#diritto alla disuguaglianza
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La Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza: Un Impegno Universale
Il 20 novembre si celebra il diritto a un futuro migliore per i bambini e gli adolescenti di tutto il mondo.
Il 20 novembre si celebra il diritto a un futuro migliore per i bambini e gli adolescenti di tutto il mondo. Il 20 novembre di ogni anno, il mondo si unisce per celebrare la Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, un’occasione per riflettere sull’importanza di garantire ai bambini e ai giovani un futuro libero da discriminazioni, abusi e povertà. Questa data…
#20 novembre#Alessandria today#Assemblea Generale delle Nazioni Unite#bambini e giovani#celebrazioni internazionali#Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia#diritti dei bambini#diritti dell’adolescenza#diritti dell’infanzia 2024#diritti fondamentali#diritti negati#Diritti Umani#diritti universali#diritto al gioco#diritto alla protezione#diritto alla sopravvivenza#Educazione#eventi per l’infanzia#futuro dei bambini#Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia#giustizia sociale#Google News#Inclusione sociale#istruzione universale#italianewsmedia.com#lotta alla disuguaglianza#ONU e diritti#partecipazione dei bambini#Pier Carlo Lava#Politiche sociali
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Non c’è un’accezione amabile della patria, e se c’è è forse proprio quella che dovremmo temere di più. La terra dei padri, questo significa patria, è un concetto letterario le cui ambiguità è utile tenere ancora presenti, se non altro perché dimenticarle ci ha dato lezioni amare per tutto il ’900. La prima ambiguità è nelle parole stesse: la patria non è una terra, ma una percezione di appartenenza, un concetto astratto, tutto culturale, che si impara dentro alle relazioni sociali in cui si nasce e dentro alle quali, riconosciuti, ci si riconosce. In un mondo dove i rapporti di confine tra le terre sono cambiati mille volte e le culture si sono altrettanto intrecciate, dire “la mia patria” riferendosi a una terra significa creare di sé un falso logico, oltreché geologico.
La seconda ambiguità è in quel plurale monogenitoriale, quel categorico “padri” che solleva simbolicamente dalle loro tombe un’infinita schiera di vecchi maschi dal cipiglio accusatorio rivolto alla generazione presente. Le madri nella parola patria non ci sono, benché per definizione siano sempre certe, né generano appartenenza, nonostante ce ne sia una sola per ognuno di noi. Non possono esserci perché nell’idea del patriottismo è innestata la convinzione profonda che la donna sia natura e l’uomo cultura, cioè che la madre generi perché è il suo destino e l’uomo riconosca la sua generazione per volontà e autorità, riordinando col suo nome il caso biologico di cui la donna è portatrice.
È in quanto estensione del maschile genitoriale che la patria è divenuta fonte del diritto di identità, perché è il riconoscimento di paternità che per secoli ci ha resi figli legittimi, né è un caso che le rivoluzioni culturali post psicanalisi si definissero anche come “uccisioni dei padri”. Gli apolidi dentro questa cornice si portano inevitabilmente addosso l’aura del figlio bastardo, gli espatriati per volontà sono sempre traditori della patria e gli emigrati economici hanno il dovere morale di coltivare e manifestare a chi è rimasto a casa un desiderio di ritorno, pena il passare per rinnegati.
E se per una volta - solo una, giusto per vedere l’effetto che fa - provassimo a uscire dalla linea di significati creata dal concetto di patria? Averlo caro del resto non ha alcuna attualità; appartiene a un mondo dove il diritto di sopraffazione e la disuguaglianza sociale ed economica erano voci non solo agenti, ma indiscutibilmente cogenti: per metterle in crisi ci sono volute rivoluzioni di pensiero prima ancora che di piazza, e quelle rivoluzioni ci hanno lasciato in eredità il dovere di fare un atto creativo nei confronti di tutte le categorie che non bastano più a raccontare la complessità in cui siamo. E se proprio non è possibile uscire dalla percezione genitoriale dell’appartenenza collettiva - padre, ma anche l’ossimoro madre patria - potrebbe essere interessante cominciare a parlare di Matria.
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Qualcuno, forse, ha voluto che io nascessi donna.
In quanto donna desidero sentirmi libera di camminare per le strade di questa terra scegliendo cosa indossare e chi essere. Gli abiti sono espressione della propria identità e l'identità è un processo in fìeri. In quanto donna voglio vivere le trasformazioni della mia identità in maniera libera e spassionata, senza dover pensare esistano uomini incapaci di tenere a freno i loro istinti o persone, in generale, non in grado di dosare le parole. Non voglio subire il giudizio di nessun'altro, né farlo subire alla mia prossima, in quanto anch'essa presente su questo pianeta e deve godere degli stessi diritti.
Il caso ha voluto che io nascessi donna, non che subissi violenza verbale, fisica, psicologica, diretta o indiretta da chicchessia. Sì, perché la violenza non giunge soltanto dagli uomini, ma anche dalle donne che "temono" le altre o che non accettano ci sia sempre la possibilità di scegliere nelle varie strade che la vita propone, dove nessuno ha in partenza disposto che i diritti fondamentali dell'essere umano venissero sottratti.
Il caso ha voluto che io nascessi donna e di questo sono grata, anche se la società fatica ancora ad accettare ognuna possa esser fatta a suo modo: con un corpo che racconti una propria storia e che non per forza rispecchi rigide immagini, canoni o stereotipi; con sogni da inseguire, ambizioni e desideri da avverare senza dover per forza spiegare il perché. Una donna deve avere la possibilità di dire "no" e non bisogna pretendere essa si giustifichi. Una donna può essere chi vuole e nessuno deve erogarsi il diritto di decidere al posto suo.
Appartengo all'unica e universale "razza" dell'essere umano, anche se vengono spesso presi d'esempio coloro che dimenticano o addirittura non conoscono la loro umanità e seminano odio in ogni sentiero percorso. A un certo punto ci si chiede come mai esista la violenza, eppure ogni giorno essa assume sfumature d'ogni sorta attorno a noi, talvolta difficili da rilevare.
"Normalizzare" qualsiasi tipo di violenza - sminuendola o giustificandola - significa normalizzare l'odio. In realtà non bisognerebbe mai smettere di indignarsi dinanzi all'ennesimo insulto, all'ennesimo atto di bullismo o di cyberbullismo, all'ennesimo tentativo di prevaricazione, all'ennesimo abuso. Soprattutto non bisognerebbe mai sentirsi indifesi e impotenti.
Spesso non si discorre di come la violenza nasca da altra violenza, ma ci si limita al giudizio impervio. Non ci si domanda quali siano i fallimenti del nostro sistema, da quali "malattie" sia affetto e come noi agiamo per "prevenire" e "curare" i batteri della disuguaglianza, della disparità, del sessimo, del maschilismo, del razzismo, dell'intolleranza.
Fino a quando esisterà una "Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne" non potremo mai ritenerci pienamente al sicuro. Fino a quando esisteranno giornate volte a sensibilizzare contro qualsiasi genere di violenza, significherà che l'essere umano non avrà ancora compreso i principi basici su cui si fonda ogni singola esistenza.
La promessa urgente che ogni donna deve fare a se stessa è quella di non sentirsi mai sbagliata. Quando succede essa deve allontanarsi da persone e ambienti tossici. Ogni donna deve rivendicare il sacrosanto diritto di essere se stessa.
Il tempo è un bene prezioso e va donato a chi veramente merita: chi è capace di posare lo sguardo con assoluta delicatezza e non a chi vorrebbe vederci sofferenti o, addirittura, esanimi.
Il primo dovere che abbiamo è quello di essere libere di amarci!
Prometto questo e tanto altro a me stessa e anche a Giulia, Oriana, Martina, Teresa, Alina, Giuseppina, Antonia, Rosina, Stefania, Cesina, Iulia, Rossella, Francesca, Wilma, Safayou, Pierpaola, Floriana, Anna, Mara e a tutte le vittime di femminicidio in ogni parte del mondo, dunque alle attiviste politiche Mirabal che vennero deportate, stuprate e uccise sotto la dittatura della Repubblica Dominicana del 1960.
#stop violence#noallaviolenzasulledonne#25novembre#loveyourself#education#writing#emozioni#aforismi#poetscommunity#reading#romantic poets#followme#language#attivismo#femminismo#sentimenti#frasi emozionanti#autoriitaliani#scriverechepassione#leggerechepassione#rivoluzione
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Dicembre per me, è stato solo Annie Ernaux! Mi sono immersa nella lettura dei suoi scritti che ho divorato senza riuscire a fermarmi. Oggi voglio parlarvi del libro "La donna gelata", un libro che parla della donna degli anni Quaranta alle temperie di liberazione degli anni Settanta; affronta uno dei temi più discussi del nostra epoca: la disuguaglianza di genere.
«Sempre attenta ai bisogni degli altri. Come se per una donna non ci fosse nulla, proprio nulla, di più importante.»
Questo libro è un punto di vista. Un racconto che illustra con parole leggere che l'uomo e la donna non sono la stessa cosa e quindi impossibile pretendere di essere sullo stesso piano. Certo, all'inizio è diverso. Anche se tutti le anticipano che il suo futuro è quello di moglie; si illude che lei non cadrà nella trappola. Poi, cresce, e si sente incompleta. Pensa che il matrimonio sia quel tassello di puzzle che la farà sentire finalmente completa. Si sposa. Rimane incinta. Ha dei sogni? Sì, diventare una professoressa, insegnare. Per il marito è facile continuare i studi. Lei deve badare al bambino e alla casa. Poi, nelle poche ore di liberazione, prova a studiare. Viene bocciata all'esame. Il marito no. Il marito prosegue nella sua carriera. È un percorso che è un suo diritto. A lei rimane il diritto di badare agli altri. Di sé stessa si dimentica.
«Sono finiti senza che me ne accorgessi, i miei anni di apprendistato. Dopo arriva l'abitudine. Una somma di intimi rumori d'interno, macinacaffè, pentole, una professoressa sobria, la moglie di un quadro che per uscire si veste Cacharel o Rodier. Una donna gelata.»
È un libro forte. Che insegna a scegliere sé stesse. E soprattutto, è un libro che dove essere letto, per conoscere la disuguaglianza che ancora oggi, nella nostra epoca, viene regolarizzata.
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Kimberlé Crenshaw
https://www.unadonnalgiorno.it/kimberle-crenshaw/
Kimberlé Crenshaw, avvocata e attivista statunitense esperta in teoria critica della razza è la donna che ha rivoluzionato il femminismo.
Per prima, infatti, ha introdotto il concetto di intersezionalità come ipotesi sociologica in un articolo scritto per il Forum legale dell’Università di Chicago nel 1987.
Dal titolo Emarginare l’intersezione tra razza e genere: una critica femminista nera della dottrina dell’antidiscriminazione, della teoria femminista e della politica antirazziale, forniva uno studio che evidenzia la discriminazione a cui sono soggette le donne nere e precarie negli Stati Uniti.
Kimberlé Crenshaw definisce l’intersezionalità come una situazione in cui una persona mette insieme caratteristiche razziali, sociali, sessuali e spirituali che la rendono soggetta a diverse forme di discriminazione. La sfida particolare è che le leggi guardano al genere e alla razza separatamente e di conseguenza le afroamericane e le altre donne di colore sperimentano forme di discriminazione sovrapposte e la giurisprudenza, ignara di come combinarle, le lascia senza giustizia.
Specializzata in diritto costituzionale, insegna alla UCLA School of Law e alla Columbia Law School dove ha fondato il Center for Intersectionality and Social Policy Studies.
Presiede anche il Center for Intersectional Justice di Berlino.
Nata a Canton, in Ohio, il 5 maggio 1959, la prima laurea conseguita è stata in scienze politiche e africanistica. Ha conseguito un dottorato a Harvard e un master all’Università del Wisconsin. Successivamente si è laureata in giurisprudenza all’Università della California di Los Angeles ed è diventata docente universitaria nel 1995.
Tiene seminari e conferenze in tutto il mondo. I suoi interessi di ricerca, divulgazione e formazione sono i diritti civili, il femminismo nero, il concetto di razza, il razzismo e i loro legami con la legge.
È direttrice e fondatrice del think tank African American Policy Forum che si concentra su questioni di genere e diversità con la missione di costruire ponti tra ricerca accademica e discorso pubblico nell’affrontare la disuguaglianza e la discriminazione.
Fa parte della Women’s Media Initiative e collabora con varie riviste tra cui Ms Magazine e The Nation. È una commentatrice regolare del The Tavis Smiley Show.
Ha scritto il documento di base sulla discriminazione razziale e di genere per la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul razzismo, fatto parte del Comitato per la ricerca sulla violenza della National Science Foundation Against Women e del gruppo del CNR sulla ricerca sulla violenza contro le donne.
Nel 2015, è stata inserita nell’Ebony Power 100 ed è risultata al primo posto nella classifica delle personalità femministe della rivista Ms Magazine. L’anno successo ha parlato di intersezionalità in un seguitissimo Ted Talk.
Dal 2018 conduce il podcast Intersectionality Matters.
È molto attiva nel movimento Say Her Name, che cerca di far fuoriuscire dall’invisibilità le donne nere vittime della violenza della polizia.
Il suo lavoro ha influenzato la stesura della clausola di uguaglianza nella Costituzione del Sud Africa.Si è occupata ampiamente anche di molestie sul posto di lavoro.
Tra i vari libri scritti ricordiamo:
Parole che feriscono: teoria della razza critica, discorso d’assalto e primo emendamento e Teoria della corsa critica: documenti chiave che hanno plasmato il movimento.
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Empowerment femminile: esiste in azienda ancora un gap salariale?
Il 45% delle manager pensa che ci sia un gap salariale tra persone di genere diverso all’interno della propria azienda e l’85% ha pensato di cambiare azienda negli ultimi 5 anni, sintomo di realtà lavorative che non sono in grado di valorizzare e trattenere i propri talenti. Un fenomeno che spesso si concretizza nella ricerca di un nuovo posto di lavoro: infatti, il 53,3% afferma di aver cambiato azienda negli ultimi 5 anni. Gap salariale, la survey di WomenX Impact Questi sono solo alcuni dei dati che emergono dalla survey condotta su un campione di cento donne appartenenti alla community di WomenX Impact, il principale evento sull’empowerment e l’imprenditoria femminile in Italia. Creato da Eleonora Rocca, WomenX Impact nasce per valorizzare il ruolo delle donne nella società civile ed economica attraverso la presentazione di case studies e testimonianze di leadership femminile esposte da importanti imprenditrici, manager, CEO, influencer e libere professioniste. l palinsesto degli speaker conta già numerose presenze e figure internazionali che arrivano da tutto il mondo, da Boston, Dubai, Parigi, Londra, e non solo, pronte a salire sul palco per formare ed ispirare le leader di oggi e di domani. Uomini e donne al lavoro Tornando ai dati, emerge che il 64% delle intervistate ritiene che ci siano delle soft skill che riescono ad avvantaggiare di più le donne rispetto gli uomini, come ad esempio: una maggior capacità organizzativa (indicata dal 28% delle intervistate), maggiore empatia (26%) e una maggior capacità di mediazione (6,7%). Capacità che non trovano concretezza nella quotidianità lavorativa, dato che il sentimento comune è quello di non sentirsi valorizzate abbastanza sul luogo di lavoro. Inoltre, il 47% afferma che all’interno delle proprie aziende non sono state attuate azioni concrete per migliorare il livello di parità salariale di genere. Riguardo gli ostacoli per le donne nei loro percorsi di carriera, il 50% indica che il maggior impedimento sia la poca possibilità di conciliare la vita lavorativa e quella familiare. Segue con 36,7% il retaggio culturale, come ad esempio i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti delle donne, e la disuguaglianza di retribuzione tra uomini e donne indicata dal 6,7%. Interpellate sulle azioni concrete per combattere il gender gap, il 51,7% ritiene essenziale che le aziende adottino politiche trasversali di welfare che favoriscano un maggior equilibrio tra famiglia-casa-lavoro. Seguono una maggior parità salariale tra uomini e donne (23,3%) e un bisogno di maggior formazione aziendale (11,7%). Ridurre il gap salariale “La riduzione del gap salariale è un passo fondamentale verso la parità di genere. Solo quando donne e uomini saranno retribuiti in modo equo per lo stesso lavoro potremo parlare di una società giusta, inclusiva e progressista. Impegniamoci oggi per costruire un domani in cui il talento e il valore siano riconosciuti indipendentemente dal genere, creando opportunità e abbattendo quelle barriere dure da buttare giù” – ha dichiarato Eleonora Rocca, Founder e Managing Director di WXI – “La parità di retribuzione è un diritto universale e insieme possiamo renderlo una realtà.” WomenX Impact Summit 2023 La survey sarà presentata nel corso del WomenX Impact Summit 2023 dal 23 al 25 novembre che anche quest’anno si terrà presso il FICO Eataly World di Bologna. L’evento vedrà la partecipazione di molte professioniste e professionisti che tratteranno di come le aziende stanno affrontando questo cambiamento, spunti di riflessione importanti sul futuro dei media e della comunicazione, sul ruolo dei content creator e degli influencer nell’orientare le nuove generazioni rispetto ai valori in cui credere e tanti altri temi che verranno affrontati durante il summit. Read the full article
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“Ogni due minuti nel mondo muore una donna per cause legate alla gravidanza. Il 45% degli aborti praticati non sono sicuri”
“Ogni due minuti nel mondo muore una donna per cause legate alla gravidanza. Il 45% degli aborti praticati non sono sicuri” https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/04/06/ogni-due-minuti-nel-mondo-muore-una-donna-per-cause-legate-alla-gravidanza-il-45-degli-aborti-praticati-non-sono-sicuri/7122632/
Presto anche in Italia.
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La libertà è innanzitutto diritto alla disuguaglianza.
-Nikolaj Berdjaev
Freedom!!!
Pentesilea
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L’Italia è alla frutta: ecco gli ultimi disonorevoli indizi di Paolo Ercolani Talvolta è sufficiente un piccolo esercizio per ottenere il quadro di un paese, nella fattispecie il nostro. L’esercizio consiste nel mettere insieme alcune notizie tratte dalla cronaca più stringente. Se apriamo il giornale leggiamo di un europarlamentare che, nell’atto di doversi esprimere a difesa di un noto prodotto italico contro le brutte copie straniere dello stesso, è costretto a rinunciare al proprio intervento perché incapace di svolgere un discorso di sessanta secondi in inglese. Poi leggiamo di un uragano che sta per abbattersi sulla Sicilia sud-orientale, dove il maltempo aveva provocato svariati danni già pochi giorni fa, ma contemporaneamente veniamo a sapere che gli amministratori di quella regione non sono riusciti ad attingere alla consistente somma di denaro che l’Europa aveva messo a disposizione per i territori colpiti da fenomeni climatici. Si parla di cifre considerevoli praticamente inutilizzate. Sempre in questi giorni abbiamo assistito allo spettacolo indegno di un Parlamento italiano che riporta il nostro paese al Medioevo, bocciando una legge che avrebbe garantito le persone vittime di violenza in seguito a un pregiudizio sessuale o riferito a una qualche disabilità. Invece di rappresentanti eletti dal popolo per curare gli interessi di quest’ultimo – profumatamente pagati anche per tenere un decoro degno della posizione ricoperta (questo determina la Costituzione) – abbiamo visto signori disonorevoli sbraitare e festeggiare come forse soltanto in uno stadio di calcio. Ciò a motivo dell’essere riusciti ad affossare una legge che non avrebbe limitato la libertà di alcuno, ma soltanto tutelato quella di molte persone che da tempo immemore subiscono violenze ai più vari livelli. Sì, il nostro è fra i paesi in cui molte persone ancora si sentono in diritto di discriminare, dileggiare o esercitare violenza verso altri individui soltanto in virtù delle loro inclinazioni sessuali o in nome di una intollerabile diversità. Si sarebbe potuto porre fine a questa barbarie premoderna, attuata sulla base di questioni tanto private quanto superficiali, ma evidentemente non da un Parlamento in cui molti sono il prodotto di quella medesima barbarie, invece che l’auspicabile cura. Bastano questi pochi esempi per rendersi conto delle due radici malate che affliggono la pianta dell’Italia, riassumibili con due termini: competenza e ignoranza. La prima è quella che sempre più risulta sistematicamente ignorata quando si tratta di far assurgere persone a ruoli politici, amministrativi e culturali, in buona sostanza operando attraverso privilegi e cooptazioni invece che considerando il merito individuale. La seconda è quella condizione per cui si è di fatto lavorato da decenni, in cui tutto ciò che è cultura, educazione e istruzione è stato meticolosamente ignorato, degradato e impoverito. Non a caso siamo fra gli ultimi paesi per investimenti sulla ricerca e fra i primi per tagli indiscriminati all’istruzione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un’opinione pubblica mediamente ignorante e imbarbarita, con una classe politica che ne rappresenta la degna proiezione. Un’epoca sciagurata, la nostra, in cui si procede nell’errore fatale di scambiare l’informazione per conoscenza. Sulla base di questo assunto è derivato l’intendimento assurdo che ogni testa valga uno, che ogni persona possa ricoprire qualunque ruolo e soprattutto che non vi sia bisogno di figure competenti nei vari ruoli che vanno dal “popolo” al “potere”. Basterebbe la Rete a compensare ogni laurea mancata, come ci insegnano no vax e complottisti di varia estrazione. È perfettamente inutile gridare al pericolo del fascismo, se poi dimentichiamo che esso è stato il prodotto dell’ignoranza e della disuguaglianza sociale che proprio sono tornate ad abbondare. A questo si aggiunga la scarsa qualità delle figure intermediarie (parlamentari, scienziati, docenti etc.), che troppo spesso ricoprono quei posti a fronte di tutto salvo che per merito, e avremo il capolavoro finale di un popolo abbrutito ed esasperato in cerca del Duce salvifico. Dimenticavo l’ultimo episodio tratto dalla cronaca di questi giorni, eloquente anch’esso. La senatrice Liliana Segre, oggetto al tempo stesso di sciocche beatificazioni (a sinistra e dintorni) e vergognose offese (a destra e dintorni), dopo essere stata indicata da più parti come prossimo Presidente della Repubblica, ha candidamente e onestamente declinato accampando la più ragionevole e oscena delle motivazioni: non ha le competenze per ricoprire un ruolo politico così delicato. C’è voluta una nobile signora scampata al fascismo per fornirci una delle chiavi con cui evitare il nuovo fascismo, quello che sta bussando con forza alle porte di un paese alla frutta.
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Uno per tutti
Nessuno ha il diritto di lavorare solo per la propria personale soddisfazione, di chiudersi nei confronti dei suoi simili e rendere la sua cultura inutile per essi. Infatti è proprio grazie al lavoro della società che egli è stato messo nella condizione di acquisire quella cultura; questa è in un certo qual modo un prodotto della società, un suo possesso; ed egli deruba i suoi simili di una loro proprietà se non vuole utilizzare la sua cultura in loro favore. Ognuno ha il dovere non solo di voler esser utile alla società nel suo insieme, ma anche di dirigere tutte le sue energie, nell’ambito delle sue possibilità, alla realizzazione del fine ultimo della società, che è quello di rendere sempre più nobile il genere umano e di renderlo sempre più autonomo, autosufficiente e libero dal giogo delle forze naturali. Così da questa nuova disuguaglianza viene a determinarsi una nuova uguaglianza, vale a dire un progresso uniforme della cultura in tutti gli individui.
J. G. Fichte, [Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, 1794], La missione del dotto, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1991 [Trad. M. Marroni]
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La libertà è innanzitutto il diritto alla disuguaglianza.
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Che cos’è la violenza? Una malattia presente dai secoli dei secoli, dall’inizio di tutto: malattia, sì. Sfortunatamente, non può essere racchiusa in una sola parola, in un solo gesto, infatti, com’è ormai ovvio a tutti: è qualcosa con miliardi di sfumature. C’è un tipo di violenza che può far più male di un altro? No, ma nonostante la violenza fisica possa ferire fino alla morte, la violenza verbale e psicologica non è nulla da sottovalutare: un taglio può richiudersi col passare del tempo, una parola di troppo, non si cancella con una scusa. La violenza, come ho già affermato prima, è nella sua oscenità una delle cose più varie al mondo: una tra le più diffuse attualmente è però quella sulla donna. In Portogallo, dal 2004 migliaia di donne sono vittime di violenza coniugale, mentre a partire dal 2005 in Belgio, una donna su cinque è vittima della stessa. Allo stesso modo in qualunque parte del mondo, da sempre, sempre peggio. Può essere definita, questa, “vita”? E’ normale non potersi sentire al sicuro neanche in casa propria? Abituarsi più facilmente ad uno schiaffo che ad una carezza? Viviamo in un mondo in cui la maggior parte delle persone ha la mente completamente chiusa e gli occhi appannati: in un mondo in cui, in alcuni paesi, esistono ancora le spose bambine, alle quali viene strappato il diritto di vivere l’età che hanno, in un mondo in cui ci sono donne o bambine che non hanno nulla e sono quindi costrette a subire giorno dopo giorno violenze o, ancora, discriminazioni. Viviamo in un mondo in cui invece di aiutare la donna che subisce violenza, sono tutti pronti a provocargliene ulteriore: sapendo solo dirle quanto sia debole, quanto stia sbagliando a non reagire come dovrebbe, senza pensare a quanto stia realmente soffrendo, a tutto ciò che c’è dietro. Ma ci pensate che nella gran parte dei casi di violenza sulla donna, quest’ultima viene addirittura accusata di essersela cercata? Senza pensare a tutto ciò che stia subendo, perché viviamo in mondo in cui non ci rendiamo conto di quando feriamo gli altri, figuriamoci di quanto. Ogni uomo dovrebbe far ridere la propria donna tanto da farla sentire male, ogni uomo dovrebbe far ritrovare la propria donna con la mascella dolorante: sì, ma dalle risate. Meriteremmo tutte di avere qualcuno che ci faccia sempre sentire libere ma al sicuro, qualcuno che ci tratti con delicatezza, con maggiore sensibilità, ma facendoci restare alla pari con egli. Credete poi, che non sia ugualmente una sottospecie di violenza, la disuguaglianza dei sessi in ambito lavorativo? Chi ha detto che la donna debba fare obbligatoriamente la pasticciera anziché la poliziotta? La casalinga anziché, il meccanico? Siamo nel ventunesimo secolo eppure assumiamo atteggiamenti sempre più medievali. Giorno dopo giorno assistiamo a carneficine anche peggiori dei secoli precedenti, delle guerre e delle rivoluzioni passate. Basta. Non è normale che sia normale.
#25 november 2020#25novembre#violence against women#stopviolence#womenrights#women love#womenpower#violence#violence against girls
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Articolo 5 del Decreto Lupi del 2014, Decreto Minniti del 2017 sulla sicurezza urbana, circolare Salvini del 1° Settembre 2018[1]. Tre provvedimenti che sono parte di un unico disegno, con interpreti diversi, che ha il duplice obiettivo di colpire qualunque autonomia sociale e di costruire popolazioni nemiche o da assistere, lasciando intatto il quadro strutturale dei problemi e delle disuguaglianze di accesso alla casa e delle politiche sociali e abitative assenti.
L’ossessione per la sicurezza e la tutela della proprietà privata a prescindere produce paura e povertà, non ha confini né di razza né di colore e non risolve alcun problema. Una volta aperta la diga dell’ordine pubblico, del decoro, della pulizia sociale, della legalità formale, si sa da dove si comincia a colpire (immigrati, neri, rom), ma non si sa dove si finisce. Prima o poi, anche altre parti della popolazione diventeranno oggetto di quelle politiche di repressione, in cui a prevalere è una sola idea: pulire la città e sterilizzare lo spazio pubblico da tutte quelle presenze ed attività considerate indecorose, allontanando la ‘brutta gente’, gli appartenenti alle rinnovate classi pericolose. Persone senza tetto, ambulanti, parcheggiatori senza permesso, artisti di strada, persone che chiedono l’elemosina, occupanti di abitazioni, immigrati presenti nello spazio pubblico o ospiti del sistema di accoglienza sono stati costruiti come soggetti problematici per l’ordine pubblico, da controllare.
Miseria della politica, ingiustizia sociale
Da questo cambiamento di paradigma politico e culturale bisogna muovere per comprendere cosa è avvenuto nel rapporto tra istituzioni e povertà nell’ultimo decennio. Nel dispiegamento della crisi economica in corso dal 2008, la politica ha scelto in maniera ampiamente maggioritaria di colpire chi veniva già investito dai cambiamenti in corso, accompagnando i processi di impoverimento materiale con processi di impoverimento politico ed istituzionale. Alla miseria economica crescente per una parte della popolazione si è associata la miseria crescente della politica, sempre più disinteressata a cambiare le tendenze in corso. E questo è accaduto mentre si sono approfondite le disuguaglianze economiche e sociali, perché non è vero che tutti si impoveriscono. Come ha scritto l’Istituto nazionale di statistica nell’indagine “Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie” pubblicata il 6 Dicembre 2017, mentre tra il 2016 e l’anno precedente si è verificata una “significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie”, si è registrato, contemporaneamente, “un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale”. Dunque, in sintesi: più ricchezza complessiva ma più distanze economiche e, dunque, più poveri, più persone e famiglie a rischio di povertà.
È, questa, una tendenza chiarissima a livello italiano ed internazionale. È quella tendenza che una serie di studiosi e studiose hanno chiamato Robin Hood al contrario: un insieme di meccanismi economici, politici e finanziari di redistribuzione della ricchezza. Però, una redistribuzione dal basso verso l’alto. Togliere ai poveri, impoverendoli sempre più, per dare ai ricchi, rendendoli, così, non solo sempre più ricchi, ma anche sempre più forti. Si scrive “impoverimento” e “disuguaglianza”, si legge ingiustizia sociale ed economica. Laddove, con riferimento alla distribuzione dei redditi individuali equivalenti, il 20% più povero della popolazione dispone solo del 6,3% delle risorse totali, mentre il 20% più ricco possiede quasi il 40% del reddito totale, di cosa parliamo se non di ingiustizia?
La composizione della povertà
Per questo è necessario soffermarsi sul nesso povertà-disuguaglianze e farlo non solo in termini individuali, cioè guardando a redditi e consumi, ma anche in termini collettivi, cioè guardando ai servizi pubblici disponibili, la cui forza o debolezza influenza molto la vita di chi ha redditi più bassi della media.
Può essere utile, allora, mettere in fila anche altri dati. Ad esempio, quelli sull’accesso alle prestazioni sanitarie nei centri di analisi convenzionati, caratterizzati da tempo nelle regioni meridionali dal fatto che ad un certo punto dell’anno le agevolazioni con i ticket si bloccano e tutte le analisi si pagano a prezzo pieno. E i dati sulle politiche abitative pubbliche, praticamente azzerate dalla fine degli anni ’80. E poi ci sono i dati sulle remunerazioni del lavoro. Oltre alle condizioni del pubblico impiego non precario e di una parte delle imprese private, la situazione è molto difficile: sono conosciute le reali condizioni di lavoro e le basse remunerazioni di commesse, badanti, camerieri, addetti ai supermercati, lavoro ambulante e di tanti lavoratori e tante lavoratrici autonome.
Quali sono le popolazioni maggiormente esposte? Al di là di tutte le retoriche populiste e razziste, i dati dell’Istat del 2017 dicono chele aree più a rischio sono le famiglie a basso reddito con stranieri e quelle di anziane sole e giovani disoccupati. In questi tre casi, il rischio di povertà o esclusione riguarda circa la metà delle persone, mentre il valore medio nazionale è 28,7%. Dunque, le famiglie proletarie immigrate e quelle di anziani soli con pensioni basse e disoccupati giovani sono le più esposte all’impoverimento. Questo quadro si aggrava, poi, per le famiglie con più di 5 componenti e in Italia meridionale e nelle Isole. Il rischio di povertà in queste aree d’Italia è molto più alto della media, interessando in maniera rilevante, qui, anche le famiglie a basso reddito di italiani.
Contro l’ideologia della sicurezza imparare dai movimenti per l’abitare
E le alternative dove sono? Ad esempio, a chi viene sgomberato o subisce il sequestro della merce o dell’attrezzatura per lavorare come ambulante quale possibilità diversa viene proposta? Nessuna. Ai processi di impoverimento si risponde da anni con polizia, vigili urbani e retoriche sicuritarie. Nei discorsi pubblici e dell’azione politica ed amministrativa sono scomparsi gli obiettivi dell’uguaglianza e della giustizia. È rimasto solo lo spazio per l’ossessione per la sicurezza, la quale costruisce una strada senza uscita, che, in un circolo vizioso, chiede sempre più polizia, sempre più controllo, sempre più repressione, all’infinito.
Al contrario, le politiche dovrebbero intervenire per rimediare alla tendenza. Soprattutto per affrontare la deriva della disuguaglianza. È chiaro dai dati presentati che non è sufficiente sostenere la cosiddetta crescita economica. Anzi, la crescita si sta traducendo in un meccanismo che accentua le disuguaglianze. Sono necessari interventi che redistribuiscono la ricchezza ma nel senso della giustizia sociale, dunque dall’alto verso il basso, dalle aree ricche a quelle povere ed impoverite. E, insieme, c’è il tema della questione salariale: come è possibile che tante famiglie, specialmente di immigrati, percepiscano redditi tanto bassi da farle vivere in povertà o a rischio grave di povertà?
Redistribuzione dei redditi e messa in discussione del lavoro povero sono due ambiti da affrontare con politiche pubbliche e azioni sindacali, che rifiutino l’idea che la società italiana debba divenire sempre più una società di diseguali, cioè una società sempre più ingiusta.
Queste politiche possono muovere dal riconoscimento delle capacità di organizzazione delle stesse persone in povertà. È un esempio chiaro quello di chi vive in occupazioni. Invece di penalizzare questa parte della popolazione, come ha fatto l’articolo 5 del Decreto Lupi nel 2014 e annuncia il Ministro dell’Interno Matteo Salvini citando esplicitamente il Decreto Minniti, si può riconoscere, anche dal punto di vista istituzionale, la ricchezza di queste esperienze e le proposte che esse avanzano.
Una parte della popolazione ha cercato nelle pratiche collettive dei movimenti per l’abitare un’alternativa all’isolamento. L’autorganizzazione di politiche per la casa, anche attraverso il riutilizzo di immobili vuoti, ha proposto soluzioni concrete a parti della società che non possono aspettare. Una parte della popolazione colpita dalla crisi economico-finanziaria e dell’abitare si è organizzata in diverse città italiane per cercare alternative collettive, socializzando la propria condizione e la conoscenza dei problemi abitativi. I movimenti per l’abitare in Italia, come altri movimenti internazionali contro debito e indebitamento, hanno affermato, e continuano ad affermare, la centralità dei bisogni sociali nelle politiche pubbliche, indicando una prospettiva di trasformazione fondata sull’uguaglianza e non sull’incremento delle disparità, dei lavori poveri e delle persone e famiglie senza casa. Essi hanno indicato una prospettiva di giustizia sociale, radicalmente alternativa a quella basata sul nesso indebitamento-povertà-bisogni/diritti sociali negati. La difesa di queste esperienze, in presenza di una esplicita politica repressiva, sarà necessaria non solo per tutelare le persone che vi vivono, ma il diritto di tutte e tutti noi a vivere la propria autonomia sociale, liberi e libere dalla repressione o dalle elemosine di Stato.
Gennaro Avallone
da Effimera
Note.
[1]Il decreto Lupi fu convertito con la legge 80/2014 avente ad oggetto “misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/05/27/14G00092/sg. Il decreto Minniti è diventato legge 48/2017, con “disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/04/21/17G00060/sg. La circolare Salvini è stata firmata il 1° settembre 2018 dal dottor Matteo Piantedosi, capo gabinetto: http://www.interno.gov.it/sites/default/files/circolare_2018_0059445.pdf.
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1° marzo Giornata mondiale contro le discriminazioni
Il Coordinamento Nazionale dei Docenti della disciplina dei Diritti Umani ricorda che il prossimo 1° marzo si celebrerà la Giornata mondiale contro le discriminazioni, istituita nel 2014 da UNADIS per promuovere una più ampia sensibilizzazione in materia.
Da studi recenti si evince che negli ultimi anni sta aumentando la disuguaglianza raggiungendo percentuali superiori al 70% nella popolazione mondiale, accrescendo il pericolo di divisione e innalzando barriere allo sviluppo economico e sociale.
La nostra Costituzione all’art. 3 ci ricorda che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Molto incisivi sono anche gli artt. 1 e 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: articolo 1 “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”
Articolo 2 “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.”
Gli stessi concetti sono poi ribaditi anche all’articolo 21 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Nel corso del 2022 due testimonianze importanti finalizzate alla fine delle discriminazioni hanno giustamente richiamato l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica; in ordine temporale, il discorso di insediamento del Presidente della Repubblica Italiana a Montecitorio davanti al Parlamento e l’altra è stata la prima intervista della storia di un Pontefice in tv, rilasciata da Papa Francesco domenica 6 febbraio nella trasmissione “Che tempo che fa” condotta da Fabio Fazio.
Il Presidente Mattarella nel suo discorso ha evidenziato i seguenti concetti: “… La pari dignità sociale è un caposaldo di uno sviluppo giusto ed effettivo. Le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno di ogni prospettiva di crescita …
… La dignità. Dignità è azzerare le morti sul lavoro, che feriscono la società e la coscienza di ciascuno di noi. Perché la sicurezza del lavoro, di ogni lavoratore, riguarda il valore che attribuiamo alla vita. Mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro …
… Dignità è impedire la violenza violenza sulle donne, profonda, inaccettabile piaga che deve essere contrastata con vigore e sanata con la forza della cultura, dell’educazione, dell’esempio.
… Dignità è diritto allo studio, lotta all’abbandono scolastico, annullamento del divario tecnologico e digitale. Dignità è rispetto per gli anziani che non possono essere lasciati alla solitudine, privi di un ruolo che li coinvolga …
… Dignità è contrastare le povertà, la precarietà disperata e senza orizzonte che purtroppo mortifica le speranze di tante persone …
… Dignità è non dover essere costrette a scegliere tra lavoro e maternità. Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza.
Dignità è un Paese non distratto di fronte ai problemi quotidiani che le persone con disabilità devono affrontare, e capace di rimuovere gli ostacoli che immotivatamente incontrano nella loro vita. Dignità è un Paese libero dalle mafie, dal ricatto della criminalità, dalla complicità di chi fa finta di non vedere. Dignità è garantire e assicurare il diritto dei cittadini a un’informazione libera e indipendente. La dignità, dunque, come pietra angolare del nostro impegno, della nostra passione civile …”.
L’intervista del Santo Padre successivamente è stato un discorso improntato a prendersi cura dell’altro, alleviando la sofferenza delle persone; l’uomo egoisticamente danneggia la natura. Possono costituire profondi spunti di riflessione per la comunità scolastica alcune Sue considerazioni: “Ci manca il toccare le miserie e il toccarle ci porta all’eroicità, penso a medici e infermieri che hanno toccato il male durante la pandemia e hanno scelto di stare lì. Il tatto è il senso più pieno”.
“Toccare è farsi carico dell’altro”.
Il Papa si sofferma inoltre sui giovani, sulla discriminazione giovanile, sul bullismo, sul cyber-bullismo e sull’aggressività sociale: “Penso ai suicidi giovanili e a quanto sia cresciuto quel numero. C’è un’aggressività che scoppia, pensiamo al bullismo: è aggressività nascosta, è un problema sociale, questa aggressività distruttiva va educata. Tutto inizia dal chiacchiericcio, che distrugge l’identità invito a essere coraggiosi: chiacchierare degli altri distrugge, bisogna andare a parlare direttamente. Così cominciano le divisioni”.
Il CNDDU, in occasione del prossimo primo marzo propone a tutte le scuole di aprire una riflessione, parametrata in base ai vari gradi di istruzione, su tali storici discorsi (versioni integrali reperibili online) realizzando al termine della riflessione una virtual whiteboard da condividere sul sito web della scuola o organizzando un tavolo anti-discriminazione. Segnaliamo l’iniziativa del liceo Giovanni da San Giovanni del Valdarno che sull’argomento ha preparato un contest incentrato sulla “creatività inclusiva”.
Inoltre invitiamo tutte le scuole a costituire uno sportello anti-discriminazione aperto a tutta la comunità educativa.
“Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi” (Gabriel Garcia Marquez)
Prof. Ronny Donzelli
CNDDU
source https://www.ilmonito.it/1-marzo-si-celebrera-la-giornata-mondiale-contro-le-discriminazioni/
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Kikue Yamakawa
Kikue Yamakawa, scrittrice e politica, ha dedicato la sua vita alla liberazione delle donne giapponesi e al miglioramento della loro condizione domestica, lavorativa e sociale.
Pioniera del femminismo socialista nipponico, ha contribuito a fondare l’associazione Sekirankai (l’Onda Rossa) e pubblicato un famoso manifesto in sei punti per chiedere tutela e pari diritti per le donne del suo Paese.
Nata a Tokyo il 3 novembre 1890, col nome di Kikue Aoyama, discendeva da una nobile famiglia di samurai da parte di madre. Ma lo spirito nazionalista e conservatore non ha mai attecchito sulla sua indole rivoluzionaria. Grazie al suo status privilegiato ha potuto frequentare l’accademia di lingua inglese Joshi Eigaku Juku. Il tipo di insegnamento limitante rispetto al sistema di istruzione maschile, aveva ben presto, provocato in lei critiche e dissenso.
Durante gli anni universitari, le si è spalancato il mondo del pensiero femminista e, grazie a Raichō Hiratsuka, fondatrice della prima rivista letteraria di sole donne Seitō, che ha illuminato i movimenti femminili nel primo ventennio del XX secolo, ha potuto pubblicare i suoi primi scritti.
Laureatasi alla Tsuda English Academy nel 1912, aveva 17 anni quando ha sposato Hitoshi Yamakawa, futuro professore di economia all’Università di Kyoto, leader sindacale e uno dei primi membri del movimento comunista clandestino poi passato alla fazione Rōnōha (Gruppo dei lavoratori e agricoltori) del movimento socialista. La coppia ha avuto spesso problemi con la legge a causa delle loro posizioni.
Kikue Yamakawa è passata da teorica ad attivista nel momento in cui, nell’aprile 1921, ha contribuito alla fondazione dell’associazione socialista femminile Sekirankai il cui scopo principale consisteva nell’abolizione del capitalismo, visto come fonte primaria dell’oppressione nei confronti delle donne. Dopo una vita breve e tumultuosa, due anni dopo, l’organizzazione è definitivamente sciolta.
La condizione delle donne e, in particolare, quella delle lavoratrici è stata al centro del suo interesse. Ha contribuito a organizzare una serie di conferenze sui diritti femminili al Kanda Seinen Kaikan e nel 1925, quando si è ristabilito il partito comunista, ha pubblicato un manifesto in sei punti, ancora attuale:
Abolizione del sistema familiare patriarcale e delle leggi a favore dell’ineguaglianza fra uomini e donne.
Uguali opportunità nel campo dell’istruzione e del lavoro.
Abolizione del sistema di prostituzione autorizzata.
Garanzia di salario minimo indipendentemente da sesso ed etnia.
Parità di retribuzione a parità di lavoro.
Tutela della maternità inclusa l’assistenza post natale e il divieto di licenziamento delle donne in gravidanza.
Il partito aveva accettato tutti i punti del suo programma tranne quello riguardante la prostituzione.
Visto che le donne continuavano a essere relegate alle sezioni femminili dei partiti e dei sindacati, ha continuato a esporsi per espandere l’identità delle donne da oggetto a soggetto, costante comune tra tutti i partiti, conservatori o liberali.
Dopo l’allargamento della guerra del Giappone contro la Cina nel 1937 e contro l’Occidente, sebbene di sinistra, è stata più incline a interagire con lo stato sempre più autoritario in tempo di guerra che ad opporsi o sfidarlo. Sostenere le posizioni di governo erano da lei considerate come un modo per ottenere vantaggi sociali migliori per le donne.
Contro le politiche di assistenza finanziaria che forniscono solamente soluzioni parziali, non ha partecipato al movimento per il suffragio femminile chiamato Shin Fujin Kyōkai (Associazione delle Nuove Donne), ritenendo che concentrarsi sul diritto di voto, senza alcuna critica costruttiva su ciò che la società doveva essere, avrebbe perpetuato la disuguaglianza delle donne, utilizzandole come armi della dittatura.
Quando il movimento socialista giapponese venne dichiarato fuorilegge, il marito venne arrestato. Rimase in carcere per due anni e dopo la guerra, si unirono entrambi al Partito Socialista Giapponese.
Dal 1947 al 1951 è stata a capo dell’Ufficio Donne e Minori del Ministero del Lavoro.
Durante la sua direzione venne prestata notevole attenzione alla parità salariale, la tutela dei diritti delle lavoratrici e la riduzione del lavoro minorile. È stata anche responsabile del lancio della Settimana della donna, a partire dall’aprile 1949.
In un’intervista sul Tokyo Times, del 12 novembre 1948, ha dichiarato che dovere del suo dipartimento era proteggere e dare dignità a donne e minori, per fare questo era necessario conoscere e indagare sulla reale vita quotidiana della popolazione per scoprire quale fosse il problema più urgente delle lavoratrici o delle vedove di guerra.
In Giappone le leggi sono cambiate e alle persone sono stati concessi uguali diritti, ma la popolazione non ne conosce il vero valore. Auspichiamo che tutte le donne abbiano abbastanza buon senso da rivolgersi al tribunale per le relazioni domestiche quando si presenta una causa di divorzio e che le leggi svantaggiose per le donne vengano riviste.
Prolifica scrittrice di saggi e libri, la sua vita, il suo pensiero e il suo impegno politico sono stati importanti per mostrare il contributo delle donne all’evoluzione del movimento socialista giapponese e per l’attuazione di riforme significative per lavoratrici e minori in un’economia ancora impoverita del primo dopoguerra.
Ha continuato a scrivere e impegnarsi fino alla sua morte, avvenuta il 2 novembre 1980.
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Nonostante la foto, a quanto pare, non sono solo beoti o fascisti. Non sono solo come quei barbari che hanno contestato il giornalista Saverio Tommasi a Firenze o analfabeti che dicono “questo bypass è come Adolf Twitter o come si chiama!” Quelli che sbraitano contro il GREEN PASS e urlano alla dittatura sanitaria e favoleggiano una vita a rischio zero e senza timori sono quelli più facilmente attaccabili, ma non sono tutti così. Saranno persone che non hanno avuto un lutto in casa? Chi lo sa, però innanzitutto bisogna ascoltarli con rispetto. Prendiamo almeno tre temi: lo stigma, l’iniquità sociale e la libertà. Protestano, almeno i più istruiti, contro il moralismo vaccinale secondo cui i non vaccinati sarebbero delinquenti o impuri o irresponsabili da additare al pubblico linciaggio verbale. I bravi cittadini ed i reietti. Bene, qualcuno potrebbe rispondere che si tratta di una corsa a prendere il trofeo della vittima, della pecora nera, dell’eretico alla moda, del diverso che sale sul podio e prende l’applauso, però, dall’altra parte, capisco che il moralismo dei detentori della verità e del bene è insopportabile. Il vittimismo è più diffuso dell’ignoranza, ma la fretta di lanciare scomuniche contro i cattivi non aiuta a vivere in una società unita. Anche perché, venendo al secondo punto, questi presunti cattivi potrebbero anche prendere a pretesto i problemi della campagna vaccinale, lontana dall’essere finita, per mostrare come inserire l’obbligo adesso produca disuguaglianze profonde. Spaccature per età, mestieri, regioni, condizioni di salute personali. Non è politicamente responsabile permettere che muri e frontiere nascano anche all’interno della nostra società, ad esempio incolpando chi non ha la certificazione solo perché sta ancora aspettando di poter fare la seconda dose. Ed il tampone che deve fare, se lo deve pagare lui. Terzo punto, il più debole: chi urla libertà-libertà non sa cosa sia un patto sociale, che implica diritti e doveri, ossia SOLO quei diritti che NON fanno male agli altri (ad esempio io, quando mi si dice che leggere fa perdere tempo, evito il colpo d’ascia sulla schiena). Sappiano che i morti da febbraio ad oggi sono quelli che non avevano terminato il ciclo di vaccinazione, ma è sempre meglio convincere che obbligare: con i bambini che pretendono tutto e niente vogliono dare in cambio, si parla; non li si prende a frustate oppure a trasmissioni televisive arroganti e beneducate. Comunque il costituzionalista Ainis ha detto: “E' giusto comprimere alcuni diritti secondari per spronare le persone a vaccinarsi, ma in questa situazione avrei qualche dubbio se invece si aggrediscono alcuni diritti fondamentali come la scuola, la mobilità e il lavoro.” Raggiungeremo questo livello? Tra l’altro, non credo proprio che le biblioteche, i teatri ed i cinema saranno circondate da sovversivi senza certificazione che lanceranno molotov per accedervi. Ma, tornando al problema della demonizzazione, anche se questi pseudolibertari dicono bestialità sul diritto o sulla storia, confonderebbero il codice della strada con il codice Rocco del regime fascista, l’anarchia con la giungla, non è saggio replicare che non vale più il sistema sanitario pubblico e le cure se le dovranno pagare loro. Anche perché quando pongono il problema della disuguaglianza (il tampone chi lo paga?), meritano una risposta ragionevole e sensata.
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