repubblica Romana (1849), che diresse per alcuni mesi assieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini (il cosiddetto triumvirato), al quale un contributo notevole apportò Carlo Pisacane.
Inutile aggiungere che per la sua passione politica e per l’Unità d’Italia soffrì il carcere, le percosse, l’esilio (per lunghi anni a Londra) e più volte la condanna a morte in contumacia.
Il 3 giugno 1888, sul periodico dell’Associazione Democratica Elettorale di Gallipoli – lo «Spartaco» – Victor Hugo, autore francese a noi molto noto, scrisse:
«Pour Mazzini il y a la libertè. Pour Garibaldi il y a la patrie. Pour nous il y a l’Italie».
Nel Salento come pure nella nostra Gallipoli operarono i mazziniani repubblicani, a cominciare da Epaminonda Valentino, (Napoli 1811 – Lecce 1849), fondatore della “Giovine Italia” nell’allora Regno di Napoli e il primo introduttore nella stessa Gallipoli e a Lecce. Epaminonda aveva sposato Rosa de Pace, sorella di Antonietta, il cui solo nome per noi gallipolini è una bandiera. Epaminonda, nel maggio 1848, partecipò ai moti insurrezionali di Napoli e di Lecce, aderì al Circolo patriottico di Terra d’Otranto (fondato il 29 giugno 1848). In seguito alla sua partecipazione ai moti insurrezionali, venne arrestato a Lecce il 30 ottobre 1848, assieme a Sigismondo Castromediano (Cavallino), i fratelli Stampacchia (Lecce), Gaetano Brunetti (Lecce), più altri. Epaminonda fu condannato a morte ma, prima ancora dell’esecuzione, morì nel penitenziario di Lecce nel 1849 tra le braccia del Castromediano. Dell’atroce modo in cui egli mori, lo storico Pier Fausto Palumbo ha scritto: «Fin dal 29 settembre (1848) una prima vittima fu fatta: nelle braccia del Bortone e del Castromediano era spirato, in carcere [si tratta del carcere dell’Udienza o carcere centrale di Lecce], a soli trentotto anni, Epaminonda Valentino, gallipolino d’elezione per le nozze con Rosa de Pace, fondatore in provincia della “Giovine Italia”» (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 165).
Anche Sigismondo Castromediano, che lottò esemplarmente contro il Borbone, nelle sue Memorie scrive una chiara pagina patriottica su questo straordinario napoletano rivoluzionario repubblicano mazziniano, salentino e gallipolino d’elezione:
«Epaminonda lasciava la giovane moglie, Rosa de Pace, e due figlioletti ancora piccini, che amava sino alla follia, e con essi Antonietta sua cognata […] La nuova dolorosa giunse a quelle donne in Gallipoli per via di nostre lettere, e a conforto di loro sventura e a venerata memoria dell’estinto loro inviammo un’iscrizione lapidaria…» (vd. Aspetti e figure del Salento nelle parti inedite delle “Memorie” di Sigismondo Castromediano, a cura di Aldo Vallone, in «Studi Salentini», III-IV, giugno-dicembre 1957, p. 174).
Accanto a Epaminonda c’è da annoverare anche suo figlio Francesco Valentino (Gallipoli, 1835 – Pieve di Ledro, 1866), nipote di Antonietta de Pace. Morì da patriota nelle battaglie risorgimentali, convinto repubblicano, prendendo parte nelle associazioni democratiche e nel giornalismo rivoluzionario di Marsiglia e di Genova. Nel 1866 indossò la camicia rossa garibaldina morendo a Pieve di Ledro, nei pressi di Bezzecca (Trento) nella battaglia contro l’impero austro-ungarico in quella campagna militare che Garibaldi intraprese per la liberazione di Trento e Venezia. Del figlio Francesco, nel commentare la battaglia di Bezecca (24 giugno 1866) riporto quanto scrisse il corrispondente di guerra Augusto Vecchi:
«Il povero Valentino è morto, colpito al petto, gridando “Viva l’Italia”».
E come non ricordare ora Antonietta de Pace (Gallipoli, 2 febbraio 1818 – Capodimonte, 4 aprile 1893), cognata di Epaminonda e zia di Francesco, patriota e rivoluzionaria gallipolina, repubblicana mazziniana fin dalla prima ora, alla cui opera la città di Lecce ha intitolato una via e un istituto scolastico di secondo grado. Dopo la morte del cognato e del nipote, la responsabilità dell’attività cospiratrice nel Salento ricadde proprio su di lei. Così la ricorda Pier Fausto Palumbo:
«Animatori della vasta cospirazione mazziniana, e segretari del Comitato centrale di Napoli, i due salentini Fanelli e Mignogna. Collaboratrice instancabile e preziosa, Antonietta de Pace: ad essa facevano capo i Comitati di Lecce, di Brindisi, di Ostuni, di Taranto; e fu essa, con la madre dei Poerio, la moglie del Settembrini, la figlia di Luigi Leanza, poi moglie di Camillo Monaco, a intrattenere gli ancor più rischiosi rapporti coi galeotti politici di Procida, Santo Stefano, Ventotene, Montesarchio e Montefusco. Le corrispondenze segrete tra Santo Stefano e Napoli passavano per Ventotene, i cui reclusi erano giunti a dare tale fastidio al governo che, per liberarsene, preferì disfarsi dei meno pericolosi (…) La guerra di Crimea, riaccendendo le speranze, si fece leva sui militari, con una società mazziniana tutta particolare per loro. Anche di questa, animatori furono il Mignogna e la de Pace, che vennero arrestati: l’uno si ebbe cinquanta legnate e l’eroica donna fu per quarantasei volte inquisita. Al processo che ne seguì, il Mignogna s’ebbe condanna all’esilio, la de Pace fu assolta [dopo aver scontato 18 mesi di carcere preventivo]» (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 167).
È nota la vicenda che vuole la de Pace entrare in Napoli liberata al fianco di Giuseppe Garibaldi. Era il 6 settembre 1860 e da lì, da quella città del Sud, l’Italia iniziava la sua nuova era di paese unito. Oronzo Colangeli, che fu preside per molti anni dell’Istituto Professionale Femminile “Antonietta de Pace” di Lecce, presso il quale anche chi qui scrive ha insegnato per diversi anni, così ricorda la Gallipolina: «Mazziniana convinta e repubblicana, non si scostò mai dalla sua linea ideale pur adattandosi, per un consapevole senso di civile partecipazione al momento storico che attraversava l’Italia […] Con una fede pari a quella degli apostoli del nostro Risorgimento non ebbe incertezze neppure nei momenti più difficili ed oscuri della reazione. Perseguita dalla polizia e dai tribunali borbonici non vacillò, trovando in se stessa le risorse morali per resistere agli inquisitori e risorgere in adamantina coscienza di riaffermata libertà. Esempio purissimo delle migliori tradizioni delle donne italiche che, in tempi dolorosi e di triste servaggio, seppero credere nel radioso avvenire della Patria» (vd. O. Colangeli, in Antonietta de Pace, Patriota Gallipolina, Istituto Professionale Femminile di Stato – Lecce, Editrice Salentina, Galatina 1967, pp. 73-74).
E ancora, come non ricordare Bonaventura Mazzarella (Gallipoli 8 febbraio 1818 – Genova 6 marzo 1882), avvocato e magistrato gallipolino ancor prima dei moti risorgimentali del 1848, repubblicano mazziniano sin dalla prima ora. A Lecce fondò il primo nucleo del Partito d’azione d’ispirazione mazziniana con la costituzione dei primi Comitati collegati ai Circoli. Nel maggio 1848, sempre a Lecce città, uno di questi Comitati prese il nome di Circolo Patriottico Provinciale di Terra d’Otranto, che vide al suo interno il fior fiore della migliore gioventù, fra cui Giuseppe Libertini, Sigismondo Castromediano, Annibale D’Ambrosio, Oronzio De Donno, Alessandro Pino, Nicola Schiavoni, Cesare Braico, Emanuele Barba, altri ancora. Mazzarella fu eletto presidente del Circolo dedicandosi all’organizzazione della Deputazione Provinciale, dalla quale sarebbe nata, dopo l’Unità d’Italia, quella struttura amministrativa che noi oggi conosciamo col nome di Provincia. Il 30 aprile 1849, Bonaventura Mazzarella fu l’unico salentino, assieme ad altri trenta emigrati repubblicani, ad combattere sotto le mura di Roma nella difesa della Repubblica. In tutta la sua vita fu sempre coerente rimanendo repubblicano mazziniano. Passò il resto della sua vita a Genova, dopo essere stato deputato per alcune legislature e, per decenni, consigliere comunale di quella città.
A Gallipoli, tra i repubblicani mazziniani, ci fu anche Eugenio Rossi (Gallipoli 1831-1909), il quale partecipò a tutte le iniziative politiche e militari contro il Borbone e per l’unità nazionale, ad iniziare dal maggio del 1848. Dopo l’Unità d’Italia si arruolò, per mezzo del “Comitato per Roma e Venezia”, presieduto da Emanuele Barba, alla campagna garibaldina di Aspromonte nel 1862, partecipando a tutte le altre campagne che Garibaldi fece fino a Bezzecca. Ritornato in Gallipoli divenne uno dei più ferventi promotori di lotte sociali a favore del popolo, divenendo più volte consigliere comunale ed assessore della città. Fu il fondatore e primo presidente della sezione del Partito socialista di Gallipoli a iniziare dal 1892. Fondò, assieme ad altri suoi compagni, lo «Spartaco», organo dell’Associazione Democratica Elettorale di Gallipoli e circondario e, più tardi, nel 1900, fondò pure, divenendone direttore, «Il Dovere», organo dell’Unione Dei Partiti Popolari di Gallipoli, espressione delle masse popolari. La sua opera, sociale e politica, è oggi rintracciabile nelle centinaia di lettere, articoli, saggi sul socialismo ecc. che egli ci ha lasciato sullo «Spartaco», su «Il Dovere», e su altri giornali ed opuscoli.
Inoltre va annoverato il nome di Giuseppe Libertini (Lecce 1823-1874), repubblicano mazziniano della prima ora il quale, dopo la morte di Epaminonda Valentino assunse la direzione della “Giovine Italia” salentina. I leccesi gli hanno intitolato una bella piazza e un bel bronzo. Fu avvocato e amico personale di Giuseppe Mazzini, col quale stette per lungo tempo a Londra. Partecipò ai moti insurrezionali del 1848, fondò il Circolo Patriottico di Terra d’Otranto e combatté sulle barricate di Monte Calvario a Napoli il 5 maggio 1848. Fu membro del governo provvisorio garibaldino (settembre 1860) e deputato del Regno d’Italia. Mazzini lo mise alla guida del Partito d’Azione, col compito di far insorgere le province allo sbarco di Garibaldi sul continente, perché
«uomo di pronti ed arditi disegni, che seppe far miracoli, tanto da superare di gran lunga la nostra aspettazione», (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 171).
Del Libertini, un inedito ricordo lo scrive anche Francesco Stampacchia nel 1860:
«Giuseppe Libertini, pur esso salentino e propriamente leccese, figura di primo piano nel Risorgimento nazionale, intimo di Giuseppe Mazzini e con lui operante, già recluso a Ventotene, membro del Comitato Europeo con Kossut ed Herzen, aveva organizzato la insurrezione di Potenza, di Ariano e delle Calabrie, e si trovava in Napoli membro del Governo Provvisorio costituitosi al partire di Francesco II e scioltosi quando fu proclamata la dittatura di Garibaldi. Egli era allora accanto all’eroe, da cui era stato chiamato, e con lui fra gli applausi percorreva le vie della Capitale» (vd. F. Stampacchia, Lecce e Terra d’Otranto un secolo fa, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 308).
Accanto a questi eroi unitari del Risorgimento salentino, non vanno dimenticati Vito Mario Stampacchia senior (Lequile 1788 – Lecce 1875), patriota leccese giacobino, che partecipò ai moti insurrezionali del 1820 e anni successivi; Gioacchino Stampacchia (Lequile 1818 – S. M. Capua Vetere 1904), che fu patriota mazziniano e aderì alla “Giovine Italia”; Salvatore Stampacchia (Lecce 1812-1885), fratello di Gioacchino e figlio di Vito Mario senior, anch’egli patriota risorgimentale. E ancora Gaetano Brunetti (Lecce 1829-1900), avvocato, repubblicano mazziniano della prima ora, che partecipò a tutto il risorgimento italiano.
Accanto a tutti costoro non vanno dimenticati altri personaggi come: Cesare Braico, di Brindisi, garibaldino fra i Mille, il quale combatté nel 1848 sulle barricate a Santa Brigida a Napoli. Successivamente prese parte alla difesa della Repubblica Romana. Per la sua partecipazione ai moti rivoluzionari fu condannato a 25 anni di galera. Soffrì il carcere duro borbonico assieme a Sigismondo Castromediano e a Luigi Settembrini. Dopo 11 anni di carcere fu esiliato dall’Italia. Riparò a Londra dove per bocca dell’altro suo compagno Giuseppe Fanelli ricevette il saluto di Giuseppe Mazzini. Appunto Giuseppe Fanelli, di Martina Franca, anch’egli garibaldino fra i Mille, che partì da Quarto per la Sicilia (famoso il coraggio dimostrato durante la battaglia di Calatafimi), e repubblicano mazziniano della prima ora, difensore della Repubblica Romana del 1849, dove combatté sotto il comando politico di Giuseppe Mazzini. Fu anch’egli uno dei responsabili della “Giovine Italia” in Terra d’Otranto. C’è ancora Vincenzo Carbonelli, di Taranto, anch’egli garibaldino fra i Mille, repubblicano mazziniano della prima ora, partecipò il 15 maggio 1848 ai moti insurrezionali di Napoli, anch’egli difensore della Repubblica Romana e propagatore degli ideali mazziniani in Terra d’Otranto. E infine va ricordato anche il leggendario Nicola Mignogna, di Taranto, garibaldino fra i Mille che, il 5 maggio 1860 fu, assieme a Crispi, Rosolino Pilo e La Massa, tra gli organizzatori della spedizione da Quarto alla volta della Sicilia. Repubblicano mazziniano della prima ora, nel 1836 si era affiliato alla “Giovine Italia” diffondendone gli ideali nelle provincie napoletane. Nel 1848 combatté a Monte Calvario a Napoli, successivamente prese parte alla difesa della Repubblica Romana. Venne processato assieme ad Antonietta de Pace. Lavorò spesso a fianco di Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Fino alla fine dei suoi giorni rimase un convinto repubblicano. (Per tutti cfr. Aa. Vv. Lecce e Garibaldi, Capone editore, 1983).
Fin qui i garibaldini, i mazziniani e gli altri patrioti unitari salentini, i cui nomi andrebbero scritti nel Grande Libro della Storia nazionale d’Italia. E tuttavia la storia, che noi sappiamo essere maestra di vita e regolatrice di ogni cosa, non lascia mai nulla di scoperto sulle sue indistinguibili pagine sulle quali è narrata l’evoluzione degli eventi. Tant’è che nel 1945-46, quando i costituenti del secondo dopoguerra si riunirono per gettare le basi di quella che sarebbe divenuta la Carta fondamentale della nuova Italia antinazifascista, la Costituzione, (la forma statuale fu quella repubblicana, scelta dal popolo italiano con il referendum del 2 giugno 1946), non dimenticarono l’insegnamento di Giuseppe Mazzini e dei suoi compagni. Così, nell’impeto gioioso di un’indimenticabile giornata per gli italiani, e nel calore sostenuto dal forte vento della libertà e della democrazia riconquistata, nacque la nostra Costituzione Repubblicana, promulgata il 1° gennaio 1948.
Ecco perché, oggi, in un’Italia continuamente gabbata da ignoranti di Stato, non è sbagliato ritornare a leggere i testi di Giuseppe Mazzini, affinché si riscoprano i valori e le idealità d’un tempo per ritrovare anche il senso e il significato profondo di una vita degna di essere vissuta alla ricerca di un mondo ideale concreto, mondo che fece degna di essere vissuta la vita dei grandi iniziati di tutti i tempi: Socrate, Pitagora, Budda, Confucio, Gesù Cristo, Maometto, Giordano Bruno, Ernesto “Che” Guevara. Forse, ma questo è difficile accertarlo in un momento storico come quello che stiamo vivendo, fra questi grandi della storia dell’umanità, un suo posto l’ha anche Giuseppe Mazzini, indiscutibilmente l’apostolo più significativo del repubblicanesimo moderno.
A Lecce, su una fiancata dell’ex Convitto Palmieri, insiste una bella immagine di Giuseppe Mazzini, sotto la quale, Giovanni Bovio, altro personaggio assai noto ai gallipolini, ha scritto: «Giuseppe Mazzini// pari ai fondatori di civiltà// Maestro».
Pubblicato su Anxa
#Antonietta De Pace#Epaminonda Valentino#Giuseppe Mazzini#Liborio Romano#Maurizio Nocera#Nicola Mignogna#Sigismondo Castromediano#Pagine della nostra Storia#Spigolature Salentine
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Cassandra Crossing/ @SHA2017
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Cassandra Crossing/ @SHA2017

– In volo verso casa, Cassandra anche questa volta sta provando a descrivere l’appena concluso SHA2017 (Still Hacking Anyway – Smanettando Malgrado Tutto).
È strano, innanzitutto, sentire di partire da casa diretti a casa; forse perché si tratta di due posti in cui ci si realizza con diverse sfaccettature del carattere. Comunque i cinque giorni passati in mezzo ad un niente temporaneamente riempito di cose e persone sono stati trascorsi con la serenità che solo l’appartenere ad un posto può dare.
Che dire di SHA? La cronaca rischierebbe di essere ripetitiva di cronache passate, succedutesi ad intervalli di due anni, quindi i fasti delle cronache di OHM e del CCC questa volta non atterreranno su questi appunti di viaggio.
Innanzitutto l’ambiente: una buona organizzazione, conferenze e workshop in grande abbondanza; in certi momenti 12 eventi contemporaneamente.
Il feeling è stato molto familiare; la famiglia ristretta dell’Ambasciata con una settantina di fratelli e sorelle, e quella allargata di SHA che pare contasse circa 3600 familiari.
5 tende maggiori, da anche 500 posti, 7 location minori, 135 talk ed eventi ripresi in video, che vi potete godere tutti qui, ed almeno altrettanti svoltisi senza la presenza delle telecamere.
Una delle location “minori”, un tendone da 50 posti, con impianto audio e ripresa video, era gestita dalla famosa, e talvolta famigerata, Ambasciata Italiana.
Famosa, perché fin dal CCC del 2007 ha allietato i giorni, ma soprattutto le notti, di tutti i camp hacker d’Europa. Famigerata perché tradizionale organizzatrice di party notturni a base di grappa, che nelle ultime edizioni erano diventati decisamente eccessivi ed offuscavano le attività dei suoi componenti, che spesso nulla avevano da invidiare rispetto a quelle di più titolati speaker internazionali.
Adesso ve lo posso confessare; alla fine del CCC2015, in una certa tenda si era riunita una cellula carbonara composta di persone scontente della direzione presa dall’Ambasciata, e che avevano fatto il proposito di invertire la tendenza potenziando ed organizzando i contenuti e le conferenze che le persone dell’Ambasciata avrebbero portato al camp del 2017.
Così per fortuna è stato. In un’Ambasciata comunque cresciuta e molto più organizzata, che ha fornito servizi impeccabili (leggi: cibo) ai suoi membri, ed anche a tanti villagers, la struttura dei talk ha ospitato una ventina di eventi, alcuni dei quali tenuti da ospiti stranieri. Malgrado le inevitabili sfilacciature di una “prima volta”, un bel successo.
Ottenere questi risultati ha richiesto a molti, anche a Cassandra, una rivoluzione copernicana di atteggiamento. Passare da un’indigestione di talk e incontri con gente interessantissima, alla disciplina di dedicare tempo prezioso ad attività volontarie destinate alla riuscita dell’evento. Alla fine un bel sacrificio per tanti, anche per Cassandra che, complessivamente, in cinque giorni è riuscita a vedere solo tre talk, e ad assistere casualmente ad eventi molto coinvolgenti come questo concerto, perdendone molti altri.
Il resto del tempo è stato speso a tenere talk e workshop, ad organizzare e seguire i contenuti dell’Ambasciata con l’indispensabile contributo di tutta la ciurma italiana, e a fare anche un paio di notti di volontariato al Pronto Soccorso di SHA; un paio di ospiti dell’evento stanno meglio grazie alle sue preziose manine. Alla fine il divertimento c’è stato, forse più di prima, ed anche l’esperienza fatta è stata memorabile: completamente diversa, ma altrettanto bella. Però adesso gli impazienti 24 lettori stanno cominciando a scalpitare per questo “Amarcord”, e quindi un po’ di cronaca spicciola.
Hackeriamo gli hacker Durante gli eventi come SHA, è tradizione che si svolga una caccia al tesoro informatica chiamata CTF – Capture the Flag (Rubabandiera). Talvolta ne vengono anche organizzati di informali, consistenti di solito nel sovvertire, rigorosamente in maniera innocua e divertente, qualche infrastruttura del camp. In questo l’Ambasciata vanta una lunga tradizione, iniziata quando al CCC2007 furono sovvertite le reti DECT e VOIP del camp per chiamare automaticamente tutti coloro che avevano registrato un telefono (e pare fossero 1400), per invitarli al party dell’Ambasciata. Quelli che erano infastiditi o sorpresi per la telefonata e iniziavano a parlare venivano dirottati in una chiamata multipla, dove potevano interrogarsi a vicenda. Memorabile anche quella del 2013 quando l’infrastruttura delle luci intorno all’ambasciata iniziò a colorarsi di bianco, rosso e verde, e per punizione, l’ambasciata fu privata per 4 ore della corrente…
Forse ricordando quest’ultimo episodio, quest’anno il team di incursori informatici dell’Ambasciata si è accanito “solamente” sull’insegna principale di SHA2017, una scritta posta all’ingresso principale, alta due metri e lunga cinque e formata di lettere colorate illuminate da una moltitudine di lampadine a LED multicolori.
All’arrivo era colorata di un modesto e noioso verde uniforme, ma dopo solo due giorni di modifica cavi, lockpicking di lucchetti dei Datenklos ed analisi del traffico della rete luci, le lettere prima si sono colorate dei patriottici colori italiani, e successivamente sono state animate in maniera ancora più varia.
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Il finale è consistito nella conquista delle torce a LED che erano montate sopra i Datenklos, trasformando anche queste in altrettanti vessilli. Il tutto è stato poi illustrato in un intervento formale, tenuto durante i lightning talk, fulminee conferenze di 5 minuti su argomenti a piacere, che tradizionalmente concludono questo tipo di eventi.
Sfamiamo gli hacker Quest’anno l’Ambasciata era formata da tre tendoni e due gazebi: Ambasciata propriamente detta, Cucina con cambusa, zona relax con musica d’ambiente e divani pneumatici, struttura per le conferenze. La cucina, fino ad oggi destinata al sostegno alimentare dei soli componenti l’ambasciata e di occasionali ospiti, è stata strutturata e potenziata in modo da poter sfamare un numero ben maggiore di partecipanti, e risollevare le sorti economiche dell’Ambasciata, servendo un rilevantissimo numero di avventori a titolo non gratuito, ma ad offerta. Un contributo determinante è stato dato da una nota azienda del settore alimentare, che ha provveduto a riempire gratuitamente la cambusa dell’Ambasciata di ottime materie prime, invece di costringere i cucinieri a quotidiane visite nei supermercati della zona, certo qualitativamente non all’altezza. Il tocco di classe comunque era dato dalla colazione, con espresso, croissant freschi e nutella a volontà, servita puntualmente agli assonnati partecipanti dalle 9 in poi. Davvero grazie per questo!
Accudiamo gli hacker Gli smanettoni sono certamente avvezzi a sopravvivere in condizioni logistico-igeniche di tipo estremo; c’è da dire tuttavia che, come riescono ad adattarsi facilmente alla buona cucina, si adattano altrettanto bene a ritrovare la mattina, dopo l’inevitabile party notturno, i tavoli e i pavimenti in condizioni igieniche se non perfette almeno umane. Altrettanto dicasi per la struttura dei talk, il cui impianto audio veniva abitualmente smontato e utilizzato per i party, e doveva essere rimontato e ricollaudato ogni mattina entro le 10 per permettere lo svolgimento delle attività intellettuali. È rimasto memorabile il fatto che il 7, giorno dedicato al party di fine evento, la musica dell’ambasciata fosse chiaramente udibile dall’albergo in cui Cassandra dormiva, che si trovava a circa 500 metri dal Camp, separato da un fiume largo almeno 200 metri.
Curiamo gli hacker La statistica è una scienza esatta, e la legge dei grandi numeri non perdona. Mettete insieme quasi 4000 persone, ed il fatto che un buon numero di incidenti piccoli e grandi affolleranno l’indispensabile pronto soccorso del camp diventerà non una possibilità ma una certezza. Fu così che Cassandra, forte di un po’ di certificazioni da soccorritore faticosamente ottenute, ha tolto spine dai piedini di incauti bambini avvezzi a camminare a piedi nudi, ha medicato dita affettate di incaute aiuto-cuoche, e rimesso in piedi persone visibilmente alterate da sostanze di vario tipo, assunte contemporaneamente in maniera altrettanto incauta. Chi l’avrebbe detto.
Ascoltiamo gli hacker Dai pochissimi talk ascoltati e dai pareri avuti da coloro che ne avevano potuti ascoltare in quantità industriali, Cassandra ha ricavato una strana impressione. Sembra che, malgrado la presenza abbondante di contenuti di assoluto livello, le eccellenze viste ad OHM a SHA siano mancate. Il keynote speech è stato tenuto da uno Zimmerman più appannato del solito, e messia come Brewster Kahle quest’anno non si sono visti. Talk sorprendenti come quelli dell’installazione di Linux **dentro** un disco, o dell’hackeraggio dell’infrastruttura SS7 di uno dei massimi provider di infrastrutture cellulari per recuperare una situazione critica sono mancati completamente. Una spiegazione non è facile da trovare. Il timore di Cassandra è che 4 anni fa il mondo dell’hacking e dell’ICT fosse diverso, un mondo dove gli exploit e gli zero-days venivano raccontati agli altri hacker in modo responsabile, e non erano ancora diventati preziosi beni di consumo e moneta di scambio come oggi.
Salutiamo gli hacker SHA2017 ha lasciato il segno. Un evento vissuto completamente dalla parte di chi fa, e non solo di chi guarda ha un sapore incredibilmente diverso. Qualcuno potrebbe dire che rispetto ad OHM2013 sia stato un po’ sotto tono. Osservazione legittima e forse anche vera, ma sono stati 5 giorni meravigliosi per cui ringrazio gli altri 3599 presenti che mi hanno arricchito molto. Grazie ragazzi!
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L.C. Bosco Marengo Santa Croce consegna il Tricolore al Conservatorio Vivaldi di Alessandria – Celebrazione della Giornata dell’Unità Nazionale, dell’Inno e della Bandiera
Il Club Lions Bosco Marengo Santa Croce ha celebrato la Giornata dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera con un’iniziativa di grande valore simbolico e culturale: la consegna del Tricolore al Conservatorio “A. Vivaldi” di Alessandria. La cerimonia si è svolta sabato 22 marzo 2025 alle ore 16:00 presso l’auditorium del Conservatorio e ha rappresentato un momento di…
#Alessandria eventi culturali#Alessandria today#auditorium Vivaldi#Bandiera italiana#Bosco Marengo Santa Croce#celebrazione tricolore#cittadinanza attiva#Conservatorio Vivaldi Alessandria#Costituzione#Cultura e identità#Educazione alla cittadinanza#educazione musicale#eventi marzo 2025#eventi patriottici#Fausto Galli#festa nazionale#fratellanza#Giornata dell’Unità Nazionale#Giovani musicisti#Google News#Inno di Mameli#italianewsmedia.com#Lava#linguaggio universale#Lions Club#Lions International#Musica e Cultura#musica e patria#musica orchestrale#orchestra giovanile
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Amo maledettamente Oliver Stone, strafatto di sesso e di droga, ego strabordante, scrittore geniale, un uomo che ha le palle di sbagliare
Quanto mi fa incaz*are Oliver Stone, quanto lo prenderei a schiaffi alla fine di ogni suo film, se solo fosse possibile, se solo fosse lecito, e se solo da tale scontro potessi uscirne indenne, io così piccolina, e lui così alto e grosso. In verità dovrei prendere a schiaffi me stessa, che ancora mi lascio incantare dai mignot*ari, e per te che mi leggi che non sei di Roma e dintorni spiego che mignot*ari volgarmente significa quello che facilmente intuisci, uomini che vanno a migno*te le più brutte e a buon prezzo. Come Oliver Stone, sissignori, non lasciatevi ingannare da ciò che è oggi, un placido signore appesantito e accasato, quando mignot*aro lo è stato, di preciso dai 16 anni in poi, da quando perse la verginità con la squillo pagata e scelta da papà. E in quel caso però la squillo era di lusso, papà Louis era ricco, Oliver è nato nell’agio e cresciuto figlio unico e viziato, scuole esclusive fino a Yale, stessa università e stesso anno di immatricolazione di George Bush Jr., futuro presidente degli Stati Uniti e nemico numero uno di Stone, protagonista dileggiato del suo W.
Se però Bushino per sfuggire alle armi si imbosca nella Guardia Nazionale dietro raccomandazione di papà politico, Oliver Stone in Vietnam ci va nel 1965, da civile, da insegnante di inglese. Ci ritorna nel 1967, da soldato volontario, ci va a combattere una guerra sulle orme di papà Louis, che ha fatto la Seconda guerra mondiale, in Francia, trovandoci anche l’amore, con Jacqueline, la mamma di Oliver, da lei sempre chiamato Olivier, sebbene all’anagrafe risulti William per volere paterno. Ma in Vietnam Oliver non ci trova l’amore, ci trova lo schifo di ogni guerra vera, il puzzo della morte che di dosso non ti togli più. Oliver spara e uccide, il lerciume del Vietnam che trasferirà su pellicola, nella trilogia Platoon–Nato il 4 luglio–Tra Cielo e Terra, è il lerciume reale che lui in guerra ha contribuito ad ammucchiare.
*
In Vietnam ci siamo stati tutti, scrive Michael Herr in Dispacci, ma non è vero, qui in Italia ad esempio del Vietnam non ci hanno mai capito un caz*o, i sessantottini che dicono il contrario sono dei bugiardi, ma nemmeno Kubrick, né Coppola, né altri che hanno firmato film memorabili sul Vietnam in quella dannata guerra ci sono stati, tranne lui, Oliver Stone, e per questo la sua trilogia affascina tanto, specie i giovani, e di ogni generazione. Perché Stone narra gli eventi dal punto di vista di tre ragazzi, Charlie Sheen in Platoon, Tom Cruise in Nato il 4 luglio, Hiep Thi Le in Tra Cielo e Terra: Sheen e Cruise ‘sono’ Stone, sono la sua rabbia, la sua gioventù andata a farsi fott*re tra morte, droga, bordelli. Dal Vietnam Oliver Stone ritorna distrutto nella mente e nell’anima, annientato dai demoni, da un orrore che è vita, è respiro, e non letteratura: a 23 anni è dentro la droga fino al collo. Ha cominciato a drogarsi in guerra, tornato a New York non prosegue economia a Yale, si laurea in cinematografia alla New York University, e fa lavori umili per sfuggire a se stesso, agli incubi che lo tormentano e che saranno quelli recitati da Tom Cruise sullo schermo. Poi, le put*ane: sfogo sessuale basico in Vietnam, le sue avventure più torride e squallide, più torbide, sono da Stone riversate in Sogno a Occhi Chiusi, romanzo pesantissimo, una discesa agli inferi tra guerra, m*rda, e sesso da mercimonio nei luridi bordelli tailandesi, meta dei soldati americani in licenza, e uno Stone strafatto e imbruttito, arso da un desiderio incestuoso per mamma Jacqueline, passa da donna a donna, perso, stordito: non conta il loro corpo, solo che glielo prendano in bocca, come se a succhiargli sperma fosse possibile tirargli via tutto il sudicio che è diventato.
*
Droga e migno*te accompagnano Oliver Stone buona parte della vita, fino alla prima metà degli anni Duemila, quando un giudice all’ennesimo arresto per guida in stato di ebrezza e possesso di droga, lo obbliga a ripulirsi. Ma prima di allora ci sono anni di cocaina, ci sono viaggi col peyote che lo costringono a rimandare l’inizio di The Doors, c’è l’LSD e “l’erba dono di Dio”, e ci sono film e premi, sceneggiature lucenti, sapienti di scrittura. Perché se c’è una cosa su tutte che mi fa incaz*are di Oliver Stone non è il suo passato mignot*aro e maledetto, non è il suo sbatterti in faccia quant’è bravo a far film, e nemmeno il fatto innegabile che possieda le qualità auree che voglio in un uomo, una personalità strabordante fitta di idee frutto di studio, raziocinio, e di opinioni ferme, scomode, radicali, e l’avere le p*lle di sostenerle a morirci, anche sbagliando, e Dio sa quanto io adori gli uomini che sbagliano, e gli errori di Stone sono palesi (chi riesce a vedere tutto Alexander senza addormentarsi?). No, quello che mi manda in bestia è la capacità di scrittura di Oliver Stone, qualità poco riconosciutagli perché sì i suoi libri sono poco letti, e però basterebbero le sue sceneggiature (ha scritto Scarface, caz*o!) e Fuga di mezzanotte, la prima che ha creato, e che gli è valsa un Oscar. (Ok, non era la prima, la prima l’ha scritta nel 1969 tornato dal Vietnam, la paranoica stesura di quello che diventerà Platoon). Con Oliver Stone, una direzione, una tesi, ce l’hai, sempre, ed è politica, è ‘contro’, e da un’altra parte.
*
Oliver Stone è un divoratore di testi storici e uno scrittore-lumaca, scrive lentissimo, battendo sui tasti con un dito solo, e ci mette mesi a limare qualche pagina decente. Che poi diventano film, stroncati la gran parte dai critici e da tutte le teste d’uovo possibili, ma non è vero che Stone sia antiamericano e odi il suo Paese, seppure sia mezzo francese la verità è che non credo vi sia uomo che ami la sua Nazione quanto lui, che ha capito che la forza dell’America sta nel raccontarsi e così svelarsi nel suo Bene ma soprattutto nel suo Male, nel mettersi costantemente sotto processo uscendone ogni volta più forte. Migliore. Per far questo bisogna essere patriottici, quel patriottismo che Stone mette nei suoi film e che mi fa sentire sbagliata perché dai, riconosciamolo, noi italiani patriottici non lo siamo né lo saremo mai, è un sentimento a noi alieno, con cui non ci crescono, e che non puoi darti da solo.
Barbara Costa
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Cassandra Crossing/ @SHA2017
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– In volo verso casa, Cassandra anche questa volta sta provando a descrivere l’appena concluso SHA2017 (Still Hacking Anyway – Smanettando Malgrado Tutto).
È strano, innanzitutto, sentire di partire da casa diretti a casa; forse perché si tratta di due posti in cui ci si realizza con diverse sfaccettature del carattere. Comunque i cinque giorni passati in mezzo ad un niente temporaneamente riempito di cose e persone sono stati trascorsi con la serenità che solo l’appartenere ad un posto può dare.
Che dire di SHA? La cronaca rischierebbe di essere ripetitiva di cronache passate, succedutesi ad intervalli di due anni, quindi i fasti delle cronache di OHM e del CCC questa volta non atterreranno su questi appunti di viaggio.
Innanzitutto l’ambiente: una buona organizzazione, conferenze e workshop in grande abbondanza; in certi momenti 12 eventi contemporaneamente.
Il feeling è stato molto familiare; la famiglia ristretta dell’Ambasciata con una settantina di fratelli e sorelle, e quella allargata di SHA che pare contasse circa 3600 familiari.
5 tende maggiori, da anche 500 posti, 7 location minori, 135 talk ed eventi ripresi in video, che vi potete godere tutti qui, ed almeno altrettanti svoltisi senza la presenza delle telecamere.
Una delle location “minori”, un tendone da 50 posti, con impianto audio e ripresa video, era gestita dalla famosa, e talvolta famigerata, Ambasciata Italiana.
Famosa, perché fin dal CCC del 2007 ha allietato i giorni, ma soprattutto le notti, di tutti i camp hacker d’Europa. Famigerata perché tradizionale organizzatrice di party notturni a base di grappa, che nelle ultime edizioni erano diventati decisamente eccessivi ed offuscavano le attività dei suoi componenti, che spesso nulla avevano da invidiare rispetto a quelle di più titolati speaker internazionali.
Adesso ve lo posso confessare; alla fine del CCC2015, in una certa tenda si era riunita una cellula carbonara composta di persone scontente della direzione presa dall’Ambasciata, e che avevano fatto il proposito di invertire la tendenza potenziando ed organizzando i contenuti e le conferenze che le persone dell’Ambasciata avrebbero portato al camp del 2017.
Così per fortuna è stato. In un’Ambasciata comunque cresciuta e molto più organizzata, che ha fornito servizi impeccabili (leggi: cibo) ai suoi membri, ed anche a tanti villagers, la struttura dei talk ha ospitato una ventina di eventi, alcuni dei quali tenuti da ospiti stranieri. Malgrado le inevitabili sfilacciature di una “prima volta”, un bel successo.
Ottenere questi risultati ha richiesto a molti, anche a Cassandra, una rivoluzione copernicana di atteggiamento. Passare da un’indigestione di talk e incontri con gente interessantissima, alla disciplina di dedicare tempo prezioso ad attività volontarie destinate alla riuscita dell’evento. Alla fine un bel sacrificio per tanti, anche per Cassandra che, complessivamente, in cinque giorni è riuscita a vedere solo tre talk, e ad assistere casualmente ad eventi molto coinvolgenti come questo concerto, perdendone molti altri.
Il resto del tempo è stato speso a tenere talk e workshop, ad organizzare e seguire i contenuti dell’Ambasciata con l’indispensabile contributo di tutta la ciurma italiana, e a fare anche un paio di notti di volontariato al Pronto Soccorso di SHA; un paio di ospiti dell’evento stanno meglio grazie alle sue preziose manine. Alla fine il divertimento c’è stato, forse più di prima, ed anche l’esperienza fatta è stata memorabile: completamente diversa, ma altrettanto bella. Però adesso gli impazienti 24 lettori stanno cominciando a scalpitare per questo “Amarcord”, e quindi un po’ di cronaca spicciola.
Hackeriamo gli hacker Durante gli eventi come SHA, è tradizione che si svolga una caccia al tesoro informatica chiamata CTF – Capture the Flag (Rubabandiera). Talvolta ne vengono anche organizzati di informali, consistenti di solito nel sovvertire, rigorosamente in maniera innocua e divertente, qualche infrastruttura del camp. In questo l’Ambasciata vanta una lunga tradizione, iniziata quando al CCC2007 furono sovvertite le reti DECT e VOIP del camp per chiamare automaticamente tutti coloro che avevano registrato un telefono (e pare fossero 1400), per invitarli al party dell’Ambasciata. Quelli che erano infastiditi o sorpresi per la telefonata e iniziavano a parlare venivano dirottati in una chiamata multipla, dove potevano interrogarsi a vicenda. Memorabile anche quella del 2013 quando l’infrastruttura delle luci intorno all’ambasciata iniziò a colorarsi di bianco, rosso e verde, e per punizione, l’ambasciata fu privata per 4 ore della corrente…
Forse ricordando quest’ultimo episodio, quest’anno il team di incursori informatici dell’Ambasciata si è accanito “solamente” sull’insegna principale di SHA2017, una scritta posta all’ingresso principale, alta due metri e lunga cinque e formata di lettere colorate illuminate da una moltitudine di lampadine a LED multicolori.
All’arrivo era colorata di un modesto e noioso verde uniforme, ma dopo solo due giorni di modifica cavi, lockpicking di lucchetti dei Datenklos ed analisi del traffico della rete luci, le lettere prima si sono colorate dei patriottici colori italiani, e successivamente sono state animate in maniera ancora più varia.
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Il finale è consistito nella conquista delle torce a LED che erano montate sopra i Datenklos, trasformando anche queste in altrettanti vessilli. Il tutto è stato poi illustrato in un intervento formale, tenuto durante i lightning talk, fulminee conferenze di 5 minuti su argomenti a piacere, che tradizionalmente concludono questo tipo di eventi.
Sfamiamo gli hacker Quest’anno l’Ambasciata era formata da tre tendoni e due gazebi: Ambasciata propriamente detta, Cucina con cambusa, zona relax con musica d’ambiente e divani pneumatici, struttura per le conferenze. La cucina, fino ad oggi destinata al sostegno alimentare dei soli componenti l’ambasciata e di occasionali ospiti, è stata strutturata e potenziata in modo da poter sfamare un numero ben maggiore di partecipanti, e risollevare le sorti economiche dell’Ambasciata, servendo un rilevantissimo numero di avventori a titolo non gratuito, ma ad offerta. Un contributo determinante è stato dato da una nota azienda del settore alimentare, che ha provveduto a riempire gratuitamente la cambusa dell’Ambasciata di ottime materie prime, invece di costringere i cucinieri a quotidiane visite nei supermercati della zona, certo qualitativamente non all’altezza. Il tocco di classe comunque era dato dalla colazione, con espresso, croissant freschi e nutella a volontà, servita puntualmente agli assonnati partecipanti dalle 9 in poi. Davvero grazie per questo!
Accudiamo gli hacker Gli smanettoni sono certamente avvezzi a sopravvivere in condizioni logistico-igeniche di tipo estremo; c’è da dire tuttavia che, come riescono ad adattarsi facilmente alla buona cucina, si adattano altrettanto bene a ritrovare la mattina, dopo l’inevitabile party notturno, i tavoli e i pavimenti in condizioni igieniche se non perfette almeno umane. Altrettanto dicasi per la struttura dei talk, il cui impianto audio veniva abitualmente smontato e utilizzato per i party, e doveva essere rimontato e ricollaudato ogni mattina entro le 10 per permettere lo svolgimento delle attività intellettuali. È rimasto memorabile il fatto che il 7, giorno dedicato al party di fine evento, la musica dell’ambasciata fosse chiaramente udibile dall’albergo in cui Cassandra dormiva, che si trovava a circa 500 metri dal Camp, separato da un fiume largo almeno 200 metri.
Curiamo gli hacker La statistica è una scienza esatta, e la legge dei grandi numeri non perdona. Mettete insieme quasi 4000 persone, ed il fatto che un buon numero di incidenti piccoli e grandi affolleranno l’indispensabile pronto soccorso del camp diventerà non una possibilità ma una certezza. Fu così che Cassandra, forte di un po’ di certificazioni da soccorritore faticosamente ottenute, ha tolto spine dai piedini di incauti bambini avvezzi a camminare a piedi nudi, ha medicato dita affettate di incaute aiuto-cuoche, e rimesso in piedi persone visibilmente alterate da sostanze di vario tipo, assunte contemporaneamente in maniera altrettanto incauta. Chi l’avrebbe detto.
Ascoltiamo gli hacker Dai pochissimi talk ascoltati e dai pareri avuti da coloro che ne avevano potuti ascoltare in quantità industriali, Cassandra ha ricavato una strana impressione. Sembra che, malgrado la presenza abbondante di contenuti di assoluto livello, le eccellenze viste ad OHM a SHA siano mancate. Il keynote speech è stato tenuto da uno Zimmerman più appannato del solito, e messia come Brewster Kahle quest’anno non si sono visti. Talk sorprendenti come quelli dell’installazione di Linux **dentro** un disco, o dell’hackeraggio dell’infrastruttura SS7 di uno dei massimi provider di infrastrutture cellulari per recuperare una situazione critica sono mancati completamente. Una spiegazione non è facile da trovare. Il timore di Cassandra è che 4 anni fa il mondo dell’hacking e dell’ICT fosse diverso, un mondo dove gli exploit e gli zero-days venivano raccontati agli altri hacker in modo responsabile, e non erano ancora diventati preziosi beni di consumo e moneta di scambio come oggi.
Salutiamo gli hacker SHA2017 ha lasciato il segno. Un evento vissuto completamente dalla parte di chi fa, e non solo di chi guarda ha un sapore incredibilmente diverso. Qualcuno potrebbe dire che rispetto ad OHM2013 sia stato un po’ sotto tono. Osservazione legittima e forse anche vera, ma sono stati 5 giorni meravigliosi per cui ringrazio gli altri 3599 presenti che mi hanno arricchito molto. Grazie ragazzi!
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