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primepaginequotidiani · 4 days ago
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PRIMA PAGINA Il Centro di Oggi lunedì, 20 gennaio 2025
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soffroeppuremivienedaridere · 7 months ago
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In queste periodo le insicurezze mi stanno divorando più del solito.
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cuoreenero · 5 months ago
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A me sembra di non viverli questi giorni, riesco soltanto a pensare a quanto io non stia vivendo questa vita. L’ansia mi sta divorando e cercare di non piangere diventa sempre piú difficile. Piú penso e piú non dormo e, di conseguenza, piú l’ansia aumenta. Sono un disastro, un fallimento.
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quartafuga · 5 months ago
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A settembre inizio a scuola a fare il lavoro che sogno da una vita e la sindrome dell'impostore mi sta divorando dall'interno da giorni. È la prima volta in assoluto per me e sono certa che non sarò in grado di gestire le classi, i colleghi, la didattica, i rapporti umani. Come fanno quelle persone che anche conscie di star partendo da zero sono così sicure, fiduciose, serene? A volte sono stanca di essere me
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quelmaredeimieiocchi · 6 months ago
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Quando ti ho conosciuto avevo 14 anni, ero una bambina ma ti ho amato dal primo sguardo, da quel sorriso che ci siamo scambiati, da quel "Ciao, come stai?" che mi hai sussurrato, sottovoce.
Ti ho giurato amore dal primo istante. Era la prima volta anche per me: le farfalle nello stomaco, il formicolio sulle dita, il cuore finalmente sereno. Sì, era la prima volta anche per me, ma l'ho sentito forte e chiaro: il mio cuore batteva.
Era la prima volta che mi sentivo forte, e viva.
Quando sei andato via non mi sono sentita solo sola, no, ma completamente persa. Quella fame di te mi si stava divorando dentro, senza lasciar spazio più a nulla. Ho costruito intorno a me muri su muri per proteggermi, mi cercavo ovunque ma non ero da nessuna parte... fino a quando mi sono ritrovata poi nella mia stessa prigione: una gabbia dal quale non si fugge, un labirinto senza via d'uscita. E poi ci ho fatto amicizia, è diventata casa mia. Un luogo sicuro da cui non penetrava un filo di luce, e di aria.
Con l'andare del tempo ho avuto modo di prendere consapevolezza di ciò che mi stava succedendo. Ti ho cercato, perdutamente. E perdutamente ho provato a scordarmi di quella sete di te. Perdutamente annegavo nella valle di lacrime che avevo pianto, e navigavo fra le onde, senza meta, dolcemente. Senza la mia perfetta metà, tu mi completi.
Ti ho amato sottovoce e senza volerlo, ti ho amato con tutti contro, compresa me stessa. E ti ho difeso nonostante la prima ad essere colpita ero stata proprio io. Non eri un mio nemico, ma un mio intimo amico.
Ad oggi, quel rumore è ancora cieco, e assordante, dentro me. Un suono dolce che mi accompagna durante il giorno, ed una ninna nanna che mi culla la sera.
Il desiderio è ancora forte Jhon. Dimenticarti per me è inconcepibile, o meglio, lo è per il mio cuore, per la mia mente, per quei sogni nel cassetto di cui non trovo più la chiave.
Sono trascorsi secoli dall'ultima volta, ma gli anni non potranno mai cancellare quello che è stato. Io ti aspetto ancora, dietro questo muro so che ci sei, ovunque tu sia, la mia mano è quì.
Croce sul cuore.
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crazy-so-na-sega · 11 months ago
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la logica del gusto
Lui: [entra trafelato in pasticceria; si alliscia i favoriti] Vorrei un cannolo ripieno. Che gusti ha?
Commesso: Crema o caffè.
Lui: Allora crema, grazie.
Commesso: Aspetti, c'è anche il ripieno alla cioccolata.
Lui: Ah, davvero? In tal caso cambio idea.
Commesso: Comandi. Eccole il cannolo alla cioccolata.
Lui: Cioccolata? Che cosa le fa pensare che mi interessi?
Commesso [perplesso]: Ma come, ha appena detto che ha cambiato idea...
Lui: Infatti non voglio più il cannolo alla crema: me ne dia uno al caffè.
Ficcanaso [fingeva di interessarsi al banco delle meringhe; in realtà ascoltava con attenzione] MI scusi, ma il suo comportamento è irrazionale.
Lui: Come si permette?
Ficcanaso: Tra crema e caffè aveva scelto la crema. Le offrono una terza possibilità, la cioccolata, e lei ci vuole far credere che adesso preferisce il caffè? La cioccolata è irrilevante per la sua scelta tra crema e caffè.
Commesso [titubante] Guardi, ho appena sfornato anche dei cannoli alla ricotta.
Lui: davvero? Allora mi dia quello alla cioccolata. La ricotta non mi interessa affatto. Siete contenti adesso? Se proprio ci tenevate, eccovi serviti: prendo la cioccolata.
Ficcanaso: Lei mi sembra un caso disperato.
Lui: Ma che c'è di male? Capita a tutti di cambiare idea, no?
Ficcanaso: Si, però di solito si cambia idea per una ragione. Come la comparsa della cioccolata non è una buona ragione per cambiare da crema e caffè, così la comparsa della ricotta non è una buona ragione per cambiare da caffè a cioccolata.
Lui: Non è una buona ragione? Lo dice lei. Se non avessi saputo che c'era la ricotta, mai e poi mai avrei deciso di passare alla cioccolata!
Commesso: [sottovoce] Lo lasci parlare. Mi sembra molto strano.
Ficcanaso: [neanche tanto sottovoce] Strano, si. Di solito si pensa che la razionalità sia una faccenda di logica. Se uno dice "Piove, ma non piove affatto" abbiamo motivo di preoccuparci: asserire con convinzione una contraddizione è sragionare. Ma la logica non è tutto. Ci sono forme di razionalità che riguardano il modo in cui organizziamo le nostre preferenze. Il signore qui presente ci sembra poco ragionevole proprio perché non riesce a ordinare le sue preferenze usando in modo pertinente le informazioni che riceve. E potrebbe essere irrazionale in molti altri modi che non hanno a che fare direttamente con la logica. Per esempio, le sue preferenze potrebbero non essere transitive.
Lui: [ha finito il cannolo alla cioccolata e sta divorando quello alla crema] Devo dire che questo con la crema è decisamente più buono di quello alla cioccolata. Mi farebbe provare anche quello al caffè, a questo punto? [lo assaggia] Ah, fantastico. Molto meglio di quello alla crema. Però direi anche che è nettamente inferiore al cannolo alla cioccolata.
Ficcanaso: [facendosi schermo con la mano] Che le avevo detto? Le preferenze del signore non sono transitive. Preferisce crema a cioccolata e caffè a crema. E poi ci dice che il caffè è "nettamente inferiore" alla cioccolata.
Lui: Ma quanto la fa difficile! MI creda, questo cannolo alla crema è davvero migliore di quello alla cioccolata. E le dirò di più: è assolutamente chiaro che quello alla cioccolata è ancora meglio. Ecco, li assaggi!
Ficcanaso: Ci manca solo che mi dica che quello alla crema è più buono di se stesso.
Lui: Quello alla crema è molto più buono di se stesso. E' talmente più buono di se stesso che è persino più buono di quello al caffè!
R. Casati A. Varzi ( 100 nuove storie filosofiche semplicemente diaboliche)
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miciagalattica · 12 days ago
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Un sogno che sembrava troppo reale
PARTE QUINTA
Valgono le stesse avvertenze descritte nella parte prima.
La mattina dopo, mi svegliai, mi stiracchiai, rotolai giù dal letto e dissi a voce alta: "Mi sento benissimo! Non posso credere di aver fatto una cosa del genere ".  Nonostante il senso di colpa e della vergogna mi sentivo  come una dea. Vidi l’orologio, era tardi, avevo un appuntamento con due amiche che dovevano venire a prendermi per andare a giocare a tennis. Avevo solo quaranta minuti di tempo per prepararmi. Mi feci una doccia per lavarmi quanto di Dicky aveva lasciato in me, indossai la tenuta da tennis e scesi per uscire, ma Dicky appena mi sentì fu subito al mio fianco. Gli dissi che ora non era il momento perché ero in ritardo. Non mi sentì proprio, e spinse il muso contro il mio inguine. Dicky leccò con molta insistenza. Lo avrei lasciato leccare ancora un po’, ma la sua irruenza fu tale che mi fece cadere sul pavimento. Mi sentivo bagnatissima, cercai di reagire, ma ogni tentativo fu vano. Dicky non smetteva di leccare facendomi venire i brividi lungo la schiena. Mi rigirai per potermi alzare, ma il cane non me lo permise mi saltò sulla schiena sentii il suo cazzo duro che cercava di entrare, gli urlai che non avevo tempo per questo. Il suo cazzo trovava l’ostacolo delle mie mutandine. Poiché non voleva desistere ed io ero impossibilitata a muovermi con lui su di me, mi tolsi le mutandine, per facilitargli il compito. Non ne potevo più,  inoltre ero completamente fracida. Lo sentii scivolare dentro di me. Ero preda di una sensazione paradisiaca, sentii una fitta quando spinse il suo nodo dentro di me. Ora ero proprio bloccata, ero legata a lui indissolubilmente. Il mio sguardo ricadde sull’orologio a parete, andai nel panico sapendo che le sue amiche tra poco sarebbero arrivate a casa. Avevo solo dieci minuti, lottai contro il cane, ma non riuscivo a farci niente Dicky era troppo grande e forte. La mia unica speranza era che facessero tardi, la puntualità non era il loro forte.  Mi abbandonai a lui, non opposi nessuna resistenza, sentii il suo cazzo esplodere dentro di me,  Il suo caldo carico di sperma mi inondò, venni con lui nello stesso preciso istante. Ormai non m’importava più nulla. I minuti passavano ed io ero bloccata dal suo nodo gonfio, ancora un altro po’ e si sarebbe sgonfiato. Pregavo che succedesse nel più breve tempo possibile, sentii squillare il mio cellulare, erano le mie amiche che grazie a dio avevano tardato, sicuramente mi stavano chiamando per dirmi di scendere. Mi dimenai cercando di districarmi mentre il panico mi stava divorando, ormai erano passati venti minuti e Dicky era pronto a liberarmi da quella morsa, un ultimo sforzo e riuscii a farlo uscire. Mi alzai di scatto ripresi le mutandine e le indossai freneticamente. Le mie amiche bussarono alla porta, appena in tempo, ero in uno stato di agitazione, ero rossa in viso perché ero mortificata per quello che avevo appena fatto. Mi presero in giro perché allusero al fatto che nascondevo qualcuno  in casa. Dissi la prima cosa che mi venne in mente, dissi che avevo dormito troppo. In auto mi sedetti sul sedile posteriore.
Le mie amiche spettegolavano ma io ero con la mente altrove, stavo pensando a Dicky, al suo grosso cazzo e sentivo il ricordo dei graffi sui fianchi, dove le sue zampe mi avevano tenuta e controllata. All’improvviso mi resi conto che ero fracida e che stavano iniziando ad uscire i liquidi che il cane mi aveva donato. Rabbrividii, ero totalmente imbarazzata, il mio viso era in fiamme. Proprio in quel momento arrivammo al circolo di tennis, scesi di corsa dall’auto, la mia speranza era che non mi gocciolasse lungo la gamba. Speravo che iniziassero a colare mentre stavo giocando, cosi da confondersi con il sudore. Mi davo molto da fare a correre per sudare, Il cuore andava a mille, stavo custodendo un segreto molto proibito. Solo pochi minuti prima era stata legata impotente a un cane grosso ed esigente mentre lui prendeva il pieno e completo possesso sessuale del mio corpo e mi riempiva con il suo caldo sperma. Stavo giocando malissimo, non ero per niente concentrata. La mia amica era infastidita, sbagliavo dei tiri facili. Mi rimproverò duramente e mi chiese dove avessi la testa. La mia mente vagava nel magma di eventi che avevano trasformato la mia vita. A quei tabù che avevo infranto, a quello che era successo appena un’ora prima quando ero  stesa sul pavimento,  in sostanza costretta e forzata dal mio cane. In cuor mio sapevo che non era vero, ero stata io che glielo avevo permesso e che ho lasciato che mi scopasse. Al solo pensiero i capezzoli mi s’indurivano. Nonostante m’imponessi di concentrarmi sul gioco, non ci riuscivo. Il ricordo del suo incontro proibito penetrava nelle mie mutandine. Ansimavo di lussuria, la mia compagna di gioco iniziò a preoccuparsi, non mi aveva mai vista così. Cercai di rassicurarla, ma i miei capezzoli sempre più duri stavano smentendo quanto dicevo. In qualche modo ho terminato la partita. Il viaggio verso casa durò un’eternità, avevo paura di tradirmi. Appena arrivata  a casa, le salutai velocemente e corsi verso la porta e con le mani tremanti cercai le chiavi di casa, una volta accertatomi che l’auto fosse partita entrai.
Avevo solo una cosa in mente, Dicky era lì ad aspettarmi felicissimo di vedermi, la prova rosa faceva capolino sotto di lui. Mi strappai tutto di dosso e mi lasciai cadere sul pavimento, spinsi il sedere in alto, mi sentivo una cagna in calore. Tremavo di lussuria mentre sentivo le sue zampe che montavano sulla schiena, il suo peso mi spingeva giù. A sua durezza mi cercava, la trovava, la prendeva, lo sentii spingere dentro di me, venni quasi immediatamente, urlavo che ne volevo di più e ancora di più. Sentii il suo nodo spingersi contro cercando di adattarsi completamente a me. Mi strinsi a lui quasi istintivamente, un'altra grande spinta, e sentii il cuore battere forte, mentre Dicky me lo spingeva dentro. Sembrava che me lo stesse spingendo fino in fondo allo stomaco. Il mio respiro si fermò e sentii un altro enorme orgasmo prendermi. Giacevo ansimante, mentre le spinte di Dicky rallentavano e sentivo il suo calore ribollire dentro di me. Provai a muovermi, cercando una posizione più comoda. Dicky era pesante ed ero bloccata dal suo cazzo. Il pensiero era cosi erotico per aver rotto quel tabù che venni di nuovo mentre mi sentivo riempire dalla sua venuta. Immaginavo il suo sperma che si riversava dentro di me, io impregnata dalla bestia. A quel pensiero proibito e innaturale mi sentii strappata a un altro violento orgasmo. Mi sentivo totalmente posseduta, ero la sua  femmina totale. Dicky finalmente fini, il tempo che rimanemmo accoppiati mi sembrò interminabile. Rimasi sul pavimento ansimando, esausta ma totalmente soddisfatta, i miei pensieri si affievolirono. Non potevo altro che ammetterlo era stato favoloso. Avevo oltrepassato qualsiasi limite nella mia mente. Dicky aveva premuto tutti i pulsanti e lo sapevo. Sapevo che lo avrei fatto di nuovo. Sapevo che Dicky mi avrebbe voluta di nuovo... presto. E sapeva che glielo avrei permesso. Feci subito una doccia per togliermi di dosso la prova del completo possesso di Dicky, ma quello che non riuscivo a lavare era il ricordo di quello che avevo appena fatto. Feci delle faccende domestiche, ma vagavo senza una meta, non riuscivo a calmarmi, pensavo incessantemente che ero in preda al sesso. Dicky mi seguiva per tutta la casa, sempre alle calcagna, quando voleva mi avvicinava il suo muso, ed io immancabilmente lo respingevo ridendo. Ero troppo felice. Eravamo come sposi novelli. Mi sentivo un po’ in colpa per quel pensiero, ora la mia testa era prigioniera della relazione proibita con Dicky, ero diventata la sua puttana.
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unaragazzadaicapellimossi · 8 months ago
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l'ansia sociale mi sta divorando
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trovoriparonellasolitudine · 5 months ago
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+27!
È il mio compleanno ma sento una fortissima ansia e pressione addosso come non mai...
Sento come se il tempo avanza ma io sono rimasta indietro ferma immobile e tutto quello che mi ero prefissata è ancora la ma io sono qui che lo vedo scivolare via come gli anni che passano.
Ho un vuoto dentro che mi sta divorando... tutti sono felici quando arriva il loro compleanno io invece no, anzi spero sempre non arrivi mai perché sento un anno in più che si somma ma niente che si realizza
E più passano gli anni e meno sono le persone a cui voglio bene con cui passare questo giorno, quindi ogni anno diventa sempre più triste
Cercherò di far passare anche quest'anno con la speranza che qualcosa migliori...
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animadiicristallo · 6 months ago
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mi sta divorando l'ansia
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be-appy-71 · 9 months ago
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Non potevano vedersi.
Non potevano toccarsi.
E non potevano
giocare all'amore
come avevano fatto
dal primo momento
in cui si erano conosciuti.
Sorridere e mostrarsi felici,
non serviva a nulla.
Insieme, loro due,
erano gli estremi di un elastico.
Più cercavano di non pensarsi,
cercando di fare altro
e allontanando il pensiero,
e più l'elastico
li faceva scontrare di nuovo.
Più forte di prima.
E quell'amore tanto bello,
quanto meraviglioso
che non potevano vivere,
li stava divorando...
Ogni giorno un po' di più.
Era come una bestia
dentro i loro corpi.
La gente doveva solo
guardarli ridere insieme
e dormire abbracciati,
per capire che,
queste due anime,
per essere felici,
altro non chiedevano,
che di restare insieme.
Di appartenersi. Per sempre.
Contro tutti e tutto... ♠️🔥
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Claudio Del Pizzo
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entropiceye · 1 year ago
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Ultimamente mi rendo conto di non riuscire ad esternare le mie emozioni. E' una cosa più forte di me. Mi filtro sempre un po', perché dentro la mia testa si sta facendo davvero tanto buio e quand'è così, ho paura di raccontarlo. Un po' perché temo che le persone mi lascino; un po' per evitare di ascoltare consigli non richiesti o giudizi e svalutazioni, un po' perché parlare di quelle cose, dare loro un corpo attraverso la voce ed esternarle... Le rende in un certo senso più reali e spaventose. Finché rimangono in testa be', puoi sempre cercare di metterle da parte (non sempre e sicuramente non senza un grosso sforzo mentale). Mi rendo conto di essere molto stanca e demotivata. Sono spesso triste, con le lacrime pronte a scorrermi giù dagli occhi. Dormo male, dilaniata dall'ansia di dover fare tante cose, che poi puntualmente rimando perché non riesco a concentrarmi come vorrei e dovrei. Mi sento in colpa per questo eppure non riesco a fare chissà quanto per evitare di ricadere sugli stessi errori. Mi sembra di cercare di esserci per tutti (in famiglia, al lavoro, con le amicizie), meno che per me. Mi sento in colpa perché sento che sto riversando tutta la mia negatività e il mio senso di solitudine sull'unica persona di cui mi importa davvero. Mi vede sempre triste e stressata e io non vorrei questo... Vorrei riuscire ad essere presente quando sono con lui, invece che con la testa sovraffollata. Ieri mi sono abbuffata di nuovo. Non avevo nemmeno fame, volevo solo smettere di pensare. Volevo farmi del male e quello era il modo meno drastico che mi veniva in mente. Penso al mio corpo che cambia e che mi piace sempre meno, penso all'inverno e al fatto che probabilmente molti vestiti non mi andranno più. Penso all'umiliazione inevitabile che sarà dover chiedere dei soldi ai miei genitori per comprare qualcosa che mi entri (al punto che magari finirò per indossare sempre gli stessi vestiti proprio per dover evitare di farlo). Penso di essere un fallimento. Dopo anni di sforzi, di soldi spesi in terapie sono ancora qua ad abbuffarmi di nascosto. Probabilmente se non facesse troppo caldo per le maniche lunghe avrei reagito diversamente e la cosa ancora più folle e disturbante, è che una vocina nella mia testa afferma che sarebbe stato sicuramente meglio, perché almeno così avrei evitato di ingozzarmi e ingrassare. Ah, mi sono sentita male ovviamente. Mi sono addormentata per cercare di sfuggire ai crampi, senza neppure mettere le lenzuola sul letto. Più tardi è rientrata la mia coinquilina e mi ha svegliata per parlare, è un momento difficile per lei. Io riuscivo solo a pensare al senso di vergogna che mi stava divorando. Ho cercato di essere una buona amica, l'ho ascoltata e rassicurata, ho persino atteso che si addormentasse, ma la mia testa è sempre altrove, sempre lì, su quel pensiero maledetto. Quando pensi al suicidio come fai a dirlo? L'ultima volta dirlo è servito solo a farmi guardare con sospetto, a essere controllata a vista, ingannata e per poco pure rinchiusa. Altre volte è servito solo a far realizzare a qualcuno che ero troppo piena di problemi e che perciò era meglio lasciarmi perdere. So che certi pensieri li avrò sempre di tanto in tanto. Ma ultimante sono persistenti e accompagnati da impulsività. Sento che sta andando male di nuovo e ho bisogno di aiuto.
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animatormentata · 7 months ago
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Ho sonno ma ho anche un senso di irrequietezza e ansia che mi stanno divorando
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inoverdosediillusioni · 10 months ago
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l'ansia mi sta divorando
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kyda · 9 months ago
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sto divorando in un pomeriggio un libro che avevo lasciato a metà a gennaio
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sciatu · 10 months ago
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DENTRO IL TUO BUIO (solo chi ti ama viene a cercarti nel tuo buio)
Sentì il buio diventare denso, viscoso, solido, trasformarsi in un senso di oppressione assassina che aumentava , rubandogli il fiato che sentì gli stava mancando mentre quelle oscure sabbie mobili nell’inghiottire la sua anima, diventavano un enorme peso che schiacciava il suo cuore impedendogli di battere. Annaspò cercando aria fresca ma non riusciva a respirare, mentre il senso di angoscia aumentava diventando quasi solido e tangibile come una lastra di granito tagliente come ossidiana scheggiata che lo stava coprendo, schiacciandolo dentro una buca non più larga del suo respiro. Cercò di calmarsi, per vincere quella colata di opprimente paura che stava coprendo la sua bocca, il suo naso, occludendo ogni via attraverso cui l’aria poteva entrare e la vita continuare, arrivando fino al suo cervello per divorare la sua coscienza, il suo essere, la sua anima. Sentiva il sudore freddo che gli scendeva dalle tempie lasciandogli la sensazione di una gelida e mortale carezza, un gelido sudario che aderiva al suo volto ed alle sue spalle impedendogli di respirare, mentre in lui un male oscuro cresceva a comprimergli ogni organo da cui il suo essere dipendeva, divorando i polmoni che non ricevevano aria, il cuore dentro cui il sangue si stava coagulando,  una horcinus orca impietosa e crudele,  un virus maligno che infettava il suo sangue e divorava ogni suo tessuto, una lebbra al cui tocco ogni parte del suo corpo appassiva morendo e imputridendo. Cercò di aprire gli occhi ma si ricordò che non poteva perché aveva avuto l’incidente ed ora, non vedeva più, non poteva più vedere niente e nessuno, per sempre e capì che era questo il motivo per cui si sentiva chiuso vivo in una bara in cui non poteva neanche muoversi,  anche se avesse potuto urlare, nessuno, l’avrebbe potuto sentire o vedere ed aiutare, nessuno in quell’eterno buio in cui era, si sarebbe occupato del suo dolore. Nessuno. Per sempre. Si alzò di scatto sul letto, ansimando come se l’aria fosse finita e lentamente si mise in piedi  camminando nel suo buio assoluto e fuggendo da quel letto che gli sembrava ormai un sepolcro violato, uno di quei tavoli operatori dove tra l’odore di etere e di disinfettante avevano ricamato il suo corpo con aghi di bestemmie e fili di lacrime. Si avventurò nella camera da letto e poi nel piccolo corridoio e quindi nel salotto, con le mani protese in avanti ad evitare ostacoli che non sapeva, urtando con i piedi oggetti che non riconosceva, spigoli che non aveva ancora memorizzato in quei vani tentativi di vivere malgrado il buio che lo circondava. Muoveva lentamente i piedi, facendoli scivolare sul pavimento freddo, sempre ansimando, sempre con quella sensazione di angoscia profonda che lo opprimeva con gratuita cattiveria , come se la morte fosse li, dietro di lui, a seguirlo ghignando divertita nel vedere quella sua goffa camminata da zombie, nel mettergli tra i piedi ostacoli sconosciuti, paure mai dimenticate e nuovi dolori sottili come vetro scheggiato. Raggiunse la vetrata che dava sul terrazzo e l’ aprì uscendo fuori, verso la notte,  investito dal vento umido del mare, dal suo lungo respiro salato, dal sibilo della sabbia che seguiva le onde nel loro tornare, dall’abbaiare lontano dei cani e dal profumo dei gelsomini appena dischiusi. Arrivò alla ringhiera che delimitava la terrazza e vi si aggrappò sentendo il metallo freddo e la vernice smangiata dal sale. Respirò a pieni polmoni quell’aria fredda che  scendeva nella gola come fosse una ondata marina che tutto travolgeva distruggendo e ricreando. Era una ringhiera piccola per uno grande e grosso come lui. Sarebbe bastato sporgersi e lasciarsi andare nel vuoto e la sua angoscia sarebbe finita per sempre. Nel buio.
“Amorre guarda chi ti è venuto a trovare qui in clinica : il signor Calabrò! Te lo ricordi”
“ Si, il capomastro del cantiere. Sono cieco e paralizzato, ma non sono rincretinito”
“Ingegnè come andiamo, per quel po' che si vede tra le fasce ha un bel colorito”
“sono gli anticogulanti non la salute che migliora”
“Amorre, il signor Calabrò ti ha portato i cannoli”
“ingegnè, lo so che non ne può mangiare ma i ragazzi hanno insistito che ci puttassi nu penseru”
“e come stanno?”
“ingegnè la vogliono ringraziare se non era per lei a loro ci avianu già cantatu u deprofundis”
“non è che io sia tanto di più in là…”
“ che dice ingegnè u peggiu è sempri a cu mori e ringraziannu a Madonna, lei jè ancora ca cu nui! Quannu ci fu du bottu, u sangu mi siccoi, e mi dissi “Muriu” quannu u visti da nterra, cu tuttu du sangu e a cammicia strazzata e chi rispirava ancora, mi dissi “ A Madonna i Tindari ni fici u miraculu”
“Orbu e paraliticu, fici menzu miraculu: chi  campu a fari? Farei prima a buttarmi dalla finestra e farla finita”
Senti la mano di Anja che stringeva la sua
“amorre che dici  Sei vivo, ci sono io, e tutti ti vogliono bene, vedi che il signor Calabrò è venuto a trovarti, i ragazzi ti salutano e non ti dimenticano. E poi lo sai, io senza te non ci so stare, ti seguirò dovunque andrai: quello che farai tu … lo farò anch’io”
Ci fù un attimo di silenzio imbarazzato
“Ingegnè ma chi dice, a vita è buttana ma è sempre vita”
“su non pensare queste cose brutte! Signor Calabrò per favore, può stare cinque minuti con lui che vado a parlare con il fisioterapista?”
“Annassi signorina…, cioe signora che sto io con l’ingegnere”
Senti un bacio e i passi di Anja che si allontanavano
“ ingegnè lei non l’avi dire si cosi, chi so mugghieri ci resta mali, e poi idda pari na carusa, na cosa “sciuscia chi bola” ma è na liunissa, na fimmina i ferru, ha statu sempre ca cu lei  jonnu e notti, no lassoi nu minutu secunnu! – e aggiunse parlando lentamente per sottolineare quello che stava dicendo -  Ingegnè, ciu dicu pi quantu rispettu ci pottu, vaddassi chi so mugghieri, chiddu chi dici,… u fa…”
“lo so Calabrò, … lo so”
Con le mani seguì la ringhiera fino a dove finiva attaccandosi al muro della casa. Si spostò di un passo verso l’interno e toccò il dondolo disposto contro un lato della terrazza protetto dal vento dal muro della casa adiacente. Andò a sedersi su quell’instabile sedile continuando a riempire i polmoni di aria della notte per sentirsi ancora all’aperto in un grande spazio, lontano dalla bara in cui si era sentito rinchiuso ed ancora, per quel che importava, vivo.
“Forse devo pregare, perché questi possono essere i miei ultimi istanti. Ma pregare chi? Chi mi ha dato un buon lavoro, una vita sana, Anja e poi mi ha levato tutto, accecandomi, riducendomi come Giobbe, chiuso dentro la balena,  dentro la mia oscura bara? No, è inutile pregare. Devo fare qualche cosa d’altro. Devo pensare ai momenti felici della mia vita, come quando mi sono laureato, o la prima volta che mi hanno dato da seguire un grosso progetto, o quando ho incontrato per la prima volta Anja … ma quello non è stato un momento felice, ma solo un momento, senza importanza, quando sono entrato nel bar del grande albergo dell’est europeo, pieno di business man che sembravano mafiosi e di escort che ti avrebbero tagliato la gola sorridendo e li l’ho incontrata. Ora mi sembra assurdo ma quello era il mio ambiente di trasfertista tecnologico, abituato a posti peggiori, come gli alberghi del Sudamerica o le strade della Nigeria dove vai a pisciare protetto dalla guardia del corpo. Il capo mi aveva sollecitato un email ed ero entrato velocemente nel bar per spedirgliela. Un cameriere alto a allampatu con un riporto di capelli che andavano dall’orecchio sinistro a quello destro venne a prendere l’ordinazione. Poi arrivò Anja, con un enorme pantalone lungo nero, il gilet bordò dei camerieri su una enorme camicia bianca e un papillon nero e storto. Lei magra, e minuta, i capelli biondi raccoltti in una lunga coda, anche se alta non riusciva a riempire la divisa standard dell’albergo. Attraversò la distanza tra il bancone e il mio tavolo lentamente, con il vassoio tenuto con entrambe le mani, osservando preoccupata il bicchiere di acqua tonica che ad ogni suo passo ondeggiava. Con quei suoi vestiti fuori taglia sembrava un clown che imitava un cameriere. L’osservai stupito.
“vadda a chista cà”
Pensai sorpreso dalla sua inesperienza, preoccupato che all’arrivo mi rovesciasse il bicchiere sul computer dove stavo guardando le e-mail. Invece arrivò e con abilità depose il bicchiere sul tavolino dicendo qualcosa nella sua lingua.
“Thanks”
Risposi sollevato.
In quel momento dal mio cellulare partì la suoneria con Maria Callas che, finita la prima quartina di Casta Diva, intonava il crescendo che trasformava l’aria che cantava in un celeste acuto, qualcosa di incredibile che mi fa venire i brividi ogni volta che lo sento. Risposi velocemente perché quell’ acuto dell’immortale, malgrado la sua aerea soavità, squarciò la quiete del bar come una cannonata. Mi dimenticai di lei rispondendo al capo che mi sollecitava impaziente, l’email. Quando finii la discussione me la vidi ancora di fronte che mi osservava rapita
“Era un’opera, vero?”
Chiese perdendo ogni servile formalità
“Era la Casta Diva dalla Norma di Bellini, la conosci?”
Scosse la testa e con gli occhi stupiti da quel soave acuto chiese ancora
“e lei che cantava, chi era?”
“Come chi era – feci sorridendo  – la divina: la Callas!”
Sorrise
“Il mio professore al conservatorio me ne ha parlato, diceva che era brava”
“Non era brava, era sublime - poi mi fermai a pensare – ma parli Italiano?”
Lei sorrise
“Io vado ogni anno in Italia, a Bellaria, per lavoro, faccio  la cameriera negli alberghi o ristoranti”
“Ah, e dov’è Bellaria?”
“Vicino Cesenatico. Conosci?”
“poco, io sono siciliano”
“Ah come Fiorello – sorrise – lui molto bravo”
Aspettò che firmassi il foglio della consumazione e restò a guardarmi. Pensai che volesse la mancia e cercai in tasca
“no, no – mi fece subito e sottovoce aggiunse – posso risentire la sua voce?”
La guardai perché non avevo capito
“La voce della Callas … non l’ho mai sentita prima: è meravigliosa”
“hai whats-up? -  Fece segno di si - Scrivi qua il numero del cellulare e ti mando tutta l’aria.”
Sempre più sorpresa e forse sospettosa esitò un secondo e poi scrisse il suo numero. Le mandai l’aria poi le altre arie più famose della Callas.
Quando sentì il segnale del messaggio del telefonino guardò stupita e indietreggiò ringraziando.
La catalogai tra le tante persone strane che incontravo nelle mie trasferte e tornai alla posta.
Il giorno dopo quando mi sedetti per la colazione era molto presto ed ero l’unico nel ristorante dell’albergo. “Riporto Selvaggio” arrivò che si stava ancora abbottonando il gilet
“Good morning Sir, do you want coffe or the?”
“Coffe please, if possible a cappucino”
“A cappuccino? Little Anja will bring it to you”
Dopo pochi minuti apparve la piccola Anja nella sua clownesca divisa da cameriera
Adagiò sul favolo un cappuccino che sembrava perfetto e sottovoce mi disse
“Questo lo faccio solo io perché nessuno sa usare la macchina italiana del caffè. Ti ho portato una brioche calda, l’ho farcita con la cioccolata che lo chef fa solo per il direttore”
“grazie – risposi soddisfatto – hai sentito la Callas?”
“Tutta la notte! La so a memoria”
“Ah si  allora ti è piaciuta”
“Molto, è perfetta! La musica che mi piace è quella da pianoforte ma lei è troppo brava”
“Ma la musica moderna non ti piace?”
“si tutta, Coldplay, Shakira, ma la musica classica, specie quella da piano mi fa sognare. Mia madre dice che mi piace perché mio padre era musicista”
“suonava in un orchestra?”
“non lo so, non l’ho mai conosciuto, mamma non ne parla mai”
Mentre parlava smanettavo con il telefono. Dal bancone si senti il suo cellulare suonare annunciando nuovi messaggi
Si girò seccata
“a quest’ora chi è che rompe?”
“sono i Notturni di Chopin”
“Chopin?”
Sorrise e corse via saltellando.
La sera, quando rientrai e andai al bar, sul tavolo d’angolo dove mi ero seduto al mattino, c’era un bicchiere colmo di fiori freschi e un biglietto con scritto “reserved” e il mio numero di camera.
Da allora, ogni volta che mi fermavo al bar per lavorare sedendomi al mio tavolo, se alzavo gli occhi dal computer la vedevo con gli auricolari mentre preparava cocktails o caffè e con la testa, con scatti impercettibili, batteva il tempo della musica che ascoltava, tutta concentrata su quanto sentiva senza far caso al vociare della sala.
La sera appena mi sedevo per mangiare qualcosa di veloce, senza che ordinassi, arrivava  con una birra, poi un toast farcito con prosciutto affumicato,  o una omelette e un altro bicchiere grande di birra. Quando il suo collega “Riporto selvaggio” si allontanava, lei si avvicinava e chiedeva chiarimenti sulle parole o sulla trama o l’autore di questa o quell’opera. O mi chiedeva dei teatri come la Scala, il San Carlo o il Bellini. O parlavamo di musicisti di cui conosceva le opere ma non la storia
Confessò una sera che aveva lasciato il  conservatorio dove studiava piano perché doveva mandare i soldi a casa, per cui faceva due o tre lavori. Parlavamo sempre di musica. Per lei era una passione assoluta aggravata dal fatto che non aveva potuto diplomarsi. Per me era una necessità perché non amavo il silenzio, avevo sempre bisogno di rumore intorno a me, per questo lavoravo al bar e non in camera. Quando non c’era rumore, ascoltavo sempre la musica, qualsiasi musica, ma in particolare quella classica perché ero cresciuto con zia Assunta che suonava il piano spiegandomi la  bellezza delle opere e i segreti delle sinfonie Così, dopo ogni sua domanda, finiva sempre che le mandavo questo o quel brano più o meno famoso. Non potevo concepire che qualcuno ignorasse il requiem di Verdi o non potesse ascoltare gli ACDC o addirittura ignorare Brubeck. Fatto sta che per un mese lei era diventata per me una presenza continua e piacevole, a me legata da una complicità di interessi e affinità. A sentirla, a parlare di musica e di arte, mi sentivo a casa. Quando arrivò il momento di tornare realmente a casa mia, non so perché  ma mi dispiaceva lasciarla e la invitai per il giorno dopo a pranzo
“perché”
Chiese stupita
“perché sei stata gentile con me e volevo ringraziarti”
mi guardò seria
“io non sono una di quelle”
Fece indicando con il mento due Escort che stavano intrattenendo i loro clienti al bancone del bar
“io non sono uno di loro”
Risposi indicando i due clienti che biascicavano parole stordite dall’alcool.
Sorrise
“Ci penso”
Rispose e tornò al bancone a servire dei clienti. Tornò dieci minuti dopo dicendo solo
“Domani all’ora di pranzo al “Vecchio Re”. Quando arrivi entra e chiedi di Anja”
Fui contento. Era tanto che non uscivo con una donna, mi sembrava quasi di avere un’avventura e la cosa mi rese allegro. Il ristorante non era lontano dall’albergo, il taxi fu li in cinque minuti. Entrai in quella che sembrava una vecchia scenografica trattoria, con teste di cinghiale appese ai muri di mattoni rossi, circondate da foto in bianco e nero di attori e celebrità che non conoscevo. Tutti i tavoli in legno rustico erano pieni e c’era un vociare intenso e diffuso. Mi passò accanto un cameriere con i baffoni alla Ceccobeppe, lo fermai e gli chiesi
“Anja?”
Lui mi guardò
“Italian?”
Feci cenno di si. Lui mi prese e mi portò in fondo alla grande sala, vicino alle cucine, dove c’era un piccolo tavolo apparecchiato per una persona. Guardai l’austroungarico con delusione
“No, no, Anja…”
Ma lui mi spinse a sedermi
“Anja, Anja”
Ripeté seccato e se ne andò
“Ma vaffanculo”
Pensai incazzato e d’improvviso apparve Anja, vestita come le cameriere dell’October fest.
“Ciao”
mi disse sorridendo
“Ma, … non mangi con me?”
“Quasi, questo è il mio secondo lavoro. – e per scusarsi fece un sorriso bellissimo - Cosa ti porto?”
“Fai tu”
Risposi deluso.
Il pranzo fu però eccezionale, con salumi e insaccati di ogni animale che abitava nella foresta, un gulasch di carne di cervo e involtini di verza ripieni di carne, il tutto innaffiato da boccali di birra che appena svuotavo riapparivano pieni con la schiuma che traboccava gioiosa. Infine uno strudel accompagnato da un vino cotto dolce e ricco di zenzero, chiodi di garofano e cannella. Ero beato e felice a causa del tasso alcolico e del vociare allegro del ristorante, con Anja che andava e veniva fermandosi a volte per chiedermi se quello che mi aveva portato mi piaceva. Ero concentrato su un contorno misterioso quando d’improvviso scese il silenzio. Sentii un pianoforte suonare. Riconobbi subito le note introduttive dell’aria e infine una voce che iniziava a cantare. Mi alzai e vidi Anja, seduta al pianoforte che stava cantando Casta Diva, non troppo bene a dir la verità, ma con grande passione. Nella trattoria austroungarica scese quel silenzio che nasce quando un evento merita una attenzione assoluta. Mi sentii felice. Anja stava cantando per me, storpiando qualche parola e su un pianoforte che aveva visto tempi migliori, ma era per me che stava amorevolmente rovinando un’aria sublime. Quando finì fui il primo a battere le mani e a gridare “Brava” seguito subito da tutta la massa di festosi alcoolisti che riempivano quella trattoria per turisti e che non avevano neanche capito che la musica era finita. Lei iniziò una canzone locale e subito gli avventori si unirono a lei seguendo intonati il pianoforte battendo i boccali di birra sui tavoli. Ceccobeppe arrivò sedendosi di fronte a me,  mise sul tavolo una bottiglia di grappa con due bicchieri che riempì fino al bordo. Urto col suo bicchiere il mio e lo svuotò d’un fiato, seguito subito da me
“Anja … - incominciò a dire come se volesse fare un discorso – Anja … - ripetè guardando il soffitto come se cercasse le parole giuste per un qualcosa di importante – Anja … - aggiunse severo e duro come se fosse arrivato al punto esitando ad andare avanti  per paura di offendere – Anja …”
concluse con gli occhi umidi e riempiendo di nuovo i bicchieri svuotò il suo come il primo e se ne andò asciugandosi le gote. Lo osservai preoccupato e seguii il suo esempio con un altro bicchierino. Allora non capii cosa volesse dirmi. Lo capii più tardi, per tutto quello che poi successe. Comunque, ero felice, con le orecchie che mi ronzavano e il pantalone sbottonato per lasciar crescere la pancia piena di cibo, ma ero felice. Anche Anja era felice perché aveva avuto modo di suonare che per lei era il modo di entrare nel suo paradiso ed era rilassata e sorrideva come mai faceva quando era sotto lo sguardo severo di “riporto selvaggio”. Forse per le birre, o la grappa di pere o di prugne, forse per il vociare festoso di quella trattoria dei Carpazi, la trovavo bellissima. Quando il locale incominciò a svuotarsi venne a sedersi con me
“Allora domani parti”
“Si il progetto è finito e ritorno a casa”
“poi torni?”
“no, non credo”
“Sarà contenta la tua fidanzata”
“non lo so. È da quando si è sposata che non la vedo”
“si è sposata?”
“si, era stanca di vedermi due mesi l’anno, cosi si è sposata con un altro. E tu ce l’hai il fidanzato?”
“si lo avevo, ma ora non so dov’è. È un mese che non lo vedo. Lui abita in un’altra città e io devo andare sempre dalla mamma”
“Bhe, sei così bella che qualcuno troverai che ti vuole bene”
“non lo so, i ragazzi della mia età mi sembrano molto bambini”
Guardò l’orologio
“è tardi devo tornare in albergo per il turno serale”
Ci alzammo per tornare in albergo e Anja mi disse di aspettarla che mi avrebbe accompagnato. Si cambiò ed uscì sottobraccio con me. Disse che l’albergo era dall’altra parte del parco e che bastava attraversarlo per arrivare. Pensai che dopo tutto quel cibo e quell’alcool, due passi mi avrebbero fatto bene. Il parco era enorme con alberi secolari e collinette ed era tutto coperto di neve tanto che sembrava il bosco incantato di qualche favola del nord. Mi chiese se mi fosse piaciuto il pranzo e ammisi che era stato abbastanza decente, come la sua interpretazione e incominciai a fare foto al paesaggio
“la neve l’ho vista poche volte, per me questo paesaggio è bellissimo”
Mi giustificai. Le chiesi di fare un selfie e infine di farle una foto con dietro un enorme albero bianco. Per meglio inquadrarla feci pochi passi indietro, ma sotto la neve doveva esserci un cordolo; lo urtai mentre indietreggiavo e caddi sprofondando con la schiena nella neve. Nel cadere urtai un albero e la neve dei rami mi crollò addosso seppellendomi. La sentii ridere e mi misi a ridere anche io. Si avvicino e mi prese le mani per sollevarmi, ma mentre stava tirando, il piede su cui stava facendo forza, le scivolò sulla neve e mi cadde addosso lanciando un grido. Ci siamo messi a ridere. L’osservai che rideva con gli occhi felici, le gote rosse e il volto quasi attaccato al mio. Le sue labbra sottili erano a pochi centimetri dalle mie, i suoi occhi azzurri puri come acquamarina e che racchiudevano tutti i cieli del nord, erano immersi nei miei oscuri occhi africani bruciati dal sole e neri come la lava.  Allora feci quello che se non avessi bevuto, se non fosse stato solo per così tanto tempo, non avrei mai fatto. Forse. Non lo so. Comunque, per concludere, la baciai.
Lei rimase sorpresa, ma non si staccò. Resto lì attaccata, con le sue labbra fredde alle mie e rispondendo al saluto della mia lingua da cui non aveva fretta di staccarsi.Ecco questo fu un momento felice. Il secondo da quando l’avevo incontrata”
Respirò sereno l’aria piena di salsedine. L’angoscia non era vinta, ma si stava spegnendo.
“Quando lei si staccò i nostri occhi si fissarono quasi incerti su cosa era successo, su cosa voleva dire quel bacio improvviso e su cosa bisognava fare dopo. Incominciò a muoversi e si staccò alzandosi. Anch’io, un po' più goffamente  la imitai e mi alzai di fronte a lei scuotendo la neve che era rimasta attaccata al giubbotto. Mi aiutò, poi mi prese sottobraccio e riprendemmo a camminare.
Dopo pochi passi, preso dai sensi di colpa, le dissi
“Scusa per prima … forse ho bevuto troppo”
“no, no ti preoccupare, non è successo niente”
La frase mi gelò e mi intristii, ma non volli toccare l’argomento, era diventata silenziosa e anche se si era stretta al mio braccio, la sentivo lontana, chiusa nei suoi pensieri. Aveva quasi metà dei miei anni e ne dimostrava ancora di meno, avrei potuto veramente essere suo padre e una persona matura come me, non dovrebbe andare in giro a baciare donne che vivevano i sentimenti senza quel mio distaccato cinismo che ne smussava gli spigoli taglienti. Inoltre il giorno dopo sarei partito senza rivederla più: che senso aveva mettere di mezzo i sentimenti, approfittare di lei come un vecchio porco? L’avventura in trasferta, non era cosa che mi interessasse, ne avevo avute, ma con donne della mia età, con una morale elastica, opportunistica e non con donne che nell’anima avevano ancora quella innocenza che dentro di me si era inaridita. Mi seccava averla quasi molestata con uno stupido e incontrollato gesto. Mi ricordai lo sguardo severo di Ceccobeppe che forse voleva dirmi prprio questo, di non far del male alla piccola Anja. Mi dissi che forse, se la nostra amicizia fosse finita sarebbe stato meglio. Dopo tutto, l’amore non era mai stato un mio obbiettivo primario e più invecchiavo vedendo amici e conoscenti, innamoratissimi dieci o venti anni prima che ora crudelmente e dolorosamente divorziavano o che continuavano a vivere da sposati semplicemente e freddamente indifferenti l’uno all’altro, nel vedere tutto questo avevo raggiunto la convinzione che l’amore fosse semplicemente inutile. Mi spiegai quel bacio con l’effetto dell’alcool che aveva bloccato i miei freni inibitori. Nulla di più. Per cui tornammo a parlare dei nostri soliti argomenti di conforto, quelli che sapevamo affrontare senza bisogno di impegnarci più di tanto: la malattia della madre di lei, la musica, la prossima partenza. Arrivati in albergo dissi che ero stanco e che salivo in camera a riposare, lei corse a cambiarsi per l’inizio del suo turno al bar.
Si, ero stanco, ma in verità mi vergognavo di quello che era successo o forse mi spaventavo perché avevo fatto qualcosa che neanche avevo pensato e che il mio io cosciente neanche aveva immaginato. Mi preoccupava pensare cos’altro avrei potuto fare nell’averla vicina. Dormii un’oretta per smaltire l’alcool, mi svegliai pensando di scendere al bar, ma non lo feci quasi volessi evitare di incontrarla e con lei di incontrare la mia peccaminosa lussuria o un opportunità che richiedeva troppo impegno. Troppa sincerità. Incominciai a fare la valigia e a concentrarmi sul prossimo ritorno. Erano quasi le undici, l’ora in cui il bar chiudeva. L’avrei rivista domani a colazione mi dissi. Un ciao veloce e via. Mi sarei lasciato alle spalle la figuraccia da vecchio porco che salta addosso alla ventenne. Mi sentivo un Orco, uno di quei bavosi, mostruosi e lascivi vecchi che insidiavano le ragazze palpeggiando e sbavando. Misi al telefonino un po' di musica. Visto l’umore in discesa scelsi il requiem di Mozart e tornai a rivedere il rapporto finale del progetto.
Qualcuno bussò. Andai ad aprire con in mente un paragrafo da cambiare. Quando aprii c’era Ania che indossava la sua clownesca divisa da cameriera.
“Posso entrare?”
Ma non aspettò la risposta e scivolo dalla fessura della porta dentro il piccolo corridoio della stanza, ma quando vide la  stanza con il grande letto nel mezzo, non proseguì oltre e si fermò con la schiena contro la parete del corridoio come un animale braccato. Senti la musica
“Cosa stai ascoltando?”
“Mozart, il requiem”
“non mi piace, mi fa venire i brividi – si fermo qualche secondo - Volevo salutarti, domani è lunedì, sono di riposo e vado a casa a trovare mia madre”
“Hai saputo come sta?”
“Non molto bene. Mia zia voleva dare più soldi ai dottori ma non li hanno voluti perché non possono fare niente. Solo non farla soffrire”
“ho capito … portale i miei saluti”
“Si lo farò – sorrise – mi chiede sempre del mio amico italiano”
Il suo sorriso mi diede coraggio.
“Ecco Ania, … oggi forse ho approfittato della tua amicizia e ho fatto qualcosa che non dovevo: scusami”
Pensò qualche secondo
“Ah, il bacio … non ci pensare”
Sorrisi divertito
“vuoi dire che non so baciare, che neanche lo hai sentito?”
Sorrise anche lei.
“Era un bacio, niente di più …. E poi … - alzò gli occhi a fissare i miei – a me è piaciuto …tanto”
La guardai.
La musica lentamente introdusse il coro di Lacrimosa.
Lacrimosa dies illa - Lacrimoso giorno di lacrime
Le era piaciuto. Non era offesa o incavolata. Dopotutto poteva salutarmi sulla porta, ma era entrata. Mi avvicinai e la guardai negli occhi come se vi cercassi qualcosa. Sorrise con negli occhi la purezza e la grazia di una Madonna di Raffaello. Perché gli occhi delle donne sanno dire più cose di quanto le loro parole  dicono?  perché la loro luce ci fa dimenticare chi siamo e incendia ogni nostro desiderio? Lacrimoso giorno, è vero, quello in cui non avrei più rivisto il piccolo cielo dei suoi occhi azzurri. Meravigliosamente azzurri. Lacrimoso giorno in cui avrei maledetto la mia responsabile esitazione, vivendo un assenza che avrebbe avuto il gusto del veleno.
Qua resurget ex favilla - Quando risorgerà dal fuoco
La luce fioca del corridoio definiva i suoi tratti slavi perfetti, l’ovale dolce circondato dal biondo dei suoi capelli, il suo collo sottile e lungo, il corpo nascosto nella sua extralarge divisa. Nella penombra le sue labbra sembravano più grandi, forse più dolcì. Le era piaciuto, era giusto darle allora quello che aveva apprezzato. Lentamente le mie labbra si avvicinarono alle sue e le afferrarono, rapaci. La sua lingua corse in loro soccorso, la mia la fermò a rapire il piacere che emanava intenso e puro come la luce di un rubino. Era far risorgere quel desiderio che le nostre labbra confessavano, era rinascere dal gelido fuoco dei nostri quotidiani silenzi, dal nostro consumarci nei doveri forzati e tornare liberi sulle nostre labbra, sulle porte delle nostre anime, perché così potessero vivere.
Judicandus homo reus - L’uomo reo per essere giudicato
Non era peccato, quel semplice bacio. Non si poteva giudicare come cattivo e odioso, un atto d’amore. Perché era l’amore corrisposto che trasformava un vecchio molestatore in un desiderato amante. E a lei era piaciuto quel piccolo seme d’amore che le avevo donato. Il seme era germogliato dentro di lei e ora lei era venuta a donarmene il frutto. Allora, non era più peccato sbottonarle il gilet e farlo cadere come una foglia morta sulla vecchia moquette della stanza. Non era peccato levarle quell’inutile papillon e sbottonare, uno ad uno, i bottoni di quella inelegante candida camicia. La sua bocca mi confermava che no, non era peccato, le sue spalle nude ripetevano che non poteva essere peccato, se colpa avevo, era di non aver capito prima di quel momento, che lei era la redenzione di ogni mia solitudine, che io ero la casa dei suoi sogni. È questo un peccato? scoprire che chi fino a pochi secondi prima era solo una presenza amica, ora invece è il lievito della nostra via? No, in amore non vi è peccato. E’ nel nostro egoismo, il seme di ogni peccato e noi due in quel momento non eravamo egoisti, volevamo donarci tutti noi stessi regalarci ogni nostro desiderio.
Lacrimosa dies illa - Lacrimoso giorno di lacrime
Non poteva essere quello un giorno infelice, né un ora triste o un minuto disperato, lei era la purezza che salvava, la bellezza che giustificava, l’amore che nutriva, il sesso che distruggeva e ricreava. Lei era il tempo che avevo lasciato, io ero il tempo che lei ancora non aveva conosciuto. Come potevamo essere estranei se avevamo lo stesso desiderio? Come potevamo essere peccatori se il nostro peccato era desiderare, io la sua splendida primavera, lei il mio saggio autunno: era peccato desiderare ognuno di noi due, la gioia dell’altro?
Qua resurget ex favilla / Judicandus homo reus
Di quale giudizio dovevo spaventarmi, se non del suo, se non quello di non essere l’amante che lei voleva, così lentamente scesi tra la spalla e il collo a baciarla scivolando da un estremo all’altro e liberai il suo piccolo reggiseno, scaldando le sue piccole coppe con le mie enormi mani, facendo violenza ai suoi capezzoli, cosa che la fece sobbalzare e chiudere gli occhi, lasciandole fuggire un sospiro intenso. Da dove nasce il piacere? Dalla mia lingua che scivola sulla sua pelle? dall’immaginarsi la liquida rossa lingua che lascia una scia umida sulla bianca pelle? o dalla pelle che sente quella morbida, lunga, calda, intensa carezza? Dov’è il sesso? in quello che facciamo? in quello che proviamo nel fare o in quello che immaginiamo di fare? Il sesso era il piacere che lei provava, era quello che io sentivo nel far scivolare le mie mani di uomo sul suo corpo di ragazza, nel liberarlo da quei pantaloni inutili per liberare il suo piacere accarezzando quelle sue forme che sembrava ancora quello di una adolescente, un fiore dal virginale profumo, appena aperto alla vita.
Huic ergo parce Deus /Pie Jesu, Jesu Domine -Ma tu risparmialo Dio, pietoso Signore Gesù
Si perdonami, pensai. Perdono chiedevano le mie labbra che scendevano dalle sue coppe minute, sul suo ventre delicato, fermandosi ad omaggiare ogni sua delicata parte. Perdona le mani di questo peccatore che violavano con cosciente voglia i suoi indumenti più intimi lasciandola nuda e indifesa di fronte al desiderio divoratore, mentre mi  inginocchiavo in sua lasciva adorazione
Dona eis requiem /Dona eis requiem /Amen - Dona ad essi la pace/Dona ad essi la pace/Amen
Si donaci la pace, quella che spegne i desideri ormai sazi, quella che cancella le tentazioni vissute, nutrici con i nostri corpi, pensavo sul finire del brano, mentre la mia bocca raggiungeva la sua porta della vita, e le donava la mia amorevole ammirazione, la dolce, delicata laida carezza della mia passione. Al tocco delle mia lingua lei reagì lanciando un altro lungo respiro come a trattenere il fiato e con lui l’estasi, le sue braccia si irrigidirono, i suoi pugni si strinsero, la sua testa si piegò all’indietro e i suoi occhi si chiusero come se il calore e la luce di un sole immenso stesse esplodendo nel suo grembo. Risalii lentamente, lungo quella via della redenzione che era il suo corpo, raggiunsi le sue labbra, rividi i suoi occhi. Le sue labbra strinsero le mie, le sue braccia mi imprigionarono, il suo corpo mi reclamava. Dopo la mia breve overture, voleva iniziare il primo atto della nostra opera carnale, voleva nutrire con me tutte le nuove voglie che le avevo mostrato. Cosi quella notte diventammo cenere, consumati meglio dire travolti da un fuoco che non avevamo mai realmente conosciuto, di cui fino a quel momento ignoravamo la vera forza e l’assoluto domino”
Respirò di nuovo profondamente. Sentì un motorino passare scoppiettando per strada, sentì i primi fischi di richiamo dei merli, il fruscio degli oleandri smossi dal vento. Intorno a lui c’era la vita e non più il nulla, il vuoto. Era uscito per il momento dal suo buio.
“Da li in poi fu tutto un casino come se tutta la mia vita tranquilla e ripetitiva, fosse d’improvviso destinata a scomparire. La notte Anja la passò con me e il mattino dopo si alzò presto per prendere il treno. Mi alzai anch’io e pensando di fare un bel gesto presi un regalo che avevo comprato per mia madre.
“Tieni – le dissi quando usci dalla doccia immersa in un enorme accappatoio ed io ero sulla porta del bagno tutto orgoglioso del bel gesto che stavo per fare – ti ho preso un ricordo”
Lo guardò seria e lo prese tra le mani
“Grazie – diede un occhiata superficiale alla scatola e me la restituì – ma non voglio ricordi”
La guardai stupito
“Ma come … perché?”
“Perché i ricordi fanno solo male e poi mia madre a vederlo penserebbe che ho fatto cose strane per meritarlo, mi darebbe della Puttana, quello che tutti le hanno detto per anni per l’unica notte d’amore avuta con mio padre: non lo voglio”
Stavo per ribattere ma mi fermai. Anja non faceva nulla di getto, ma quel regalo lo aveva immediatamente rifiutato. C’era qualcosa che non mi aveva detto. L’abbracciai e lei subito si strinse a me, appoggiando la testa sul mio collo
“Cosa c’è che non va, cosa devo sapere che non so?”
Restò qualche secondo in silenzio.
“La vita che non si vive, non esiste. Io con tè in queste settimane sono stata felice perché tu conosci tutti i miei sogni e me ne hai dati altri. Con te sono come nata di nuovo, e se stanotte sono stata qui è perché volevo tutto di te come per fermare il tempo. Ma non si può fermare il sole che nasce, ora diventerai ricordo e non ti vivrò più. Questo mi fa paura perché tu sai tante cose e tante me le insegni, perché mi rispetti, mi ascolti come un padre e mi ami come un ragazzo. Non voglio solo ricordare e ricordando, invecchiare sola come mia madre. Voglio a te, ma tu devi andare e io devo restare per mamma e so che non ti rivedrò più.”
Non mi sono mai piaciute quelle situazioni emotive che ti annebbiano la ragione. Mi chiesi chi era Anja per me e mi risposi che era l’unica donna che avevo baciato nella neve, perché lei era come la neve: pura, candida e ricopriva, riscaldava, puliva ogni pensiero che avevo come fa la neve col bosco.
“Questo regalo era solo un modo per chiederti di non dimenticarmi perché neanch’io voglio perderti – la staccai da me e vedendo gli occhi pieni di lacrime glieli asciugai – non siamo Madam Butterfly e Pinkerton. Tu non sei Cho Cho San, sei la mia piccola Anja: se tu lo vuoi, io non ti lascio da sola. Ora non abbiamo scelta, non possiamo fare diversamente. Appena arrivo ti mando un biglietto aereo e appena puoi vieni da me. Cambierò lavoro e resterò a casa con te e riavremo tutta la vita che non abbiamo vissuto”
Lei sorrise
“è una bella favola quella che mi dici”
“è la realtà, quello che ti offro”
“Non hai sposato la tua fidanzata che ti aspettava da anni e vuoi portare via la piccola Ania che hai incontrato da pochi giorni?”
“certo – la guardai sorridendo – questo perché la piccola Anja è carina, sempre allegra, responsabile, disponibile, perché l’amore è una scommessa e se vuoi vincere molto devi puntare tutto quello che hai, e tu è questo quello che hai fatto questa notte ed io è questo quello che voglio fare domani, perché dopo di te, non avrò più tempo per amare qualcuno”
Vidi le sue pupille muoversi impercettibilmente per osservare tutto il mio volto cercando la verità
“giusto”
Concluse alla fine, sorrise e si aggrappò a me per baciarmi con quella intensità e passione che di notte aveva imparato. Lei mi credette perché voleva illudersi che ero sincero. Io ero sincero perché volevo illudermi che quello che dicevo fosse vero. Anche se nessuno di noi due aveva usato la parola amore, era quello il senso di quel nostro volerci illudere. Perché è questo l’amore, una concreta illusione. Ero sempre stato un viaggiatore egoista. Avevo tenuto per me tutte le bellezze e le meraviglie che avevo visto e che cambiandomi ( perché la bellezza trasforma sempre a chi si rivela) mi avevano reso estraneo a chi avevo lasciato a casa. Ora nei miei viaggi avevo finalmente trovato la perfezione, l’armonia e la portavo via con me e, proprio per poterla farla mia, non potevo non rinunciare, non potevo non rischiare, non provare e dichiarare sul tavolo verde della vita il mio unico e ultimo All In.
Dopo circa venti giorni, sua madre mori e lei venne a vivere da me. I miei genitori dopo averla pensata una arrivista furba che era venuta a farsi mantenere dal solito benestante maturo e coglione (mio padre: ma chi minchia studiasti a fari si appena vidi a prima sciacquina chi ti mustra u picciuni ta potti a casa? Ma sticchiu, nun n’avivi vistu mai? Mia madre: ma u corredu l’avi o veni ca sciutta sciutta a fassi sebbiri?), scoprirono chi era al suo arrivo.
“Ecco Anja questa sono mamma e papà”
“Ciao sono felice di conoscervi”
“Bongionnu signurina,bongionnu”
“Oh che piaceri signorina Anja, trasissi, trasissi”
“ signora, per favore chiamami Anja, posso chiamarti mamma? se no non riesco a parlarle”
“Oh che dice … che dici Anja cetto che può chiamarmi mamma”
“ho perso da poco mamma e ancora non ho superato la sua assenza, penso sempre a lei se la chiamo mamma mi sento meglio”
“Oh cori mei chissà quanto hai sofferto. Ecco vedi, mi sono emozionata – fece prendendo il fazzoletto e asciugandosi il naso - veni, veni, qua in salotto siediti qui accanto a me dimmi, sei stanca, vuoi mangiare?”
“io non mangio molto”
“si vidi cori mei, si sicca sicca: u saccu vacanti non sta rittu”
“Ma quello è un pianoforte?”
“Si è della sant’anima di mia sorella Assunta, lei suonava il piano benissimo, se fosse nata al noddi sarebbe stata una grande artista”
“è uno Stauffcacosu…. Na macca tedesca imputtanti. Per accordarlo l’anno scorso ci spinnii 2000 euri”
“posso suonarlo?”
“Lo sai suonare? o che bello prego prego”
Mia madre si sedette vicino al pianoforte come faceva quando suonava zia Assunta e mio padre si accomodò sulla sua poltrona come un re sul suo trono sodisfatto che i soldi spesi fossero stati utili. Anja aprì il pianoforte, accarezzò i tasti, si voltò a guardarmi felice poi, guardò lo spartito rimasto al suo posto da quando zia Assunta era venuta a mancare e incominciò a suonare Chiaro di Luna. Ricordo tutta la scena come se fosse ancora qui di fronte a me. La luce che entra dalla vetrata e illumina mia madre e mio padre mentre Ania suona. Mia madre seduta  sulla punta della sedia che osserva Anja e si commuove forse pensando alla zia, forse risentendo le parole di Anja che la voleva chiamare mamma. Mio padre che segue ad occhi chiusi battendo con la mano il tempo sul bracciolo e che poi si volta verso di me e puntando il dito indice destro sulla sua gota destra, lo fa girare a dirmi in silenzio l’apprezzamento per Anja. Questa la terza volta che Anja mi ha fatto felice.
Io cambiai lavoro e incominciai a lavorare nella ditta locale di un mio amico che si occupava di bonifiche. Fu così che avvenne l’incidente. C’era un serbatoio interrato. Il capomastro, Calabrò, voleva andare avanti e rimuoverlo con la ruspa. Io feci andare tutti via, perché un serbatoio di cui non sapevamo nulla poteva essere una bomba, ed infatti, mentre controllavo che tutti fossero al sicuro, esplose e i pezzi di metallo mi colpirono alla nuca, tagliando ogni collegamento tra i miei occhi e il cervello. Caddi nel buio e ci resterò per tutta la mia vita. Non avrei più visto il mare, il cielo, i volti dei miei genitori, il cambiare delle stagioni, albe e tramonti, le emozioni di chi mi parla, gli occhi ed il sorriso di Anja. Nulla. Il buio, un buio ignoto, ostile, dominante, segna ogni secondo del giorno, ogni mio respiro. Tutto mi è sconosciuto, e anche seduto in una stanza, resto disorientato, perso nel cercare messaggi che non so tradurre in informazioni utili. Resto prigioniero del buio, incapace di avere riferimenti certi, di essere parte della vita che non posso vivere e che quindi, come diceva Anja, non può esistere.”
Rimase con la mente vuota, stanco di ricordare per sentirsi vivo e di pensare ad Anja per attaccarsi alla vita.
“Amorre, amorre, ma che fai qui? Non ti ho trovato a letto e mi sono spaventata”
“non riuscivo a dormire, ho avuto una crisi di ansia e dovevo respirare un po' di aria fresca”
“Ma sei freddo, gelido, ti verrà polmonite, vieni dentro”
“No, sto bene qui, lasciami qui in pace”
La sentì ciabattare allontanandosi e pensò che si fosse arrabbiata ed era tornato a letto.
Sentì invece che tornava e che un manto caldo lo copriva
“Ho preso coperta, così stiamo caldi”
Senti che gliela sistemava coprendolo per bene, poi anche lei si sedette accanto a lui coprendosi con la stessa coperta. Senti che lo abbracciava e il calore del suo corpo che lo scaldava.
“Stiamo qui amorre è ancora tutto buio”
“vai a dormire, è inutile che stai qui a morire di freddo”
“io sono nata al freddo, poi qui ci sei tu, e io sto bene.
Lo abbraccio più forte.
“qui c’è calduccio, con te”
E appoggiò la testa sulla sua spalla
Per quasi mezzo minuto sentì solo il cigolio del dondolo
“Ti sei sentito male?”
“Si come sempre, mi sentivo soffocare come se fossi stato chiuso in una bara”
“Perché non mi hai chiamato? Ti avrei aiutato”
“E che puoi fare tu? mi puoi ridare la vista?”
“No, ma potevo fare carezze e tu ti calmavi”
“Le carezze non bastano! Non capisci che mi sento come morto, che non so se ho gli occhi aperti o chiusi, che impazzisco al pensiero che sono immerso nel buio e che non so dove andare, come muovermi, che non vedrò più nulla di quello che era la mia vita? Che non potrò più lavorare, vedere i volti di chi amo, i colori delle stagioni, sono in una prigione che incomincia dentro di me e finisce dove finisce l’universo.”
Si fermò perché capì che stava alzando la voce in modo isterico. Continuò a voce più bassa
“Lasciami stare, non puoi capire. Volevo fare per te tante cose, occuparmi di tutto quello che ti avrebbe fatto felice, fatti vedere le spiagge più belle i teatri, le città i posti dove tu saresti rimasta a bocca aperta, e invece, anche per andare in bagno ho bisogno che qualcuno mi accompagni, che qualcuno mi vesta come si fa con i bambini. Volevo renderti felice, curare i miei genitori, avere finalmente una casa per sempre, dove fare le cose che mi piacciono. Invece niente, sono un handicappato che ha bisogno di tutto e di tutti”
“Amorre ma io sono ancora qui, le città, i teatri, i posti meravigliosi, sono ancora intorno a noi. Vita non è finita, sei sempre quello che ha costruito ponti, strade, palazzi, quello che mi ha rubato alla neve e mi ha donato sole: tu sei handicappato solo se ti senti così. Devi iniziare a fare i primi passi, a reagire come ti ha detto  psicologa”
“Bona chidda! Ma chi minchia mi rappresenta chidda. Devo reagire…. Ma che ne sa lei. Che ne sa della bara nera in cui sono. Venisse lei dentro il mio buio e allora capirebbe”
ora era veramente incazzato, avrebbe dato fuoco a tutto il mondo, rotto tutto quello che circondava perché sentiva che nessuno poteva sapere cosa provava.
“Amorre calmati, non serve niente incazzarsi. Dai andiamo dentro, c’è l’umido del mare che ti fa male e ti fa sentire dolore nelle ossa”
Si alzò e lo fece alzare tirandogli le braccia. Gli sistemò la coperta sulle spalle e l’aiutò ad attraversare il terrazzo. La segui docilmente perché era stanco e alla fine aveva ragione lei a dire che non sarebbe servito a niente. Lo aiutò a sdraiarsi  su letto e lo coprì con le coperte. Si voltò verso il comodino cosi che lei  non lo vedesse, non voleva che lei gli parlasse o dicesse. Voleva solo silenzio.
“ahi”
“che c’è?”
“ho urtato con il piede”
“stai attenta, non vedi dove vai?”
“No è buio”
“accenditi la luce, almeno tu che vedi non farti male”
Non la sentì accendere la luce   ma senti il fruscio dei suoi vestiti
“ che fai?”
“ niente amorre  niente”
La sentì che si sedeva sul letto e che si copriva con le coperte. Poi il letto si scosse perché lei si muoveva e si avvicino a lui, gli si strinse contro, la sua mano entro sotto il suo pigiama salendo verso il suo petto e poi scendendo verso la sua pancia.
“Che fai? – la mano scese ancora insinuandosi tra le sue gambe – amore lascia stare, non ne voglia … non è il caso”
Ma la mano continuò accarezzando le sue intimità mentre sentì le sue labbra sul collo, salire con la lingua e raggiungere il lobo dell’orecchio e succhiarlo e poi la punta della lingua giocare dentro il suo orecchio.
“Amore … dai … finiscila”
 e con la mano la toccò sentendo che era nuda. Si girò sulla schiena per fermarla, ma lei ne approfittò per salire su di lui ed immergere la sua lingua tra le sue labbra. Con la mano cercò di spostare il suo volto, ma senti qualcosa di strano. Tocco con l’altra mano e capi che Anja si era coperta gli occhi con le garze oculari, diventando così temporaneamente cieca, come lo era lui.
“Amore che hai fatto?”
“Anja vuole entrare nel buio del suo amorre, … lo vuole liberare dal nulla -Rispose ridendo con un filo di voce e con le mani esplorò il suo volto - fammi entrare amorre, …  Anja, vuole scendere nel tuo cuore ”
E lo baciò con forza, poi seduta su di lui gli levò il pigiama e i pantaloni, si sdraio su di lui perché sentisse tutto il suo caldo corpo e incominciò a baciargli ogni parte che le sue labbra toccavano. Sentì il calore di lei che si muoveva sinuoso, serpeggiando su di lui e il suo corpo reagì come se lei gli avesse versato dentro del fuoco.
“Amorre, mi senti, sono qui, nel tuo buio, … come quando eravamo sulla neve, …. vieni amorre dalla piccola Anja – fece sottovoce sfregando la punta del suo seno sul suo petto – vieni mio re, l’amore non ha un colore, … come  piacere, o gioia, …. siamo noi che li pensiamo colorati come vuole nostra fantasia, …. ma loro sono neri, … oscuri, … come silenzio, … come desiderio, … vieni amorre, Anja è qui … nel tuo regno nero, …. ha bisogno di te, …. ha freddo, … dai  calore alla piccola Anja”
Accompagnava le sue parole da piccoli baci, piccoli morsi sul suo corpo mentre sentiva le sue mani sfiorare, stringere, tornare ad accarezzare, vogliose, sfacciate. I suoi capelli scivolavano sulla sua pelle solleticandolo, lasciando dentro di lui una scia come di stelle.
“Vieni amorre, Anja … è qui nei tuoi silenzi, … prendi i suoi occhi, … vedi sua luce, … perché sei tu la sua luce, … il suo re, …. sei respiro di piccola Anja, …. vieni amorre, questo buio è enorme, … ma Anja lo sa: tuo amore è più grande, … il tuo amore è immenso, … Ania lo sa mio re, … perché l’amore chiama amore … e l’amore di Anja  è come l’amore del suo re  …”
Senti scivolare i suoi capelli vicino al suo pube, ondeggiare come alghe nel mare mosse dalla corrente, sentì le sue labbra, la sua lingua e volle abbracciarla stringersela, tenerla stretta a se, diventare una unica cosa con quell’oscurità che lo stava adorando desiderandolo. Allora, la prese per le ascelle e la sollevo sdraiandola sopra il suo corpo.
Lei lo abbracciò e continuò a baciarlo sussurrando con voce cantilenante
“È come dentro neve, … siamo solo noi due, … piccola Anja e il suo vecchio re solo che adesso  neve è nera, … come l’amorre, … come gioia, … come voglia di Anja e del suo dolce re …”
Si girò e la depose sul letto e incominciò a baciarla dal collo, scendendo lentamente, si fermò sull’inizio del seno e scivolò verso le ascelle, alzò il suo braccio e sentì il suo odore di donna. Quell’odore gli penetro nel cervello come una lama di piacere e desiderio. Leccò quell’odore e ne senti il sapore salato, scese lungo il fianco e risalì verso il seno.
“Si amorre, mangia  piccola Anja …   piccola Anja vuole stare nel tuo buio … saziala amorre … ha sete di te … ha bisogno della gioia che le davi … senza di te Anja morirebbe … vieni mio vecchio re … Anja ti cerca nel tuo buio …  tu sei già sceso nel buio di Anja e l’hai portata via con te …  ora vieni, Anja è nel tuo buio, …. vieni ad abbracciare sua luce … vieni a riprendere tua vita”
 La lingua senti un punto a metà del seno e si ricordò che lì Anja aveva un piccolo neo e lo baciò come se avesse ritrovato un vecchio amico, una stella polare con cui potersi orientare e tornò a scivolare verso la punta del seno e lo solleticò, lo leccò, gli giro intorno lasciando che i denti l’afferrassero, tirandola, sentendola  lamentarsi con un filo di voce
“Amorre hai trovato Anja …  il buio ha dato tanta voglia ad Anja e al suo re, … vieni amorre…  sazia voglia della piccola Anja, e qui nel tuo buio, vieni … amorre …”
Ma lui continuò a scendere, sentendo la morbidezza del ventre, la profondità dell’ombelico, l’inizio dei fili ispidi del suo pube. Ne cercò l’odore, la delicatezza, l’estensione, tirando quel piccolo cespuglio che ricordava biondo, baciandolo, leccandolo mordendolo e poi tornò da lei, dalla sua bocca che si lamentava di piacere. Di voglia, di desiderio.  Quando senti che lui era sopra di lei lo abbracciò e lo bacio e lo strinse ancora più forte, allora lui oltrepassò la porta della vita e scivolò dentro di lei che lo strinse a se, incrociando le sue gambe con le sue, quasi fosse edera che si aggrappa al tronco di una quercia per nutrirsi della sua forza. Ebbe come la percezione che una parte del buio in cui era fosse Anja, e che quel buio che odiava, in realtà conteneva tutta la sua vita, tutta quella che lo circondava, e che bastava abbracciare una parte di quel buio per ritrovarsi tra le braccia Anja, o nel suo amato mare o sulle colline che c’erano alle spalle della sua casa. Allora strinse anche lui quella parte di buio che era il suo amore, e lo bacio con calma, respirando il suo respiro, facendo scoprire alle sue labbra le labbra di Anja, le gote, il collo delicato, gli occhi coperti dalla garza con cui Ania era venuta a cercarlo nell’inferno del suo assordante e violento nulla. Sentì che la mezza anima che lui portava, voleva uscire e cercò di distaccarsi, ma le mani di lei scivolarono sulla sua schiena e lo spinsero ancora più dentro
“ resta … amorre … resta  … Anja …  vuole”
Disse con un sussurro stordito dal piacere. Lei chiedeva la sua mezza anima, la voleva nel suo scrigno delle anime, voleva che trovasse l’altra mezza anima che lei conservava, così che le due mezze anime diventassero un’anima intera, una vita. Restò li, abbracciato, legato, immerso in lei, finché i loro respiri si calmarono. Si girò restando con la faccia verso l’alto, confuso da tutto quello che era successo. Lei si girò dandogli le spalle e si strinse contro di lui.
“Abbraccia Anja amorre, …    piccola Anja … ha sonno”
Disse con una voce appena percettibile. Lui si girò e l’abbraccio, lei strinse il suo braccio che la circondava e si accoccolò contro di lui. Sollevo una mano e toccò i suoi occhi, c’erano ancora le bende oculari. Era ancora nel suo buio.
Appoggiò la testa contro i suoi capelli e presto la senti respirare regolarmente. Respirò il suo profumo e si rilassò al suo calore.
“Anja è un pezzo del mio buio che tocco e che sento vivo. Ormai tutto il mio mondo è  questo buio. Lei, il cielo, i monti sono tutti dentro a questo mio nulla. Questo buio è il mio nuovo mare. Devo organizzarmi. Capire. Orientarmi. Scoprirne ogni angolo per poter vivere, per prendermi cura di Anja, dei miei vecchi … e, se venisse, anche di Anima Nuova … devo prendermi cura di loro, devo pensarci, non posso lasciare Anja a occuparsi di tutti. Devo incominciare a gestire le cose importanti. Ora mi alzo, mi lavo, mi faccio il caffè e vado dal barbiere. La strada me la ricordo, sono due traverse da qui. O sono tre? Chiamo mio padre e mi faccio accompagnare, così gli parlo .. gli chiedo di mamma, … e se ha potato gli olivi. Gli olivi devono essere curati se no soffrono … come noi uomini, dobbiamo liberarci dalle speranza morte che portiamo in noi per averne di più forti e dare frutto …. Gli chiedo del suo amico che vende la vigna …. E un buon affare … dovremmo pensarci. La vigna richiede impegno, ma una vita senza impegno, … è morte … Poi Anja deve tornare al conservatorio, è il suo desiderio più grande. Deve realizzarlo e ha bisogno di me per sostenerla, per starle vicino. Si mi alzo … dopo … quando Anja si sveglia …. Ora no, la disturberei … faccio il caffè … so dove è la caffettiera … aspetto … quando si sveglia …”
Si accorse che sognava perché improvvisamente vide le colline tutte dorate ed il mare quieto e azzurro com’è al tramonto.
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