#dibattito sulla mafia
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pier-carlo-universe · 14 days ago
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Mafia: I mandanti esterni dietro le stragi. Un evento unico per approfondire e riflettere sulla mafia e le sue dinamiche nascoste.
Lectio magistralis e proiezione del documentario.
Lectio magistralis e proiezione del documentario. Sabato 18 gennaio 2025, alle ore 20:15, il Teatro Palladio di Fontaniva (PD) ospiterà l’evento “Mafia: I mandanti esterni dietro le stragi”, un’importante occasione per approfondire il tema della mafia e delle sue implicazioni meno note. L’incontro, organizzato dall’Associazione Falcone Borsellino, prevede una Lectio Magistralis tenuta da Giorgio…
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gcorvetti · 2 years ago
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Legalizzare l'erba?
Oggi ho letto un articolo che espone, anche in modo maldestro (scritto male va), la cronaca della solita caccia alle streghe. Sappiamo che la cannabis (non marijuana che è un nome affibbiatole ai tempi del proibizionismo negli stati uniti che portò al bando di una pianta) è illegale, il perché si trova su internet e non sto qua a raccontarvelo, vi dico solo che è a sfondo economico. La notizia parla di un assemblea studentesca per parlare di legalizzarla per combattere le mafie, fin qui niente di particolare, solo che ad un certo punto è arrivata la pula e dopo aver contattato la preside, che non era in sede, per capire se l'assemblea era autorizzata, si lo era, hanno comunque identificato, che vuol dire preso nomi e cognomi dei ragazzi che hanno organizzato tale dibattito, i ragazzi sono appena maggiorenni. Ora sul fatto di come la polizia abbia saputo che in un liceo ci fosse una cosa del genere non è scritto, inoltre hanno fatto irruzione come se ci fosse una riunione di mafiosi, anche perché è successo in Sicilia a Piazza Armerina. Ora dico, non si può neanche parlarne? Che subito si viene la pula, magari chiamata da qualche bacchettone che inneggia alla droga, sicuramente qualche genitore. Partendo dal fatto che se fosse legale quella di fumarla è l'ultima pratica che una pianta multiuso ha, si possono fare centinaia di cose con la cannabis un esempio che porto sempre in discussioni del genere è la 'carta' anche per evitare di abbattere foreste, ma gli usi sono veramente tanti, documentatevi se non ci credere c'è internet. Il fattore del collegamento mafia-cannabis, come sostanza illegale, è perché le cosche detengono il monopolio e siccome c'è una domanda ci vuole che soddisfa il mercato, questo è un discorso business ed è così per ogni cosa, se si parla del fatto che si parte da una canna e si finisce all'eroina (che ti porta ad una morte lenta) è una cazzata, mai pensato neanche di provare altre cose e nessuno di quelli che conosco che fuma ha mai neanche minimamente pensato di usare altre sostanze in modo duraturo. Penso che in Italia si sbagli approccio, poi è una mia opinione, se invece si spingesse più sulla questione dei mille usi si potrebbe anche convincere il più scettico che non è una questione di droga, potrebbe anche creare posti di lavoro, negli USA da quando l'hanno messa legale sono nate milioni di compagnie nei più svariati settori dal tessile alla cosmetica tutto a base di cannabis, certo poi c'è l'uso ricreativo che copre una grossa fetta, ma per esempio gli olandesi non fumano, si qualcuno ci sarà, ma già questo cosa fa pensare perché uno nasce in un posto dove la può comprare ovunque e non ci pensa perché è una cosa normale, se invece la metti illegale subito parte la curiosità, giustamente.
So che quello che scriverò adesso non piacerà a molti, però anche l'alcol e il tabacco sono droghe e andrebbero messe nella tabella degli stupefacenti illegali, ma sappiamo che lo stato ci guadagna e quindi è logico che siano legali, poi l'alcol è diventato oramai un alimento quando in verità non lo è. Si ho smesso di bere 3 anni fa e devo dire che sono rinato fisicamente e mentalmente, perché l'alcol ti sconquassa il fisico e ti devasta la psiche; poi vivo in un posto (Estonia) dove bere è lo sport nazionale e qua la gente è piena di problemi fisici e mentali anche gravi. Se non mi credi cazzi tuoi, prova a cercare, sempre su google, notizie su siti scientifici di ricerca, come ho fatto io, e ti renderai conto che è meglio non bere, poi ognuno fa quello che vuole, che si traduce anche nello schifare chi non beve, mi è successo, mio cognato mi ha chiesto perché non bevevo più, io gli ho risposto così (è inutile spiegare ad un cieco che colore è il verde), per tutta risposta mi ha fatto il segno "ma sei impazzito" con la mano all'altezza della tempia; un tizio in un locale mi ha detto "che uomo sei se non bevi", risposta "un uomo che sa scegliere se essere libero o schiavo di una droga", il tizio è inorridito poi ha detto che droga? Gli ho detto di farsi un giro in rete anche se sono convinto che non gli frega niente. Beh qua sono sul troglodismo andante quindi fanno poco testo.
Concludo che ho altro da fare dicendo : se io ho smesso di bere ma non mi faccio problemi se gli altri bevono e non obbligo nessuno a non bere e nessuno mi può obbligare a bere, se l'erba fosse legale chi obbliga le persone a fumare, non vuoi fumare non fumi nessuno ti obbliga, ma vorrei che si potesse scegliere in questo "mondo civile e moderno" non c'è scelta o fai come ti si dice o sei messo al bordo, meglio al bordo di una società malata che farne parte.
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colonna-durruti · 2 years ago
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Zerocalcare sulla mafia
"Trovo sbagliata l’idea che si possa combattere con più prigione e non aggredendo le condizioni in cui la mafia prospera. La sinistra, anziché aprire un dibattito sul tema, ha visto l’istituzione del carcere come una rivalsa verso i corrott», e sostiene di non avere al momento un partito di riferimento.
Mi sento molto distante dal Pd e scettico nei confronti della nuova candidata alla segreteria del Partito, Elly Schlein. Non credo in generale alle figure salvifiche. La politica è un’esperienza collettiva e le esperienze più avanzate che conosco oggi non passano attraverso i partiti. Con la pandemia le persone si sono chiuse in casa, formandosi un’opinione su Internet, lì dove si creano le idee più radicali. Si sono create delle Jihad reciproche. Un clima che è emerso anche in campagna elettorale. Giorgia Meloni è la rappresentante di una compagine politica che da 80 anni aspettava questo momento. I riferimenti sono sempre quelli del post-Ventennio."
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corallorosso · 3 years ago
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A chi esulta per Dell’Utri do una notizia: non è stato assolto dalle condanne precedenti Cari amici degli amici e cari commentatori e giornalisti che siete tutti barzotti per l’assoluzione del senatore Marcello Dell’Utri dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato (insieme a Mori, Subranni e De Donno) e che ora siete già passati dalla parte della santificazione, vi do una notizia che forse vi sconvolgerà: Marcello Dell’Utri non è stato assolto dalle condanne precedenti. Siete stupiti, eh? Marcello Dell’Utri è quello che il 7 luglio del 1974 portò nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi (un altro vostro santino nella collezione di figurine di loschi da ripulire a tutti i costi per servilismo) il pregiudicato Vittorio Mangano che venne assunto (lo dice una sentenza, solo che questa ve la state dimenticando, sbadati) come “responsabile” per evitare che i familiari dell’imprenditore fossero vittima di sequestro di persona. Mangano, giovane mafioso che diventerà boss del clan di Porta Nuova a Palermo, era il certificato di garanzia per non dispiacere alla mafia e Dell’Utri fu l’anello di congiunzione. E nonostante Dell’Utri abbia passato anni a raccontarci la frottola che Mangano fosse uno stalliere il Tribunale di Palermo ha sentenziato che sia Berlusconi sia Dell’Utri fossero a conoscenza dello spessore criminale di Mangano e anzi, dice la sentenza, l’avrebbero scelto proprio per questa sua qualità. Cari santificatori: il Marcello Dell’Utri che oggi state leccando in tutti i vostri editoriale è lo stesso uomo che al ristorante “Le Colline Pistoiesi” di Milano festeggiava tutto allegro con altri mafiosi alla festa del boss catanese Antonino Calderone, è lo stesso politico che dichiarò «Io sono politico per legittima difesa. A me della politica non frega niente. Mi difendo con la politica, sono costretto. Mi candidai nel 1996 per proteggermi. Infatti subito dopo mi arrivò il mandato di arresto […] Mi difendo anche fuori [dal Parlamento], ma non sono mica cretino. Quelli mi arrestano», è la stessa persona che venne dichiarata latitante l’11 aprile 2014 dalla Corte d’appello di Palermo per essere arrestato in un albergo a Beirut, in Libano, con due passaporti (di cui uno diplomatico scaduto) e una valigia piena di denaro contante per 30mila euro. Cari esaltatori: la sentenza definitiva conferma l’incontro del 1974 tra Berlusconi, Dell’Utri e i capimafia Francesco Di Carlo, Stefano Bontate e Mimmo Teresi, raccontato tra l’altro dallo stesso Di Carlo, collaboratore di giustizia. In uno degli uffici del futuro presidente del consiglio, in foro Bonaparte a Milano, fu presa la “contestuale decisione di far seguire l’arrivo di Vittorio Mangano presso l’abitazione di Berlusconi in esecuzione dell’accordo” sulla protezione ad Arcore. La sentenza scrive nero su bianco del “tema dell’assunzione -per il tramite di Dell’Utri- di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa nostra” e del “tema della non gratuità dell’accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell’accordo, essendosi posto anche come garante del risultato”. Cari commentatori, state esaltando un uomo che definì “eroe” Vittorio Mangano perché si era rifiutato di parlare davanti agli inquirenti. Volendo allargare il campo, siete pieni di fremiti democratici e garantisti per uno che disse: «Mussolini ha perso la guerra perché era troppo buono»· Si apra pure il dibattito sul processo sulla Trattativa ma per favore non insozzate la Storia con una mistificazione della realtà. Altrimenti viene il dubbio davvero che tutta questa gioia sia un favoreggiamento giornalistico alla mafia sotto le mentite spoglie del garantismo. Per favore, un po’ di serietà, dai, su. Giulio Cavalli
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goodbearblind · 5 years ago
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Iqbal Masih: il Bambino assassinato perché sfidò la “Mafia dei Tappeti”
A molti il nome di Iqbal Masih non dice nulla. Eppure oggi sarebbe un giovane di 35 anni, e forse sarebbe un avvocato.
Se avesse potuto studiare, se fosse ancora vivo
La sua vita invece è stata diversa, e si è conclusa tragicamente a soli 12 anni, con il suo nome assurto a simbolo della lotta allo sfruttamento minorile nel Pakistan.
In Pakistan, a Muridke nel Punjab, Iqbal era nato nel 1983. La sua famiglia, poverissima, indebitatasi per pagare il matrimonio del primogenito, lo aveva inizialmente costretto a lavorare in una fabbrica di mattoni e poi lo aveva venduto all’età di 5 anni per 600 rupie (più o meno 12 dollari americani) a un fabbricante di tappeti, che lo aveva ridotto in schiavitù.
Un destino non insolito. Sono milioni i bambini ridotti in schiavitù per integrare il magro bilancio familiare, o per colmare debiti. Il Pakistan possiede infatti una di quelle economie definite “emergenti”, la cui precaria tenuta finanziaria, a fronte di un vasto potenziale di crescita, si basa spesso sulla manodopera sottopagata o sfruttata, o costretta a lavorare in condizioni disumane.
Condizioni disumane come quelle in cui viveva Iqbal
Picchiato, redarguito di continuo e incatenato al suo telaio, il bimbo lavora per più di dodici ore al giorno per un’unica rupia insieme ai tanti piccoli schiavi invisibili, il cui compito consiste nell’intrecciare i nodi dei tappeti con dita veloci.
Iqbal, disperato, tenta parecchie volte la fuga ma, individuato dalle autorità, viene puntualmente riconsegnato ai suoi aguzzini e punito con l’isolamento in una cisterna sotterranea priva di aerazione, che descriverà poi come “la tomba“.
Nella primavera del 1992 riesce, però, a uscire di nascosto dalla fabbrica insieme ad altri bambini e a partecipare ad una manifestazione del Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato
Durante quell’evento, che celebra la «Giornata della Libertà», Iqbal sente parlare per la prima volta in vita sua di libertà e di diritti dei bambini che vivono in condizione di schiavitù. Spontaneamente, di fronte al pubblico, trova il coraggio di denunciare la condizione di sofferenza in cui versano i piccoli schiavi nella fabbrica in cui lavora. Il suo discorso improvvisato, dai toni accorati, scuote le coscienze e attira l’attenzione della stampa locale.
Durante la manifestazione Iqbal conosce anche Eshan Ullah Khan, leader del BLLF (Bonded Labour Liberation Front), il sindacalista che rivestirà un ruolo chiave nella sua transizione verso una nuova vita in difesa dei diritti dei bambini.
Grazie al suo aiuto Iqbal non torna in fabbrica e inizia a studiare, come ha sempre desiderato fare. Lentamente si riappropria di quell’infanzia che gli è stata negata. Il suo corpo però è irrimediabilmente segnato dalla malnutrizione e dai maltrattamenti subiti: a 10 anni possiede infatti la statura ed il peso di un bimbo di 6.
In breve tempo diventa il simbolo e il portavoce del dramma dei bambini sfruttati nelle fabbriche da padroni senza scrupoli. Appare sui teleschermi di tutto il mondo e partecipa a convegni, dapprima nei paesi asiatici, poi in Europa e negli Stati Uniti. Sensibilizza l’opinione pubblica sulle violazioni in atto nel suo paese e contribuisce attivamente al dibattito sulla necessità di tutelare i diritti dell’infanzia
Quando nel dicembre del 1994, presso la Northeastern University di Boston, riceve il premio Reebok Human Rights Award (vista la giovanissima età viene creata una categoria apposita per lui: Youth in Action), dona i 15 mila dollari ottenuti per costruire una scuola in cui gli ex bambini schiavi possano ricominciare a studiare.
Nel gennaio del 1995 interviene a Lahore, la seconda città del Pakistan, ad una conferenza contro lo sfruttamento del lavoro minorile. Grazie alla pressione esercitata dai media, circa tremila piccoli schiavi vengono liberati dal loro inferno, e il governo è costretto a chiudere decine di fabbriche di tappeti a seguito delle proteste della comunità internazionale.
Non ho più paura di lui – dichiara Iqbal riferendosi al suo padrone di un tempo – è lui che ha paura di me, di noi, della nostra ribellione”. E aggiunge: “Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite. Da grande voglio fare l’avvocato e lottare perché i bambini non lavorino affatto”.
Ma grande lui non diventerà mai
Il 16 aprile 1995, la domenica di Pasqua, mentre si reca in bici a messa insieme a due cugini, viene falciato da una raffica di proiettili. Lo ritrovano riverso in un lago di sangue, con la Bibbia nel taschino e con un’immaginetta di Gesù che segnava una pagina che lo aveva particolarmente colpito.
Il successivo processo, che vede imputati gli esecutori materiali dell’omicidio, non chiarisce le motivazioni del gesto, ma si comprende ben presto che un atto del genere è dovuto probabilmente alla ritorsione della locale “mafia dei tappeti”, che si sente minacciata nei propri affari dall’attivismo di Iqbal.
Oggi i suoi assassini sono liberi, mentre il giornalista che per primo ha raccontato la sua storia si è dovuto difendere in tribunale dall’accusa di “danneggiamento del commercio estero della nazione”.
Una storia di grande speranza dal drammatico epilogo quella del giovanissimo martire pakistano, che commuove e invita a interrogarci sulla sua eredità, a oltre di 20 anni dalla sua morte.
Possiamo certamente affermare che, grazie alle battaglie di Iqbal, la situazione in Pakistan è cambiata. Le sue testimonianze hanno infatti avuto una risonanza che ha travalicato i confini nazionali, approdando in occidente. Molti negozi europei, destinatari della merce prodotta nelle industrie tessili pakistane, hanno finalmente iniziato a tutelare i diritti dei bambini, e si assicurano adesso che il lavoro minorile non sia impiegato nella produzione dei tappeti acquistati nei negozi dell’Asia meridionale.
I governi di Pakistan e India, dal canto loro, hanno chiuso moltissime fabbriche che traevano profitto dallo sfruttamento e introdotto norme che vietano il lavoro minorile, sebbene tali norme non vengano sempre rispettate pienamente.
Tuttavia tanto ancora resta da fare. Secondo un recente rapporto dell’Unicef, in Asia meridionale sono 77 milioni i bambini e i ragazzi che lavorano. In Pakistan ancora oggi l’88 per cento dei lavoratori impiegati in diversi settori lavorativi ha un’età compresa tra i 7 e i 14 anni.
Giovanna Potenza
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kon-igi · 6 years ago
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Mi girano questa cosa interessante ma un po’ lunga... confido nel vostro alfabetismo funzionale.
Il post di Nicola Lagioia a proposito della presenza di un editore vicino a gruppi fascisti al Salone del Libro di Torino era molto ragionevole ed equilibrato: definiva abbastanza chiaramente quello che secondo lui non deve essere tollerato (“l’apologia del fascismo, l’odio etnico e razziale”) ma suggerendo un dibattito e il coinvolgimento delle altre parti responsabili del Salone (“siamo antifascisti anche perché crediamo nella democrazia”) e ricordando di mantenere il senso della misura rispetto alla dimensione della questione (“Senza minimizzare, ma per dare le giuste proporzioni a chi ce lo sta chiedendo: stiamo parlando di circa 10 mq di stand su 60.000 mq di spazio espositivo, e di nessun incontro nel programma ufficiale su circa 1200 previsti. Lo scrivo solo perché ognuno così ha più strumenti per dire la propria”).
Gli auspici di tenere tutto nelle giuste proporzioni, in un paese sproporzionato dal primo suono della sveglia mattutina, sono andati a farsi benedire: e invece che un utile e proficuo dibattito la questione è diventata la consueta riga nel mezzo, e o di qua o di là, con reciproche accuse. Ci sono state ammirevoli eccezioni, come quella di Zerocalcare, che ha motivato la sua scelta facendo attenzione a non farla diventare un’accusa contro nessuno che non la condividesse, né una rivendicazione di maggior purezza antifascista (e aggiungo l’indomani Concita De Gregorio). Ma la discussione generale ha molto ristretto i suoi orizzonti, diciamo.
Invece proviamo a staccarci dal merito occasionale (se proprio devo dire la mia, per evitare che alla fine qualcuno chieda “e quindi?”, sono d’accordo con Enrico Sola) e approfittiamo per capire le ragioni del disaccordo tra persone che si ritengono antifasciste e come mai non ci sia una risposta definita e condivisa su un caso di questo genere. La domanda è: perché non abbiamo una regola? Può valere quella esposta dagli organizzatori del Salone, per i quali ciò che non è sanzionato dalla legge è lecito, in termini di libertà di espressione?
Il fatto è che quello di cui stiamo parlando è un’eccezione alla regola, prima che una regola: la regola è la libertà di espressione – che non è una concessione, ma un principio prezioso – da cui dobbiamo decidere se escludere delle cose, se ci siano cose che invece non si debba permettere di dire. Ed è lo stesso tema dei tabù; o delle “emergenze”, nel senso delle “leggi emergenziali” con cui affrontiamo questioni che dovrebbero essere eccezionali con strumenti che violano le libertà, questioni che le regole consuete non ci permettono di affrontare. Faccio alcuni esempi sparsi di interventi di questo genere: certe leggi antiterrorismo (italiane o americane), certe leggi antimafia, il divieto di rientro dei Savoia, le norme che sanzionano il saluto romano, le leggi in diversi paesi che perseguono il negazionismo sull’Olocausto.
Ora, il dibattito su questa cosa è ricco e antico: da una parte i promotori di queste “eccezioni” alle libertà in genere consentite sostengono che le eccezioni siano uno strumento efficace per limitare o sconfiggere pericoli gravissimi (il terrorismo, la mafia, il fascismo: “emergenze”), dall’altra i loro critici sostengono che in alcuni di questi casi il gioco non valga la candela, in termini di limitazione dei diritti, di eccesso di potere arbitrario attribuito a istituzioni dello Stato, di creazione di precedenti di sovversione delle regole condivise. E ogni caso fa naturalmente storia a sé. Ma io credo che un criterio fondamentale per limitare il più possibile che ogni “eccezione”, che ogni legge emergenziale, generi mostri liberticidi incontenibili (perché ne genera, sempre) sia che ne siano stabiliti e condivisi con grande esattezza i limiti e le applicazioni. Il caso (limite, lo so) più esemplare è quello dell’ormai estinto divieto di rientro in Italia dei Savoia: che lo si condividesse o no, l’eccezione aveva dei termini di applicazione limitatissimi e soprattutto indiscutibili, esenti da quasi qualunque arbitrarietà, estensione indesiderata o pretestuosa, discrezionalità, messa in discussione. Simile è il caso del negazionismo sull’Olocausto. Il problema nasce quando c’è spazio per la domanda “chi decide cosa sia il [quello che vogliamo sia un tabù]?”.
Per fare un esempio contingente: dire “non ci possono essere contenuti o libri fascisti” è molto scivoloso, perché la definizione del fascismo è da sempre sfuggente. “Lo so riconoscere quando lo vedo” non può essere una formula autorevole e condivisa per una cosa – il fascismo – che tanto per cominciare da sempre interpretiamo di volta in volta come un periodo storico specifico e italiano, o un approccio violento e prevaricatore alle cose e agli altri, o un’ideologia dai contorni indefiniti e confusi a sentire i suoi stessi esponenti, o un progetto politico di difficile sintesi e fatto di molte parti, alcune delle quali peraltro condivise con altri progetti invece più tollerati. Qualcuno ha provato a definire il campo dicendo che dobbiamo considerare fascista chi si dica fascista, ma il campo così si riduce molto, più che definirsi: malgrado la legge Scelba, nel dopoguerra ha prosperato in Italia un partito che tutti – dentro e fuori – consideravano fascista, chiamandosi Movimento Sociale (molti lo volevano “fuorilegge”, ma molti di più lo accettarono). La stessa interpretazione della legge Scelba, come dice per esempio l’articolo che ho già linkato, è stata spesso diversa e fragile.
Per questo mi sembra già utile lo spostamento che aveva fatto Lagioia, e poi altri dopo di lui, su “l’apologia del fascismo, l’odio etnico e razziale”, che sono pratiche già più riconoscibili, anche se pure queste con estese zone grigie di dissenso su cosa rientri nella definizione, come sappiamo molto bene di questi tempi per via dei quotidiani casi di perplessità sui contenuti diffusi sui social network e sulla loro sanzionabilità. E peraltro, temo che qualcuno troverebbe in molte opere editoriali del presente o del passato (pure tra quelle vendute al Salone) delle predicazioni di odio: saremmo daccapo a cosa fare col Mein Kampf, per esempio. Certo, a ognuno di noi sembra di avere la capacità di distinguere quali siano i libri “pericolosi” in questo senso e quali no: ma per nessuno sono gli stessi, che sia in buona o in cattiva fede. E proprio perché parliamo di eccezioni, di emergenze, di limiti alla libertà, i criteri devono essere estesamente condivisi, e autorevoli: siamo antifascisti.
Queste ragioni mi suggeriscono – nei miei dubbi – di pensare che quello di cui parliamo non sia un caso che possiamo definire per legge, per regola universale: e che quindi siano rispettabili le posizioni di chiunque affermi sinceramente il proprio antifascismo, che questo lo porti di volta in volta a mettere un limite alla libertà di espressione, o che lo porti a non volerlo mettere. L’unico antifascismo insincero è quello che diventa violento e prevaricatore nei confronti di opinioni diverse, che alza la voce: quello è il fascismo.
E poi c’è un’ultima cosa: le emergenze, i tabù, le eccezioni, proprio perché sono dei sacrifici della libertà da non introdurre a cuor leggero, sono motivati da ragioni di efficacia. Per combattere la mafia, il terrorismo, il fascismo, l’antisemitismo, il razzismo: sono il mezzo, non il fine. Esistono proprio perché servono. Ora, io credo che oggi uno dei fattori di successo del proselitismo fascista, razzista, retrogrado, antintellettuale, antiscientifico e troglodita che in tutte queste sue accezioni sta prevalendo, sia la propaganda falsificatrice vittimista che accusa i sistemi democratici e i principi progressisti di “superiorità morale”, di “pensiero unico”, di “omologazione culturale” e di persecuzione conformista di idee presunte “fuori dal coro”: persino oggi che il pensiero fascista, razzista, retrogrado, antintelletualle, antiscientifico e troglodita in tutte queste sue accezioni è diventato maggioritario, è al potere, è cultura dominante ed estesissima, la sua propaganda continua a raccontarlo vittima, perché costretta da questo proprio messaggio a dipingere il mondo come persecutorio. E per farlo, il suo strumento principale (guardate i quotidiani di destra, leggete i tweet di Salvini o Meloni) è l’esaltazione, l’enfasi e la falsificazione di qualunque marginalissima occasione per dipingere presunte “sinistre violente e persecutorie”. Non ci fermeranno, vogliono chiuderci la bocca, guardateli, eccetera. Sto dicendo, per farla brevissima, che anche i casi più sinceri e benintenzionati di proclama pubblico del proprio boicottaggio del Salone si risolveranno, in termini di efficacia antifascista, in una vittoria della propaganda fascista (insperata, per l’ultimo degli stand presenti). Liberi di pensare il contrario, naturalmente: ma guardate chi vince le elezioni, nel mondo, e guardate se non gli abbiamo fatto la guerra, a parole, appelli e prese di distanza pubbliche (e poco con la costruzione di proposte convincenti alternative).
E ripeto, a scanso di rischi: ogni scelta individuale è legittima e degna, e non bisogna fare tutto per ragioni di efficacia, ma anche per sé (come dice Zerocalcare). “Serve a me”, mi ha risposto giustamente un amico a cui ho chiesto di recente a cosa servisse rispondere con degli insulti a un tweet di Salvini. Però non credo proprio – voglio essere possibilista e sperare di sbagliarmi – che sconfiggeremo l’attecchire quotidiano del fascismo andando via quando ci sono i fascisti, o urlando “vergogna”: quelli si allargano.
Luca Sofri su Wittgenstein
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popolodipekino · 6 years ago
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spazza, tura e spazza
(puntata precedente qui)
«I corrotti non vanno trattati come i mafiosi»  Lo dice la Cassazione, La suprema corte contro lo stop alle misure alternative - di Errico Novi
Si può con una certa soddisfazione  notare come il circuito  fra dottrina e Corti superiori   funzioni bene. E cioè come  vi sia un dibattito giuridico molto dinamico attorno a temi di diritto che la politica tratta a volte con una certa sbrigatività. Lo si può dire a proposito di un’ordinanza,  la numero 1992 del 2019, emessa lo scorso 18 giugno dalla Cassazione e che ieri è stata depositata.  Si tratta della decisione che ha rimesso d’ufficio alla Consulta la questione di legittimità costituzionale  della legge “spazza corrotti”  per la parte in cui la riforma preclude  l’accesso alle misure alternative  persino per il peculato. Da ieri sappiamo che le ragioni della scelta compiuta dalla Cassazione sono ancora più sorprendenti, e incoraggianti, di quanto si fosse inteso.  Prima di tutto perché hanno a che vedere con la violazione non del principio di irretroattività ma del principio di ragionevolezza, e silurano dunque le nuove norme in assoluto, non solo rispetto alla loro applicabilità ai reati commessi  prima che la riforma entrasse in vigore. Inoltre le motivazioni dell’ordinanza si agganciano addirittura  alle tesi affermate dall’accademia  negli Stati generali dell’esecuzione  penale.
L’IRRAGIONEVOLEZZA
Certo, a essere presa di mira è l’ostatività  ex articolo 4 bis estesa a una fattispecie specifica qual è il peculato. Ma la Cassazione afferma la generale necessità di un «fondamento logico e criminologico»  delle «scelte legislative» che riguardano la sanzione dei comportamenti illeciti. In sostanza,  assimilare i “corrotti” a mafiosi  e terroristi è, per la Suprema corte,  irragionevole. Vi è quanto meno  il sospetto che la “spazza corrotti”  violi il principio costituzionale  di ragionevolezza ( come aveva  già segnalato, con ordinanza analoga, la Corte d’appello di Palermo),  ed è per questo che il giudice  di legittimità ha deciso di rimettere  la questione alla Consulta.
Dopo l’udienza con cui proprio un mese fa, la prima sezione, presieduta  da Giuseppe Santalucia e con Raffaello Magi relatore, aveva  assunto la decisione depositata  ieri, si era dato per scontato che l’avesse voluto affermare il principio  di irretroattività. L’ordinanza infatti riguarda il caso di un condannato  in via definitiva per peculato, Alberto Pascali, che si è visto negare la possibilità di chiedere la messa alla prova ed è stato costretto  a valicare la soglia del carcere di Bollate. In particolare, la Cassazione è intervenuta sulla successiva scarcerazione di Pascali,  ordinata l’ 8 marzo dalla gip di Como Luisa Lo Gatto, convinta della inapplicabilità della norma che estende l’articolo 4 bis ai reati di corruzione, peculato compreso,   anche per le condotte precedenti  l’entrata in vigore della “spazza corrotti”. A chiamare in causa la Suprema corte è stata la Procura di Como, che ha impugnato  l’ordinanza della gip.
Nella decisione depositata ieri dalla Cassazione ci sono aspetti di straordinario interesse. Senz’altro quello della probabile irragionevolezza della “spazza corrotti” nella parte in cui estende  il 4 bis a reati come il peculato, e assimila così i “corrotti” a mafiosi e terroristi. Vizio energicamente  denunciato nella memoria difensiva   predisposta, per Pascali, dal professor Vittorio Manes e dall’avvocato Paolo Camporini. «In particolare la condotta di peculato», afferma la Cassazione, «non appare contenere — fermo restando il suo comune disvalore — alcuno dei connotati idonei a sostenere una accentuata e generalizzata  considerazione di elavata  pericolosità del suo autore, trattandosi  di condotta realizzata senza  uso di violenza o minaccia e difficilmente  inquadrabile — sul piano  della frequenza statistica — in contesti di criminalità organizzata». In altre parole, non si può trattare  il peculato come la mafia.
IL CARCERE E LA RIFORMA
Non è finita qui. Perché nel ritenere  irragionevole precludere l’accesso  immediato, per i corrotti, a misure alternative come la messa alla prova, la Cassazione “resuscita”,  per così dire, la riforma del carcere  in realtà mai venuta alla luce. Lo fa con un omaggio ai principi di quella rivoluzione incompiuta, pure contenuti, sotto forma di delega,  in una legge entrata in vigore:  «Va segnalato come nella scorsa  legislatura», ricorda la Cassazione,  «siano stati approvati in Parlamento più punti di legge delega  — la n. 103 del 2017 ( la riforma  penale dell’ex ministro Orlando,  ndr) — tendenti alla riconsiderazione  complessiva delle preclusioni  legali di pericolosità in sede di accesso alle misure alternative, con ri- affidamento al giudice del compito di valutare la sussistenza delle condizioni di ammissione». E, aggiunge la prima sezione persino  con un certo “coraggio politico”,  «il mancato esercizio, su tali aspetti, della delega, non ridimensiona  la valenza obiettiva di una ampia convergenza di opinioni circa la necessaria riconsiderazione  organica del sistema delle presunzioni,  tradottasi», appunto, «in legge nel 2017». Nel sospettare  l’incostituzionalità dell’estensione  al peculato del regime ostativo  ex articolo 4 bis, la Cassazione insomma si riconnette alla lavoro degli Stati generali dell’esecuzione  penale. Quanto meno rispetto alla necessità di affidare al giudice  la valutazione dell’effettiva, persistente pericolosità del soggetto.  Una rivoluzione nella rivoluzione.  Che non potrà certo far vivere  una riforma penitenziaria lasciata  morire, ma che almeno può eliminare le parti più irragionevoli  della spazza corrotti.
da Il Dubbio di stamani 19 luglio 2019
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unsoleconlalunastorta · 7 years ago
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Oggi i Collettivi Anco Marzio, Enriques e Labriola sono scesi in piazza contro le Mafie, per ribadire l'importanza degli spazi di aggregazione come unico antidoto per combattere l'infiltrazione mafiosa. Vogliamo discutere, dibattere in un posto che sia tutto nostro, dove poter riunirci.
Abbiamo chiesto alle istituzioni di non lasciarci soli, abbiamo chiesto di affiancarci, abbiamo chiesto ai giornalisti di non andarsene ma di lasciare sempre accesa la luce su Ostia e sul nostro territorio.
Il nostro percorso di 100 passi inizia proprio da queste 30 persone, persone bellissime che si impegnano giorno per giorno per cambiare il territorio.
Ci siamo detti che oggi è stato un punto d'inizio e che continueremo, continueremo a parlare, a sensibilizzare gli altri studenti per far capire che la mafia è qualcosa che riguarda tutti noi ed è ovunque. La nostra attività sarà fatta sulla visione di film e sul dibattito, sul confronto e sulla conoscenza di testimoni, alcuni dei quali si sono detti entusiasti di aiutarci.
Abbiamo ricordato che, la scuola, deve tornare a parlare di temi come Mafie e legalità e non rimanere indifferente: gli studenti, quando usciranno da scuola saranno cittadini! Vogliamo essere informati e partecipare, vogliamo sviscerare la Costituzione, conoscere la storia e dibatterne. Ma non possiamo essere soli. Vogliamo che l'istituzione scolastica ci sostenga in questo percorso!!
La strada è lunga… ma 100 passi non sono poi così tanti.
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purpleavenuecupcake · 5 years ago
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32 miliardi sottratti alla mafia, Eurispes: "serve una 'Iri 2' per valorizzare immenso patrimonio"
Il valore complessivo dei beni sequestrati e confiscati alle mafie ammonta a 32 miliardi di euro, pari all'1,8% del Prodotto interno lordo prima della crisi indotta dalla pandemia. Lo evidenzia l'Eurispes che propone di creare una holding per gestire al meglio questo patrimonio, "organizzata in stretta collaborazione con l'Agenzia nazionale per i beni confiscati e sequestrati alla criminalita' organizzata e con la vigilanza del sistema giudiziario antimafia". "Si tratterebbe - evidenzia l'Osservatorio permanente sulla sicurezza dell'Eurispes - di un' 'Iri 2' con il capitale piu' alto del capitale sociale di Eni, Enel, Assicurazioni Generali, Intesa San Paolo, Poste Italiane e Leonardo messi insieme. Una Holding articolata per settori di competenza affidati a manager di comprovata esperienza (come, ad esempio: immobiliare, produzione agroalimentare, agricoltura, distribuzione, servizi e ambiente). Certo - sottolinea - la valorizzazione di questo immenso patrimonio non sarebbe da subito disponibile per fronteggiare nell'immediato l'emergenza generata dall'epidemia da Coronavirus ma potrebbe rappresentare una delle risorse strategiche per uscire dalla crisi e rilanciare la nostra economia". "Una simile opzione strategica - prosegue l'Osservatorio - metterebbe d'accordo anche i due orientamenti di pensiero che si fronteggiano da anni sul tema della vendita dei beni confiscati, polarizzandosi tra chi preferisce monetizzare il valore dei beni sequestrati e confiscati con finalita' meramente contabili e chi, invece, destina a fini sociali i beni sequestrati e confiscati anche allo scopo di fornire alla collettivita' un segnale di virtu' civica". I beni mobili sottratti alle mafie ammontano ad un valore di 4 miliardi 336mila euro, dei quali 2 miliardi ed 85 milioni di euro sono cash, liquidita'. La gestione patrimoniale di questi beni, tuttavia, segnala l'Eurispes, "ha prodotto nel complesso sinora solo 57 milioni 884mila euro".
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 “Certo – scrivono il presidente dell’Osservatorio, Pasquale Preziosa, e i vicepresidenti Giovanni Russo e Roberto De Vita - la valorizzazione di questo immenso patrimonio non sarebbe da subito disponibile per fronteggiare nell’immediato l’emergenza generata dall’epidemia da Coronavirus ma potrebbe rappresentare una delle risorse strategiche per uscire dalla crisi e rilanciare la nostra economia. Una simile opzione strategica metterebbe d’accordo anche i due orientamenti di pensiero che si fronteggiano da anni sul tema della vendita dei beni confiscati,
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polarizzandosi tra chi preferisce monetizzare il valore dei beni sequestrati e confiscati con finalità meramente contabili e chi, invece, destina a fini sociali i beni sequestrati e confiscati anche allo scopo di fornire alla collettività un segnale di virtù civica”.
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   “Destinare il patrimonio confiscato a finalità sociali – conclude il documento - attraverso un’opzione metodologica più moderna e rispondente alle esigenze economiche del Paese, senza snaturare la finalità sottesa alla destinazione del bene alla società, rifletterebbe l’impostazione che intende valorizzare le potenzialità dell’istituto dell’asset recovery quale strumento di riscatto morale da una parte e l’avvertita necessità di un concreto sviluppo economico legato al riutilizzo dei beni confiscati. Infine, le risorse generate da questa gestione imprenditoriale e manageriale dell’enorme capitale disponibile potrebbero essere utilizzate, nelle diverse forme possibili, nella lotta alle mafie stesse”.
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"La proposta del presidente di Eurispes, Gian Maria Fara, coglie nel segno di una chiara inefficienza o quantomeno di una mancata opportunita' da parte del nostro Stato". Lo dichiara il Questore della Camera e membro della commissione Giustizia Edmondo CIRIELLI (FdI), che spiega: "L'idea di dar vita ad una holding per mettere a frutto i 32 miliardi sottratti alle mafie, che possa rappresentare una sorta di futura 'Iri 2', mi interessa particolarmente essendo da sempre un parlamentare della Destra Sociale. Per questo - annuncia CIRIELLI - su un tema cosi' importante lancero' anche un dibattito all'interno di Fratelli d'Italia con l'obiettivo di far elaborare e presentare successivamente in parlamento una proposta concreta dal mio partito di appartenenza che, da sempre, e' sensibile all'idea del rilancio infrastrutturale dell'Italia. Peraltro - conclude CIRIELLI - questo momento e' particolarmente indicato per il grave disastro economico provocato da una insipiente gestione dell'epidemia da parte della maggioranza Pd-5 stelle". Read the full article
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italianaradio · 5 years ago
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La criminalità organizzata spiegata ai ragazzi. All’Ipsia di Siderno continua il progetto A-Ndrangheta
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/la-criminalita-organizzata-spiegata-ai-ragazzi-allipsia-di-siderno-continua-il-progetto-a-ndrangheta/
La criminalità organizzata spiegata ai ragazzi. All’Ipsia di Siderno continua il progetto A-Ndrangheta
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La criminalità organizzata spiegata ai ragazzi. All’Ipsia di Siderno continua il progetto A-Ndrangheta
La criminalità organizzata spiegata ai ragazzi. All’Ipsia di Siderno continua il progetto A-Ndrangheta Lente Locale
di Antonella Scabellone
SIDERNO- Ancora un altro incontro con la  Polizia di Stato all’Ipsia di Siderno nell’ambito del progetto “A-ndrangheta, progettiamo una città senza crimine”, pensato e voluto dalla Questura di Reggio Calabria per diffondere tra i giovani la cultura della legalità.
Lo scorso 7 febbraio si è parlato di criminalità organizzata nell’aula magna dell’istituto, con l’intervento di autorevoli relatori, ognuno esperto in un settore della giustizia. Introdotti dal giornalista Gianluca Albanese, direttore della testata online Lente Locale, che ha moderato gli interventi, hanno preso la parola: il dirigente del commissariato di PS Siderno, Antonino Cannarella, tutor del progetto; il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri, Michele Premunian; la criminologa­­­ Lidia Fiscer e il tenente dei Carabinieri Cosimo Sframeli.
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In apertura i saluti del DS Gaetano Pedullà che, nel rimarcare l’importanza del progetto della Questura, si è detto onorato di poter ospitare nel proprio Istituto personalità che operano ogni giorno per tutelare la collettività­­­­­­ dal crimine e che decidono di investire il loro tempo anche per educare i giovani su queste tematiche, convinti che la cultura sia uno strumento importantissimo per sconfiggere ogni forma di delinquenza.
La parola è stata poi presa dal sostituto procuratore Michele Premunian, veneto di origine ma da due anni in servizio presso il Tribunale di Locri, che ha parlato ai giovani in modo diretto e, per  rompere il ghiaccio, ha coinvolto nel suo intervento una studentessa, Ilaria Spano, della classe 4 F, con la quale ha letto, a due voci, il verbale di udienza in cui il collaboratore di giustizia, Domenico Agresta, racconta al giudice le ragioni del suo pentimento. Agresta, classe 1988, conosciuto nell’ambiente criminale come“Mico Mc Donald”, figlio di Saverio, uno dei patriarchi della ‘ndrina di Platì, è stato condannato a trent’anni di reclusione per omicidio, e ha dato agli inquirenti informazioni utilissime  sui comportamenti, affiliazioni,  rituali e codici utilizzati dalle cosche, permettendo, con le sue dichiarazioni, di assicurare alla giustizia un gran numero di malviventi.
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“Per la ndrangheta chi sbaglia paga con la morte. Per lo Stato chi sbaglia può recuperare, anche se paga il suo debito”- questa, in sintesi, la riflessione del pentito che il Pm ha fatto sua per spiegare ai giovani il diverso destino di  chi sceglie di vivere nella legalità e di chi invece preferisce la via della criminalità.
Premunian ha poi parlato di alcuni casi trattati recentemente, come la storia di Giuseppe, un ragazzo disabile poco piu’ che ventenne arrestato con uno zainetto pieno di cocaina su un ferribot diretto in Sicilia e condannato a sei anni di carcere, che durante un periodo di detenzione domiciliare ha tentato il suicidio sparandosi in testa con l’unica arma di cui poteva disporre, una pistola che si usa per uccidere i maiali. “Un suicidio fortunatamente sventato, anche perché quel tipo di pistola non  è caricata a proiettili ma a chiodi- ha detto Premunian- ma che vi deve fare riflettere sul fatto che la ‘ndrangheta spesso si serve di persone deboli, ingenue, ignare delle conseguenze delle proprie azioni per raggiungere i propri fini illeciti, persone che spesso fanno una brutta fine nell’ indifferenza generale, appartenendo alla categoria degli ultimi che vivono nell’ombra, ai margini della società­­­”.
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A seguire è intervenuta la criminologa forense Lidia Fiscer, che opera anche nel settore penitenziario e fa parte dello Sportello legale antiviolenza del Comune di Siderno, che ha parlato della  delinquenza minorile che, negli ultimi venti anni, ha subito profonde trasformazioni, registrandosi una sempre maggiore presenza di giovanissimi in associazioni criminali.
“Questa rapida espansione del fenomeno ha posto nuove problematiche per la giustizia minorile nella sua complessa attività di tutela-ha detto la dott.ssa Fiscer-. Il progetto “Liberi di scegliere”,fortemente voluto dal giudice Roberto Di Bella, ora Presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria,nasce dall’ esigenza di salvare i minori di ‘Ndrangheta, perché la ‘Ndrangheta (secondo Di Bella) non si sceglie ma si eredita.
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Attraverso l’emanazione di provvedimenti civili di decadenza e limitazione della responsabilità genitoriale, e l’allontanamento dei minori dalla regione Calabria, è stato possibile far sperimentare a questi ragazzi nuovi contesti alternativi a quello di provenienze ad affrancarli dalle orme parentali, nella speranza di renderli liberi di scegliere il proprio futuro”.
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Ultimo ad intervenire, ma non per ordine di importanza, il Tenente dei Carabineiri Cosimo Sframeli, che vanta  una quarantennale esperienza di comandante  delle Stazioni dei Carabinieri di molti Comuni calabresi (tra cui Siderno, Bovalino, Bova Marina, Lamezia Terme, Reggio Calabria e Vibo Valentia), oltre ad essere un valente giornalista e saggista. Sframeli ha parlato ai ragazzi della sua lunga esperienza lavorativa e dai suoi racconti, inframmezzati da fotografie e filmati d’epoca,  ne è scaturito  una sorta di  viaggio a ritroso nella storia della lotta alla “ndrangheta”, dagli anni più bui delle stragi di mafia, agli omicidi feroci, ai traffici illeciti fino ai sequestri di persona.
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“Oggi la ndrangheta ha capito che con la cocaina si guadagna piu facilmente e con rischi minori rispetto ai sequestri di persona-ha spiegato Sframeli nell’illustrare ai ragazzi l’evoluzione del fenomeno criminoso in Calabria. Ciò non toglie che non conviene mai seguire questa strada;  io, nella mia lunga esperienza, ho visto per questa gente solo sangue, lacrime, dolore, carcere, sofferenza. I guadagni facili sono solo illusori, la vita del mafioso è triste, non solo per lui, ma per tutti i suoi familiari e quelli chi gli sta intorno”.
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Sframeli ha raccolto le sue esperienze nel libro “’Ndrangheta Addosso”  ed. Falzea, ed è tra gli interpreti del docufilm  “Terra Mia – non è il paese dei santi” di Ambrogio Crispi con Klaus Davi, che verrà proiettato all’Ipsia, prima tappa del tour reggino, il prossimo 13 marzo.
A conclusione del seminario un interessante dibattito con gli interventi , tra gli altri, della prof.ssa Rita Commisso, e dell’avvocato Pietro Origlia, oltre che del dirigente del Comissariato di Polizia di Siderno Antonino Cannarella.
Il prossimo appuntamento, che poi è l’ultimo del progetto A-Ndrangheta, giorno 14 febbraio sulla tematica della diversità
La criminalità organizzata spiegata ai ragazzi. All’Ipsia di Siderno continua il progetto A-Ndrangheta Lente Locale
La criminalità organizzata spiegata ai ragazzi. All’Ipsia di Siderno continua il progetto A-Ndrangheta Lente Locale
di Antonella Scabellone SIDERNO- Ancora un altro incontro con la  Polizia di Stato all’Ipsia di Siderno nell’ambito del progetto “A-ndrangheta, progettiamo una città senza crimine”, pensato e voluto dalla Questura di Reggio Calabria per diffondere tra i giovani la cultura della legalità. Lo scorso 7 febbraio si è parlato di criminalità organizzata nell’aula magna dell’istituto, […]
La criminalità organizzata spiegata ai ragazzi. All’Ipsia di Siderno continua il progetto A-Ndrangheta Lente Locale
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Antonella Scabellone
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paoloxl · 7 years ago
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Nella tarda serata dell’11 novembre una cinquantina di persone, perlopiù rom, provenienti dai campi nomadi adiacenti e da alcuni residence per l’emergenza alloggiativa, entrano dentro ad un palazzo apparentemente vuoto di via dei lauri 15 occupandolo. Fino a qui questa storia non avrebbe nulla di eccezionale o memorabile, sarebbe una delle tante in questa città di persone che occupano stabili anche “indipendentemente” da un contesto politico ma semplicemente per fame, miseria e disperazione. Non è così invece, o almeno non del tutto. Alemanno e Najo Adzovic   Via dei lauri 15, innanzitutto, non è un palazzo vuoto ne abbandonato. E’ un occupazione storica del movimento per il diritto all’abitare, lasciato volontariamente dai movimenti quando (nel 2001, e poi nel 2003 nuovamente) vengono approvati sei (poi otto) progetti di autorecupero su altrettanti palazzi occupati ivi compreso quello di via dei lauri. Il protocollo firmato da Ministero dei lavori pubblici, Comune di Roma e Regione Lazio prevedeva l’inizio dei lavori nel 2003 e la fine nel 2008 con la consegna degli alloggi conquistati con anni di dure lotte e battaglie. Ovviamente quando c’è da togliere si fa subito, si mandano i reparti celere e tutto viene riportato alla “legalità”.  Quando c’è da dare invece i tempi si allungano enormemente. I lavori partono arrancando, la ditta appaltatrice fallisce allargando ulteriormente la forbice temporale della durata del cantiere, i partiti non vogliono (nonostante la legge e la “legalità” che tanto sbandierano) concedere facilmente una vittoria ai movimenti velocizzando il piano di lavori e mettendosi quindi di traverso rispetto a palazzinari e chiunque vede nell’autorecupero un attacco alla propria rendita. Cominciano così gli infiniti cavilli burocratici, i cambi di orientamento politico ai vertiti istituzionali e quindi un rimescolamento di carte, i ritardi nei pagamenti, nelle consegne e nelle piccole e grandi questioni quotidiane che rallentano ulteriormente il tutto.  Ad oggi lo stabile manca degli ultimi lavori che, dopo un incontro di pochi giorni fa col comune, la cooperativa “inventare l’abitare” che sostiene questi progetti di autorecupero dichiara essere di poche decine di migliaia di euro per arrivare finalmente all’assegnazione nel 2018. Briciole, se si pensa a quelli già investiti e all’importanza politica del progetto. Da un lato, dunque, la negligenza delle istituzioni politiche, anche di quelle che si riempiono la bocca di legalità come il Movimento 5 Stelle che in un anno e mezzo di governo non ha mosso un dito per accellerare la pratica di assegnazione agli aventi diritto. E dell’arco istituzionale tutto.  Da chi ha governato senza fare niente a chi sta all’opposizione e prova a sfruttare questi ritardi per “crearne di nuovi”, in quel meccanismo perverso di scatole cinesi che porta, ad esempio, Fratelli d’Italia a chiedere in un consiglio comunale la riassegnazione del bando di via dei lauri, perché ormai lontano quello precedente ma soprattutto, anche se non detto, perché nell’autorecupero vi è la vittoria di chi lotta per i propri diritti. Un’eventuale riassegnazione, oltre che fuori dalle norme di legge, allungherebbe a dismisura i già dilaniati tempi, sarebbe uno spreco enorme di denaro pubblico, avrebbe conseguenze drammatiche sulla vita di decine di famiglie che da anni aspettano solamente ciò che è loro perché se lo sono conquistato. Un fronte istituzionale unito, al di là delle divergenze politiche, nel contrastare facendo o “non facendo” l’effettiva assegnazione delle case e così il definitivo sblocco di un altro progetto di autorecupero nella città. In questo meccanismo tipicamente romano, in cui si intrecciano interessi apparentemente diversi ma spesso convergenti, si inserisce l’occupazione dell’11 novembre. A fronte di decine di disperati in cerca di casa, o comunque di un alloggio dignitoso dove stare, capo di questa protesta è tale Najo Adzovic. A molti non dirà nulla, ma ad altri sì. Era infatti il delegato ai rapporti con la comunità Rom della giunta Alemanno. Un personaggio controverso, al centro di diverse storie torbide in seno alle comunità sulle quali poco ci interessa addentrarci. Ci interessa, piuttosto, il risvolto politico della vicenda: non sembrerebbe, quello di Adzovic, il profilo di una persona ignara politicamente di quel che sta facendo. Ci risulta complicato pensare che una persona che per cinque anni è stata al campidoglio e che per buona parte della sua vita ha vissuto in quello che era il campo nomadi più grande d’europa, casilino 900, nello stesso quadrante di città del palazzo di via dei lauri, non fosse a conoscenza del progetto di autorecupero sul palazzo. Per questo, prima si diceva, interessi apparentemente diversi ma convergenti. Da un lato vi sono quei partiti, specialmente dell’arco della destra e del centrodestra ma non solo, pronti a soffiare sul fuoco di una situazione potenzialmente polveriera come un occupazione dii rom nel cuore di un quartiere popolare, con una dinamica completamente slegata al tessuto sociale e alle sue dinamiche in un contesto avvelenato com’è quello del dibattito pubblico sul tema in questo paese. Un asssit quasi imperdibile in vista delle elezioni del 2018. Dall’altra parte capipopolo esponenti delle comunità legate alle esperienze politiche della destra storica della città ad occupare con, loro sì, disperati illudendoli di una sistemazione migliore. L’interesse dell’area politica di una facile campagna d’odio e l’interesse di mantenere una credibilità sfruttando le varie fragilità, più un operazione di sciacallaggio che di misericordia. In tutto questo un grosso favore da parte di tutti ai palazzinari, a chi vede nell’autorecupero un ostacolo ai propri interessi dentro la città. Perché una cosa è sicura, al netto del torbido di questa storia, ovvero che la faccenda rallenterà ulteriormente l’assegnazione di via dei lauri 15. Già oggi i vari dipartimenti si sono rifiutati di incontrare gli ex occupanti ora assegnatari dell’autorecupero di via dei lauri, rimandando ad un incontro nei prossimi giorni a data da destinarsi quello che doveva essere un momento importante per ridiscutere della questione al netto degli eventi appena accaduti. L’inchiesta mafia capitale ha solamente mostrato quello che tutti sapevamo. L’emergenza (sia essa abitativa, emergenza “migranti”, emergenza rifiuti etc et) è un business, la sua risoluzione vorrebbe dire anche la fine del business. Per questo l’apparente soluzione (occupare se non si ha un tetto) diventa il problema se inserita in questo meccanismo. Subito il tentativo è stato quello di innescare una guerra tra poveri, ma la possibile bomba sociale è stata immediatamente disinnescata dalla cooperative assegnatrice “inventare l’abitare” che da subito ha monitorato la situazione con un picchetto permanente sotto il palazzo e da subito ha indicato i responsabili: non gli occupanti ma i mandanti politici, non la pratica dell’occupazione ma chi lascia colpevolmente i palazzi vuoti o non ha fatto nulla in questi anni per sbloccare definitivamente la questione di quelli in progetti di autorecupero.
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toscanoirriverente · 7 years ago
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Il MacGuffin del caso Consip
Nei film di Alfred Hitchcock, il MacGuffin era un pretesto narrativo, un oggetto apparentemente al centro della scena che fungeva da motore della suspense ma che nello svolgersi della trama si rivelava secondario, se non addirittura superfluo. Insomma, qualcosa che ti mettevi a fissare convinto fosse la cosa importante, e invece era una deviazione. I guanti sulla scena del delitto in Ricatto, il materiale radioattivo nelle bottiglie di vino in Notorius, il segreto sul microfilm di Intrigo internazionale o la ragione per cui gli uccelli si schiantano contro le finestre di Bodega Bay.
Il caso Consip è diventato un gigantesco MacGuffin, un racconto di cui è ormai impossibile distinguere il motore narrativo: le indagini sulla presunta corruzione negli appalti della centrale acquisti della pubblica amministrazione, i traffici di influenze per favorire imprenditori, le presunte fughe di notizie ai massimi livelli istituzionali o la serie di indagini che si sono sviluppare sull’inchiesta stessa. Perché da un certo punto in poi le indagini hanno cominciato a frattalizzarsi, tra trasferimenti di competenza, fughe di notizie e pubblicazione integrale di informative di polizia giudiziaria coperte dal segreto; e poi investigatori trasferiti, la revoca delle indagini al Nucleo Operativo Ecologico, errori clamorosi, presunte falsificazioni e su tutto l’ombra lunga del depistaggio. Il caso Consip oggi è una gigantesca meta-indagine, praticamente impossibile da raccontare, e che finisce sui giornali sempre meno per i reati che dovrebbe accertare, e sempre più spesso per queste indagini sulle indagini, per gli intrecci caotici tra istituzioni dello Stato e movimenti oscuri. Non si dovrebbe parlare d’altro, in realtà.
Nella sua rappresentazione giornalistica il caso Consip stava diventando un paradigma investigativo, come Mafia Capitale, come la Trattativa. Ma poi il racconto è imploso e l’impalcatura su cui l’indagine si muoveva ha cominciato a cedere, rivelando un mondo di mezzo – cit. –, un vero e proprio sottosopra alla Stranger Things, una dimensione investigativa parallela intorbidita, misteriosa e oscura. Lo spostamento di una parte dell’inchiesta da Napoli a Roma, le fughe di notizie e la revoca delle indagini al Noe, che fino a quel momento aveva collaborato con la Procura di Napoli; la scoperta dell’incredibile errore di attribuzione di un’intercettazione ambientale, attorno al cui contenuto ruotava una parte della tesi accusatoria – quella più politica – un errore così grave che i magistrati decidono di aprire un fascicolo per falso e un’indagine per depistaggio a carico di due capitani dei carabinieri. E poi il pubblico ministero titolare originario dell’inchiesta che oggi è indagato dalla Procura di Roma con la nota giornalista televisiva per la fuga di notizie sull’indagine di cui è titolare.
Ma come una grande storia italiana degli anni settanta, ecco entrare in scena il presunto depistaggio da parte dei servizi segreti. Come negare la presenza di una barba finta? Sono passati quarant’anni e a via Fani ancora compaiono e scompaiono automobili, agenti dei servizi, terroristi, e così anche nell’inchiesta Consip non potevano mancare i servizi, in una inception investigativa in cui tutti controllano tutti. I servizi segreti aprono scenari oscuri, gettano quelle ombre geometriche del potere politico sulle indagini e del controllo della politica sulla magistratura. Peccato che l’uomo dei servizi che controllava gli investigatori non esisteva, e che è bastato controllare una targa per rivelare il meta-depistaggio. Quello che emerge è la fotografia di un’indagine percorsa da conflitti tra corpi dello Stato che si manifestano su piani diversi, ufficiali e occulti, in uno scontro tra poteri che non emerge ancora nitidamente, ma che non ha precedenti negli ultimi anni.
A questo punto all’indagine Consip manca veramente poco – l’omicidio di una nobildonna durante un festino, un gruppo di forestali che occupa un ministero – per sublimare in una delle grandi inchieste italiane. Quello che c’è, però, basta per aprire interrogativi enormi sulle forze che si sono mosse in quel sottosopra investigativo e sugli obiettivi che perseguivano, in indagini ad altissimo tasso di strumentalizzazione politica che finiscono sui giornali, alimentando e condizionando il dibattito pubblico e la routine di una democrazia. Senza dimenticare che è un’indagine penale in cui diritti, garanzie, continenza e rispetto della legge valgono per tutti, per gli imputati, ma anche per chi fa le indagini e per chi le racconta. Il problema è che si guarda al caso Consip come a una serie di sfortunati eventi che si sarebbero affollati nella stessa indagine. Capitani pasticcioni, errori di persona, lasciando comunque intendere che il disegno corruttivo scoperto è centrale, mentre anche l’ultimo degli sprovveduti capirebbe che in quel sottosopra si sono mossi conflitti di potere a ogni livello istituzionale, in un disegno torbido, come in ogni depistaggio che si rispetti, e con una torsione pericolosa del meccanismo democratico.
Il MacGuffin del caso Consip non deve sviare l’attenzione da ciò che ancora una volta rivela: un sistema consolidato di relazioni distorte tra stampa, procure, opinione pubblica e dibattito politico. E non servono accertamenti di reato quando le violazioni di diritti e garanzie sono ripetute e il dibattito pubblico è stato drogato da notizie che si sono poi rivelate delle bufale. La remuneratività politica delle vicende giudiziarie è l’unica cosa che conta. La Procura di Roma indagherà sulle responsabilità personali, gli errori, le omissioni, i depistaggi, i falsi e le fughe di notizie. Ma non serve l’accertamento dei reati, bastano i fatti storici messi in fila uno dietro l’altro per dare l’idea di cosa possa nascondersi in un’indagine, e di come sia un interesse primario della magistratura, della stampa e della politica stessa dissolvere una volta per tutte questo coacervo tossico.
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corallorosso · 4 years ago
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Legge sulla Giustizia: colleghi e politici, imparate a leggere
di Peter Gomez Napoleone era solito ripetere che non bisogna “mai attribuire alla malizia ciò che spiega adeguatamente con l’incompetenza”. In questi giorni, sfogliando i giornali e assistendo in tv al dibattito sulla riforma Cartabia, abbiamo avuto la prova di quanto l’imperatore dei francesi avesse ragione. Come sempre accade quando si discute di giustizia la vis polemica ha preso il sopravvento. In ben pochi si sono così addentrati negli aspetti tecnici del disegno di legge e chi lo ha fatto ha spesso dimostrato di non aver letto la norma o di averla letta senza però capirla. In questo senso la palma d’oro spetta alla politica. Ieri, ad esempio, Matteo Salvini, intervistato da Il Giornale, ha definito “un’osservazione singolare” la constatazione del procuratore nazionale antimafia, Cafiero de Raho, che aveva sottolineato come la riforma, se approvata senza correzioni, avrebbe indebolito la lotta a Cosa Nostra e ’Ndrangheta. “Nella riforma Cartabia”, ha affermato sicuro Salvini, “quel tipo di reato viene escluso dalla norma sulla prescrizione. Sono stato ministro dell’Interno: con la Lega al governo non ci saranno mai passi indietro su questo tema”. Purtroppo per Salvini, e purtroppo per i cittadini, è vero il contrario. Il disegno di legge prevede semplicemente che i processi per mafia e terrorismo, se particolarmente complessi, evaporino in appello in tre anni, al posto di due e in Cassazione in 18 mesi, al posto di 12. Per i dibattimenti di questo tipo non esiste insomma nessuna esclusione dalla riforma. Salvini però ha almeno un’attenuante: la ministra Marta Cartabia che in Parlamento gli ha confuso le idee. Alla Camera la ministra ha sostenuto che quel tipo di processi “non andranno in fumo” perché “nei procedimenti per mafia e terrorismo le contestazioni spesso riguardano reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo. Quindi si esclude ogni tipo di improcedibilità”. Un’affermazione falsa visto che i reati che non si prescrivono, come l’omicidio o la strage, vengono contestati solo a una piccola parte dei presunti mafiosi o loro fiancheggiatori. Peggio però di chi siede in Parlamento o al governo fanno i mass media. Negli ultimi giorni, ad esempio, Repubblica e Il Messaggero se la sono presa con Giuseppe Conte perché ha detto: “Non accetteremo mai che il processo per il crollo del ponte Morandi possa rischiare l’estinzione”. Per i due quotidiani quella di Conte è una bugia, perché la legge ha una data di entrata in vigore successiva al disastro di Genova. Chi lo scrive però dimostra solo di non sapere che in tribunale si applica sempre la norma più favorevole all’imputato. Difficile sostenere, come fanno alcuni consulenti di Cartabia, che qui ci si trovi davanti a una semplice norma di natura processuale per la quale il cosiddetto favor rei non scatta. Le conseguenze della nuova legge sono infatti sostanziali. Se ho commesso una rapina con la vecchia prescrizione c’erano 15 anni di tempo per arrivare a sentenza definitiva. Ora ce ne sono solo due per celebrare l’appello e uno per la Cassazione. Poi scatta l’improcedibilità. Nei dibattimenti si annunciano perciò pioggia di ricorsi alla Consulta, con relativo rischio di impunità anche sul ponte Morandi. Per questo noi che alle balle dei politici e dei governanti di ogni colore siamo ormai rassegnati (nel recente passato, sia chiaro, ne ha detta qualcuna pure Conte), ci sentiamo di rivolgere un appello ai nostri colleghi. Cari giornalisti, per fare il nostro lavoro non serve una laurea. Serve però l’impegno e lo studio degli argomenti di cui ci si occupa. Se non ve la sentite cambiate mestiere.
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lanebbia · 8 years ago
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Trovo incredibile che Mentana venga considerato il top del giornalismo, ma in un paese così ridotto male soprattutto nell'ambito dell'informazione tutto è possibile. Se come scrive il direttore nel suo ultimo post berlusconi è ancora lì, ovvero qui molto lo si deve proprio all'operazione di rivalutazione politica e personale del personaggio fatta dai media, sempre giustificata col fatto che berlusconi ha il suo elettorato. Per come stanno le cose in Italia che ci sia una parte di elettori disposta a scegliere col voto anche il mostro di Loch Ness non dovrebbe essere più nemmeno un argomento da dibattito politico. Ieri la Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha chiesto l'obbligo di soggiorno per D'Alì, senatore di forza Italia già prescritto per favoreggiamento a cosa nostra e candidato sindaco di Trapani perché ha giudicato il tizio socialmente pericoloso. Quindi, come per altri casi e situazioni il problema è a monte, ovvero nella possibilità data a D'Alì dopo una prescrizione per reati di mafia di poter sedere ancora nel parlamento della repubblica e potersi candidare alle elezioni amministrative. Non c'entrano nulla, quindi, le "faziosità" di chi si augura che la magistratura faccia quello che la politica non sa e non vuole fare, ovvero ripulirsi prima che arrivino i giudici, perché nemmeno questo basta. In un paese normale e sano di berlusconi si dovrebbe parlare solo al passato e con disprezzo invece tutti ne giustificano ancora la presenza sulla scena politica in virtù di chi lo ha eletto a suo referente politico, cosa che gli ha consentito di poter partecipare ai festeggiamenti per l'elezione di Mattarella dopo una condanna per frode allo stato, un reato gravissimo che, se commesso da un cittadino comune avrebbe significato molti anni di galera e il discredito sociale, mentre solo per lui c'è stato il trattamento di favore partito proprio da una sentenza ridicola prim'ancora che ingiusta.
Cristina Correani
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goodbearblind · 8 years ago
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22 anni fa, il 16 aprile 1995, venne ucciso, a soli 12 anni, Iqbal Masih, bambino operaio, sindacalista e attivista pakistano, diventato un simbolo della lotta contro il lavoro infantile. Considerate che a 4 anni già lavorava in una fabbrica di mattoni e per ripagare un debito familiare fu ceduto a un fabbricante di tappeti per soli 12 dollari. Picchiato, sgridato e incatenato al suo telaio, Iqbal iniziò a lavorare per più di dodici ore al giorno. Era uno dei tanti bambini che tessono tappeti in Pakistan; le loro piccole mani sono abili e veloci, i loro salari ridicoli, e poi i bambini non protestano e possono essere puniti più facilmente. Nel 1992 riuscì a uscire di nascosto dalla fabbrica e partecipò insieme ad altri bambini a una manifestazione del Bonded Labour Liberation Front (BLLF). Ritornato nella manifattura, si rifiutò di continuare a lavorare malgrado le percosse. Il padrone del ragazzo sostenne allora che il debito anziché diminuire fosse aumentato a diverse migliaia di rupie per supposti errori di lavorazione eccetera costringendo la famiglia di Iqbal ad abbandonare il villaggio. Iqbal, ospitato in un ostello dalla BLLF, ricominciò a studiare. Dal 1993 cominciò a viaggiare e a partecipare a conferenze internazionali, sensibilizzando l'opinione pubblica sui diritti negati dei bambini lavoratori pakistani contribuendo al dibattito sulla schiavitù mondiale e sui diritti internazionali dell'infanzia. Nel dicembre del 1994 ricevette a Boston il premio ‘Reebok Human Rights Award’. Vista la giovanissima età venne creata una categoria apposita: 'Youth in Action’. “Non ho più paura di lui - disse riferendosi al suo padrone - è lui che ha paura di me, di noi, della nostra ribellione. Da grande voglio diventare avvocato e lottare perché i bambini non lavorino troppo”. Nel frattempo, sia per la pressione internazionale che per l'attivismo locale, le autorità pakistane avevano preso una serie di provvedimenti, tra cui la chiusura di decine di fabbriche di tappeti. Le testimonianze circa gli avvenimenti dell'ultima giornata della sua vita, il 16 aprile 1995 (giorno di Pasqua), sono in buona parte imprecise e contraddittorie. Due cugini che l'accompagnavano riferirono che ad un certo punto, nel tardo pomeriggio, non prese l'autobus che doveva portarlo nella capitale e si allontanò con loro in bicicletta. Secondo il rapporto della polizia e la testimonianza iniziale dei cugini, uno dei quali fu ferito nella sparatoria in cui Iqbal venne ucciso, l'omicida fu un lavoratore agricolo a seguito di una breve lite. Il BLLF però accusò subito dell'accaduto la “mafia dei tappeti”. A distanza di tempo permangono diversi dubbi sull'accaduto. E mentre i suoi assassini sono liberi, il giornalista pachistano che ne ha raccontato la storia e’ stato accusato di un grave reato: “danneggia il commercio estero della nazione”. A seguito della sua morte, il tema del lavoro minorile, in special modo nell'industria pakistana dei tappeti, ha ricevuto ancora maggior attenzione, rendendo Iqbal un vero e proprio simbolo di tale causa. Nel 2000 ricevette alla memoria il premio World’s Children’s Prize per i diritti dei bambini. “Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite.”
Fonte: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1184594001651576&substory_index=0&id=495853127192337
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sciscianonotizie · 7 years ago
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