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Tra Natura e Professione, viaggio attraverso collaborazioni ed ecosistemi..
Sono un'appassionata della natura, un'eterna esploratrice di boschi, monti e sentieri, ma la mia vita va ben oltre le meraviglie del mondo naturale.
Mi occupo di diverse attività, interagendo regolarmente con professionisti di vari settori, da creativi a ingegneri, da esperti di marketing a tecnici.
Ogni volta che mi confronto con queste menti brillanti, non posso fare a meno di vivere ogni interazione attraverso la lente della natura.
Per me, ogni discussione è come un'escursione in un ecosistema unico: ci sono dinamiche da osservare, relazioni da esplorare e, perché no, un po’ di ironia da cogliere.
Le strategie aziendali si intrecciano con i cicli delle stagioni, e le collaborazioni professionali richiamano alla mente le simbiosi tra piante e animali.
In questo modo, riesco a portare la mia passione per la natura anche nel mondo del lavoro, trasformando ogni incontro in un'opportunità di riflessione e scoperta.
E allora mi chiedo:
In un mondo dove le interazioni sociali sembrano sempre più informali, ci sono ancora quei rari angoli in cui il “lei” regna sovrano, come una maestosa quercia nel bel mezzo di un campo di margherite.
Ma perché, ci chiediamo, questa necessità di dare del “lei”?
Forse perché, come una farfalla che si posiziona delicatamente su un fiore, c'è il desiderio di rispettare la delicatezza delle relazioni umane?
Immaginate di trovarvi in un ufficio, circondati da colleghi che si scambiano battute amichevoli e si danno del tu.
A un certo punto, entra il nuovo manager. Con il suo portamento regale e il suo sguardo che ricorda un gufo saggio, si avvicina e, con un tono grave, inizia a dare del “lei” a tutti. Ecco... in un attimo, l'atmosfera cambia: si passa da un picnic spensierato a una riunione di giurisdizione tra pinguini in un iceberg.
La verità è che il “lei” ha un suo fascino, come un cactus fiorito nel deserto.
Esprime una certa distanza, una sorta di rispetto, come se stessimo dicendo “sì, siamo in un ambiente professionale, ma voglio che tu sappia che ti considero una creatura dignitosa, non un semplice criceto nel mio ingranaggio aziendale”.
È un po’ come se volessimo proteggere il nostro spazio personale, come fa un riccio quando si rannicchia per difendersi.
In natura, ci sono animali che si avvicinano con cautela per non disturbare l’ecosistema. Pensate agli elefanti: non si avvicinano mai a un altro animale senza prima stabilire una sorta di protocollo.
Ecco, il “lei” è un po’ come il rituale degli elefanti: una forma di rispetto per la gerarchia, per il territorio altrui.
In questo modo, possiamo continuare a coesistere senza fare troppi danni, come se stessimo danzando in un bosco incantato.
Quindi, mentre ci ritroviamo a dare del “lei” a chi ci sta di fronte, ricordiamoci che stiamo solo cercando di mantenere quell’equilibrio delicato che rende le nostre interazioni un po’ più simili a un giardino fiorito, piuttosto che a una giungla caotica.
Magari, in fondo, il “lei” è solo un modo per dirci che, nonostante le apparenze, siamo tutti parte dello stesso ecosistema umano, e un po’ di cortesia non guasta mai...
#ecologia umani natura#osservazione del mondo#natura e professione#ecosistemi umani#riflessioni verdi filosofia ed ecologia
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Il fondatore di Greenpeace
«Vi svelo la truffa ambientalista»
Uno dei padri dell’organizzazione: «La sinistra, capito che attorno all’ambientalismo girano soldi e potere, ne ha traviato la missione L’obiettivo è stato fare da megafono all’apocalisse climatica, con l’uomo unico responsabile da punire.
25 Apr 2024 FRANCO BATTAGLIA
Studioso, ecologista e leader di lungo corso nel campo ambientale internazionale, Patrick Moore, con un dottorato di ricerca in Ecologia dall’Università della British Columbia e un dottorato di ricerca onorario dalla North Carolina State University, è considerato uno dei più qualificati esperti di ambiente al mondo. Nel 1971 fondava Greenpeace, la più grande organizzazione di attivisti ambientali del mondo, ma l’ha lasciata nel 1986.
Come mai l’ha lasciata, dottor Moore?
«Greenpeace è stata “dirottata” dalla sinistra politica quando ha capito che c’erano soldi e potere nel movimento ambientalista. Gli attivisti politici di sinistra in Nord America e in Europa l’hanno trasformata da organizzazione scientifica a un’organizzazione politica di raccolta fondi. Oggi gli ambientalisti si concentrano principalmente sulla creazione di narrazioni progettate per infondere paura e sensi di colpa nel pubblico in modo che il pubblico invii loro denaro».
Cosa pensa dell’Ipcc, il Comitato dell’Onu sul clima? Fa scienza?
«L’Ipcc assume scienziati per fornire loro “informazioni” che supportino la narrazione dell’emergenza climatica. Le loro campagne contro i combustibili fossili, l’energia nucleare, la CO2, la plastica, etc., sono fuorvianti e mirano a far credere alla gente che il mondo finirà, a meno che non paralizziamo la nostra civiltà e distruggiamo la nostra economia. Sono ormai un’influenza negativa sul futuro dell’ambiente e della civiltà umana. Oggi la sinistra ha adottato molte politiche che sarebbero molto distruttive per la civiltà perché non sono tecnicamente realizzabili. Basti pensare all’incombente crisi energetica, una crisi che hanno creato loro stessi, rifiutandosi, opponendosi all’energia nucleare e adottando una posizione impossibile sui combustibili fossili in generale».
L’uomo è il nemico del pianeta…
«Già. Secondo i leader ambientalisti gli esseri umani sono i nemici del pianeta e della Natura. Secondo la nuova filosofia dominante, il mondo sarebbe migliore se esistesse meno gente. Ma le persone che dicono questo non si sono offerte volontarie a essere le prime ad andarsene».
Come accadde che lasciò Greenpeace?
«Ero uno dei 6 direttori di Greenpeace International, e l’unico ad avere una formazione scientifica formale, laurea con lode in scienze e foreste e dottorato in ecologia. I miei colleghi direttori decisero che Greenpeace avrebbe dovuto iniziare una campagna per “bandire il cloro in tutto il mondo”. Ma l’aggiunta di cloro all’acqua potabile, alle piscine e alle terme è stato uno dei progressi più significativi nella storia della sanità pubblica nel prevenire la diffusione del colera. Inoltre, circa l’85% dei prodotti farmaceutici è prodotto con chimica legata al cloro e circa il 25% di tutti i nostri farmaci contiene cloro.
Tutti gli alogeni, compresi cloro, bromo e iodio, sono potenti antibiotici, e senza di essi la medicina non sarebbe la stessa. Invece i miei colleghi pretendevano che il cloro passasse come l’elemento del diavolo” e che il Pvc, cloruro di polivinile, fosse etichettato come “la plastica velenosa”. L’obiettivo era di spaventare il pubblico. Inoltre, questa politica sbagliata rafforza l’atteggiamento secondo cui gli esseri umani non sono una specie degna e che il mondo starebbe meglio senza di loro. Non sono riuscito a convincere i miei colleghi di Greenpeace ad abbandonare questa politica sbagliata. Questo è stato il punto di svolta per me».
Una delle narrazioni di Greenpeace riguarda la scomparsa degli orsi polari
«Il Trattato internazionale sugli orsi polari, firmato da tutti i Paesi polari nel 1973 per vietare la caccia illimitata all’orso bianco, non viene mai citato dai media, da Greenpeace o dai politici che affermano che l’orso polare si sta estinguendo a causa dello scioglimento dei ghiacci nell’Artico. In realtà, la popolazione di orsi polari è aumentata da 6.000-8.000 esemplari nel 1973 a 30.000-50.000 oggi. L’obiettivo della narrazione è sostenere la teoria dell’apocalisse ambientale. Gli Aztechi gettavano le vergini nei vulcani, e gli europei e gli americani hanno bruciato le donne come streghe per 200 anni, sostenendo che così si sarebbe salvato il mondo. Gli esseri umani sono animali sociali con una gerarchia, ed è più facile ottenere una posizione elevata usando la paura e il controllo. La teoria dell’apocalisse ambientale riguarda soprattutto il potere e il controllo politico. Oggi, nei Paesi più ricchi, si stanno prendendo decisioni che i nostri nipoti dovranno pagare. È normale che le persone abbiano paura del futuro perché è sconosciuto e pieno di rischi e difficili decisioni. Alle giovani generazioni di oggi viene insegnato che gli esseri umani non sono degni e stanno distruggendo la Terra. Questo indottrinamento li ha fatti sentire colpevoli spingendoli a vergognarsi di sé stessi».
Perché è stata presa di mira la CO2?
«Il mondo si sta riscaldando dal 1700 circa, e l’ha fatto per due secoli prima dell’utilizzo dei combustibili fossili. Il 1700 è stato l’apice della Piccola era glaciale, un paio di secoli molto freddi che hanno patito scarsi raccolti e fame. Prima di allora, intorno al 1000 d.C., c’è stato il Periodo caldo medievale, quando i vichinghi coltivavano la Groenlandia. Alcuni credono che la CO2 sia la causa principale del riscaldamento degli ultimi decenni. Ma sono principalmente scienziati pagati da politici e burocrati, da media che fanno notizia o da attivisti che fanno soldi. Se l’anidride carbonica fosse la causa principale del riscaldamento, allora dovrebbe esserci un aumento della temperatura in corrispondenza dell’aumento della CO2, ma non è stato così. Inoltre, la CO2 è alla base di tutta la vita sulla Terra e la sua concentrazione nell’atmosfera oggi è più bassa di quanto sia stata per la maggior parte dell’esistenza della vita. L’aumento della CO2 è correlato all’aumento della vegetazione: quasi tutti i coltivatori di serre commerciali in tutto il mondo acquistano CO2 da iniettare nelle loro serre per ottenere raccolti con rese superiori fino al 60%. Gli allarmisti climatici preferiscono discutere delle conoscenze climatiche solo a partire dal 1850. Il periodo precedente viene definito “età preindustriale”. Questa “età preindustriale” è durata più di 3 miliardi di anni, quando la vita era presente sulla Terra. In quel periodo si sono verificati molti cambiamenti climatici, tra cui ere glaciali, ere temperate, grandi estinzioni. Oggi la Terra si trova nell’era glaciale del Pleistocene, iniziata 2.6 milioni di anni fa. Siamo ancora nel Pleistocene, per quanto gli allarmisti climatici vogliano negarlo.
La grande ironia dell’attuale panico climatico è che la Terra è più fredda oggi di quanto lo sia stata per 250 milioni di anni prima dell’inizio del Pleistocene. E la CO2 è più bassa oggi che nel 95% della storia della Terra. Ma non lo saprete mai se ascoltate solo tutte le persone che traggono vantaggio dalla menzogna del cambiamento climatico antropico».
Vogliono azzerare l’uso dei combustibili fossili…
«Non possiamo fermare l’aumento dell’uso dei combustibili fossili o ridurre le emissioni di CO2. Nel 2015, mentre partecipavo alla Cop (Conferenza delle parti) di Parigi, ho offerto una scommessa pubblica di 100.000 dollari in un comunicato stampa diffuso da oltre 200 media, secondo cui entro il 2025 le emissioni globali di CO2 sarebbero state superiori a quelle del 2015. Nessuno ha voluto scommettere con me. Russia, Cina e India rappresentano il 40% della popolazione mondiale e non sono d’accordo con l’agenda anticarbonio. Se aggiungiamo Brasile, Indonesia e la maggior parte dei Paesi africani, la maggioranza della popolazione mondiale non è preoccupata dal clima. Un’altra grande ironia è che molti Paesi con i climi più freddi, come Canada, Svezia, Germania e Regno Unito, sono i più preoccupati per il riscaldamento».
Vogliono produrre energia solo con fotovoltaico ed eolico…
«Le tecnologie fotovoltaica ed eolica sono entrambe molto costose e molto inaffidabili. È incredibile che a così tante persone sia stato fatto il lavaggio del cervello per pensare che interi Paesi possano essere sostenuti con queste tecnologie. Esse sono i parassiti di un’economia più ampia. In altre parole, rendono il Paese più povero rispetto al l’utilizzo di altre tecnologie più affidabili e meno costose. I fornitori di energia eolica e solare godono di sussidi governativi, sgravi fiscali e normative che obbligano i cittadini ad acquistare energia eolica e solare anche se più costosa, con il pretesto che è “rispettosa dell’ambiente”. Milioni di persone pagano di più per l’energia eolica e solare mentre poche persone si stanno arricchendo a spese dei primi. È una colossale frode. Senza contare che parchi eolici e solari utilizzano grandi quantità di combustibili fossili per l’estrazione, il trasporto e la costruzione. E in molti luoghi non producono, nel corso della loro vita, l’energia necessaria per costruirli e mantenerli».
Gli ambientalisti ce l’hanno anche con la plastica...
«La plastica non è un materiale tossico. Ed è per questo che se ne fa così largo uso!».
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Abbiamo tradotto dal portale francese Grozeille.co un’intervista a Daniel Tanuro, studioso ed ecologista belga autore, tra le altre cose, del libro L'impossibile capitalismo verde (ed. it. Alegre 2011), considerato una delle opere fondamentali del cosiddetto “eco-socialismo”. Traduzione di Anna Clara Basilicò.
Il movimento per il clima, la cui comparsa in Francia risale effettivamente a dopo le dimissioni di Nicolas Hulot, comincia a prendere forza. Se le prime marce per il clima, sul finire del 2018, si limitavano spesso a sostenere principi morali assolutamente vaghi, quelle che oggi accompagnano gli scioperi settimanali dei/delle giovanissimi/e si dichiarano ufficialmente «anticapitaliste» e si affiancano ad azioni di disobbedienza. È in corso una sana radicalizzazione.
Regna tuttavia sovrana una gran confusione. Spesso non si scorgono i rapporti tra la lotta ecologica e quella dei gilet jaunes e, ancor peggio, si pensa talvolta che queste siano tra loro contraddittorie. Non si sa come orientarsi all’interno del dibattito violenza/nonviolenza, tra strategia di massificazione e strategia di azione. Alle volte il concetto stesso di «capitalismo» sembra non essere chiaro, e appare difficile capire la necessità di utilizzarlo per descrivere la crisi ecologica.
Abbiamo già scritto di tutto questo: violenza, capitalismo ed ecologia, gilet gialli ed ecologia. Ma poiché questo dibattito si fa via via più acceso con l’avvicinarsi dello sciopero globale per il clima del 15 marzo, e più in generale per il futuro del movimento, abbiamo deciso di parlarne con Daniel Tanuro, ingegnere agronomo e ambientalista, autore di L’impossible capitalisme vert.
1. Si sente spesso dire che il capitalismo è la causa di tutti i problemi ambientali, ma un’affermazione come questa si scontra con una certa aurea che circonda il concetto stesso di capitalismo, spesso associato (vale a dire confuso) con la «società dei consumi», il «consumismo», l’«economia liberista». Che cos’è il capitalismo? Cosa lo distingue da questi altri concetti? Perché il concetto di capitalismo è elemento chiave per analizzare la crisi ecologica?
D. T.: Opererei una semplificazione eccessiva se sostenessi che il capitalismo è la causa principale della devastazione ecologica. Da un lato infatti occorre ricordare che anche alcune società pre-capitaliste hanno provocato seri problemi ambientali, denunciati già nell’antichità da autori greci e latini. Dall’altro lato, l’URSS, la Cina e gli altri Paesi che hanno tentato una transizione post-capitalista nel ventesimo secolo hanno provocato danni considerevoli. Basti pensare al prosciugamento del Lago d’Aral, al disastro di Chernobyl, alle emissioni record di gas serra da parte della Germania dell’Est e della Cecoslovacchia, senza dimenticare l’assurda campagna maoista per lo sterminio dei passeri – tanto per fare qualche esempio. La distruzione del capitalismo è sicuramente una condizione necessaria per l’instaurarsi di una relazione tra umanità e resto della natura basata su premesse diverse dal saccheggio, ma non è una condizione sufficiente.
Ciò detto, cos’è il capitalismo? Un sistema di produzione generalizzata di beni. Questa definizione implica contemporaneamente il salariato come una forma particolare di sfruttamento del lavoro, la concorrenza per il profitto tra proprietari privati dei mezzi di produzione e la determinazione ex-post dei bisogni umani sulla base del mercato. Il capitalismo è quindi una società economica – la società economica per eccellenza. Con la sua comparsa nella storia, ha ben presto trovato una serie di meccanismi di dominazione che ha rimodellato in funzione dei propri scopi, tra cui il patriarcato. Il capitalismo è quindi un sistema economico patriarcale all’interno del quale la donna è, per così dire, il proletariato dell’uomo.
All’interno di questa società, per definizione, i/le salariati/e producono al di là dei propri bisogni dal momento che una parte del loro tempo di lavoro è finalizzata alla produzione di plusvalore per il proprietario. Il plusvalore non serve solamente a soddisfare i bisogni del capitalista/padrone, ma anche – e soprattutto – ad accrescere il capitale. Di fatto, la concorrenza costringe costantemente ogni capitalista a ridurre i costi unitari, il che lo spinge in particolare ad aumentare la produttività del lavoro sostituendo i/le lavoratori/trici con le macchine, e quindi a produrre di più. Il capitalismo è quindi intrinsecamente produttivo. «Un capitalismo senza crescita è una contraddizione di termini», diceva Schumpeter[1].
La contraddizione sta nel fatto che, essendo il lavoro umano l’unica fonte di valore, questa corsa alla sostituzione dello stesso con le macchine porta a un calo del tasso di profitto medio. Questo abbassamento del tasso di profitto trova però compensazione, poiché il ricorso alle macchine aumenta la quantità di merci prodotte. L’impatto ambientale aumenta di conseguenza. Occorre peraltro tenere a mente che la tendenza costante alla riduzione dei costi si traduce anche in una maggiore efficienza delle macchine, per cui la produzione tende a un migliore utilizzo delle risorse. L’aumento dell’efficienza tuttavia non è una funzione lineare del capitale investito, ma un asintoto orizzontale.
Di conseguenza, l’aumento della quantità di merci provoca in fin dei conti un aumento dei valori assoluti di materie prime e di energia prelevate dall’ambiente. Oltre a ciò, più progredisce la meccanizzazione, più il capitale fisso (le macchine) investito lievita, di modo che la sua redditività sia ripartita su un arco di tempo prolungato. Man mano che il capitale diventa sempre più concentrato e centralizzato, l’imperativo di questa redditività supera e ottiene la precedenza sui bisogni reali. Alla fine, il rapporto tra bisogni umani e produzione si capovolge: è quest’ultima a creare i primi. Marx aveva anticipato questa evoluzione scrivendo che il capitalismo viene a «produrre per produrre, il che implica anche consumare per consumare».
Noi ci troviamo oggi in una situazione per cui il capitalismo contemporaneo ha bisogno di un sistema all’interno del quale lo Stato si sforza costantemente di creare nuovi mercati ad hoc, sia attraverso la privatizzazione, sia attraverso la creazione di nuovi campi di valorizzazione e di accumulazione (il mercato del diritto a inquinare, per esempio). È questo il sistema, adottato all’inizio degli anni ’80, che noi definiamo «neoliberismo» per effettuare una distinzione dal liberismo classico, caratterizzato da un atteggiamento di laissez-faire. In generale, tutta questa dinamica è riassunta dall’ecosocialismo nel concetto di «produttivismo». Questo termine include quindi il consumismo (e i valori che lo accompagnano) in maniera tale per cui, sì, possiamo dire che il capitalismo è insieme una società di sovrapproduzione e una società di sovra-consumo. Ma occorre aggiungere immediatamente due puntualizzazioni.
La prima è che il sovra-consumo, là dove questo rappresenta un fenomeno di massa, costituisce sempre più la compensazione miserabile di una vita alienata. La seconda è che tale sovra-consumo procede di pari passo con un sotto-consumo, vale a dire con una massa di bisogni reali insoddisfatti. La tendenza al calo del tasso di profitto spinge costantemente i capitalisti a inventare nuove strategie di compensazione, tra cui la diffusione del lavoro precario (che colpisce soprattutto le donne), il ricorso a manodopera sottopagata, le catene di fornitura internazionali basate sul subappalto e lo sfruttamento delle risorse naturali (dal momento che sono “gratuite”). Come conseguenza, la tendenza al sovra-consumo e alla sovrapproduzione va di pari passo con la tendenza crescente a devastare l’ambiente, con un aumento dell’ingiustizia e del malessere sociale. La catastrofe che minaccia di trasformarsi in cataclisma in caso di transizione climatica è il risultato di questo meccanismo infernale.
2. Possiamo dire con certezza che il capitalismo non sarà mai verde, come dicono i giovani parigini in sciopero sul loro manifesto su Reporterre?
D. T.: Sì, possiamo assolutamente essere categorici a questo proposito. Ci sono evidentemente dei capitali “verdi”, dal momento che esistono mercati “verdi” e opportunità di valorizzare il capitale. Ma la questione non è questa. Se l’espressione «capitalismo verde» avesse un significato sensato, questo sarebbe quello di ritenere il sistema capace di interrompere la crescita per auto-limitare il proprio sviluppo e di usare le risorse naturali con prudenza. Questa eventualità non si darà mai, perché il capitalismo funziona sulla sola base della corsa al profitto, come dimostra la scelta del PIL come indicatore. Un indicatore, del resto, incapace di anticipare i limiti quantitativi dello sviluppo, e ancor più di percepire le alterazioni qualitative indotte nel funzionamento degli ecosistemi.
È fondamentale comprendere che il capitale non è una “cosa”, ma un rapporto sociale di sfruttamento del lavoro, che implica altresì la subordinazione delle donne e che ha bisogno di sfruttare le altre risorse naturali. La logica produttivista del sistema implica dunque che questo tenda, come diceva Marx, a «esaurire le due sole fonti di tutta la ricchezza – la Terra e il lavoratore» (l’assunzione della dominazione patriarcale obbliga ad aggiungere «e la lavoratrice», salariata o meno). Finché ci saranno risorse cui attingere e forza lavoro da sfruttare, il capitale, come un gigantesco automa, proseguirà nella sua opera di distruzione. Un processo che non potrà essere fermato a meno che l’umanità non riprenda controllo della produzione e della sua esistenza sociale. Perché questo accada, l’automa deve essere distrutto. Come ho già detto, non è una condizione sufficiente, ma rimane una condizione necessaria.
3. Dal momento che, secondo lei, il capitalismo «non sarà in grado di risolvere nulla», come crede che si possa trovare un margine d’azione al di fuori del capitalismo stesso? Possiamo aspettarci qualcosa dagli Stati o dalle organizzazioni internazionali?
D.T.: Il capitale presuppone una moneta e la moneta presuppone uno Stato. Il capitale ha trovato l’uno e l’altro come prodotti dello sviluppo sociale precedente e li ha investiti adattandoli alla propria logica d’accumulazione (nello stesso modo in cui ha investito il patriarcato). Non c’è quindi nulla da aspettarsi da parte degli Stati, né da parte delle organizzazioni internazionali, che di fatto sono emanazioni degli apparati statali stessi. Il regime neoliberista all’interno del quale lo Stato crea costantemente le condizioni per una mercificazione crescente rende questo punto assolutamente chiaro. Dovrebbe per esempio essere evidente che non c’è assolutamente nulla da aspettarsi da parte dell’Unione Europea, né sul piano sociale, né su quello ambientale, dal momento che l’UE si auto-definisce come «un’economia di mercato aperta in cui la concorrenza è libera».
Questo ovviamente non significa che bisogna smettere di pretendere alcunché da parte dello Stato: significa piuttosto che occorre costruire un rapporto di forza. Ad esempio, un rapporto di forza per lo sviluppo del settore pubblico, la socializzazione dell’energia e la gratuità dei servizi di base, posti sotto un controllo democratico. Ciò detto, distinguerei innanzitutto l’azione “al di fuori del capitalismo” dall’azione ai margini, e solo in un secondo momento affronterei la questione dell’azione diretta al cuore del sistema, vale a dire la contestazione del lavoro salariato che ne costituisce una pietra angolare. Il capitalismo contemporaneo esercita un dominio quasi totale sull’intero pianeta. Le possibilità di portare a termine un’azione completamente “fuori da questo sistema” tentacolare sono oggettivamente limitate. Nel concreto, questa possibilità non esiste che per le popolazioni indigene che hanno potuto mantenere un modo di produzione non capitalista. Come dimostra il caso del Brasile, queste popolazioni sono sottoposte a un’aggressione costante da parte del capitale che intende appropriarsi dei territori e delle risorse per sottometterle alla propria legge. Sono comunità poco numerose, ma la loro resistenza ha un’importanza strategica assolutamente maggiore per l’umanità nel suo insieme. Tale importanza deriva in particolar modo dal fatto che queste popolazioni sono portatrici di una visione del rapporto tra l’umanità e il resto del mondo che è nemico della visione capitalista del dominio e della strumentalizzazione. Una visione che non è un prodotto d’importazione – non è possibile farne un copia-incolla – ma che costituisce una preziosa fonte d’ispirazione per l’ideazione di una cultura del “prendersi cura”, ulteriore condizione necessaria (oltre all’abbattimento del capitalismo) per porre fine alla distruzione.
Le possibilità d’azione ai margini del capitalismo sollevano un’altra questione. È sorprendente infatti che l’esaurimento del sistema porti ovunque a una massiccia esclusione sociale. Vista la distruzione dei dispositivi di protezione sociale, un numero sempre crescente di persone, soprattutto giovani, tenta di sfuggire alla povertà creando attività che si collocano parzialmente al di fuori del mercato – sfuggono in particolare alle maglie della grande distribuzione – e che hanno effettivamente un senso dal momento che si basano su valori non capitalistici di mutuo sostegno/supporto sociale e di gestione prudente delle risorse ambientali. Credere che queste iniziative alternative permetteranno di uscire dal capitalismo con delicatezza, attraverso una sorta di osmosi, è illusorio oggi tanto quanto lo era ieri. Ma i protagonisti possono stringere rapporti con gli altri gruppi sociali che resistono (come i/le contadini/e o i/le migranti), circostanza che aumenterebbe la loro capacità di contribuire all’evocazione di relazioni sociali e modalità di gestione dei territori diversi: in sostanza, a un altro mondo possibile.
La chiave di volta, alla fine dei conti, sta nel far convergere nell’asse anticapitalista le lotte e le battaglie per una vita migliore e per un rapporto con la natura basato sul rispetto per destabilizzare il sistema nel suo centro. Si tratta, in altre parole, di articolare il sociale e l’ambientale attraverso l’invenzione di un programma di transizione ecologicamente vincolato. Oggi come oggi, le componenti più avanzate di questa strategia di convergenza anticapitalista sono le lotte dei popoli indigeni, quelle dei/delle contadini/e e dei/delle senza-terra, del movimento femminista e delle lotte dei/delle giovani. Nel rispetto della loro autonomia e indipendenza, tutte queste componenti possono essere viste come punti d’appoggio per far ripartire il movimento operaio e indurlo a rompere con il produttivismo capitalista attraverso lo sviluppo di un programma proprio di transizione. In particolare, si tratta di rimettere all’ordine del giorno la riduzione drastica del tempo di lavoro (senza alcuna perdita in termini salariali) come rivendicazione anti-produttivistica ed ecologica per eccellenza.
All’interno di questa strategia di convergenza, vorrei soffermarmi un attimo sull’importanza del movimento femminista. È una constatazione: il ruolo delle donne è preponderante in tutte le lotte socio-ambientali. Oggi, ad esempio, sono giovani donne quelle che si vedono in prima fila durante le manifestazioni di Fridays For Future. Non è un caso, non è solamente dettato dal fatto che le donne sarebbero, per costituzione, più rispettose nei confronti della natura rispetto agli uomini. La ragione è piuttosto che il patriarcato demandando alle donne il compito di «prendersi cura» dei corpi e della casa (oïkos, in greco), le rende più sensibili alla necessità di prendersi cura anche degli ecosistemi. Approfondire la lotta femminista, di conseguenza, è un mezzo per diffondere questa cultura del «prendersi cura» e allargarla ai rapporti tra umani e non-umani. Il potere sovversivo di questa lotta è immenso. Ribaltando la dominazione maschile, la donna ha anche la possibilità di sovvertire il rapporto salariale di sfruttamento, che si colloca agli antipodi rispetto al «prendersi cura». Oltre alla sua importanza intrinseca, quindi, la lotta per l’emancipazione delle donne è un elemento chiave della strategia volta a liberare i lavoratori e le lavoratrici salariati/e dall’alienazione capitalista.
4. Al momento il movimento ambientale non ha ottenuto alcun risultato, e i gilet gialli hanno strappato qualche briciola solo dopo aver messo a ferro e fuoco il Paese. Qual è la sua posizione sulla violenza? Quali pratiche saranno in grado di girare la situazione a nostro favore?
D.T.: In realtà non sono d’accordo con la sua premessa. Senza il movimento per il clima (preso nella sua più vasta accezione, che comprende la pressione dell’opinione pubblica su determinati governi, come quelli dei piccoli Stati insulari), non credo che gli accordi di Parigi avrebbero fissato come obbiettivo il mantenimento delle temperature entro +1,5°C rispetto al periodo pre-industriale. Certo, gli accordi di Parigi non sono altro che una dichiarazione d’intenti, cui non è stata abbinata alcuna indicazione pratica, e in tutto il testo non è mai fatta menzione delle responsabilità dei combustibili fossili…e tuttavia questa dichiarazione d’intenti, di per sé, rappresenta un passo in avanti. Del resto, i meteo-negazionisti non si sono sbagliati.
Si tratta ora di pretendere che questo passo in avanti sia accompagnato da misure concrete, e di fare in modo che queste misure concrete siano da un lato all’altezza della sfida, e dall’altro socialmente giuste (anche in relazione alla giustizia climatica tra nord-sud, nodo cruciale della questione). Bene, è precisamente nel senso di questa doppia esigenza che il movimento per il clima tende a svilupparsi proprio sotto i nostri occhi. È un processo confusionario, fatto di tentativi e di ambiguità. Vista l’urgenza, possiamo biasimare la sua lentezza, ma le cose stanno cambiando dal momento che la catastrofe climatica ha esasperato la crisi di legittimità del capitale e dei suoi rappresentati politici.
Da un lato abbiamo Trump, Bolsonaro e tutti quelli che sognano di unirsi a loro senza osare dirlo chiaramente. Vedremo se riusciranno a resistere di fronte alle mobilitazioni, chiaramente destinate a crescere. Dall’altro lato, ci sono gli adepti del capitalismo green che non reagiscono se non per mezzo di misure insufficienti…Ma queste misure non ingannano nessuno, e anzi incoraggiano il movimento ad andare avanti, talvolta sul piano della mobilitazione, talvolta su quello delle rivendicazioni.
Penso che questa situazione sia destinata a crescere, a svilupparsi e penso che, sviluppandosi, possa favorire trasformazioni politiche sorprendenti. Il Green New Deal proposto agli Stati Uniti da Alexandria Ocasio-Cortez[2] per risolvere la crisi sociale abbandonando i combustibili fossili in 10 anni è un esempio di queste possibili evoluzioni. Il Green New Deal non è anticapitalista: aggira la necessità di diminuire la produzione materiale, non fornisce nessuna garanzia di rispettare i limiti di emissione di gas serra necessari per rimanere al di sotto della soglia del +1,5°C, lascia in disparte il nodo cruciale della giustizia climatica tra nord e sud e non esclude il ritorno alle cosiddette tecnologie «a emissioni negative» (come la bioenergia e le tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 – BECCS)… Ciò nondimeno, il GND potrebbe rappresentare una svolta, soprattutto perché invita il sindacato ad assumere la guida di una vasta riconversione industriale con il mantenimento delle conquiste operaie, circostanza questa che potrebbe favorire dinamiche sociali interessanti.
Ci sono altri indizi di una possibile evoluzione in tal senso. Ne citerò tre. La condanna giudiziaria del governo olandese per politiche climatiche insufficienti, la proposta della loi-climat redatta da studenti e studentesse universitari/e e proposta al parlamento belga da una sacra unione di partiti (francofoni) e il patto finanza-clima di Larrouturou-Jouzel. Questo piano non ha nulla di propriamente anticapitalista, ma la sua messa in atto significherebbe comunque una svolta, ed è significativo che i suoi autori lo giustifichino sostenendo che una sua attuazione permetterebbe di evitare non solamente il caos climatico, ma anche quello finanziario e la disintegrazione dell’Unione Europea. Eccoci tornati alla questione della legittimità!
La valutazione del movimento dei gilets jaunes è cosa a parte, ma il punto di contatto è giustamente, mi sembra, la perdita di legittimità da parte del potere e del sistema. Non entrerò di nuovo nel merito delle contraddizioni e delle ambiguità dei gilet gialli. Quel che mi sembra fondamentale sottolineare è che un movimento come questo duri da tre mesi e che abbia incontrato per molto tempo il sostegno della maggior parte dell’opinione pubblica…e tutto ciò, nonostante la stigmatizzazione operata dai media, la feroce repressione, le briciole lanciate da Macron e la messa in scena del “grande dibattito nazionale”. Ad oggi, il sostegno continua ad essere maggioritario. È un segnale di malcontento profondo, potenzialmente esplosivo.
Che considerazioni bisogna trarre da tutto ciò? Che serve anzitutto rinforzare, far convergere e proteggere dalla repressione le mobilitazioni di massa all’interno delle quali il potenziale di trasformazione riemerge. E bisogna farlo con fermezza, senza esitare davanti alle azioni di disobbedienza civile, senza però sfociare nella trappola della violenza minoritaria – prestando dunque attenzione a non irridere la maggioranza sociale. La lotta che ci si pone innanzi è destinata a protrarsi a lungo. L’obbiettivo dev’essere quello di creare una situazione tale per cui l’attuale corso dei governi diventi politicamente insostenibile. Per la sua “natura” di minaccia globale e terrificante, il nodo climatico si presta bene a questa dinamica. Occorre prendere esempio dalla lotta anti-nucleare in Germania: si è data grazie alla costruzione nel lungo termine di un movimento di massa risoluto, che ha fatto scendere in piazza milioni di persone, senza discontinuità, nel corso di anni. Sono ben consapevole del fatto che il paragone ha comunque dei limiti: uscire dal fossile in meno di trent’anni è cosa più complessa che rinunciare al nucleare (soprattutto se, come in Francia, si tratta di uscire contemporaneamente dall’uno e dall’altro!). Significa che il cammino sarà più difficile. Sarà particolarmente costellato di false soluzioni che il capitalismo verde propinerà in cerca di legittimità, e che sarà necessario smascherare per andare oltre, per andare più lontano. Significa correre una gara di disperata velocità contro la distruzione in corso, facendo leva su ciascun progresso per rinforzare la lotta. Non c’è altra via, né alcuna scorciatoia.
5. Con che occhio guarda ai movimenti più recenti e alle marce per il clima degli scioperi scolastici? Cosa le dicono i gilet gialli? Pensa che una possibile connessione tra queste due lotte – ad oggi separate – sia fondamentale?
D.T.: Questi movimenti esprimono evidentemente l’angoscia che nasce in risposta all’accelerazione dell’oscillazione climatica. Tale angoscia trova ulteriore giustificazione nel momento in cui sappiamo che lo scenario cui fanno riferimento i governi assume de facto il superamento del +1,5°C seguito da un ipotetico raffreddamento reso possibile dall’utilizzo di tecnologie, prima del quale, tuttavia, rischia di scoppiare una catastrofe irreversibile, ad esempio in Antartide, capace di far innalzare i livelli del medio mare dai 3 ai 6 metri. La gioventù sta mostrando di essere ben più consapevole e preoccupata di quanto si ammetta. Bisogna darne atto a Greta Thunberg, che incarna questa consapevolezza nel più alto grado. E quindi sì, una connessione tra il movimento climatico e quello dei gilets jaunes è fondamentale. Ed è soprattutto possibile, perché gli avversari di un’alternativa alla distruzione ambientale non sono i gilet gialli. Gli avversari sono quelli che, come Macron, elargiscono regali fiscali ai ricchi in nome della competitività e impongono tasse ai poveri in nome dell’ecologia. Questa politica ipocrita è il modo migliore di consegnare una parte della popolazione tra le braccia dei clima-negazionisti e dell’estrema destra contraria alle imposte.
Sono assolutamente d’accordo con gli analisti che hanno scritto che i gilet gialli, di fatto, mettono in lune la necessità e la possibilità di un’ecologia differente, insieme sociale e ambientale. Gli sviluppi concreti del movimento hanno già mostrato che i gilets jaunes non sono i bifolchi pro-automobili che alcuni hanno descritto. Aggiungerei poi che lo sviluppo in Francia della lotta dei più giovani per il clima e la connessione tra questo movimento e i gilet gialli aiuterebbe molto a chiarire le prerogative dell’uno e dell’altro. Bisogna stare molto attenti a questo, infatti: le contrapposizioni tra le diverse mobilitazioni sociali fanno il gioco di coloro che intendono mettere in atto soluzioni autoritarie, siano queste nazional-populiste (vedi l’RN) o liberali-bonapartiste (Macron).
6. Lei difende un progetto “socialista”. Un termine non particolarmente popolare oggi. Dove si collocherebbe tra l’«ecologia della ZAD» e l’«ecologia del colibrì»? (Si veda l’articolo pubblicato sulla rivista Terrestre, «Le ZAD et le colibri»)
D.T.: Io sto decisamente dalla parte dell’ecologia della ZAD e, all’interno di questa cornice, sto sollecitando alcuni dibattiti strategici e ideologici. Anzitutto strategici, perché occorre sottolineare che la vittoria riportata a Notre-Dame des Landes contro il progetto dell’aeroporto non sarebbe stata possibile senza la costruzione di un ampio movimento di solidarietà intorno agli zadisti, ai residenti e agli agricoltori locali. È stata la combinazione di questi due elementi a rendere il NNDL una questione politica centrale, una questione di governo. In questo caso, siamo di fronte a un chiaro esempio del modo in cui un’azione di disobbedienza civile estremamente radicale e “minoritaria” può e deve articolarsi su una mobilitazione più larga e attirare, al suo interno, non solamente i «colibrì», ma anche parti del movimento operaio. In particolare, il fatto troppo poco noto che la CGT di Vinci (ndt, Confédération Générale du Travail, sindacato della logistica) sia passata dal lato della lotta contro l’aeroporto ha costituito un’enorme vittoria, dalla quale occorre imparare e diffondere la lezione, in Francia come altrove.
Dibattiti ideologici poi, perché la radicalità presuppone inevitabilmente il contenuto e le pratiche. Senza azioni, il contenuto resta astratto e i risultati deprimenti. Senza contenuto, le pratiche restano vuote. “Radicalità” non significa né “violenza” né “agitazione inutile”, ma capacità rigorosa di mettere a nudo le radici per attaccare meglio le cime. Non si tratta di profetizzare l’inevitabile collasso, né di predicare la fine del mondo. Tra gli altri problemi, queste pseudo-soluzioni implicano un non-detto: la distruzione inevitabile della maggior parte dell’umanità, non responsabile del cambiamento climatico. La rassegnazione inavuée di fronte a questa prospettiva è categoricamente inaccettabile su piano etico. Bisogna capovolgere questi discorsi apocalittici o escatologici e tracciare, non foss’altro che per sommi capi, un percorso concreto che permetta di evitare una catastrofe con otto miliardi di persone sulla Terra. Non un@ di meno!
Tale cammino non può darsi se non rimpiazzando l’assurda produzione di merci finalizzate al profitto con la produzione destinata ai bisogni reali, determinati nel rispetto dei limiti della natura e in maniera democratica, il che implica insieme una decentralizzazione massimale e una pianificazione internazionale. Bene, una società che produce per i bisogni reali è quello che si dice socialismo. Il fatto che questo progetto sia stato screditato per dalle esperienze disastrose dello stalinismo e della socialdemocrazia non giustifica il fatto che si debba coniare un nuovo termine. Di contro, l’assunzione della distruzione ambientale giustifica il fatto che si aggiunga il prefisso “eco”. Sono un ecosocialista internazionalista e sostengo l’autogestione, solidarizzo con tutte le lotte degli/delle oppressi/e per l’emancipazione.
[1] Joseph Schumpeter è un economista e professore di Scienze Politiche austriaco naturalizzato statunitense, noto per le sue teorie sulle fluttuazioni economiche, la distruzione creativa e l’innovazione.
[2] Eletta tra le fila democratiche al Congresso, la Ocasio-Cortez si dichiara anti-lobby e socialista. A 29 anni, incarna la sinistra della sinistra nell’arena politica americana e ha guadagnato un discreto successo.
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“Che ipocrisia, l’ambiente mette d’accordo tutti purché non si faccia nulla”: dialogo con Guido Viale. Da Dickens a Cormac McCarthy, da Ballard a Beckett, una antologia letteraria di rifiuti e rifiutati
Rifiuto è ciò che getto, che non voglio, che mi fa ribrezzo. Il rifiuto, però, profondamente, è l’uomo: siamo ‘gettati’ al mondo, siamo un rifiuto che fiata, che a sua volta fa rifiuti. E che sui rifiuti – visto che l’uomo, il rifiuto, è l’essere che fa rifiuti –, senza più rifiutarli, fa business ecologico. Sul tema del rifiuto – esistenziale, etico, estetico, sociale, ecologista – Guido Viale ha allineato una bibliografia perfino profetica (Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, 1994; Governare i rifiuti, 1999; Azzerare i rifiuti, 2008), ma in questo caso lo scatto letterario è affascinante. In La parola ai rifiuti. Scrittori e letture sull’aldilà delle merci (Edizioni Interno4, 2019), lo scopo di fondo è sottile. Viale lo dice così: “Da Goethe a Kafka, da Calvino a Montale, da Pasolini a Hugo, da Saramago a Coetzee, da Dickens a Ballard – e tanti altri ancora – quei testi documentano in modo incontrovertibile come, a partire da un certo momento della storia (ma già Eraclito aveva trovato una corrispondenza tra un mucchio di rifiuti e “il più bello dei mondi”), i rifiuti siano diventati una componente essenziale e insopprimibile del nostro mondo e delle nostre vite. E di come abbiano finito per imprimere il proprio marchio anche sugli esseri umani, ridotti a scarti quando non servono più”. Io direi, selvaggiamente, che gli scrittori vedono quello che nessuno vuol vedere, immaginano, con virtuosa virulenza narrativa, l’inimmaginabile e arrivano prima degli altri al cuore della questione. In questo caso, l’antologia allestita da Viale – testimonianza di un lettore col fiuto – è affascinante e allucinante: si va dall’immancabile Nome della rosa di Umberto Eco – che illustra come si alienavano i rifiuti nel Medioevo – alla Londra lorda di merci in avaria di Charles Dickens, dove ciò che è rifiuto per uno è oro per l’altro, dall’eruzione distopica di rifiuti di J.G. Ballard (“Scese nelle strade deserte, osservando la leggera cenere che cadeva su Hamilton, proveniente dalle centinaia di falò di rifiuti alla periferia della città e che copriva le strade e i giardini come per l’eruzione di un vulcano vicino”) alla “lordura” e al “trionfo della spazzatura” cantati da Eugenio Montale agli abissi esistenziali di Samuel Beckett e i panorami arsi dal nulla biblico del Cormac McCarthy de La strada (“La città era abbandonata da anni ma ne percorsero le strade ingombre di rifiuti con grande circospezione, tenendosi per mano. Superarono un cassonetto in cui un tempo qualcuno aveva cercato di bruciare dei cadaveri”). Una storia della letteratura per rifiuti – le letture sono molte, reclamano Buzzati a Coetzee, Kafka e Hrabal, Tiziano Scarpa e Javier Marías, Don DeLillo, Jonathan Franzen, Magda Szabó – commentata, per fiocinare di pensieri il nostro status e il nostro Stato, la nostra natura e il mondo. Nel Viaggio in Italia, a Sud, presso Napoli, Goethe ha una illuminazione che folgora: “In quei paesi un povero, uno che a noi sembra miserabile, può non solo soddisfare le più urgenti e immediate esigenze, ma godersi il mondo nel modo migliore; e un cosiddetto accattone napoletano potrebbe altrettanto facilmente sdegnare il posto di viceré in Norvegia e declinare l’onore, se l’imperatrice di Russia gliel’offrisse, del governatorato della Siberia”. Qui al rifiuto si associa il tema della rinuncia, dell’accontentarsi, dell’essere contenti. Concetti non da poco. (d.b.)
Intanto, come nasce questo libro, con quali premesse, dettato da quali interessi questo lavoro antologico?
La parola ai rifiuti raccoglie una rassegna di testi letterari in cui a vario titolo si parla di rifiuti. È una selezione dei circa cento articoli che ho scritto nel corso di quasi vent’anni per il supplemento socio culturale della rivista GSA Igiene Urbana, che si occupa di questa materia da un punto di vista tecnico. Queste letture mi hanno aiutato ad allargare e approfondire lo sguardo su un tema, quello dei rifiuti, che in genere impegna solo in termini strettamente tecnici chi se ne occupa da un punto di vista professionale. Con questo libro intendo accompagnare il lettore a scoprire come mai, a partire dalla fine del Settecento, cioè dalla rivoluzione industriale in poi, dei rifiuti si siano molto occupati la letteratura e gli scrittori (poeti compresi) proprio mentre economisti, sociologi, medici e filosofi non si accorgevano della montagna di scarti che stava crescendo sotto i loro occhi. Quegli scrittori in effetti hanno visto nei rifiuti qualcosa di più di semplici materiali di scarto: una metafora della condizione umana, proprio mentre il mondo delle merci e del consumo celebrava i suoi trionfi.
Che valore ha la letteratura, grandissima – citi da Montale a Beckett, da Goethe a McCarthy – o rasoterra nell’affrontare temi ‘sociali’? Voce che urla nel vuoto o potenza conturbante? La letteratura, poi, si deve porre problemi di ordine sociale, ecologico, politico, etico? Qual è il suo impegno?
In questo ambito la letteratura è sicuramente una voce conturbante. Per quasi due secoli i rifiuti, prodotti in quantità crescenti, non hanno trovato posto nella rappresentazione di un mondo ordinato e in continuo progresso che ci è stata fornita dai saperi ufficiali. Eppure erano là, a testimoniare che ogni ‘bene’, inteso sia in senso economico che sociale, ha il suo rovescio. Che oggi ci sta portando a fondo, perché anche la CO2, causa prima dei cambiamenti climatici che minacciano la sopravvivenza stessa dell’umanità, non è che un rifiuto: lo scarto di tutti i processi di combustione su cui si è retto lo sviluppo della civiltà industriale. La letteratura non si ‘deve’ occupare di problemi specifici; si occupa della vita, perché questa è la sua vocazione. Ma se lo fa bene non può non incrociare e sviluppare uno sguardo specifico, che è quello dell’autore, e per questo diverso dagli altri, su tutti questi problemi.
Quale tra gli scrittori che hai antologizzato ti ha convinto di più, quale ti ha emozionato di più?
Il più emozionante è per me è senz’altro Samuel Beckett che in Finale di partita rende esplicito quello che è il tema di fondo di tutti gli scrittori che in qualche modo hanno toccato o sfiorato il mondo dei rifiuti: l’identificazione dell’essere umano con nient’altro che un rifiuto, la sua svalorizzazione fino all’annullamento totale; unico punto a partire dal quale si può cercare di restituire un senso alla vita: ma a una vita completamente diversa. Il più convincente è senz’altro Italo Calvino, di cui, unico tra gli autori trattati, analizzo ben due testi, in due capitoli diversi: per lui i rifiuti sono non la metafora dell’esistenza, ma una chiave di interpretazione della società.
In assoluto: quali letture hanno segnato la sua vita, c’è un libro che riconosce come stella polare, a cui ritorna con ostinata continuità?
Non credo. Come Harold Wilson riconduce a Shakespeare tutto il ‘canone’ della letteratura occidentale – compresi, paradossalmente, persino alcuni autori che lo hanno preceduto – così io penso che in Dante ci sia tutta la letteratura che è venuta dopo di lui. Senza mai, ovviamente, raggiungerne l’altezza.
“Rifiuto”, lo accennava anche nelle domande precedenti, è un termine che riguarda lo stato esistenziale, esiziale della natura umana, oggi. Rifiutiamo troppo, facciamo troppi rifiuti, abbiamo il timore di essere rifiutati, siamo i rifiuti di un tempo ingiusto, ingiustificati…
La vita, e il mondo, sono fatti di attrazione e di repulsione. Come, oltre ad essere attratti da qualcuno o qualcosa, aspiriamo anche a essere attraenti per gli altri, compresi i beni che ci circondano, così siamo portati o costretti a rifiutare molte cose e molti atteggiamenti delle persone, ma abbiamo paura di essere a nostra volta rifiutati. Ma nei rifiuti c’è qualcosa che, oltre a respingerci ci attrae, a volte in forme morbose: è la nostra vita, il trascorrere del tempo, che si deposita nelle cose che abbiamo usato e che non ci servono più, e di cui dobbiamo sbarazzarci. Così come nell’attrazione c’è sempre, o dovrebbe esserci, anche una componente di respingimento; altrimenti ci identificheremmo totalmente con la cosa o la persona che ci attrae, perdendo la nostra identità. Il fatto è che questi ‘moti dell’animo’ non si distribuiscono in modo uguale tra tutti gli esseri umani: chi più ha più attrae. Chi non ha niente per lo più respinge.
Oggi il tema ambientale – in area sacra come profana – è prepotente, fa concordi tutti. Almeno, quando ci sono manifestazioni di piazza. Cosa ne pensa: sono le solite buone parole che tornano? D’altronde, lei di rifiuti (penso a “Un mondo usa e getta”, 1994) e di ecologia (cito ad esempio “La conversione ecologica”) ha fatto un tema dominante da decenni.
È il colmo dell’ipocrisia. L’ambiente mette d’accordo tutti, fin che se ne parla in astratto, mentre tutti, o quasi, sono impegnati a distruggerlo e devastarlo. Questo gioco è andato avanti per anni, ma adesso è arrivato a un nodo. Se non invertiamo rotta non ci sarà più niente da devastare, perché avremo distrutto tutto il devastabile; compresi noi stessi, l’umanità, a cui stiamo sottraendo le condizioni che hanno reso possibile la sua evoluzione e la sua storia. A quel punto, senza un richiamo all’attrazione che su noi dovrebbero esercitare le cose che fanno bella la vita, la Terra e la convivenza umana non saranno più nient’altro che immani rifiuti.
*In copertina: J.G. Ballard, l’autore di “Terra bruciata” (testo antologizzato da Guido Viale), nel 1977
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Appunti per una ecologia delle parole
Appunti per una ecologia delle parole
Nell’immagine ci sono due marmotte che giocano, forse flirtano, forse fanno l’amore. Nessuno si chiede se appartengano allo stesso sesso o allo stesso ceppo etnico, da dove provengano, quale sia il cuore del manto: tutti, quando vedono una scena del genere, restano a guardare inteneriti, perché è la natura che ci mostra il suo spettacolo.
Purtroppo lo stesso non accade con gli esseri umani,…
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#antisemitismo#Chomsky#Disonestà intellettuale#Ecologia delle parole#Girard#Importanza delle parole#Omofobia#razzismo#Xenofobia
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canale 4 (letteralmente) Radio YOGA NETWORK · Conferenze&Letture di Ramananda Das (Renzo Samaritani)
La Federazione parteciperà al Monitoraggio degli effetti del COVID-19 nei comparti della cultura in Emilia-Romagna - TERZA FASE.
Dal 14 luglio 2020 è aperta la terza fase del monitoraggio regionale sul comparto cultura delle misure adottate in seguito all'emergenza sanitaria COVID-19 che fa riferimento alle attività sospese nel periodo 1 maggio-15 giugno ed è integrato con domande sulla eventuale ripresa.
Il monitoraggio è stato predisposto dalla Regione Emilia-Romagna, in collaborazione ATER Fondazione, Istituto per i beni artistici, culturali e naturali e con Osservatorio Culturale del Piemonte, per richiedere agli operatori del comparto culturale presenti sul territorio regionale alcune informazioni riguardo agli effetti delle misure adottate in seguito all’emergenza sanitaria COVID-19 e alle difficoltà che il settore culturale sta affrontando.
"Città dei Mut@nti" sta affrontando la situazione italiana e mondiale digitalizzando ogni suo comporto e rendendo ogni attività fruibile ai propri associati attraverso ogni mezzo di comunicazione tra i quali corsi e conferenze via Zoom, presentazioni attraverso Facebook Live Audio, attività di Podcast tramite Anchor e di web radio tramite Spreaker.
Renzo Samaritani, "il virus non ha perso potenza", il figlio della Schneider nominato oggi Presidente della nuova Federazione "Città dei Mut@nti"
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Circolo Culturale sulle Dottrine della Nuova Era, per
il benessere psico-fisico dell'essere umano,
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Discipline Energetiche, Terapie Alternative,
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dintorni
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Spirituali e New Age, Poteri Paranormali, Ecologia,
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Citta' dei Mut@nti: chi siamo
di Paola Mosconi (Parama Karuna d.)
E' uno spazio aperto a tutti coloro che vogliono partecipare alla grande avventura della nascita della nuova civilta' umana.
In questa citta' virtuale vivono diverse Persone, che a seconda della loro inclinazione e delle loro realizzazioni creano dei Quartieri speciali, in una specie di convivenza multietnica o biodiversita' culturale e spirituale intesa ad incoraggiare la comunicazione, lo scambio e la crescita reciproca ampliando e approfondendo sempre piu' il tesoro comune di conoscenza e capacita' di collaborazione e azione.
La filosofia comune a tutti gli abitanti della Citta' dei Mutanti e' semplice, e si potrebbe definire "new age basics" o "fondamenti della nuova era":
1. la diversita' e' utile per la ricchezza biologica a tutti i livelli e va rispettata e incoraggiata soprattutto nella sua funzione di collaborazione ed equilibrio; questo comprende anche l'integrazione dei due grandi "emisferi cerebrali" del pianeta, l'oriente e l'occidente, l'istintualita' e la razionalita', l'aspetto femminile e l'aspetto maschile, in tutte le loro manifestazioni ed emanazioni,
2. lo scopo della vita e' quello di imparare, crescere e diventare in grado di contribuire alla crescita della collettivita' universale innanzitutto attraverso la consapevolezza e poi attraverso l'applicazione pratica della consapevolezza; l'essere umano ha una profonda e seria responsabilita' verso il pianeta e l'universo in generale e deve prenderne atto ed agire di conseguenza,
3. gli esseri umani hanno delle potenzialita' molto maggiori di quelle che si crede attualmente, e dovrebbero cercare di svilupparle utilizzando anche tecniche pratiche e conoscenze provenienti da diverse scuole e culture, di qualsiasi tempo e luogo (perche' tempo e spazio sono relativi!),
4. la base dell'esistenza di ogni cosa e' lo spirito (o energia), dal quale e' composta anche la materia; ogni aspetto della vita individuale e collettiva andrebbe dunque integrato in modo "olistico" per realizzare lo spirito nella materia e la materia nello spirito, le vie spirituali (che insieme, nella loro essenza, formano la Via) sono importanti per aiutare l'individuo e la collettivita' a realizzare questa consapevolezza -- o coscienza.
Da queste quattro "nobili verita'" emanano una miriade di altre conoscenze, che si intrecciano meravigliosamente a formare un tessuto splendido, variopinto e luminoso, leggero e forte nello stesso tempo (come le stoffe degli elfi o delle fate??), che e' il tessuto stesso della vita dell'universo, una Rete diafana di comunicazione e scambio di energia e conoscenza che collega invece che legare.
La Citta' dei Mutanti e' una specie di giardino d'infanzia per futuri Cittadini dell'Universo; i Mutanti sono esseri umani che si stanno trasformando in Esseri Divini, come tanti bruchi bodhisattva impegnati nella loro faticosa e gloriosa trasformazione.
Perche' esiste la Citta' dei Mutanti? Semplice. Esiste perche' esistiamo noi, i Mutanti. E perche' esistiamo noi? Perche' e' la nostra ora. Perche' e' la nostra ora? Perche' questo e' l'ordine naturale delle cose. L'universo e' una cosa viva che cresce e l'evoluzione non si ferma mai... Lo scopo della Citta' dei Mutanti e' quello di costituire un punto di riferimento per tutti i Mutanti dispersi che sono magari convinti di essere dei mostri perche' non hanno mai incontrato dei loro simili, un po' come il "brutto anatroccolo" che non riusciva a legare con nessuna papera e si sentiva sgraziato e "fuori posto", sempre costretto a fuggire e nascondersi o a subire la persecuzione dei "normali" che temono sempre i "diversi".
I Cigni della Citta' dei Mutanti si alzano in volo ogni giorno gridando il loro richiamo e ogni brutto anatroccolo nascosto in mezzo all'erba o al carbone puo' vederli sfrecciare nel cielo e desiderare di diventare come quegli esseri maestosi e bellissimi...
Nella cultura vedica le Persone evolute sono chiamate Parama Hamsa (Cigni supremi). Secondo i Veda, i cigni hanno la speciale abilita' di filtrare le sostanze contenute nell'acqua per nutrirsene -- come il latte, ad esempio -- e quindi di prendere solo cio' che e' utile e buono lasciando cio' che non serve. I cigni sono puliti e amano i luoghi belli, puliti e profumati, i laghetti ornati di fiori di loto, e apprezzano la compagnia reciproca. Il loro canto e' meraviglioso, e specialmente al momento della propria morte, che per il Cigno e' il momento piu' importante della vita.
Benvenuti a tutti, sia che siate turisti o aspiranti cittadini!
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🐤 🇬🇧 I think nature largely reflects what humans do. This is Val Susa, Piedmont, Italy. 🇮🇹 Penso che la natura in buona parte rifletta ciò che fanno gli esseri umani. Questa è Val di Susa, Piemonte, Italia. . 〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️ 📱 Made with passion 👉 Follow: @archivoltogallery 🌝 Double Tap 👊👊 if you like it! 🙏 Tag a friend that needs to see this! 〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️ 🇮🇹 Have a nice day! .. 〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️ By the way.. make sure to Visit Susa Valley before you die 😜 .. 〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️〰️ #archivoltogallery #natura #valsusa #valdisusa #yallersitalia #motherearth #mirror #amazingplace #environment #loves_united_piemonte #outdoor #riflessi #ecologia #montagna #hdr_lovers #piemonteconte #reflections #environment #great_captures_hdr #ambiente #piemonte_super_pics #humanbeing #planetearth #piemonte #vivoitalia #bestpiemontepics #volgopiemonte #igerspiemonte #ig_piemonte #volgoitalia (presso Susa, Italy) https://www.instagram.com/p/B-X4d3xgqz7/?igshid=1aocjx8y3vkky
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La cultura amazzonica, che integra gli esseri umani alla natura, diventa un punto di riferimento per la costruzione di un nuovo paradigma di ecologia integrale (56). #Amazzonia #prayforamazonia #sínodoparaaamazônia https://www.instagram.com/p/B1kGx_pgBwY/?igshid=nthbnphbk4uo
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Oltre il dogma della crescita(Politiken, Danimarca)
Se la realizzazione di uno sviluppo sano e sostenibile potesse essere aidata al solo pensiero economico dominante,quello che guarda alla crescita come un afamato guarda a una tavola imbandita,potremmo continuare a far festa.Continuare a produrre e consumare fino a quando non avremo venduto l’ultimo barbecue e avremo la cantina piena di aggeggi inutilizzati. Potremmo indebitarci sempre di più,…
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NOTE SU “ENVIRONMENTAL MONITORING SYSTEM”. Lorenzo Oggiano
“Environmental Monitoring System” ( E.M.S. ) è un'installazione audio-video a quattro canali (1) concepita come simulazione di un sistema multicamera di monitoraggio ambientale finalizzato alla documentazione in tempo reale delle dinamiche di quattro ecosistemi complessi.
Prodotta con software di modellazione / animazione tridimensionale e tools per la generazione sintetica del suono, si pone come ulteriore momento di riflessione sulle relazioni tra ecosfera, tecnosfera e mutazioni biologiche / sensoriali / cognitive; più in particolare riprende e rielabora il percorso intrapreso con il ciclo “Quasi-Objects” ( 2003 / in corso ) e i recenti “Polymorphic Systems Studies” ( 2012, 2014 / 2015 ) sul tema della relativizzazione delle forme, e del concetto stesso di vita, quale portato notevole dell'evoluzione tecno-biologica.
In “Quasi-Objects” si era lavorato al re-design di organismi ed ecosistemi, funzionando la genesi sintetico-combinatoria propria della CGI (2) come un vantaggio operativo che – subordinando il principio classico di Rappresentazione ( il suo apparato ottico-discorsivo ) ad una estetica di processo (3) nella quale l'esito sensibile rimanda alla morfogenesi, alle procedure, an-ottiche, che lo rendono disponibile – contribuisse ad affermare l'opportunità di pensare il vivente nei termini di una topologia dinamica di relazioni tra processi, prodotto astratto e transitorio di una modalità organizzazionale indipendente dalla componente materiale. Il titolo dato al ciclo – mutuato dal Bruno Latour di Nous “n’avons jamais été modernes”,(4) a sua volta debitore delle riflessioni avanzate da Michel Serres in “Le Parasite” e “Statues” – rispondeva alla volontà di fare preciso riferimento al 'regime di indecidibilità ontologica' che è andato rimodulando ( progressivamente, e definitivamente, a partire quantomeno dalla seconda metà del secolo scorso ) l'ordine degli uomini e delle cose, il nostro rapporto con la natura, cercando un percorso di riconciliazione non dialettica con l’alterità oltre le rappresentazioni stabili che trattengono la proliferazione della differenza. Le opere realizzate – dieci video e oltre un centinaio tra stampe, studi e disegni preparatori – riguardano la 'mirabile difformità' che andiamo assumendo in assenza dei vincoli ( naturali e culturali ) che in passato ne inibivano la progettazione, in presenza di un corredo tecnologico via via più con-naturato, con-fuso a quello genetico.
Nella stessa direzione – e sviluppando le suggestioni avanzate in ‘Plastic Measures’ ( un progetto tra biologia sintetica, arte e design realizzato nel 2012 per ‘Viewpoint magazine’ )(5) – con i successivi “Polymorphic Systems Studies” si introduceva il concetto di polimorfismo (6), seminalmente indagato, tra il 2001 e il 2003, nei 20 pannelli fotografici della serie “Sample-Kit”.(7) Guardando al superamento del binomio mutazione-selezione quale motore principale del processo evolutivo a favore di una prospettiva pluralistica, non gradualista, che interpreti l'emergere di discontinuità come prodotto dell’interazione complessa fra sistemi differenti, fra gerarchie insieme genealogiche ed ecologiche, e attraverso processi ibridativi con l'alterità ( simbiosi, co-evoluzione, contaminazione biomacchinica,… )(8) si sono proposte altre figure di (s)oggettività come assemblaggio mobile, ricombinante di entità eterogenee.
In “E.M.S.” le tematiche sopra elencate sono riprese e ricalibrate lavorando parallelamente sulla dimensione spazio-temporale ( con interventi sulla 'sintassi simulatoria' ) e sull'architettura complessiva, le dinamiche e la morfologia degli 'ecosistemi' e dei 'sintorganismi' attualizzati. Da una parte infatti la simulazione di un sistema di monitoraggio ambientale, oltre ad influire 'quantitativamente' sull'operatività del dispositivo – che qui lavora in modo iterativo, dal momento che, ad essere simulati, sono sia il sistema in sé sia le porzioni spazio-temporali virtualmente monitorate – ne regola 'qualitativamente' il portato semantico, rimandando ad una precisa pratica strumentale ( ottica, 'oggettiva e oggettivante' ) di documentazione / controllo del reale; dall'altra, attori e scenari sintetici sono con-formati e articolati ( animati, sonorizzati ) in modo utile a restituire la prospettiva connotata e, complessivamente, ottimizzare i potenziali percorsi di senso.
Il lavoro si propone quindi come contributo ad una riflessione sullo statuto dell'immagine di sintesi, derivando, dalla specificità di quest’ultima, interrogativi di più ampio respiro riguardo ai rapporti tra ordini sensoriali, registri di razionalità, figure della soggettività, cosmologie. L'invito è a riconsiderarne il peso e le implicazioni in uno scenario che vede 'l’immagine informatica' porsi quale territorio mutevole di intermediazione tra sistemi convergenti. Non solo astrazioni immateriali, di crescente complessità e verosimiglianza che trovano il loro teorico limite di sviluppo nelle tecnologie disponibili ad attualizzarle, ma interfaccie liquide di connessione / conversione tra domini di (co)esistenza, tra 'realtà' la cui distanza ( differenza ) viene progressivamente a dissolversi, contribuendo a svelare l’inattualità e l’inopportunità di quelle cosmologie antropocentriche che, da tempo, vanno inesorabilmente decostruendosi nel rapporto con le scienze, le tecnologie, l'esperienza quotidiana.
In questa direzione la messa in mora di una cornice epistemologica classica, di impianto meccanicistico-rappresentazionista – ( narrazioni di una realtà oggettiva, scomponibile nelle sue componenti elementari, retta da leggi lineari e immutabili, misurabile, controllabile, potenzialmente predittibile, rivelata dallo sguardo di un Soggetto universale ) a favore di un orientamento di ispirazione sistemico-costruttivista in virtù del quale abbandonare gli apparati di riduzione della complessità ancora dominanti le diverse discipline e il 'pensiero comune' – aprendo ad orizzonti di riflessione alternativi a qualsiasi teleologia della modernità è precondizione alle pratiche di una ecologia tecno-sociale che consenta alla nostra specie una coesistenza più distesa, consapevole, con le alterità. Non si tratta ( unicamente ) di collocare l’umano in una rete complessa ed eterogenea di flussi e relazioni ma – assumendo il rapporto reciprocamente costitutivo tra sistemi osservanti e sistemi osservati, l'erosione dei confini tra soggetto e oggetto, il ruolo coniugativo giocato dalle tecnologie – finalmente distrarlo dal primato epistemologico, ontologico ed etico che ancora sopporta, (ri)portandolo al fianco degli altri viventi, e degli oggetti 'senz’anima', terminale di un multiverso costruito e pluriversabile, non abbracciabile con un solo sguardo.
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[1] Un canale AV per ecosistema con commutazione ciclica dei dati provenienti dalle tre telecamere e dai microfoni virtualmente collocati in ciascuno degli ambienti monitorati. Standard Full-HD PAL, durata 6 min/canale ( in loop sincrono ), audio stereo. E.M.S. è disponibile in versione “single channel” ( un canale, post-prodotto in modalità four way split view ) per screenings / proiezioni: lo 'spazio monitor' è diviso in quattro per la fruizione integrale e contemporanea in singolo canale della versione “multi-channel”. Standard Full-HD PAL, durata 6:24 min, audio stereo ( rielaborato e remixato ). [2] Acronimo di “Computer Generated Imagery” fa riferimento all’utilizzo della computer grafica per la creazione di contenuti, statici e dinamici, per cinema, televisione, media a stampa, videogames, ... [3] L'attenzione prestata agli aspetti processuali è argomentata nella prima sinossi dedicata al ciclo, scritta nel 2004: “Quasi-Objects riguarda l’attualizzazione di dati, la produzione di occorrenze biologicamente afunzionali ( biopoliticamente disfunzionali ), dicendo della Vita, ma senza riguardo per gli esiti che questa riconosce; possibili visualizzabili come risultato in transito di una prassi operativa: estetica di Processo.” In una successiva intervista ( Digimag n.29 - Novembre 2007 ) si sono ulteriormente chiariti gli obiettivi del progetto: “dire delle dinamiche elementari di coevoluzione delle forme ( tra loro e con l'ambiente ) oltre la storia delle singole occorrenze, del principio di organizzazione oltre il dato sensibile.” [4] Latour, B., “Nous n'avons jamais été modernes. Essai d'anthropologie symétrique”, Paris, La Découverte, 1991. Affascinante lettura della storia di una modernità crollata sotto il peso degli ibridi di natura e di cultura che la sua 'Costituzione' permetteva di sperimentare. La produzione, per depurazione, di due aree ontologiche distinte ( quella degli umani da un lato e quella dei non umani dall'altro ) che in passato aveva permesso di rendere strategicamente 'invisibile, impensabile, irrappresentabile' l'opera di mediazione, di 'traduzione' che assembla gli ibridi, ora non è più in grado di assorbirne la proliferazione, di dissimularne l'esistenza. Occorre pensare l'impensabile dei moderni, nell'ambito di una Costituzione emendata in cui le reti escano dalla clandestinità, l’Impero di Mezzo, i quasi-oggetti, siano rappresentati. [5] 'Plastic Measures', Viewpoint, n.30, Metropolitan Publishing BV, Amsterdam, 2012. [6] Le note di presentazione del lavoro si aprono riportando il concetto di polimorfismo proposto dall'architetto tedesco Michael U. Hensel in ‘Architectural Design’ ( AD, March/April 2006, London, Wiley Academy ): “Polymorphism is the state of being made of many different elements, forms, kinds or individuals. In biology it refers to the occurrence of different forms, stages or types in individual organisms or in organisms of the same species.” [7] “Una riflessione sull'inedita complessificazione degli universi di senso contemporanei, sull'apertura a forme di esistenza multiversali come concatenamento dinamico di elementi eterogenei.” ( estratto dalla sinossi, 2001 ). La serie è stata realizzata con un workflow analogico/digitale: alcune bambole giocattolo tagliate e riassemblate sono state fotografate in soft-box con una reflex analogica 35mm. Sui files-immagine risultanti dalla scansione degli originali fotografici sono stati clonati componenti elettronici, fil di ferro e materiali organici digitalizzati per scansione diretta. [8] Le posizioni richiamate fanno complessivamente riferimento agli 'approcci sistemici al vivente' ( in primo luogo al concetto di autopoiesi, sviluppato negli anni ’70 da Humberto Maturana e Francisco Varela ), alle ricerche effettuate da alcuni biologi evoluzionisti ( Stephen J. Gould e Niles Eldredge in particolare ), alla teoria della simbiogenesi di Lynn Margulis, e agli studi ( tra gli altri ) di Richard Lewontin, Francois Jacob, Gregory Bateson, Stuart Kauffman, Ilya Prigogine. Comune denominatore la necessità di superare le basi gradualiste e continuiste proprie del darwinismo originario, del neodarwinismo e della 'sintesi moderna'. La prospettiva aperta dal 'pluralismo evolutivo' – ha osservato Mauro Ceruti – “mette in discussione quella cecità selettiva che appare uno dei limiti più caratteristici della tradizione scientifico-filosofica moderna, e forse anche di tutta la tradizione di pensiero dell’Occidente. Di volta in volta, nei singoli universi di discorso sono stati privilegiati i processi o le forme, i flussi o le stabilità. (…) Ci si è concentrati sui tempi brevi o sui tempi lunghi, sui tempi istantanei degli eventi o sui tempi quasi immobili degli stati di equilibrio. (…) può emergere un contesto di incontro fra queste eterne polarità, un contesto nel quale si possano scorgere anche quelle zone di confine nelle quali le forme sorgono e si dissolvono (…)? La sfida diventa quella di pensare insieme le forme e i processi, di ricercare una definizione processuale delle forme.” ( Ceruti, M., Evoluzione senza fondamenti, Bari, Laterza, 1995 ). Al riguardo è utile rilevare come – 'sul versante filosofico' – il percorso intrapreso da Gilles Deleuze e Félix Guattari ( per i quali costante e determinante è stata l'attenzione riservata agli sviluppi della ricerca scientifica: Riemann, Gauss, Thom, Mayr, Prigogine, Varela,... ) abbia esemplarmente contribuito a declinare termini e passaggi per un’ontologia processuale, immanentista, oltre-disciplinare che è superamento delle ( stesse ) problematiche, e insostenibili opposizioni ( natura e cultura, soggetto e oggetto, materia attiva e materia passiva, proprietà e organizzazione, … ) da tempo al centro del dibattito scientifico.
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Siamo nell'era
In un’era dove i processi di cambiamento a livello globale sembrano inarrestabili ed ingovernabili, anche gli scenari sociali appaiono sempre più complessi; con intrecci inestricabili non solo fra politica locale, geopolitica, informazione, globalizzazione, ecologia, finanza ed economia, ma anche fra tutto ciò e il parallelo sviluppo esponenziale di una tecnologia via via più interconnessa con l’evoluzione dell’intera popolazione della Terra e con i suoi equilibri dinamici. Al riguardo è d’obbligo porsi una domanda: dove stiamo andando, non solo a breve, ma anche nel medio e lungo termine? La risposta alla domanda potrebbe essere letta nel libro scritto dai coniugi Khanna: titolo originale, “Hybrid Reality. Thriving in the Emerging Human-Technology Civilization”. Tradotto in italiano da Codice Edizioni con il titolo “L’età ibrida. Il potere della tecnologia nella competizione globale”. Sulla copertina il contenuto del libro è così sintetizzato: “Ayesha e Parag Khanna, descrivono appieno la portata di questo fenomeno e i suoi effetti dirompenti: la civilizzazione umano-tecnologica in corso ha raggiunto infatti un livello tale da diventare anche un processo strategico che agisce su scala mondiale, e che sta ridisegnando le mappe del potere economico e delle reciproche influenze tra le nazioni e i continenti. Assistiamo insomma alla nascita di un nuovo equilibrio geopolitico, in cui il ruolo di uno Stato all’interno della competizione globale è ormai definito più dal livello di innovazione tecnologica che non dalla potenza militare o economica. Stiamo entrando in un’età ibrida, dove il rapporto uomo-macchina non sarà più solamente una semplice co-abitazione, ma una vera e propria co-evoluzione.” Ed ecco come i due autori americani di origini indiane sintetizzano il punto focale della loro riflessione: “Una nuova era richiede un nuovo lessico. Avrà ancora senso parlare di telefonia ‘mobile’ quando tutti i telefoni saranno ‘mobili’, se non addirittura impiantati dentro di noi? Il termine ‘evoluzione’ sarà in grado di descrivere il nostro rapporto con la tecnologia, o dovremo invece parlare di co-evoluzione umano-tecnologica?” Il loro pensiero è meglio spiegato in alcune citazioni del libro, che di seguito si riportano. L’alba dell’età ibrida. “Oggi ci troviamo alla frontiera dell’era dell’informazione: siamo nell’età ibrida, una nuova epoca socio-tecnologica che emerge mano a mano che le tecnologie si fondono tra di loro e gli esseri umani con queste, due processi che avvengono in simultanea”. “Da un utilizzo della tecnologia all’unico scopo di dominare la natura stiamo passando alla trasformazione di noi stessi in una struttura pronta ad essere plasmata dalle tecnologie, integrandole dentro di noi fisicamente. Non solo usiamo la tecnologia: la assorbiamo. Nell’età ibrida, quindi, la natura umana cessa di essere una verità distinta e immutabile”. Co-evoluzione umano-tecnologica. “Come hanno spiegato Brian Arthur, del Santa Fe Institute, e Kevin Kelly, esperto di tecnologia e cultura digitale, la tecnologia ha modelli evolutivi propri che si combinano e si configurano in modi sempre più complessi per adattarsi alle nuove circostanze. L’evoluzione biologica e tecnologica sono manifestazioni di un principio scientifico molto profondo che il matematico Adrian Bejan chiama legge construttale, secondo cui tutti i nostri sistemi sono naturalmente predisposti per diventare più complessi e facilitare il flusso dei loro componenti”. Geotecnologia. “Il paradigma dominante per spiegare il cambiamento globale nell’età ibrida sarà la geotecnologia. Il ruolo della tecnologia nel plasmare e riplasmare l’ordine prevalente, e nell’accelerare i mutamenti tra gli ordini, ci costringe a ripensare la supremazia intellettuale della geopolitica e della geoeconomia”. “Lo spostamento verso un paradigma geotecnolgico ci costringerà ad abbandonare concetti di geopolitica considerati fondamentali da secoli. Il primo riguarda gli ordini di grandezza: ‘più è grande, meglio è non sarà più necessariamente vero. Il secondo concetto da riconsiderare riguarda l’autorità. La centralizzazione perde terreno a favore della diffusione”. “Anziché da petro-stati, l’età ibrida sarà guidata da info-stati città-centrici”. La Technik. “Il termine tedesco Technik incorpora non solo le tecnologie ma anche le abilità e i processi che le riguardano (in inglese – e in italiano, n.d.r. – manca un vocabolo adeguato in grado di cogliere questo complesso intreccio tra uomo e tecnologia). La Technik unisce la dimensione scientifica e meccanica della tecnologia (determinismo) con un necessario interesse per i suoi effetti sugli uomini e sulle società (costruttivismo). La Technik è dunque il quoziente tecnologico della civiltà. Se la geotecnologia ha a che fare con il potere, la Technik ha a che fare con l’adattabilità”. Nelle pagine successive gli autori indicano quali sono secondo loro le società che dimostrano di avere attualmente la migliore Technik; i nomi sono rivelatori: Giappone innanzi tutto, dato che è il paese che più sta accogliendo i robot nella propria quotidianità, e poi Singapore, la Finlandia, Israele, l’India e gli Usa. “La lotta per conseguire Techink potrebbe diventare la nuova lotta di classe globale: chi dalla tecnologia trae guadagno e qualità della vita contro chi resta perennemente indietro rispetto agli standard dominanti”. L’emergere del generativismo. “Il principio di fondo che nella realtà ibrida trasformerà i nostri sistemi sociali più importanti è il generativismo. I sistemi generativi hanno una capacità praticamente inesauribile di connettere utenti e di consentire loro di creare nuovi valori e nuovi prodotti. I due migliori esempi di generativismo sono il linguaggio e internet”. “La tecnologia rappresenta un drive cruciale del generativismo nel momento in cui i suoi frutti sono modulari e facilmente ricombinabili, adattabili dalle persone per i propri scopi. Nell’età ibrida il generativismo alimenterà cambiamenti paradigmatici in tutti i principali sistemi sociali” e qui gli autori elencano e sintetizzano i contenuti dei cinque paragrafi centrali del libro: “il sistema scolastico passerà dall’acquisizione alla creazione di conoscenza; quello sanitario, dalla cura della persona al suo potenziamento; l’economia, da valori predeterminati a valori generati dagli utenti; la governance, dal potere centralizzato a un’autorità più diffusa; e l’ordine di grandezza della vita civica, dalla nazione alla città”. Istruzione: La morte del pedigree. “Con il mondo dell’informazione a portata di mano, il modello industriale dell’istruzione come memorizzazione di fatti diventa sempre più ridondante”. “Il nuovo sistema di apprendimento generativo sarà peer-to-peer, nel senso che vedrà uno scambio diretto tra allievi, nonché tra allievi e insegnanti, genitori, comunità e tecnologia stessa”. “Vedremo sempre più scuole di tipo ‘Mon-IT’ (inteso come Montessori Institute of Technology), che fondono l’esplorazione e la curiosità verso il mondo del metodo Montessori con le rigorose tecniche di ricerca del MIT. Si faranno ‘giochi seri’ a tutte le età”. Lavoro: Il valore di ciascuno di noi. “Attualmente l’occupazione non segue più la crescita economica, soprattutto perché macchine intelligenti sono diventate parte integrante della forza lavoro. Stiamo forse andando verso un mondo con più specializzazioni e meno lavoro?” . Anche se, sostengono più avanti gli autori, “ci sono tutti i sintomi della nascita di un’economia condivisa in cui il consumo e la proprietà cedono il passo all’utilizzazione e alla collaborazione. L’accesso temporaneo ad automobili, case e spazi di lavoro richiede interdipendenza e fiducia tra perfetti sconosciuti; tuttavia è diventato un modello economico sostenibile, nonché un pilastro del commercio che sta accelerando il passaggio verso nuovi generi di gruppi autodefiniti”. Medicina e biologia: Dalla terapia al potenziamento del corpo. “A un certo punto la combinazione di bioingegneria, optogenetica e neuroprostetica potrebbe trasformare l’uomo in un cyborg con parti rigenerative tali da renderlo immune all’invecchiamento e alla malattia”. “I ricchi potranno comprarsi lo status di nuova super-specie, e il divario tra possidenti e nullatenenti genetici potrebbe diventare più importante delle nostre attuali disuguaglianze economiche. Il ‘negozio del corpo umano è già aperto”. Ma comunque “nessuno è in grado di controllare le implicazioni etiche ed economiche di queste enormi innovazioni mediche e genetiche”, comprese quelle derivanti dall’accumulo di big data medici nelle cloud e negli archivi che stanno crescendo in tutto il mondo, nel pubblico e nel privato, “perché il progresso è troppo veloce, i governi troppo lenti e i costi incalcolabili”. Reti di potere: La diffusione dell’autorità. “La forza di una società dipende in misura sempre maggiore dalla ridondanza di dati e dalla dissidenza creativa, ovvero la libertà di ciascun individuo di impegnarsi in un hakeraggio costruttivo che riveli le vulnerabilità e le possibili soluzioni derivanti dal crowdsourcing. Geopolitica: Una nuova dimensione: l’ascesa della città. “Il XXI secolo non sarà dominato da Stati Uniti, Cina, Brasile o India, bensì dalla città. Già oggi solo 600 città generano tre quarti dell’economia mondiale. Il generativismo urbano è alimentato dalla diffusione di infrastrutture interconnesse e piattaforme di dati, nonché da autorità e cittadini che organizzano e sfruttano i propri dati per creare istituzioni politiche più reattive, economie dinamiche e servizi efficienti. Le città intelligenti sono dunque gli ‘info-stati’ dell’età ibrida, che fanno leva su nuovi settori tecnologici per surclassare le proprie rispettive nazioni in termini di Technik, diventando nodi autonomi dell’economia mondiale”. --- Interessante è lo studio dell'interazione/ingerenza tra Stati spesso contrapposti, grazie all'utilizzo della tecnologia. Un attacco hacker massivo tendente a destabilizzare le sicurezze di uno Stato, oppure la manipolazione reale e subliminale delle informazioni, possono essere paragonate ad un attacco bellico vero e proprio? Può uno Stato che ha subito l'attacco rispondere con gli strumenti consuetudinari propri del Diritto internazionale? ��Le regole del Diritto internazionale sono valide anche nello Spazio? Domande a cui non riusciamo dare risposte esaustive e che rendono fertile il confronto delle superpotenze in questi ambienti "immateriali". Ambienti di conquista dove l'unica arma efficacie è la conoscenza tecnologica, quella di primissimo livello, quella conoscenza e capacità che poche superpotenze potranno avere, considerati gli indefiniti e continui investimenti richiesti,per poter stare dietro alla velocità incontrollabile dell'era "ibrida". di Massimiliano D'Elia Click to Post
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Pochi giorni fa abbiamo diffuso le immagini dei tre orsi polari detenuti allo zoo di Fasano e la pronta risposta dei gestori della strutttura. Chiara Grasso è un' etologa e con il suo permesso riportiamo un suo scritto che smonta punto per punto le assurde teorie dello zoo: "La storia è questa: Un gruppo di animalisti (non ci importa chi. Qualcuno l'ha fatto nel diritto e nella legalità della situazione) ha ripreso e postato su Facebook un video che ritraeva gli orsi polari dello zoo di Fasano, in Puglia, durante un pomeriggio in cui il termometro segnava 38 gradi. Nel video si può osservare con estrema facilità il movimento di pacing che compiono gli orsi, l'installazione cementosa e l'acqua bassa in cui dovrebbero nuotare gli animali. (https://www.facebook.com/bastadelfinari/videos/766512576884879/?hc_ref=ARTPqGtlqZscVAeJJ_hmhumw3kLlurqbLobMZ23fBS9weIf73Yd4QNVC_kJcsuuxF8k). Il giorno dopo gli arrabbiati proprietari dello zoo pubblicano un post su Facebook in cui spiegano che gli animali stanno bene e che gli animalisti devono, fondamentalmente, starne fuori. (https://m.facebook.com/story.php…). Guardate il video, leggetevi la risposta dello zoo e poi proseguite nella lettura :) 1)Lo zoo in sua difesa cita le normative EAZA, che secondo il post, lo zoo seguirebbe nel mantenimento degli animali. ERRORE: lo zoo di Fasano non è parte del gruppo EAZA (http://eaza.net/#map_home). Ho scritto personalmente ad EAZA per chiedere se lo zoo fosse stato integrato nell'associazione negli ultimi mesi e ho ricevuto risposta negativa. Lo zoo di Fasano non è membro EAZA e non lo sarà finché non si adegua agli standard dell'associazione. Sebbene partecipi ai progetti di conservazione ex situ non rispetta ancora le normative per essere membro EAZA. Quindi, perché affermare di seguire le normative della più grande ed esemplare associazione di parchi zoologici, di cui però non fa parte? (Questa cosa é un po' strana). 2) lo zoo si giustifica dicendo che gli animali sono nati in cattività e non hanno mai avuto problemi dal 1995. GRAZIE. ci mancherebbe che fossero stati catturati in natura! E comunque il fatto di essere nati in cattività non li rende adatti a quel clima. Indipendentemente dal fatto che abbiano o meno avuto a che fare con l'ambiente polare. Si tratta di fisiologia. 3)"I nostri orsi amano stare al sole. Se non volessero sceglierebbero zone all'ombra". AH. In effetti, come non pensarci! orsi polari che vogliono stare al sole pugliese è da Guinness dei primati. Se ci fossero punti più freschi come dicono, gli orsi ci andrebbero. 4) "Tutti i Mammiferi ben si adeguano a variazioni climatiche stagionali variando appunto la tipologia e la quantità di pelo" Signori, stiamo parlando di orsi polari. Il loro clima è artico. Vivono nei mari ghiacciati e la loro temperatura corporea va in surriscaldamento superati i 10° (Stirling, Ian 1988. Polar Bears. Ann Arbor: University of Michigan Press). State davvero parlando di muta come difesa al calore per gli orsi polari? È questa la vostra conoscenza della specie ? È per questo che la IUCN ha dichiarato il rischio di estinzione per gli orsi polari a causa del surriscaldamento globale? Solo un problema di scioglimento di ghiacci secondo voi? Tanto basta cambiare il pelo, no? (International Agreement on the Conservation of Polar Bears, 15 November 1973, Oslo) 5) lo zoo afferma: "in caso di caldo risultano più pigri nelle ore diurne". Infatti, guarda che pigri. Proprio fermi, in riposo. Sono ben visibili invece le stereotipie di pacing. Tipico degli animali in cattività in cui non vengono soddisfatte le necessità etologiche e fisiologiche specie-specifiche. Il pacing viene messo in atto per produrre endorfina in casi in cui lo stress o eustress arriva a compromettere lo stato di welbeing e di welfare dell'individuo. I movimenti non sono anticipatori! Sarebbero più frenetici e si muoverebbero tutti lungo lo stesso percorso. Sono movimenti stereotipati, in risposta a situazioni stressanti, non prendiamoci in giro. (http://www.aps.uoguelph.ca/…/StereotypicAnima…/library.shtml) (https://www.youtube.com/watch?v=39aWlDKpYbk) 6) Gli orsi polari sono animali individuali. Lì sono in tre. In uno spazio ridotto in cui manifestare l'etogramma ed il repertorio comportamentale della specie è praticamente impossibile. 7) per concludere, il mantenimento degli orsi polari nelle strutture zoologiche è ormai sconsigliato dal 2014. Negli ultimi anni sono morti per cause sconosciute 4 giovani esemplari di orso polare ( Knut, Eli, Fritz, Nanuq). Le cause sembrano essere traumi, distress e patologie encefaliche. In natura le infezioni ed i virus sono le ultime cause di morte per gli orsi polari. In uno zoo si presume che almeno le condizioni sanitarie vengano controllare ed invece gli orsi polari muoiono di infezioni o per cause sconosciute. Il caldo favorisce l'insediamento di parassiti e virus, difficili da debellare per un corpo la cui fisiologia è adattato alla vita artica. La riproduzione in cattività per gli orsi polari è tra le più difficili e poco produttive che esistano. Ci sarà un motivo? Secondo lo "zoological animal welfare center of education" di Barcelona gli animali la cui ecologia ed il cui habitat sono difficili da riprodurre in cattività, non dovrebbero essere ospitati in ambienti protetti. Dite che l'ambiente artico sia facilmente riproducibile in Puglia? (¿Hay animales que se adaptan mejor que otros a la cautividad? - ZAWEC- M Salas & X Manteca). Dovrebbero camminare nel ghiaccio e nella neve. Non nel cemento pugliese. Per quanto ci si sforzi, e indubbiamente lo zoo di Fasano investe capitali umani ed economici nel buon mantenimento degli orsi polari, purtroppo questa specie non è adatta alla vita in cattività in habitat così lontani da quelli naturali. Non è colpa dei proprietari crudeli o della cattività stessa. Ma purtroppo per mantenere in salute e benessere la specie di Ursus maritimus (orso polare), non basta acqua fresca e del pesce ghiacciato. Ben che meno nella torrida estate italiana. Chiara Grasso Qualche ulteriore fonte: https://polarbearsinternational.org/polar-b…/zoos-aquariums/ http://www.nationalgeographic.it/…/orsi_polari_zoo-34596…/1/ Clubb R and Mason G (2007) Natural behavioural biology as a risk factor in carnivore welfare: how understanding species differences could help zoos readesign enclosures. Applied Animal Behaviour Science 102: 303-328. • Gosling SD and John OP (1999) Personality dimensions in non-human animals: a cross-species review. Current Directions in Psychological Sciences 8: 69-75. • Mason GJ (2010) Species difference in response to captivity: stress, welfare and the comparative method. Trends in Ecology and Evolution 25: 713-721. Aars, Jon, ed. (June 2005). 14th Working Meeting of the IUCN/SSC Polar Bear Specialist Group (PDF). 32. Nicholas J. Lunn and Andrew E. Derocher. Seattle, Washington, United States: IUCN. ISBN 2-8317-0959-8. Archived from the original (PDF) on 9 April 2008. Retrieved 19 April 2008. Rosing-Asvid, A. (2006). "The influence of climate variability on polar bear (Ursus maritimus) and ringed seal (Pusa hispida) population dynamics". Canadian Journal of Zoology. 84 (3): 357–364. doi:10.1139/z06-001. Stirling, Ian; Lunn, N. J.; Iacozza, J. (September 1999). "Long-term trends in the population ecology of polar bears in Western Hudson Bay in relation to climatic change" (PDF). Arctic. 52 (3): 294–306. doi:10.14430/arctic935. Retrieved 11 November 2007. Geo Animal Science: https://goo.gl/8pKRnx
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Zapatisti, Elezioni e CoScienze per l’Umanità
[Una necessaria corrispondenza dal Chiapas, le foto sono di Gianpa L.]
di Perez Gallo
Mentre da Ankara ad Aleppo, da Berlino ad Istambul, il 2016 si è chiuso con il sangue degli attentati e con i preludi di un possibile nuovo scontro planetario, nelle montagne del Sudest messicano le e gli zapatisti, che di quarta guerra mondiale parlano da almeno vent’anni, hanno puntato forte sull’organizzazione, affinché di fronte alla “tormenta” in arrivo quelle e quelli in basso e a sinistra possano non essere solo vittime di una carneficina, ma artefici e protagonisti di un cambiamento possibile. Lo hanno fatto a modo loro: spiazzando. È così che nel giro di dieci giorni, dal 26 di dicembre del 2016 al 4 di gennaio del 2017, hanno messo in piedi, loro indigeni spesso associati in modo stereotipato ai saperi ancestrali, alle antiche credenze religiose e a civiltà ormai defunte, un incontro internazionale sulle scienze dure: fisica, astronomia, medicina, agro-ecologia, cibernetica, ingegneria energetica. Ospiti ben 82 scienziati provenienti dal Messico e altri 10 paesi.
L’evento ha avuto come titolo “L@s Zapatististas y las ConCiencias por la Humanidad”, che gioca sul binomio scienze-coscienze per mettere le scienze al servizio di un altro progetto di mondo, tanto distante dal capitalismo quanto vicino a quella che del capitalismo è la vittima maggiore: l’umanità. E ha avuto un’interruzione tra il 31 di dicembre e il 1 gennaio, giorni in cui ha avuto luogo l’incontro del Congreso Nacional Indigena, organizzazione che include comunità afferenti tutte le 62 nazioni indigene riconosciute in Messico. In discussione la ratifica della proposta fatta sempre in Chiapas lo scorso ottobre di una candidatura indipendente alla presidenza della repubblica per le elezioni del 2018.
Entrambi questi incontri, ConCiencias e congresso del CNI, hanno dato la misura di un momento di grande vivacità e cambiamento nel movimento zapatista, che da qualche anno, dopo un periodo di rafforzamento dell’autogoverno nelle comunità, nei municipi e nelle Giunte del Buon Governo, ha portato avanti alcune iniziative pubbliche eclatanti.
Questa fase è iniziata il 21 dicembre 2012, giorno della fine del mondo secondo il calendario maya, quando 40000 maya incappucciati hanno marciato silenziosamente in alcune città del Chiapas annunciando: “E’ il suono del vostro mondo che crolla, è quello del nostro che risorge”.
Successivamente, tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, tre sessioni dell’Escuelita zapatista hanno aperto le porte delle comunità a 6000 alunne e alunni provenienti da tutto il mondo.
A maggio del 2014, dopo il vile assassinio del maestro zapatista Galeano nel caracol de La Realidad per mano di un gruppo di paramilitari, il subcomandante insurgente Marcos ha cessato di esistere, annunciando di non essere mai stato altro che un ologramma, una figura buona per i media occidentali che di fronte a una sollevazione indigena erano solo capaci di vedere la faccia di un bianco, e ha preso così il nome di subcomandante insurgente Galeano, lasciando la guida dell’EZLN nelle mani dell’altro subcomandante, Moises.
Alla fine dello stesso anno, dopo i tragici fatti di Iguala, gli zapatisti hanno invitato come ospiti d’onore al loro Festival de las Resistencias y Rebeldías contra el Capitalismo le madri e i padri dei 46 giovani “assenti” (3 uccisi e 43 desaparecidos) di Ayotzinapa.
In seguito, prima sono stati chiamati a raccolta gli intellettuali vicini allo zapatismo per la presentazione dei volumi de “Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista”, poi, nell’agosto scorso, è stato organizzato il festival delle arti CompArte, e ora, infine, sono state invitate le scienze e gli scienziati.
Ma a cosa è dovuto questo relativamente nuovo interesse degli zapatisti per le scienze dure? Il SupGaleano lo racconta così: “Alle comunità zapatiste arriva gente di tutti i tipi. La maggioranza viene a dirci quello che dobbiamo fare o no. Arriva gente, per esempio, che ci dice che è bello vivere in case con pavimento di terra e pareti di legno e fango; che è bello camminare scalzi; che tutto questo ci fa bene perché ci mette in contatto con la madre natura e riceviamo così, direttamente, gli effluvi benefici dell’armonia universale… La modernità è cattiva, dicono, e includono in essa le scarpe, il pavimento, le pareti e il tetto moderni e la scienza.”
La proposta portata avanti dagli zapatisti, dunque, è l’idea che la scienza sia solo un altro campo di lotta, un terreno su cui le e gli indigeni ribelli, senza dover abbandonare le pratiche tradizionali, la medicina naturale e gli usi e costumi, hanno diritto di costruire il proprio futuro. E che la scienza sia utile al loro cammino di autonomia. Perché la scienza – sono convinti – può venir incontro alle loro domande della vita quotidiana. Domande come: qual è la spiegazione scientifica, se le medicine chimiche curano una malattia, ma danneggiano altre parti dell’organismo? Secondo quale spiegazione scientifica animali come il gallo cantano o annunciano fenomeni o cambiamenti nella madre natura? Scientificamente gli OGM danneggiano la madre natura e gli esseri umani? E scientificamente la terra ha anticorpi come gli esseri umani? Può avere anticorpi contro il capitalismo?
In questo originale festival delle scienze, dunque, le lezioni si sono susseguite tutti i giorni, dalle dieci del mattino alle otto di sera, di fronte a cento alunne e cento alunni zapatisti, oltre a svariate centinaia di ospiti messicani e stranieri solidali e aderenti alla Sexta Declaración de la Selva Lacandona. Mentre questi ultimi erano presenti solo in qualità di “ascoltatori”, e non erano quindi autorizzati a fare domande, le e gli alunni zapatisti sono stati i veri destinatari delle lezioni, e hanno ora il difficile compito di socializzare i saperi acquisiti, in primo luogo tra loro e poi, soprattutto, di ritorno alle loro comunità, con le decine di migliaia di uomini, donne, bambini e anziani zapatisti.
Alcune di queste lezioni sono state plenarie, altre più ristrette, alcune molto specifiche e tecniche mentre altre hanno cercato di affrontare le tematiche scientifiche dal punto di vista delle loro premesse o ricadute sociali. E così molti studiosi e professori, anche di università molto celebri messicane e straniere, si sono focalizzati sui dispositivi scientifici nella meritocrazia e nella valutazione accademica, altri hanno ripreso le teorie di Thomas Khun sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche, altri ancora hanno provato a tematizzare la presunta neutralità della scienza rispetto ai dispositivi di controllo o di assoggettamento politico.
Tra i due cicli del ConCiencias, la seconda parte del quinto congresso del CNI ha portato alla ribalta l’agenda politica nazionale dell’EZLN. Nella precedente sessione congressuale di ottobre, infatti, su proposta proprio dell’EZ, il CNI aveva fatto sua l’idea di candidare per le prossime elezioni presidenziali della primavera del 2018 una donna di lingua e sangue indigeni in qualità di portavoce di un Consiglio Indigeno di Governo, i cui membri sarebbero stati scelti tra tutte le nazioni indigene appartenenti al CNI e, secondo le loro consuetudini, sarebbero stati revocabili e sostituibili nel caso non rispettassero il mandato loro assegnato dalle comunità di riferimento. La proposta, che si avvarrebbe della possibilità, aperta per la prima volta proprio da queste elezioni, che alle presidenziali possa presentarsi un candidato indipendente, ossia svincolato da qualsiasi partito politico registrato, era stata approvata dai delegati presenti ad ottobre, ma per essere ratificata doveva passare il vaglio di tutte le comunità afferenti al CNI, in accordo con il principio del “comandare ubbidendo”. E così, nel caracol di Oventik, nel primo pomeriggio del primo gennaio 2017 è stato pubblicamente dichiarato da una delegata che tale decisione era stata definitivamente approvata da 43 nazioni del CNI, mentre le restanti 19 non hanno ancora avuto il tempo di discuterla. Già negli ultimi mesi vari comunicati usciti a firma di Moises e Galeano avevano spiegato i motivi della proposta: in tutto il paese i processi di spossessamento delle terre indigene, dell’acqua, delle foreste, il saccheggio delle loro risorse e la violenza dello Stato, dei cartelli della droga e del paramilitarismo hanno spinto molte comunità a una situazione di collasso e a un vero e proprio rischio per la loro sopravvivenza. Allo stesso tempo, la crisi, la militarizzazione del Paese, la proliferazione del nacotraffico e le riforme neoliberali hanno portato la gran maggioranza della società messicana, anche quella meticcia, a un’insicurezza cronica e a un impoverimento generalizzato. Di fronte a tutto questo, era diventato necessario contrattaccare, come lo era stato per gli zapatisti il prendere le armi l’1 gennaio 1994.
Così lo ha spiegato Moises nella seduta plenaria a Oventik, facendo proprio un parallelismo con quella giornata: “Ora le condizioni del popolo messicano nelle campagne e nelle città sono peggiori di 23 anni fa. La povertà, l’esasperazione, la morte, la distruzione, non sono solo per chi ha abitato originariamente queste terre. Ora la disgrazia raggiunge tutte e tutti. La crisi colpisce anche chi si credeva in salvo e pensava che l’incubo era solo per chi vive e muore in basso. I governi vanno e vengono, di diversi colori e bandiere, e l’unica cosa che fanno è peggiorare le cose. Con le loro politiche, l’unica cosa che fanno è che la miseria, la distruzione e la morte arrivino a più persone. Ora le nostre sorelle e fratelli delle organizzazioni, quartieri, nazioni, tribù e popoli originari, organizzati nel Congreso Nacional Indígena, hanno deciso di gridare il loro ya basta.”
Una mossa disperata, dunque, e che ammette esplicitamente di non farsi illusioni sulle possibilità di vittoria in un sistema antidemocratico come quello messicano, ma che avrà senz’altro il beneficio dell’effetto sorpresa, e che proverà a coinvolgere i diversi settori in lotta nella società messicana e a fare tesoro delle ondate di mobilitazione che si sono susseguite durante gli ultimi anni: dal movimento per la pace con giustizia e dignità contro la narcoguerra di Calderón al movimento #YoSoy132 contro il monopolio televisivo e le elezioni defraudate, dalla gigantesca indignazione scaturita dal massacro dei giovani di Ayotzinapa (rappresentanti dei padres di Ayotzinapa erano presenti anche questa volta come ospiti d’onore nel caracol di Oventik) agli scioperi e blocchi stradali messi in atto da molte comunità di Chiapas e Oaxaca l’estate scorsa contro la riforma educativa promossa da Peña Nieto e repressi col sangue dal governo.
Una mossa disperata, come disperata era stata l’insurrezione del 1994, avvenuta in un periodo storico che non poteva essere più sfavorevole, con il crollo dei socialismi reali e l’imposizione del pensiero unico neo-liberista. E forse per dimostrare come per gli zapatisti non c’è un unico modo di lottare e di difendersi, e che il cambio di strategia non è un cambio di natura del loro progetto politico, la giornata del primo di gennaio si è conclusa con un’esercitazione militare, che centinaia di insurgentas e insurgentes hanno svolto sotto gli occhi incuriositi dei migliaia di presenti.
Intanto, il progetto di distruzione portato avanti dallo stato messicano continua: mentre la riforma educativa è stata temporaneamente rimandata proprio grazie alla determinazioni dei maestri riuniti nella CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores Educación), proprio all’inizio dell’anno è entrata definitivamente in vigore la privatizzazione del sistema energetico, portando a un immediato aumento del 20 per cento del prezzo della benzina. E così in questi giorni si sono diffusi in tutto il paese blocchi stradali, occupazioni delle stazioni di servizio con esproprio di benzina data in regalo ai veicoli, e distruzione dei caselli autostradali. A dieci giorni dall’investitura di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, la società messicana inizia questo 2017 in maniera combattiva. Mentre EZLN e CNI lanciano per fine maggio, in luogo ancora da stabilirsi, un’assemblea costituente, con il compito di formare il consiglio indigeno destinato al governo del Paese.
https://www.carmillaonline.com/2017/01/05/zapatisti-elezioni-e-coscienze-per-lumanita/
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🌿❤️🌿AVATAR qual'e la vera vita by Cecilia Martino. ~~Che altro è Pandora se non la “terra di mezzo” definita dagli yogin tantrici la “medesimezza”, la mitica Shambhala, il luogo liminale della Grande Soglia dove si entra in contatto con gli spiriti che altro non sono se non aspetti impalpabili e invisibili di noi. Che altro è il viaggio dell’ex marine invalido Jake Sully se non il coraggioso e inevitabilmente terrificante incontro con le sue parti più selvagge, incontrollabili, le zone d’ombra, le paure, rappresentate da Neytiri, guerriera dell’etnia Na’Vi di cui finirà per innamorarsi. E questa sarà la sua salvezza definitiva. Perché non c’è vera salvezza, guarigione e libertà più grande che quella di scegliere di amare i propri lati oscuri riconoscendoli per quello che sono: apparizioni prive di sostanza oggettiva, sogni, energie da integrare, forze da ritualizzare celebrando così il matrimonio mistico, emblema e compimento della Grande Imago, l’espressione cioè dell’incontro di luce e ombra, di vita e morte, unione per eccellenza che si trova nella radice del termine sanscrito yug, da cui deriva Yoga (unire, unificare). I due alla fine celebreranno la loro unione d’amore, lui sceglierà di rimanere a Pandora con un atto estremo di rinuncia a sé (cioè alla sua personalità, la sua vecchia vita invalidante) per darsi all’amore più pericoloso, folle, imprevisto e imprevedibile che potesse capitargli. E questo amore lo salva. “Perché la vera conoscenza si risveglia nel momento del dolore” e “perché così deve essere l’amore: improvviso, irragionevole, travolgente!” (Thónbàn Hlá) “Solo il cuore può aiutare la ragione
a compiere il sacrificio di sé,
sacrificio che è al tempo stesso
il suo trionfo e il suo compimento”
(da Yogin e Sciamano) Nel suo atto di abbandono totale all’amore – che è anche sposalizio divino con la sua parte selvaggia (la donna Na’Vi), tra maschile e femminile, razionalità e senso mistico – egli rinasce a nuova vita, la vita da Na’Vi nella terra dove a comandare è lo spirito di Eywa, laGrande Madre, dove vigono le leggi naturali del ritmo e della Bellezza, dove le piante sono fluorescenti, i rami degli alberi diventano amache, la natura rigogliosa è in uno stato di grazia supremo e i suoi abitanti custodi ne sono altrettanto nutriti, accuditi… La prima cosa che deve imparare l’Avatar-Jake non appena rimane solo per una notte intera nella foresta (la notte oscura dell’anima), è comunicare con questo Spirito della Grande Madre Eywa, ovvero con il lato invisibile delle cose, affinare i sensi, le percezioni, stare all’erta in uno stato sempre vigile perché ogni minimo passo falso quella notte sarebbe risultato fatale. È il suo momento iniziatico di Bardo, il limbo tra la vita e la morte, la discesa nel mondo infero, in Ade, ovvero nella parte più imperscrutabile e oscura di se stesso. Solo dopo il paziente addestramento di Neytiri (che rappresenta la sua anima selvaggia) quel luogo alla prima terrificante e denso di agguati, si trasformerà in un magico mondo incantato colmo di accoglienza e complicità. Con l’ascolto del richiamo della sua anima selvaggia è avvenuta la trasmutazione alchemica nel ciclo naturale Vita/Morte/Vita. La guerriera Neytiri lo addestrerà subito all’attenzione, a muoversi danzando nei ritmi della madre terra, all’ascolto dei suoni della foresta, dei piccoli e grandi rumori, di ogni minimo segnale proveniente da quel mondo ancestrale, selvatico, intriso di energie sottili, di magia ma anche di tranelli. L’attenzione è la prima qualità di qualsiasi approccio sciamanico alla vita, ovvero di comunione totale con le forze della natura. “Lo sciamanesimo è attenzione” e quello che Neytri trasmette a Jake è la capacità di intuire nell’universo la presenza di una volontà cosciente. Immancabili in questo viaggio dell’eroe verso l’accoglienza totale e definitiva della sua sposa selvaggia celeste/sotterranea, i tanti momenti di ritualità, perché il rito è riportare le cose all’equilibrio primevo quando l’ordine universale viene rotto; immancabile il momento della complicità erotica, perché l’eros è energia creativa, dionisiaca, intrinsecamente naturale; immancabili le sfide iperboliche (come quella di dover domare il mastodontico Leonopteryx Toruk, la più grande creatura volante di tutti i cieli) perché “la grandezza di un uomo non sta, forse, nel sentire la propria vacuità e nell’offrirsi ai propri limiti?” (Thónbàn Hlá). Di sicuro, una delle frasi più belle del film che suona come un potente mantra all’apice della trasformazione del nostro eroe è questa: “A volte tutta la vita si riduce ad un unico, folle gesto”. È il momento in cui l’Avatar-Jake decide di intraprendere con il sostegno di tutta la tribù dei nativi, la battaglia contro la RDA, la compagnia interplanetaria terrestre per la quale lavorava e che voleva distruggere Pandora. Nell’eroe che ha sposato il richiamo dell’anima, si compie la trasvalutazione dei valori: i nemici da abbattere non sono più i selvaggi, ma gli umani che devastano la Grande Madre. Il cammino del fare anima diviene necessariamente un cammino di ecologia profonda. Un viaggio nella Medesimezza tanto inesorabile quanto infallibile. “La medesimezza è l’acquietarsi del vento degli opposti,
il non avere paura, il non voltarsi indietro,
la forza di restare, di guardare, di vedere,
di accogliere l’esperienza che deve accadere”. (da James Hillman. Il cammino del “fare anima” e dell’ecologia profonda) È il campo di battaglia e la corsia preferenziale degli outsider coloro i quali, proprio come l’eroe di Avatar, sfidano arditamente i propri limiti, non si arrendono mai, non stanno dentro ai ruoli e ai comportamenti prestabiliti. E così compiono atti di vera rivoluzione spirituale.
Non sarà un dettaglio notare che il colore blu degli Avatar di Cameron richiama molto da vicino le raffigurazioni delle divinità del pantheon induista, e di Shiva in particolare il quale, leggenda vuole, prese su di sé il veleno di Vasuki che minacciava il mondo, tenendolo nella sua gola dove lo terrà sempre per salvare la terra. Per questo il dio è anche noto comeNilkantha, “gola blu”. Shiva è il dio tantrico per eccellenza, l’androgino (Ardhanarishvara) e il selvaggio (Bhairava) che ama frequentare i luoghi più desolati, impervi e terrificanti della natura perché egli insegna a trarre forza dalla selva e a incanalare dentro si sé le energie per sublimarle e pacificarle o per fluirle e potenziarle. Torna prepotente l’immagine della foresta – così preponderante nel film Avatar – quale dimensione sacra insieme concreta e simbolica in cui affrontare i propri demoni, accogliendoli e sfidandoli a colpi di amore. E per amore Jake decide di morire, abbandonando il suo vecchio corpo per vivere definitivamente nella sua forma di Avatar, quella che lo ha portato a una libertà più grande, universalizzando la propria coscienza nel risveglio alla divinità interiore. Il termine Avatar, d’altronde, vuol dire proprio questo: “Dio nell’uomo”. “La vera nascita è la seconda,
la vera madre è la seconda,
la vera vita è la seconda”
(dal Mantra Madre)
LIBRI DELLE CITAZIONI UTILIZZATE
Autrice: Selene Calloni Williams
Yogin e Sciamano – Guida alla Conoscenza della pratica sciamanica
Thónbàn Hlá, la leggenda
James Hillman. del “fare anima” e dell’ecologia profonda
Mantra Madre. La tradizione e le pratiche segrete del matrimonio mistico e del risveglio
Iniziazione allo Yoga Sciamanico Altri consigli di lettura
Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi
Ma gcig, Canti spirituali
Sri Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gita Tags: psicologia-immaginale visione immaginale
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Leggo libri e mi corruccio; leggo la stampa quotidiana e mi corruccio; leggo settimanali e mi corruccio; rifletto sul mio stare al mondo e mi corruccio… a volte addirittura mi faccio schifo direttamente in quanto membro di questa razza umana ed al suo interno in quanto privilegiato consumatore di risorse. A che cacchio serviamo noialtri umani, intendo l’immenso fardello dei miliardi di formiconi sganascianti che siamo? A che serviamo noi? Affinché la civiltà vada avanti e la razza prosperi non serve che il pianeta venga ricoperto per intero dallo sciame fittissimo dei gorilloni sapientes che distruggono e divorano tutto quello su cui si posano, non serve, non è strettamente necessario. Ecologia e ragione vorrebbero che ci limitassimo ad occupare uno spazio giusto, proporzionale, accettabile in luogo di questo espandersi inarrestabile del dominio umano sulla natura.
A che servo io? A che giovo con la mia esistenza? Non dico per la stretta cerchia di parenti ed amici per cui il mio volto rappresenta una storia ed una familiarità consolidata, bensì per il pianeta, per l’ecosistema Terra? Io non ho giustificazioni vere e profonde, non rappresento un investimento importante per la mia razza, la mia opera non ha particolare valore né per l’ambiente né per i miei consimili. Mi limito a vivere e a consumare la mia parte di beni e servizi, di prodotti della terra ed aria. Do poco in cambio se non il mio lavoro e qualche chilo di merda ed urina ogni mese che, sospetto, rappresenti più un problema di smaltimento che un’opportunità di arricchimento per il pianeta. A petto di tutto ciò mangio e bevo come un bove, sporco e lordo il mondo, mi approfitto per quanto posso o mi permettono del lavoro altrui e dell’indigenza altrui così come lascio che si approfittino senza nulla fare del mio lavoro e della mia indigenza, grande o piccola che sia. Sono una merdina e mi faccio oggettivamente schifo.
Non scrivo quanto sopra afflitto da inguaribile spleen o da insondabilmente profondo umor nero e non mi considero neanche lontanamente il peggiore esemplare umano possibile. Molto più semplicemente condivido la medesima condizione umana con qualche miliardo di miei simili. Facciamo schifo, non nascondiamocelo. Ci stiamo divorando questo pianeta senza vergogna, come se non ci fosse più un domani e potessimo in leggerezza mandare al diavolo Sansone con tutti i Filistei. In nome di cosa? La sopravvivenza? No, non diciamo fesserie. In nome della nuda e pura avidità divorante dei demoni immondi che siamo.
Alla fine è solo una questione di potere e di auto-affermazione: ci strangozziamo il pianeta giù per il gargarozzo perché possiamo, siamo in grado di farlo, vogliamo farlo. Si tratta di una potentissima pulsione sociale, oscura e dominante, onnipotente, egemone, autonoma e sovrana tanto nelle società in cui viviamo quanto nell’individuale anima nostra, noi siamo lo specchio della società, noi facciamo schifo e la ragione, detto in direttissima e senza infingimenti, vorrebbe che ci suicidassimo collettivamente per raddrizzare lo scompenso universale, vorrebbe…
E mo’, siccome ci ho ‘st’umor nero che mi uggia mi sa che mi mangio qualcosina per distrarmi, magari riesco a sterminare un po’ di brutti pensieri affogandoli nello zucchero… sono squallido, ve l’ho già detto.
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Gli opposti estremismi Esistono due tipi di visioni, quando si parla di animalismo o ecologia radicale. La prima considera gli esseri umani come una specie di peste da eliminare, un virus letale che annienta tutto quello che tocca, mentre l'altra vede gli uomini come una specie superiore con una priorita' su tutte le altre. Stranamente le visioni dei poli opposti dello spettro ecologico ed animalista nascono entrambi dalla stessa idea errata e specista che gli uomini sono al di fuori della natura. Entrambe vedono l'umanita' dagli stretti confini dell'addomesticamento. Ci vantiamo della nostra immaginazione. Possiamo inventarci imperi galattici, universi alternativi e la nostra letteratura e' piena di visioni fantastiche. Cio' nonostante sembrano tutte rispecchiare le nostre societa'. Sono tutte adattamenti di qualcosa che gia' esiste, solo raramente esce qualcuno con idee veramente innovative. Non e' quindi sorprendente che non riusciamo a trovare soluzioni al problema di come vivere in modo differente, un requisito essenziale per la nostra sopravvivenza, sembriamo incapaci di immaginare altro che piccole modifiche al mondo gia' esistente. Sono evidentemente tutte e due, visioni, profondamente sbagliate. Forse se riuscissimo ad ascoltare l'universo mondo che ci circonda, le sue peculiarita', le sue differenze insite in ogni specie, forse impareremmo la tolleranza, la comprensione e l'altruismo, forse. Olmo (presso Planet Earth)
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