#associazioni antimafia
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pier-carlo-universe · 14 days ago
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Mafia: I mandanti esterni dietro le stragi. Un evento unico per approfondire e riflettere sulla mafia e le sue dinamiche nascoste.
Lectio magistralis e proiezione del documentario.
Lectio magistralis e proiezione del documentario. Sabato 18 gennaio 2025, alle ore 20:15, il Teatro Palladio di Fontaniva (PD) ospiterà l’evento “Mafia: I mandanti esterni dietro le stragi”, un’importante occasione per approfondire il tema della mafia e delle sue implicazioni meno note. L’incontro, organizzato dall’Associazione Falcone Borsellino, prevede una Lectio Magistralis tenuta da Giorgio…
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personal-reporter · 10 months ago
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Giornata nazionale della Memoria e dell’impegno in ricordo delle Vittime delle Mafie
Il 21 marzo, primo giorno di primavera, è celebrato in tutta Italia come la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Questa giornata di sensibilizzazione e mobilitazione è organizzata a partire dal 1996 dalla rete di associazioni antimafia Libera. Continue reading Giornata nazionale della Memoria e dell’impegno in ricordo delle Vittime delle Mafie
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marcoleopa · 2 years ago
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19 07 23
Corte d’Appello di Caltanissetta, sentenza sul depistaggio del 12 luglio 2022: «il più grande depistaggio della storia d’Italia», «partecipazione morale e materiale di altri soggetti (diversi da Cosa nostra)». E c’erano anche «gruppi di potere interessati all’eliminazione» del magistrato». «Tra amnesia generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (...) e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative»
Salvatore Borsellino: «Non vogliamo che ci siano avvoltoi in via D’Amelio, ipocriti che portino corone e onori fasulli, ho promesso che non avrei più permesso simboli di morte laddove c’è l’Albero della pace voluto da mia madre e dove intendo realizzare un Giardino della pace». «Le sue esternazioni (Min.Nordio), al di là del loro esito, hanno mostrato la volontà di demolire la legislazione pensata da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per dare gli strumenti necessari a combattere la criminalità organizzata. E se avrò modo di incontrare il premier Meloni - aggiunge - le vorrei chiedere come si concilia il suo entrare in politica dopo la strage di via D’Amelio e la morte di Paolo Borsellino e le esternazioni di un suo ministro che promette di smantellare la legislazione antimafia attaccando proprio l’articolo del concorso esterno in associazione mafiosa eliminando il quale la quasi totalità dei processi per mafia verrebbero ad essere annullati. Io da Giorgia Meloni non mi aspetto parole ma fatti. Lo censuri o lo faccia uscire dal governo come si merita». «Questa volta non ci saranno problemi: sarò io ad accogliere i giovani del corteo delle associazioni e insieme entreremo in via D’Amelio. Forse all’albero Falcone è mancato questo».«L’antimafia non si è spaccata oggi, le varie organizzazioni non hanno lavorato all’unisono anche perché si occupano di cose diverse. Libera di beni confiscati, le Agende rosse di giustizia e verità. Purtroppo quello che mi ha addolorato in questo ultimo anniversario è chi ha trovato la maniera di attaccare i movimento delle Agende rosse, predicando che non ci siano divisioni»
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cinquecolonnemagazine · 2 years ago
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La strage di via D'Amelio e il senso della memoria
Il 19 luglio, giorno in cui ricorre l'anniversario della strage di via D'Amelio, a Palermo è un giorno da segnare sul calendario. C'è una memoria da celebrare. C'è un momento che vede le migliori energie di una città impegnate per mantenere l'attenzione alta sul tema mafia. Quest'anno non è così. In genere dopo tanti anni anche i fatti più sconcertanti tendono a sbiadire nella memoria e la tensione emotiva cala. Per la strage di via D'Amelio, come quella di Capaci, la strada è un'altra: il caso politico che, come tale, divide. La strage di via D'Amelio 31 anni fa Sono passati 57 giorni dalla strage di Capaci. Un attentato senza precedenti che ha scosso un intero Paese. Sia Giovanni Falcone che Paolo Borsellino erano consapevoli del destino che li attendeva e quel tritolo esploso in autostrada ne era stata un'ulteriore conferma. La vita per Borsellino aveva ripreso a scorrere con lo stesso impegno di sempre e quella domenica era andato a far visita alla madre come di consuetudine. Lo scenario che si aprì agli occhi degli inquirenti appena giunti sul posto fu raccapricciante. Il senso di sconforto che nacque si allargò da Palermo a tutta Italia in pochi istanti. Chi non ricorda le parole di Antonino Caponnetto dopo l'ultimo saluto a Paolo Borsellino: "E' finito tutto...". Dal pool antimafia all'abolizione del concorso esterno in associazione mafiosa Grazie al magistrato siciliano era, infatti, nato il cosiddetto pool antimafia, una nuova strategia nella lotta alla mafia nata grazie a un'idea di Rocco Chinnici. I punti di forza di questa strategia erano il coordinamento tra i magistrati, la possibilità di raccordare le diverse inchieste. Grazie a questa metodologia, i magistrati fecero grandi passi in avanti nella lotta alla mafia. Ricostruirono la struttura di Cosa Nostra, istruirono un maxiprocesso per crimini di mafia. Nacque il cosiddetto metodo Falcone che seguiva i flussi di denaro per individuare le attività criminali di Cosa Nostra. Con l'istruzione del maxiprocesso Falcone e Borsellino configurarono una nuova fattispecie di reato che era il concorso esterno in associazione mafiosa. Con questa tipologia di reato si andavano a colpire le persone che favorivano la mafia pur non essendone parte. La memoria tra le polemiche A essere precisi il concorso esterno in associazione mafiosa non è una fattispecie di reato quanto una creazione giurisprudenziale. Uno strumento che nel tempo i magistrati hanno utilizzato per andare a colpire quella rete di connivenze che aveva contribuito in maniera fattiva allo sviluppo della mafia. Parliamo di imprenditori, parliamo di politici. Grazie a questo strumento fu individuata la prassi del cosiddetto voto di scambio che assicurava nelle amministrazioni locali (e non solo) la presenza di politici appoggiati dalla mafia. Quello stesso strumento che oggi il ministro della Giustizia Carlo Nordio vuole abolire. Inondato dalle critiche, il ministro ha precisato che in realtà vuole riformarlo poiché così com'è stato concepito può generare confusione e soprattutto si affida troppo alla discrezionalità del giudice. Le precisazioni non sono bastate a placare le polemiche arrivate soprattutto dal fratello del giudice Borsellino, Salvatore, e dalle associazioni che operano sul territorio come il Movimento delle Agende Rosse. Il timore è che questa riforma segni un clamoroso passo indietro nella lotta alla mafia. Salvatore Borsellino ha dichiarato alla manifestazione di oggi non accoglierà politici che fanno parte del governo e chiesto alla premier Meloni di prendere le distanze dal ministro Nordio. La giornata sarà scandita da due manifestazioni: la prima organizzata dallo stesso Salvatore Borsellino e dalle Agende Rosse che vedrà la partecipazione di Cgil, partiti, associazioni e movimenti di sinistra. Il corteo prenderà il via alle 15 dall'albero Falcone e arriverà a via D'Amelio dove, alle 16.58 (ora della deflagrazione) saranno ricordare le vittime sulle note del silenzio. La seconda sarà la fiaccolata organizzata dalla Destra che si snoderà da piazza Vittorio Veneto a via D'Amelio a partire dalle 20. Che senso ha la memoria se non è condivisa? La lotta alla mafia è un dovere politico non una bandiera da sventolare. In copertina foto di Nat Aggiato da Pixabay Read the full article
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agrpress-blog · 8 months ago
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32 anni fa strage Capaci. Sbarra “In ricordo di Falcone, istituire fondo per infortuni sul lavoro con soldi di mafia” Sono passati 32 anni dalla strage di Ca... #capaci #cisl #giovannifalcone #luigisbarra #MariaFalcone #sindacato #strage https://agrpress.it/32-anni-fa-strage-capaci-sbarra-in-ricordo-di-falcone-istituire-fondo-per-infortuni-sul-lavoro-con-soldi-di-mafia/?feed_id=5426&_unique_id=664f1016735f2
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Reti di traffico di droga, 24 arresti in tutta Italia
È scattata all’alba un’operazione antidroga della guardia di finanza di Torino e del Servizio centrale investigazione criminalità organizzata (Scico) di Roma, coordinati dalla Procura – Direzione distrettuale antimafia torinese, a seguito di un’ordinanza del gip che ha disposto l’arresto di ventiquattro persone, italiane e albanesi, ritenute responsabili di fare parte di due distinte associazioni…
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giancarlonicoli · 1 year ago
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6 dic 2023 13:13
NON PROPRIO STINCHI DI SINTI - MA QUALI FURTARELLI E BORSEGGI IN METRO: LE FAMIGLIE ROM SONO IN AFFARI CON LA 'NDRANGHETA - SEMPRE PIU' INCHIESTE GIUDIZIARIE RIVELANO I RAPPORTI DEI GRUPPI NOMADI CON LE COSCHE IN GIRO PER L'ITALIA - IN ALCUNI CASI LAVORANO A STRETTO CONTATTO CON LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA, MENTRE IN ALTRI LE FAMIGLIE SI SONO TRASFORMATE IN VERI E PROPRI "CLAN" CHE CONTROLLANO I QUARTIERI TRA NARCOTRAFFICO, ARMI ED ESTORSIONI... -
Estratto dell'articolo di Fabio Amendolara per “la Verità”
Mammasantissima blasonati sembrano aver accettato l’ingresso di famiglie rom nella stanza dei bottoni della ’ndrangheta: dal santuario di Polsi a San Luca, […] passando per il quartiere Archi di Reggio Calabria […] fino alla capitale economica, Milano, dove interi quartieri vengono invasi dalla cocaina che i grossisti fanno sbarcare a Gioia Tauro.
Con le nuove generazioni criminali alle prese con grandi operazioni di riciclaggio e investimenti in bitcoin, gli «zingari», come continuano a chiamarli i boss calabresi, sono riusciti a insinuarsi nel mercato della droga, prendendo in mano molte aree dello spaccio. Ma non solo. A Roma, per esempio, un’inchiesta antimafia ha ricostruito che i boss Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo, ottenuta l’autorizzazione di aprire una propaggine ’ndranghetista nella Capitale, avrebbero usato i rom come teste di legno, facendo intestare loro, secondo l’accusa, nuove licenze per ripulire beni aziendali di imprese ormai compromesse ma anche per «sfuggire a eventuali misure di prevenzione patrimoniali».
E addirittura in terra di Calabria ci sarebbe un’area che gli inquirenti ritengono ormai nelle mani dei gruppi criminali rom: la città di Cosenza e il suo hinterland sarebbe ormai appannaggio della famiglia Abbruzzese, ovvero una costola del clan degli zingari. Come a Catanzaro, dove alcuni quartieri sarebbero nelle mani dei Bevilacqua-Passalacqua, «soggetti stanziali di origine nomade», spiegano gli inquirenti, «organizzati con le medesime modalità delle associazioni ’ndranghetistiche». Una serie di inchieste raccontano l’evoluzione della criminalità rom: Maniscalco, Revenge, Ghibli, Rinascita, Garden e Jhonny. […]
Con il passare del tempo, gli zingari avrebbero «acquisito sempre di più autonomia rispetto alle predette cosche, fino a divenire un gruppo mafioso con un proprio programma criminoso che si inserisce nell’assetto ’ndranghetistico in competizione con le altre associazioni mafiose». […]
Anche le parole di un collaboratore di giustizia hanno riscontrato ciò che i magistrati già sospettavano. I racconti di Vincenzo Cristiano consegnano a chi indaga il peso specifico della comunità criminale rom così come percepito dai boss della ’ndrangheta. Cristiano, parlando con uno degli uomini di peso nell’ambiente rom, si sarebbe sentito dire: «Io ho cinquecento uomini battezzati di ’ndrangheta [...]». Un esercito, praticamente.
Con tutte le carte in regola per occuparsi di stupefacenti, armi ed estorsioni. Ma con una carta in più rispetto al passato: la forza di intimidazione mafiosa. Che in alcuni casi pare già essere stata messa in campo anche nei confronti di chi fa informazione.  È finito nel mirino, per esempio, Klaus Davi, «reo», è spiegato nell’ordinanza di custodia cautelare dell’indagine ribattezzata Sinopolini, «di aver attirato l’attenzione sulla ’ndrangheta a Roma, avendo progettato di voler affiggere alle fermate della metropolitana i nomi dei boss calabresi» del calibro di Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, «mettendo in pericolo la loro copertura».
[…] Qualcuno poi deve aver deciso di alzare il tiro. Anche perché nella documentazione dell’indagine Garden emerge che la Guardia di finanza ritiene che sia stato possibile trovare conferma dei riti di affiliazione proprio grazie agli articoli di Davi.
Cosimo Borghetto, indicato come protagonista di alcune guerre di mafia e punto di riferimento dei gruppi rom, poi, in una intercettazione si lascia scappare a proposito di Davi: «Spero che muoia e gli scoppi la pancia». E Davi a metà ottobre si è trovato nella cassetta della posta una busta con dei proiettili da revolver, ovvero dei calibro 9. Il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri ha aperto un fascicolo. E il questore Bruno Megale ha subito spiegato: «Per quanto riguarda la sicurezza dei giornalisti qui a Reggio Calabria c’è massima attenzione». Anche perché Davi non è l’unico cronista finito nel mirino delle cosche. È il primo, però, forse, ad aver dato fastidio ai gruppi di estrazione rom. […]
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kritere · 2 years ago
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Antimafia, il centrodestra elegge Chiara Colosimo presidente e le opposizioni lasciano l’aula
DIRETTA TV 23 Maggio 2023 Chiara Colosimo, deputata di Fratelli d’Italia, è stata eletta presidente della commissione parlamentare Antimafia con i voti del centrodestra. La scorsa settimana, le associazioni di famiglie delle vittime di mafia avevano chiesto di scegliere un altro nome. Pd, M5s e Avs hanno lasciato l’aula durante il voto. 61 CONDIVISIONI A otto mesi dall’inizio della…
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corallorosso · 4 years ago
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“I palermitani passando da piazza Leoni si chiedono spesso perché queste casette semi distrutte non le abbattono. La storia di queste casette si collega al palazzo dietro, che 30 anni fa non c’era. C’era un costruttore che voleva costruire un bel palazzo, per farlo aveva bisogno di abbattere le casette davanti, perché non c’erano le distanze. Il costruttore, legato alla mafia, con le buone e con le cattive riesce ad ottenere tutte le casette, tranne queste due, dove ci sono queste due sorelle Pilliu, di origine sarde, ‘testarde’. Queste sorelle dicono ‘no non te le vogliamo cedere’. Il costruttore ha fretta e si inventa di essere proprietario di tutta queste zone, anche delle casette delle Pilliu e va al comune e chiede di costruire. Prima di ottenere il permesso, lui costruisce un palazzo di 9 piani, anche se erano previsti 7. Prima che lo Stato dia ragione alle sorelle Pilliu passeranno 30 anni. Le Pilliu denunciano tutto questo, ma il processo dura 30 anni e in questi 30 anni succede di tutto. Le sorelle Pilliu ricevono intimidazioni dal costruttore, ma anche da un autore mai scoperto. Ricevono fusti di calce, corone di fiori… messaggi abbastanza chiari per scoraggiare il loro intento. 30 anni dopo lo stato dà ragione, e qui ci sono 3 beffe: la prima: il costruttore è condannato a pagare 750 mila euro più interessi alla Pilliu, ma non ha più soldi, perché lo Stato ha sequestrato tutto. Quindi non pagherà mai questi soldi. Le sorelle Pilliu con l’avvocato Falgaris fanno domanda a un fondo per vittime di mafia e il fondo dice di no, perché lui le ha danneggiate in quanto ‘disonesto’. La terza beffa è che l’agenzia delle entrate ha mandato una lettera alle sorelle Pilliu dicendo che vogliono il 3% di questi 750 mila euro, che non hanno mai preso e che probabilmente non avranno mai. Questa cosa è insopportabile, perché le sorelle Pilliu hanno combattuto per 30 anni un sistema mafioso, di corruzione, di disonestà e lo Stato che si mette contro è insopportabile. Allora io e Marco Lillo abbiamo deciso di scrivere questo libro, ma non vogliamo solo raccontare questa storia, ma vogliamo cambiare il finale: noi abbiamo deciso che questa cartella esattoriale la pagheremo noi. Come? Con la vendita di questo libro. Io e Marco Lillo cediamo i diritti d’autore e con i soldi intanto paghiamo questa cartella esattoriale. Il secondo scopo è quello di diffondere la notizia e la storia a quante più persone possibile. La nostra ambizione è che diventi un caso esemplare di quanto lo Stato sia ottuso davanti a queste situazioni. La terza ambizione è ricostruire queste palazzine e affidare gli appartamenti del costruttore alle Associazioni Antimafia.” - PIF a Che Tempo Che Fa sul suo libro ‘Io posso. Due donne sole contro la mafia’ (Marco Polli)
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peppinoimpastato · 4 years ago
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Nella XXVI giornata del ricordo delle #vittimeinnocentidimafia e sotto una pioggia insistente che non ha scoraggiato quanti hanno voluto presenziare, pur nelle resatrizioni del contrasto al Covid-19, è stata ri-collocata la targa nella #stele di Salvo Salvato, #verticaletempo voluta dalla amministrazione Gaglio con Pino Manzella assessore. La targa originale, pochi mesi dopo la sua collocazione, era sparita a poco a poco: prima togliendo una consonante, poi una vocale così da trasformare la lotta alla #mafia in lotta alla afa. Per poi far scomparire targa e palo nell'indifferenza collettiva.Nella reinaugurazione di oggi, voluta da #casamemoriaimpastato e supportata dall'Amministrazione Comunale e dalle Associazioni #peppinoimpastato #nomafiamemorial e #centroimpastato c'è tutto il senso del riscatto, ridando valore a quel simbolo di riconoscimento delle vittime innocenti delle mafie e del sacrificio, in particolare, di Peppino Impastato, che con il suo esempio ha aperto la strada ad una antimafia sociale, fatta dal basso. E' un forte messaggio che, legandosi al passato, guarda al futuro affinché #cinisi diventi, finalmente, il paese di Peppino Impastato.Dal messaggio del #sindaco #giangiacomopalazzolo    "Atto di coraggio nel '96 intestare quest'opera ai caduti nella lotta alla mafia ed ancor più coraggiosamente averla collocata nella piazza dove i mafiosi solevano passeggiare. È stato un forte segnale per dire adesso basta e cominciare una seria lotta alla mafia. Una stele che ricorda al paese la sua #storia e consente di riflettere all'interno della nostra anima. Oggi siamo qui per dare un ulteriore messaggio che è quello della prospettiva futura. Nel '96 è stato l'inizio, oggi nel '21, la prospettiva che questo paese diventi il paese di Peppino Impastato."
Luisa Impastato Casa Memoria Impastato Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato
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out-o-matic · 5 years ago
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La cannabis di Angela  Repubblica, 30 OTTOBRE 2019 Antiproibizionismo, la lezione di Merkel alle resistenze italiane: il suo partito e l’alleato conservatore, Csu, stanno prendendo in seria considerazione il progetto di legalizzare produzione, distribuzione e consumo di hashish e marijuana DI LUIGI MANCONI 1 COMMENTO CONDIVIDI L’ultima grande democristiana europea, Angela Merkel, il suo partito e l’alleato conservatore, Csu, stanno prendendo in seria considerazione il progetto di legalizzare produzione, distribuzione e consumo dei derivati della cannabis (hashish e marijuana). Questo mentre il primo ministro del Lussemburgo, Xavier Bettel, fa della legalizzazione di quelle sostanze uno dei punti principali del suo programma di governo. E mentre si prevede che, entro il 2024, nella metà degli stati americani il consumo a scopo ricreativo di hashish e marijuana non sarà più reato. E negli stati dove già vige la legalizzazione, il numero degli adolescenti che fa uso di cannabis si riduce costantemente. E in Italia? In Italia tutto tace, a parte la sacrosanta pervicacia e la saggia follia dei radicali. Oggi, nel nostro Paese, i derivati della cannabis, gestiti dalla criminalità si trovano in un regime di liberalizzazione perfetta. È questa, secondo i parametri dell’economia classica, la condizione del mercato: una molteplicità di esercizi commerciali, aperti giorno e notte, in un numero elevatissimo di strade e piazze di tutte le città, dove è possibile acquistare ogni tipo di sostanza da una rete articolata di fornitori. In altre parole, un mercato totalmente libero, ancorché illegale. L’antiproibizionismo vuole l’esatto opposto. Ovvero un sistema di regolamentazione pubblica di produzione, distribuzione e commercio della cannabis, sottoposto a un meccanismo di controlli, divieti e imposte, che sottragga l’attuale mercato al comando della criminalità organizzata. Si tratterebbe di un regime del tutto simile a quello applicato all’alcol e al tabacco. Nessuno, infatti, ha dato ancora risposta a una domanda semplice semplice: perché alcol e tabacco sono legali e regolarmente acquistabili e perché, invece, i derivati della cannabis sono fuorilegge? Tutto ciò partendo da un assunto: nessuno, ma proprio nessuno, degli antiproibizionisti ha mai affermato che la cannabis non fa male. Il suo abuso, particolarmente in età adolescenziale, può produrre danni significativi, seppure inferiori a quelli determinati dalle altre due sostanze. E se, dunque, si chiede la legalizzazione della cannabis, è perché si ritiene che la condizione di clandestinità ne incrementi la pericolosità. Per due ragioni. Perché costringe un numero esteso di persone a frequentare ambienti criminali, a entrare in rapporto con associazioni criminali, e a compiere atti criminali. E perché impedisce di controllare la composizione della sostanza e la percentuale di principio attivo. Si tratta di considerazioni razionali e di evidenze scientifiche, condivise da tossicologi e sociologi, da operatori della sicurezza e dell’ordine pubblico, da farmacologi e medici. La più autorevole conferma è venuta dall’allora capo della Procura nazionale antimafia, Franco Roberti, che, in due successivi rapporti annuali, invitò il legislatore ad affrontare il tema della legalizzazione. Ma, nonostante la crescita del numero e del prestigio di quanti si dichiarano favorevoli, i decisori pubblici esitano, traccheggiano, recalcitrano. E l’orientamento prevalente nell’attuale Parlamento sembra essere decisamente ostile. Questo rende ancora più importante la volontà espressa dalla Cdu tedesca e dalla sua leader. E, tuttavia, la cosa sorprende fino a un certo punto. Di fronte a un fenomeno che coinvolge così tanti cittadini e che corrisponde, come diceva Marco Pannella, “all’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa”, si sceglie la via di un ponderato pragmatismo. Troppo ampio, quel fenomeno, e troppo connaturato all’indole umana per risolverlo con la repressione. Qui interviene, forse, anche un elemento religioso: l’ispirazione luterana dell’educazione e della cultura di Merkel e di molta politica tedesca non determina esclusivamente, come si ritiene con superficialità, un atteggiamento intransigente. Nelle teologie e nelle dottrine morali delle chiese cristiane (e specie in quella cattolica) si trova la teoria del male minore. L’idea, cioè, che se il male non può essere bandito dal consorzio umano, compito del cristiano e del politico cristiano è quello di ridurre i danni che può produrre. E questa considerazione si aggiunge alle altre di natura sociale, giuridica e criminologica, che rendono la proposta della legalizzazione ragionevolissima e concretissima. In ogni caso, come vuole qualsiasi approccio serio e scientifico, da sperimentare. Non così in Italia, dove la situazione sembra addirittura peggiorata rispetto al passato. Un quarto di secolo fa, il futuro presidente del Senato, Marcello Pera, scriveva con me appassionati articoli per la legalizzazione sul Sole24Ore; e Franco Debenedetti condivideva con altri intellettuali e parlamentari liberali (in primo luogo Antonio Martino) la medesima opzione. All’interno delle formazioni di sinistra, la componente antiproibizionista otteneva notevoli consensi. Oggi, tutte quelle posizioni sembrano aver perso vitalità e vivacità. Una volta constatato il fallimento di tutte le strategie proibizioniste e repressive, cosa si aspetta ancora per proporre con forza una svolta radicale? Cosa aspettano i liberali e i libertari, la sinistra e le sinistre (qualsiasi significato si attribuisca a quella categoria), i garantisti, gli uomini e le donne di fede e quelli di scienza e tutte le persone di buona volontà?
https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2019/10/30/news/la_cannabis_di_angela-239922532/?ref=RHPPTP-BH-I239771167-C12-P2-S2.4-T1
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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Beni Confiscati in Piemonte: Sostenere i Piccoli Comuni per Facilitare i Percorsi di Riutilizzo Sociale
La Regione Piemonte e il Consiglio Regionale si impegnano per migliorare il riutilizzo sociale dei beni confiscati, puntando sul sostegno ai piccoli comuni
La Regione Piemonte e il Consiglio Regionale si impegnano per migliorare il riutilizzo sociale dei beni confiscati, puntando sul sostegno ai piccoli comuni. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati in Piemonte rappresenta una sfida significativa, soprattutto nei piccoli comuni, dove le risorse limitate e la complessità burocratica ostacolano spesso l’attuazione di progetti di recupero e…
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normandofcalvillo · 8 years ago
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De Martino, il re del Lido vicino alla ’ndrangheta
di Gianni Belloni wVENEZIA Di certo non è passato inosservato. Antonio De Martino, quarantenne imprenditore e immobiliarista originario di Lamezia Terme, al Lido di Venezia si è dato da fare raccogliendo consensi, sospetti e (poche) pubbliche avversioni. Estroverso, loquace, di una gentilezza un po' chiassosa ed esibita, Antonio De Martino si è occupato un po' di tutto: affari immobiliari, costruzioni, turismo, locali e ristoranti, politica. Un ciclone di attivismo che si è abbattuto su questa quieta isola lagunare tra la fine degli anni '90 e l'inizio del duemila. All'inizio si tratta di una presenza intermittente perché deve scontare una pena per l'omicidio accidentale, avvenuto nel 1993 nella natia Lamezia Terme, di un ragazzo, Giuseppe Giampà. Contando su periodici permessi dal carcere, mette piede al Lido mettendo a segno i primi affari in campo edile con la vigile ed esperta assistenza del padre Saverio, imprenditore reduce a sua volta, nel settembre del 1995, da un attentato in cui rimase gravemente ferito. Questi burrascosi precedenti non impediscono ai De Martino, il figlio Antonio in particolare, di "entrare in società". Dal punto di vista economico, avviando diverse attività tra cui una agenzia immobiliare con sede sul Gran Viale, il ristorante La Pagoda, un negozio di souvenir a Venezia, la costruzione di case e, recentemente, la gestione delle spiagge più belle e rinomate dell'isola lagunare, quelle dei grandi alberghi Des Bains e Excelsior. Negli anni, Antonio De Martino ha animato una associazione di commercianti – l'associazione "Vivere il Lido" - e una serie di iniziative di promozione che hanno stupito. L'età media dei 17mila abitanti del Lido è più alta di quella, già altissima, dei residenti del centro storico veneziano. L'attivismo di De Martino, in una società un po' ripiegata su se stessa, balza all'occhio. Giochi e animazioni serali lungo il viale d'estate, la tessera annuale «Venezia Lido Card», che da diritto a sconti per le famiglie: niente di che, elementari principi di marketing territoriale, ma al Lido non ci aveva pensato nessuno. Non poteva mancare la politica nel suo curriculum: e infatti nel 2006 De Martino apre una sezione dell'Udc, partito che a Venezia fa riferimento a Ugo Bergamo, politico di lungo corso, sindaco negli anni '80. Si parla di un consistente pacchetto di tessere che De Martino avrebbe portato in dote al partito. La sua militanza politica è reale: per dieci anni siede infatti nel direttivo cittadino dell'Udc. Ci sarebbe però una "storia notturna" che scorre parallela e, alle volte, incrocia la brillante carriera imprenditoriale. La racconta l'interdittiva antimafia emanata un paio di settimane fa dal prefetto di Venezia nei confronti della Venice Top Management srl, una delle società dell'imprenditore: "Antonio e Saverio De Martino - si legge nel documento prefettizio - continuano a mantenere rapporti con numerosi esponenti della malavita organizzata calabrese e con soggetti agli stessi sodalizi criminali facendo emergere un intreccio di cointeressenze personali ed economiche". Il padre Saverio e Antonio, negli anni, sarebbero rimasti legati da vincoli di amicizia e riconoscenza al boss della cosca Iannazzo di Lamezia Terme, Vincenzo Iannazzo. Tanto da ospitarlo a Venezia nel 2009 quando Vincenzo lasciò per un periodo Lamezia per contrasti con i suoi sodali o finanziarne il soggiorno in Irlanda. Il documento del Prefetto sottolinea il legame d'affari esistente tra Iannazzo e i De Martino, in particolare per quanto riguarda la Regit srl - società con sede legale a Lamezia, ma attiva nel Veneziano – con cui la famiglia De Martino farà diversi affari tra il 2001 e il 2004. E questo sarebbe avvenuto, secondo la Prefettura, in seguito alla visita, nel 2001, di Iannazzo in alcuni cantieri della Regit. La loro rete di conoscenze nel Veneziano sarebbe stata sfruttata, secondo quanto scrive la Prefettura, varie volte da sodali della rete 'ndranghetista. Come quando Gennaro Longo di Lamezia Terme - "sospettato di essere contiguo alla consorteria 'ndranghestita Iannazzo-Giampà", titolare della ditta ElleDue costruzioni, vince nel 2011 l'appalto la costruzione della caserma dei carabinieri di Dueville nel vicentino. Grazie ai buoni uffici di Antonio De Martino (dice l'interdittiva), la ElleDue costruzioni ottiene la certificazione necessaria per concorrere agli appalti pubblici. I nodi della rete di conoscenze di De Martino sembrano ben piazzati: lo scorso 23 settembre è stato condannato a quattro mesi di reclusione per aver utilizzato informazioni coperte dal segreto. Antonio Cairo, sotto capo della capitaneria del porto di Venezia, avrebbe infatti avvertito in anticipo l'imprenditore sui futuri controlli nei suoi stabilimenti balneari. Della "storia notturna" dei De Martino, al Lido, si vociferava almeno da una decina d'anni. Voci sempre più insistenti dopo l'arresto, il 14 maggio 2015, del padre Saverio nell'inchiesta Andromeda della procura di Catanzaro a carico delle cosche di Lamezia Terme, con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Saverio è poi stato ritenuto estraneo alle accuse dal Tribunale del Riesame di Catanzaro e scarcerato il 2 giugno. Si era alla vigilia delle elezioni e De Martino aveva seguito la parte dell'Udc fedele al centrosinistra, si era candidato per la municipalità del Lido, ma il candidato del centrosinistra, Felice Casson, aveva posto il veto sulla sua candidatura. "Antonio Provenzano mi faceva l'esempio, no?, se De Martino aveva preso tutti questi appalti, come fa a prenderli? Qua come li prendiamo gli appalti? Con l'amicizia. E la stessa cosa è là". A parlare è Angelo Torcasio, collaboratore di giustizia, le cui confessioni hanno dato il via all'inchiesta Andromeda. L'amicizia di cui parla Torcasio è in realtà un saldo rapporto con rappresentanti del mondo politico che – al sud come al nord – rimangono figure decisive per l'assegnazione degli appalti. "Dalle risultanze investigative emerge – scrive il prefetto - che De Martino Antonio avrebbe richiesto ad un politico ed amministratore locale di intercedere sul funzionario a capo della struttura competente al fine di velocizzare al procedura di concessione dell'autorizzazione a costruire nell'area del Parco delle Rose (…). Di fatto l'autorizzazione venne rilasciata dieci giorni dopo". Siamo nel 2010 e l'affare del Parco delle Rose è l'occasione, forse l'unica, in cui Antonio De Martino si scontra con una parte degli abitanti del Lido, i componenti del battagliero comitato ambientalista locale. De Martino progetta di costruire in un'area verde nella zona centrale del Lido due edifici ad uso commerciale e residenziale compreso dei garage sotterranei. Il progetto di De Martino verrebbe ricompreso in tutta la serie di interventi previsti dall'anniversario dell'Unità d'Italia, un "Grande Evento", occasione per nominare commissari straordinari e velocizzare procedure. Al Lido alla costruzione del nuovo palazzo del Cinema il commissario straordinario Vincenzo Spaziante accumula altre competenze tra cui la decisione sul Parco delle Rose. Il progetto di De Martino viene fieramente osteggiato dal coordinamento delle associazioni ambientaliste, ma supera lo scoglio delle autorizzazioni (semplificate dal regime commissariale). Alla fine De Martino non riuscirà a reperire il capitale sufficiente e ad accordarsi con i proprietari dell'area e il progetto – forse il più ambizioso dei suoi - rimarrà sulla carta. I De Martino, padre Salvatore, madre Angela Perri, la sorella Vincenza con il marito Ferdinando Estini (fratello di Ottavio Estini, genero di Pasquale Giampà, capo della famiglia ndranghetista omonima) vivono insieme in un complesso residenziale, dal disegno architettonico un po' vanitoso, alle "terre perse", zona in bilico tra la cittadina del Lido e il borgo veneziano di Malamocco. Da pochi anni ha aperto, con buone speranze, un locale – Lidò – sul Gran Viale. Sia chiaro: il provvedimento della Prefettura è una misura preventiva, i fatti descritti sono frutto di attività investigativa, ma non hanno validità al fine di dichiarare Antonio De Martino appartenete alla 'ndrangheta. De Martino potrà ricorrere al Tar per dimostrare le sue buone ragioni. Che la "storia notturna" esista davvero nessun tribunale lo ha ancora stabilito. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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italianaradio · 5 years ago
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Prostituzione, violenza e schiavitù. Colpo grosso alla mafia nigeriana, uno Stato dentro lo Stato
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Prostituzione, violenza e schiavitù. Colpo grosso alla mafia nigeriana, uno Stato dentro lo Stato
Prostituzione, violenza e schiavitù. Colpo grosso alla mafia nigeriana, uno Stato dentro lo Stato
Tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, risse, estorsioni, rapine, violenze sessuali e lesioni personali, ma anche sfruttamento della prostituzione: queste le accuse mosse a 32 persone che, per la Polizia di Stato, apparterrebbero alle “mafie nigeriane”. Stamani il blitz internazionale con cui la squadra mobile di Bari ha eseguito 32 arresti in sette regioni italiane (Puglia, Sicilia, Campania, Calabria, Marche, Basilicata, Lazio, Emilia Romagna, Veneto) e all’estero, in particolare e grazie al coordinamento dello Sco e dell’Interpol – in Germania, Francia, Olanda e Malta. (QUI) A carico di fermati – tutti nigeriani – pende un´ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip del Tribunale del capoluogo pugliese, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia locale. Gli indagati sono ritenuti appartenere, con vari ruoli, ad una associazione mafiosa finalizzata al favoreggiamento della immigrazione clandestina, alla tratta di esseri umani, alla riduzione in schiavitù, alle estorsioni, alle rapine, alle lesioni personali, alla violenza sessuale, all’uso di armi bianche ed allo sfruttamento della prostituzione e dell’accattonaggio. Si tratta del blitz in materia di mafia nigeriana con il più alto numero di arrestati mai eseguiti in Italia. La tesi è che gli indagati facciano parte, insieme a numerose altre persone ancora non identificate, di due distinte associazioni di natura cultista, operanti nella provincia di Bari come cellule autonome delle fratellanze internazionali denominate “Supreme Vikings Confraternity-Arobaga” e “Supreme Eiye Confraternity”, che avrebbero agito per lungo tempo per ottenere il predominio sul territorio barese e poter così gestire i propri affari illeciti. GLI “ADEPTI” COPTATI NEL CENTRO D’ACCOGLIENZA Tutto è partito dalle denunce presentate a fine 2016 da due cittadini nigeriani ospiti del Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Bari. Questi hanno raccontato di esser stati vittima di pestaggi, rapine e ripetuti tentativi di condizionamento per esser “arruolati” tra le fila di un gruppo malavitoso che stava espandendo la sua influenza all’interno del Centro, poi scoperto essere quello dei cosiddetti “Vikings”. I dettagli contenuti nelle loro denunce hanno quindi permesso agli agenti di ricostruire numerosi episodi di violenza dentro al Cara e collegati tra loro. Violenza che si inserivano, infatti, nella “guerra” tra le due principali gang criminali, quella dei “Vikings” e quella degli “Eyie”, la prima più numerosa e più violenta della seconda. Entrambe reclutavano i nuovi adepti attraverso dei riti di iniziazione cruenti consistenti in delle “prove di coraggio”, per tentare di prevalere l’una sull’altra, commettendo anche violenze, rappresaglie e punizioni fisiche, il cosiddetto “Drill”, da cui il nome della operazione di oggi. I CAPI, LE REGOLE E LE PUNIZIONI CRUENTE Gli investigatori spiegano come entrambe le gang siano caratterizzate dalla solidità del vincolo associativo, dalla programmazione di reati di varia natura e da un capillare e costante controllo da parte dei “capi” per il rispetto dei ruoli e delle regole, con l’applicazione di metodi punitivi cruenti ogni qualvolta si rendesse necessario per ristabilire gli equilibri compromessi. I due gruppi hanno dimostrato di possedere una struttura rudimentale quanto ai mezzi adoperati, ma solidissima dal punto di vista dell’ideologia, della organizzazione e dei reati da perseguire, senza cercare in alcun modo aderenze con le mafie locali anzi dando prova, quanto allo sfruttamento della prostituzione, di una supremazia anche nei confronti delle bande composte da albanesi e rumeni. Coloro che non accettavano di aderire alle confraternite o che non ne rispettavano le regole erano destinatari infatti di inaudite violenze: le vittime hanno infatti raccontato di pestaggi, frustate, pugni, calci e bastonate con l´utilizzo di spranghe, mazze e cocci di bottiglia. LE DONNE “CETI INFERIORI” E BUONE SOLO PER IL SESSO Le donne nigeriane, invece, venivano vessate psicologicamente, perché ritenute ceti inferiori, buone solo a soddisfare le esigenze sessuali della comunità maschile e, soprattutto, a produrre denaro attraverso lo sfruttamento della prostituzione. È risultata emblematica la figura delle cosiddette “blu queen”, donne considerate una merce di proprietà esclusiva del gruppo degli “Eyie” dopo essersi sessualmente concesse ai capi e destinate a gestire, per loro conto, le giovani prostitute fatte entrare nel Cara. Una delle principali attività delle associazioni è stata infatti lo sfruttamento della prostituzione. Durante le indagini, ad esempio, è emerso anche il caso della tratta e della riduzione in schiavitù di una donna e che si ritiene gestito da uno degli indagati, Sunday Victor che, dopo averla accompagnata su una delle tante imbarcazioni di clandestini in partenza per l’Italia dalla Libia ed averla fatta entrare abusivamente nel Cara, l’avrebbe obbligata a prostituirsi e consegnare i ricavi al gruppo. La donna, che ha provato a ribellarsi, sarebbe stata punita con violenze fisiche ripetute, sino ad arrivare ad accendere il focolaio di una vera e propria rissa tra bande, il 22 marzo 2017. Insieme a lei, è stato punito anche il compagno. LA PROSTITUZIONE FUORI DAL CENTRO Grazie alle numerose intercettazioni telefoniche a ai riscontri sul territorio, gli agenti hanno accertato che uno dei principali interessi era quello di fare entrare clandestinamente le connazionali nel Centro di accoglienza e farle prostituire. Inizialmente la pratica sarebbe stata gestita solo all’interno del Cara, in un secondo momento il gruppo avrebbe però fornito prostitute a clienti anche al di fuori della struttura, per le strade o in abitazioni della città. I “Vikings” e gli “Eiye” si sarebbero dunque estesi arrivando ad occupare immobili adibiti a case di appuntamento, e le strade sulle quali collocare le giovani vittime del meretricio. Si sarebbe verificato, inoltre, un “asservimento” delle “maman” nigeriane che operano a livello locale alle richieste delle due gangs relative alla necessità di dover “piazzare” ragazze per strada per farle prostituire. IL PIZZO IMPOSTO ANCHE AI MENDICANTI Gli agenti hanno poi scoperto lo sfruttamento dei nigeriani che mendicano davanti ai supermercati ed altri esercizi commerciali di Bari e provincia. Le indagini hanno infatti svelato uno spaccato di vita e di criminalità all’interno della comunità africana. Le vittime hanno infatti confermato la sottomissione al pagamento del “pizzo” sui loro miseri ricavi, con la consegna del denaro agli esponenti delle gang o con ricariche telefoniche sulle utenze di quest’ultimi. LA CREAZIONE DELLA TASK FORCE DELLA POLIZIA Le indagini della Polizia, coordinate dalla DDA di Bari, avrebbero così fatto luce sia sul fenomeno associativo nel suo complesso, sia sui singoli e gravi fatti che hanno afflitto il territorio barese negli ultimi anni, determinando anche un notevole allarme sociale e pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica. Gli episodi che hanno destato una gravissima preoccupazione sono stati dapprima trattati singolarmente. La loro comprensione ed il loro inserimento in un quadro più complesso ed articolato è stato possibili soltanto grazie alla creazione di una squadra di investigatori dedita alla osservazione del fenomeno. L’accoltellamento di una donna nigeriana nel gennaio 2017, la già citata rissa del 22 marzo 2017 con gravi ferimenti di alcuni dei partecipanti; un altro scontro all’interno del Cara dell’8 maggio dello stesso anno, in cui è morto uno dei nigeriani appartenente alla compagine dei “Vikings”; ed ancora, una rissa nell’agosto sempre del 2017 per le strade del quartiere Libertà ed uno stupro di gruppo commesso all’interno del Cara ai danni di una ragazza (nel marzo 2017), sono solo alcuni dei violenti episodi che si sono verificati a Bari e che hanno caratterizzato il contrasto tra i due gruppi criminali. I dati acquisiti durante le indagini si sono dimostrati sovrapponibili agli esiti investigativi che, nel frattempo, molte altre Squadre Mobili in Italia hanno portato avanti in quel periodo. Questo a conferma che la mafia nigeriana si è radicata i molte zone del territorio nazionale (dal Veneto alla Sicilia, dal Piemonte alla Campania, dalle Marche alla Puglia) con numerosi insediamenti di cellule di ispirazione cultista, tutte votate a perseguire stessi obiettivi delinquenziali e tutte operanti secondo le classiche metodologie mafiose improntate alla violenza, all’assoggettamento e all´omertà. LA PRESENZA CAPILLARE DELLE CELLULE CULTISTE Nel 2011 l’Ambasciata Nigeriana a Roma ha emanato una nota in cui parlava di una “nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenenti a sette segrete, proibite dal governo a causa di atti violenti: purtroppo ex membri sono riusciti ad entrare in Italia e hanno fondato nuovamente l´organizzazione qui, principalmente con scopi criminali”. L’informativa di reato depositata dalla Squadra Mobile alla Procura nell’aprile scorso, nella quale sono state individuate responsabilità a vario titolo di ben 50 nigeriani per i reati di cui parlavamo prima, avrebbe evidenziato le forme organizzative delle due associazioni criminali. Le gangs – inquadrate nel più ampio scenario internazionale delle confraternite universitarie sorte in Nigeria agli inizi degli anni ´50 per contrastare una Università di élite, frequentata solo da studenti facoltosi, e legati al mondo coloniale – erano volte a favorire gli studenti poveri promettenti, per poi, negli anni ‘70 e ‘80, essere finanziate ed armate dai leader militari. Esse sono strutturate in forma verticistica e militare, e traggono la loro forza dall’intimidazione, dalla violenza e dall’assoggettamento omertoso inculcato nelle vittime. Si caratterizzano, poi, e al pari delle mafie di casa nostra, per i rituali di affiliazione paragonabili a vere e proprie prove di forza difficilmente superabili, in quanto basate su primitive pratiche di sofferenza corporale, così come per l’utilizzo di codici interni e di vocaboli pregni di un simbolismo pressoché incomprensibile, oltre che per una rigida suddivisione dei ruoli, così da risultare impenetrabili ed altamente efficienti. IL QUADRO DI UNO “STATO DENTRO LO STATO” È dunque emerso il quadro di uno “Stato dentro lo Stato”, fatto di proprie regole e totalmente incurante delle leggi, ma anche di molte basilari norme di convivenza civile. A titolo di esempio, una delle due confraternite si è vantata di una fitta presenza sul territorio italiano, diviso, secondo le parole dei protagonisti, in “13 nest” (cellule operative): “… Eh … perché adesso è diventato un solo comando … perché i “world aviary” hanno già detto … e hanno fatto in Edo State … loro vogliono che ci siano 13 “nest” in Italia…” Il linguaggio degli associati, dai capi ai semplici partecipi, è stato indicativo di un forte senso di appartenenza militante riferita ad un gruppo associativo: “… no … da quel giorno che sono andato via da Bari, non sono più tornato … non posso venire a Bari senza chiamarti … e adesso che ho una casa … e ho tutto … e adesso che voglio far navigare nuovamente la “ship” a Bari, posso tornare a Bari in qualsiasi week-end …” Anche il ritualismo di iniziazione (il battesimo) è stato descritto dalle parole degli associati, ad esempio, con particolare drammaticità, il momento in cui un candidato non superava la prova di forza prevista: “… stava succedendo questo H.F. ha cominciato ad avere i dubbi e forse non ce la fa a superare questo fatto, ha cominciato a sanguinare, H.F. ha cominciato a piangere, ha cominciato a fare cose strane, da lì tu hai detto che tipo di persona hanno portato, sta piangendo … tu hai detto che il ragazzo deve andare via, che loro devono dire al ragazzo che deve andare via …” Ed ancora, carico di soggezione si è dimostrato il rapporto tra i mendicanti ed i capi delle organizzazioni che pretendevano da loro la tangente sui ricavi delle elemosine davanti ai supermercati; i poveri mendicanti chiamavano “Signori” i loro estorsori. Ma l’elemento più caratterizzante della metodologia mafiosa è rappresentato dal potere sanzionatorio, che impone una punizione (drill) a chi non si adegua alle regole dell’associazione, cioè non ne entra a far parte quando richiesto, non si impegna a pagare la periodica retta di appartenenza, non si prostituisce e, in generale, non rispetta le direttive dei capi: “… mi ha detto che il suo ID si è lamentato perchè se non si riusciva a fare “drill” a Ifa nel campo tu dovevi farglielo sapere … perchè Ifa ogni domenica viene in città … e lui può dare ordine di far prendere Ifa … può parlare di questo fatto… e fare “drill” a lui ….” – “… questa notte gli taglierò le orecchie a quel “Junior” … si comporta male … gli farò “drill” … tu non preoccuparti … sappiamo quello che gli faremo …” – “… Aro, stai zitto! … sto ancora parlando con lui … stai zitto … stai zitto … ma che cosa stai dicendo? … ma cosa gli sta prendendo a questo german (cioè `fratello´, appartenente al gruppo criminale)? … se vieni vicino a me ti metto sotto e ti faccio “drill” per quello che stai dicendo … Aro non mi nascondo … Aro non ho paura e questo non posso nasconderlo … se vieni qui ti metto sotto e faccio “drill” …” – “non lo picchiare … Eiye non picchia … tu hai detto di essere “old set” … ci sarà “drilling” … bisogna osservare il protocollo per forza…” – “eh… tu aspetta che veniamo… se sbaglia noi facciamo “drill” a lui… lui sa come funziona a casa … e così funziona anche qui… invece di gridare con lui tu lascialo perdere… quando io esco lo chiamiamo… quando una persona sbaglia bisogna …”. LE INDAGINI Il provvedimento cautelare è arrivato al termine di circa due anni di indagini (dal 2016 al 2018) in cui gli investigatori della Sezione Contrasto al Crimine Extracomunitario e Prostituzione hanno faticosamente ricostruito la rete di rapporti tra numerosi cittadini nigeriani stanziati a Bari e provincia, sia dentro che fuori dal Cara, spesso in posizione irregolare sul territorio nazionale. Fino a quel momento, infatti, soltanto nel 2013, a Bari, è stata operativa una cellula dei “Black Axe”, anche se, al di là di sporadiche risse e scontri tra bande, non è mai stata documentata una attività di tipo associativo, con caratteristiche organizzativo-comportamentali tali da determinare la sua mafiosità. Quanto alla confraternite raggiunta oggi dai provvedimenti cautelari, gli investigatori rilevano che è stato particolarmente complicato penetrare nella loro cultura, delineare le gerarchie ed i ruoli, decriptare il loro linguaggio, incontrando molto spesso obiettive difficoltà connesse all’assenza di interpreti liberi da forme di condizionamento nei confronti della loro comunità. Durante il periodo delle indagini, le presenze di nigeriani all´interno del Cara si attestavano a circa 600 unità. Nell’attualità gli ospiti sono poco meno di un centinaio. GLI ARRESTI La Squadra Mobile di Bari ha svolto una meticolosa attività di ricerca degli indagati sul territorio nazionale e, tramite il coordinamento del Servizio Centrale Operativo e l’ausilio di molte Squadre Mobili, è riusciti ad individuare le dimore di quelle persone che nel frattempo avevano lasciato Bari dopo i fatti di violenza più cruenti in cui erano state coinvolte le gangs. Allo stesso modo, le attività informative ed i canali di collegamento con le autorità estere, opportunamente attivati dalla Divisione Interpol del Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia, hanno consentito di individuare i Paesi Europei, tra cui Germania, Francia, Olanda e Malta, in cui altri appartenenti alle confraternite nigeriane si erano di recente trasferiti. Completate le attività propedeutiche al rintraccio degli indagati, nella nottata di oggi, a Bari e nelle province di Taranto, Lecce, Caserta, Roma, Ancona, Matera, Reggio Emilia, Cosenza, Trapani e Rovigo, sono state eseguite le catture, ed in contemporanea i collaterali uffici di Polizia esteri sono stati interessati dall’Interpol per dare esecuzione ai Mandati d’Arresto Europei firmati dal Giudice per le Indagini Preliminari di Bari.
Tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, risse, estorsioni, rapine, violenze sessuali e lesioni personali, ma anche sfruttamento della prostituzione: queste le accuse mosse a 32 persone che, per la Polizia di Stato, apparterrebbero alle “mafie nigeriane”. Stamani il blitz internazionale con cui la squadra mobile di Bari ha eseguito 32 arresti in sette regioni italiane (Puglia, Sicilia, Campania, Calabria, Marche, Basilicata, Lazio, Emilia Romagna, Veneto) e all’estero, in particolare e grazie al coordinamento dello Sco e dell’Interpol – in Germania, Francia, Olanda e Malta. (QUI) A carico di fermati – tutti nigeriani – pende un´ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip del Tribunale del capoluogo pugliese, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia locale. Gli indagati sono ritenuti appartenere, con vari ruoli, ad una associazione mafiosa finalizzata al favoreggiamento della immigrazione clandestina, alla tratta di esseri umani, alla riduzione in schiavitù, alle estorsioni, alle rapine, alle lesioni personali, alla violenza sessuale, all’uso di armi bianche ed allo sfruttamento della prostituzione e dell’accattonaggio. Si tratta del blitz in materia di mafia nigeriana con il più alto numero di arrestati mai eseguiti in Italia. La tesi è che gli indagati facciano parte, insieme a numerose altre persone ancora non identificate, di due distinte associazioni di natura cultista, operanti nella provincia di Bari come cellule autonome delle fratellanze internazionali denominate “Supreme Vikings Confraternity-Arobaga” e “Supreme Eiye Confraternity”, che avrebbero agito per lungo tempo per ottenere il predominio sul territorio barese e poter così gestire i propri affari illeciti. GLI “ADEPTI” COPTATI NEL CENTRO D’ACCOGLIENZA Tutto è partito dalle denunce presentate a fine 2016 da due cittadini nigeriani ospiti del Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Bari. Questi hanno raccontato di esser stati vittima di pestaggi, rapine e ripetuti tentativi di condizionamento per esser “arruolati” tra le fila di un gruppo malavitoso che stava espandendo la sua influenza all’interno del Centro, poi scoperto essere quello dei cosiddetti “Vikings”. I dettagli contenuti nelle loro denunce hanno quindi permesso agli agenti di ricostruire numerosi episodi di violenza dentro al Cara e collegati tra loro. Violenza che si inserivano, infatti, nella “guerra” tra le due principali gang criminali, quella dei “Vikings” e quella degli “Eyie”, la prima più numerosa e più violenta della seconda. Entrambe reclutavano i nuovi adepti attraverso dei riti di iniziazione cruenti consistenti in delle “prove di coraggio”, per tentare di prevalere l’una sull’altra, commettendo anche violenze, rappresaglie e punizioni fisiche, il cosiddetto “Drill”, da cui il nome della operazione di oggi. I CAPI, LE REGOLE E LE PUNIZIONI CRUENTE Gli investigatori spiegano come entrambe le gang siano caratterizzate dalla solidità del vincolo associativo, dalla programmazione di reati di varia natura e da un capillare e costante controllo da parte dei “capi” per il rispetto dei ruoli e delle regole, con l’applicazione di metodi punitivi cruenti ogni qualvolta si rendesse necessario per ristabilire gli equilibri compromessi. I due gruppi hanno dimostrato di possedere una struttura rudimentale quanto ai mezzi adoperati, ma solidissima dal punto di vista dell’ideologia, della organizzazione e dei reati da perseguire, senza cercare in alcun modo aderenze con le mafie locali anzi dando prova, quanto allo sfruttamento della prostituzione, di una supremazia anche nei confronti delle bande composte da albanesi e rumeni. Coloro che non accettavano di aderire alle confraternite o che non ne rispettavano le regole erano destinatari infatti di inaudite violenze: le vittime hanno infatti raccontato di pestaggi, frustate, pugni, calci e bastonate con l´utilizzo di spranghe, mazze e cocci di bottiglia. LE DONNE “CETI INFERIORI” E BUONE SOLO PER IL SESSO Le donne nigeriane, invece, venivano vessate psicologicamente, perché ritenute ceti inferiori, buone solo a soddisfare le esigenze sessuali della comunità maschile e, soprattutto, a produrre denaro attraverso lo sfruttamento della prostituzione. È risultata emblematica la figura delle cosiddette “blu queen”, donne considerate una merce di proprietà esclusiva del gruppo degli “Eyie” dopo essersi sessualmente concesse ai capi e destinate a gestire, per loro conto, le giovani prostitute fatte entrare nel Cara. Una delle principali attività delle associazioni è stata infatti lo sfruttamento della prostituzione. Durante le indagini, ad esempio, è emerso anche il caso della tratta e della riduzione in schiavitù di una donna e che si ritiene gestito da uno degli indagati, Sunday Victor che, dopo averla accompagnata su una delle tante imbarcazioni di clandestini in partenza per l’Italia dalla Libia ed averla fatta entrare abusivamente nel Cara, l’avrebbe obbligata a prostituirsi e consegnare i ricavi al gruppo. La donna, che ha provato a ribellarsi, sarebbe stata punita con violenze fisiche ripetute, sino ad arrivare ad accendere il focolaio di una vera e propria rissa tra bande, il 22 marzo 2017. Insieme a lei, è stato punito anche il compagno. LA PROSTITUZIONE FUORI DAL CENTRO Grazie alle numerose intercettazioni telefoniche a ai riscontri sul territorio, gli agenti hanno accertato che uno dei principali interessi era quello di fare entrare clandestinamente le connazionali nel Centro di accoglienza e farle prostituire. Inizialmente la pratica sarebbe stata gestita solo all’interno del Cara, in un secondo momento il gruppo avrebbe però fornito prostitute a clienti anche al di fuori della struttura, per le strade o in abitazioni della città. I “Vikings” e gli “Eiye” si sarebbero dunque estesi arrivando ad occupare immobili adibiti a case di appuntamento, e le strade sulle quali collocare le giovani vittime del meretricio. Si sarebbe verificato, inoltre, un “asservimento” delle “maman” nigeriane che operano a livello locale alle richieste delle due gangs relative alla necessità di dover “piazzare” ragazze per strada per farle prostituire. IL PIZZO IMPOSTO ANCHE AI MENDICANTI Gli agenti hanno poi scoperto lo sfruttamento dei nigeriani che mendicano davanti ai supermercati ed altri esercizi commerciali di Bari e provincia. Le indagini hanno infatti svelato uno spaccato di vita e di criminalità all’interno della comunità africana. Le vittime hanno infatti confermato la sottomissione al pagamento del “pizzo” sui loro miseri ricavi, con la consegna del denaro agli esponenti delle gang o con ricariche telefoniche sulle utenze di quest’ultimi. LA CREAZIONE DELLA TASK FORCE DELLA POLIZIA Le indagini della Polizia, coordinate dalla DDA di Bari, avrebbero così fatto luce sia sul fenomeno associativo nel suo complesso, sia sui singoli e gravi fatti che hanno afflitto il territorio barese negli ultimi anni, determinando anche un notevole allarme sociale e pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica. Gli episodi che hanno destato una gravissima preoccupazione sono stati dapprima trattati singolarmente. La loro comprensione ed il loro inserimento in un quadro più complesso ed articolato è stato possibili soltanto grazie alla creazione di una squadra di investigatori dedita alla osservazione del fenomeno. L’accoltellamento di una donna nigeriana nel gennaio 2017, la già citata rissa del 22 marzo 2017 con gravi ferimenti di alcuni dei partecipanti; un altro scontro all’interno del Cara dell’8 maggio dello stesso anno, in cui è morto uno dei nigeriani appartenente alla compagine dei “Vikings”; ed ancora, una rissa nell’agosto sempre del 2017 per le strade del quartiere Libertà ed uno stupro di gruppo commesso all’interno del Cara ai danni di una ragazza (nel marzo 2017), sono solo alcuni dei violenti episodi che si sono verificati a Bari e che hanno caratterizzato il contrasto tra i due gruppi criminali. I dati acquisiti durante le indagini si sono dimostrati sovrapponibili agli esiti investigativi che, nel frattempo, molte altre Squadre Mobili in Italia hanno portato avanti in quel periodo. Questo a conferma che la mafia nigeriana si è radicata i molte zone del territorio nazionale (dal Veneto alla Sicilia, dal Piemonte alla Campania, dalle Marche alla Puglia) con numerosi insediamenti di cellule di ispirazione cultista, tutte votate a perseguire stessi obiettivi delinquenziali e tutte operanti secondo le classiche metodologie mafiose improntate alla violenza, all’assoggettamento e all´omertà. LA PRESENZA CAPILLARE DELLE CELLULE CULTISTE Nel 2011 l’Ambasciata Nigeriana a Roma ha emanato una nota in cui parlava di una “nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenenti a sette segrete, proibite dal governo a causa di atti violenti: purtroppo ex membri sono riusciti ad entrare in Italia e hanno fondato nuovamente l´organizzazione qui, principalmente con scopi criminali”. L’informativa di reato depositata dalla Squadra Mobile alla Procura nell’aprile scorso, nella quale sono state individuate responsabilità a vario titolo di ben 50 nigeriani per i reati di cui parlavamo prima, avrebbe evidenziato le forme organizzative delle due associazioni criminali. Le gangs – inquadrate nel più ampio scenario internazionale delle confraternite universitarie sorte in Nigeria agli inizi degli anni ´50 per contrastare una Università di élite, frequentata solo da studenti facoltosi, e legati al mondo coloniale – erano volte a favorire gli studenti poveri promettenti, per poi, negli anni ‘70 e ‘80, essere finanziate ed armate dai leader militari. Esse sono strutturate in forma verticistica e militare, e traggono la loro forza dall’intimidazione, dalla violenza e dall’assoggettamento omertoso inculcato nelle vittime. Si caratterizzano, poi, e al pari delle mafie di casa nostra, per i rituali di affiliazione paragonabili a vere e proprie prove di forza difficilmente superabili, in quanto basate su primitive pratiche di sofferenza corporale, così come per l’utilizzo di codici interni e di vocaboli pregni di un simbolismo pressoché incomprensibile, oltre che per una rigida suddivisione dei ruoli, così da risultare impenetrabili ed altamente efficienti. IL QUADRO DI UNO “STATO DENTRO LO STATO” È dunque emerso il quadro di uno “Stato dentro lo Stato”, fatto di proprie regole e totalmente incurante delle leggi, ma anche di molte basilari norme di convivenza civile. A titolo di esempio, una delle due confraternite si è vantata di una fitta presenza sul territorio italiano, diviso, secondo le parole dei protagonisti, in “13 nest” (cellule operative): “… Eh … perché adesso è diventato un solo comando … perché i “world aviary” hanno già detto … e hanno fatto in Edo State … loro vogliono che ci siano 13 “nest” in Italia…” Il linguaggio degli associati, dai capi ai semplici partecipi, è stato indicativo di un forte senso di appartenenza militante riferita ad un gruppo associativo: “… no … da quel giorno che sono andato via da Bari, non sono più tornato … non posso venire a Bari senza chiamarti … e adesso che ho una casa … e ho tutto … e adesso che voglio far navigare nuovamente la “ship” a Bari, posso tornare a Bari in qualsiasi week-end …” Anche il ritualismo di iniziazione (il battesimo) è stato descritto dalle parole degli associati, ad esempio, con particolare drammaticità, il momento in cui un candidato non superava la prova di forza prevista: “… stava succedendo questo H.F. ha cominciato ad avere i dubbi e forse non ce la fa a superare questo fatto, ha cominciato a sanguinare, H.F. ha cominciato a piangere, ha cominciato a fare cose strane, da lì tu hai detto che tipo di persona hanno portato, sta piangendo … tu hai detto che il ragazzo deve andare via, che loro devono dire al ragazzo che deve andare via …” Ed ancora, carico di soggezione si è dimostrato il rapporto tra i mendicanti ed i capi delle organizzazioni che pretendevano da loro la tangente sui ricavi delle elemosine davanti ai supermercati; i poveri mendicanti chiamavano “Signori” i loro estorsori. Ma l’elemento più caratterizzante della metodologia mafiosa è rappresentato dal potere sanzionatorio, che impone una punizione (drill) a chi non si adegua alle regole dell’associazione, cioè non ne entra a far parte quando richiesto, non si impegna a pagare la periodica retta di appartenenza, non si prostituisce e, in generale, non rispetta le direttive dei capi: “… mi ha detto che il suo ID si è lamentato perchè se non si riusciva a fare “drill” a Ifa nel campo tu dovevi farglielo sapere … perchè Ifa ogni domenica viene in città … e lui può dare ordine di far prendere Ifa … può parlare di questo fatto… e fare “drill” a lui ….” – “… questa notte gli taglierò le orecchie a quel “Junior” … si comporta male … gli farò “drill” … tu non preoccuparti … sappiamo quello che gli faremo …” – “… Aro, stai zitto! … sto ancora parlando con lui … stai zitto … stai zitto … ma che cosa stai dicendo? … ma cosa gli sta prendendo a questo german (cioè `fratello´, appartenente al gruppo criminale)? … se vieni vicino a me ti metto sotto e ti faccio “drill” per quello che stai dicendo … Aro non mi nascondo … Aro non ho paura e questo non posso nasconderlo … se vieni qui ti metto sotto e faccio “drill” …” – “non lo picchiare … Eiye non picchia … tu hai detto di essere “old set” … ci sarà “drilling” … bisogna osservare il protocollo per forza…” – “eh… tu aspetta che veniamo… se sbaglia noi facciamo “drill” a lui… lui sa come funziona a casa … e così funziona anche qui… invece di gridare con lui tu lascialo perdere… quando io esco lo chiamiamo… quando una persona sbaglia bisogna …”. LE INDAGINI Il provvedimento cautelare è arrivato al termine di circa due anni di indagini (dal 2016 al 2018) in cui gli investigatori della Sezione Contrasto al Crimine Extracomunitario e Prostituzione hanno faticosamente ricostruito la rete di rapporti tra numerosi cittadini nigeriani stanziati a Bari e provincia, sia dentro che fuori dal Cara, spesso in posizione irregolare sul territorio nazionale. Fino a quel momento, infatti, soltanto nel 2013, a Bari, è stata operativa una cellula dei “Black Axe”, anche se, al di là di sporadiche risse e scontri tra bande, non è mai stata documentata una attività di tipo associativo, con caratteristiche organizzativo-comportamentali tali da determinare la sua mafiosità. Quanto alla confraternite raggiunta oggi dai provvedimenti cautelari, gli investigatori rilevano che è stato particolarmente complicato penetrare nella loro cultura, delineare le gerarchie ed i ruoli, decriptare il loro linguaggio, incontrando molto spesso obiettive difficoltà connesse all’assenza di interpreti liberi da forme di condizionamento nei confronti della loro comunità. Durante il periodo delle indagini, le presenze di nigeriani all´interno del Cara si attestavano a circa 600 unità. Nell’attualità gli ospiti sono poco meno di un centinaio. GLI ARRESTI La Squadra Mobile di Bari ha svolto una meticolosa attività di ricerca degli indagati sul territorio nazionale e, tramite il coordinamento del Servizio Centrale Operativo e l’ausilio di molte Squadre Mobili, è riusciti ad individuare le dimore di quelle persone che nel frattempo avevano lasciato Bari dopo i fatti di violenza più cruenti in cui erano state coinvolte le gangs. Allo stesso modo, le attività informative ed i canali di collegamento con le autorità estere, opportunamente attivati dalla Divisione Interpol del Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia, hanno consentito di individuare i Paesi Europei, tra cui Germania, Francia, Olanda e Malta, in cui altri appartenenti alle confraternite nigeriane si erano di recente trasferiti. Completate le attività propedeutiche al rintraccio degli indagati, nella nottata di oggi, a Bari e nelle province di Taranto, Lecce, Caserta, Roma, Ancona, Matera, Reggio Emilia, Cosenza, Trapani e Rovigo, sono state eseguite le catture, ed in contemporanea i collaterali uffici di Polizia esteri sono stati interessati dall’Interpol per dare esecuzione ai Mandati d’Arresto Europei firmati dal Giudice per le Indagini Preliminari di Bari.
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paoloxl · 6 years ago
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Dopo la chiusura del CARA di Castelnuovo di Porto (noi ne avevamo parlato qui), cala il sipario anche su quello di Mineo, il più grande d’Europa. Tutto come previsto da copione dal Ministro dell’Interno, che proprio il 9 luglio si è recato sul posto per “festeggiare” la chiusura del centro con la solita passerella mediatica per “celebrare la promessa mantenuta”. I trasferimenti previsti per svuotare la struttura sono iniziati il 9 dicembre scorso, e sono continuati fino a qualche giorno fa, al 2 luglio, giorno in cui è stato fatto partire l’ultimo gruppo di migranti.
Ma davvero si tratta di una buona notizia di cui rallegrarsi? Assolutamente no.
La Campagna Lasciatecientrare (che lo ha visitato nel 2015 e nel 2017), Medu, la Rete antirazzista Catanese e Borderline Sicilia (solo per citarne le più coinvolte) e tante altre associazioni, inclusa Lunaria stessa, in tutti questi anni, hanno cercato di spiegare il perché questo centro non avrebbe proprio dovuto sorgere.
La storia del Cara di Mineo è stata un susseguirsi di scandali e denunce, senza che per questo siano stati mai interrotti i finanziamenti governativi. Una “macchina” della malaccoglienza che ha continuato ad assorbire una media di 45 – 50 milioni di euro all’anno. Un centro voluto dalla Lega, ed ora chiuso dalla Lega.
Ma occorre fare un doveroso passo indietro: lungo 8 anni, carichi di vicende che di certo non hanno fatto bene all’accoglienza. Il CARA di Mineo aprì nel marzo del 2011, voluto dall’allora presidente del Consiglio Berlusconi (con ministro dell’Interno il leghista Roberto Maroni ndr), nel contesto della cosiddetta emergenza Nordafrica, come “fiore all’occhiello” del sistema di accoglienza italiano. Doveva essere un “Villaggio della Solidarietà”, quello previsto nel residence degli Aranci a Mineo: ma le quattrocento casette gialle e rosa allineate non sono state assolutamente modello d’inclusione e di buone prassi.
Realizzato all’interno di quello che era stato un villaggio residenziale dei militari americani stanziati a Sigonella, Mineo è diventato il prototipo dei mega-centri per richiedenti asilo, con un affollamento che ha raggiunto nel luglio 2014 cifre record fino a 4500 migranti “ospitati” (e dirlo è un eufemismo), a fronte di una capienza “programmata” di massimo 2.000 persone. Già due mesi dopo la sua apertura, era scoppiata la prima rivolta.
Nel luglio 2013, il parlamentare del gruppo SEL, Erasmo Palazzotto, si era recato a Mineo in delegazione con rappresentanti delle realtà antirazziste locali, per constatare le condizioni delle persone ospitate nel centro. Una visita che ha richiesto quasi 4 ore e mezzo e dagli esiti non proprio “felici”.
Alla fine del 2014, un documento pubblicato da diverse associazioni, tra cui Asgi e Borderline, tornava a denunciare la quotidianità all’interno del Cara, fatta di “gravi e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali”.
Nel 2015, toccherà poi a Medici per i Diritti Umani (che ha operato all’interno del CARA per circa cinque anni, portando assistenza medico-psicologica ai migranti vittime di tortura e di abusi nel paese di origine e/o lungo la rotta migratoria) segnalare in un rapporto una serie di gravissime criticità all’interno del centro, con un verdetto molto duro. Secondo il rapporto, infatti, le criticità erano di tale entità e natura da rendere il modello del CARA di Mineo” ingestibile e fallimentare”, indipendentemente da chi ne fosse stato l’ente gestore.
In pochissimo tempo, Mineo era già diventato sinonimo di sovraffollamento, di isolamento della struttura rispetto al territorio circostante, di tempi medi di permanenza interminabili in attesa del riconoscimento della protezione internazionale, di disfunzioni nella fornitura ed accesso ai servizi di supporto psicologico e legale, di fenomeni di degrado sociale difficilmente gestibili (si veda anche il report di Alessandra Sciurba del marzo 2015, quando ha visitato il centro con l’Europarlamentare Eleonora Forenza). E poi: l’assenza di un’adeguata consulenza socio-legale, la mancanza di informative sui diritti e le possibilità dei richiedenti asilo, insieme ad altre prassi illegittime e divenute con il tempo normali pratiche quotidiane della malagestione. E ancora: sinonimo di abusi, di condizioni di vita indegne e poi oggetto di indagini che hanno coinvolto sia gli ospiti sia i dirigenti del centro.
L’inchiesta di Mafia Capitale, che ha travolto in pieno anche il C.A.R.A. di Mineo (qui le tappe della commissione parlamentare Antimafia), ha confermato l’esistenza, denunciata invano per anni, di una lucrosa speculazione sull’accoglienza dei migranti («Su Mineo casca il Governo…io potrei, cioè, se possiamo spegnere il registratore glielo dico, se può spegnere un secondo», aveva detto Salvatore Buzzi, come lo avevamo raccontato qui). Ed ha evidenziato come, purtroppo, Mineo rappresentasse la punta dell’iceberg di un sistema di corruzione diffusa che non ha mai esitato ad approfittare della condizione di disperazione e di necessità dei migranti che sbarcano sulle nostre coste.
Uno dei dati più sconcertanti emerso in questi 8 lunghi anni è la totale contrapposizione fra le valutazioni della Commissione parlamentare d’inchiesta, che in un documento redatto dopo le ispezioni ha chiesto la chiusura immediata del C.A.R.A., i vari report prodotti dalle visite dei parlamentari e le denunce delle associazioni, da un lato, e dall’altro le valutazioni dei vari enti gestori, per i quali il centro è sempre stato “un modello”, pur migliorabile, di accoglienza.
Di fatto, dietro questa struttura enorme, che tutto ha potuto fare tranne che accogliere dignitosamente i migranti e garantire loro qualcosa che vagamente si avvicini ad una minima inclusione sociale, si è celata una formula di gestione segregativa e securitaria, ghettizzante e marginalizzante.
Medici per i Diritti Umani (Medu), in una nota diffusa alla stampa ieri, “accoglie con soddisfazione la notizia della chiusura definitiva dei cancelli di un centro che mai avrebbe dovuto esistere, anche se ciò avviene con 4 anni di ritardo rispetto al 2015, quando con un primo rapporto Medu ne invocava la chiusura”. Anche la Rete Antirazzista Catanese, in un comunicato, ha ribadito: “Da sempre ci siamo schierati contro l’apertura  del Cara,  simbolo europeo del megabusiness della pseudo accoglienza ed abbiamo sostenuto le giuste proteste dei e delle richiedenti asilo contro le condizioni d’invivibilità, d’insicurezza e di violenza che per 8 anni hanno subito decine di migliaia di persone parcheggiate a tempo indeterminato, sfruttate dai caporali delle campagne calatine e  donne migranti costrette a prostituirsi nell’indifferenza delle ingenti forze di polizia, carabinieri ed esercito. Il ministro Salvini ha cavalcato l’onda nera del razzismo per chiudere non il Cara della mala accoglienza e di Mafia Capitale, ma per smantellare l’accoglienza in generale, come dimostrano i 2 decreti sicurezza scritti per criminalizzare non solo le ong delle navi umanitarie, ma anche il sistema Sprar e le sue esperienze più avanzate, come a Riace”.
Si è trattato, infatti, di una chiusura netta e senza prospettive (come quella del CARA di Castelnuovo di Porto), che in nessun caso ha voluto tener conto delle persone che vi erano ospitate né dei lavoratori che di loro si occupavano. E noi diremmo, ancora una volta. Visto che questo luogo si è “distinto” da sempre per una mancanza di riconoscimento della dignità umana.
I pochi (rispetto ai grossi numeri iniziali) migranti che erano nel centro prima che cominciasse lo smantellamento, non sono stato collocati in strutture migliori, quanto piuttosto in posti nei quali l’accoglienza è ancora più precaria, e ciò risulta ancora in modo più evidente per i più fragili ed i più vulnerabili. Molti di loro, come denuncia Medu, si sono ritrovati addirittura in strada senza più nulla. I tanti lavoratori coinvolti in questa grande macchina dell’indegno, che pur hanno lavorato in mezzo a mille disagi, si sono ritrovati senza alcuna prospettiva di re-impiego.
Il problema, in definitiva, non è la chiusura in sé di Mineo, che non avrebbe mai dovuto aprire, quanto piuttosto il diabolico piano di progressivo smantellamento del sistema di accoglienza con il preciso obiettivo di destabilizzare e colpire quel poco di buono che è stato fatto sin qui (noi ne avevamo già parlato qui).
E uno smantellamento del genere non dovrebbe prevedere il risorgere dalle ceneri di Mineo altri orrori come questo (come è stato fatto in buona sostanza anche per i CIE diventati poi CPR).
La soluzione sta un po’ più in là. Solo che non la si vuole proprio vedere.
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gregor-samsung · 6 years ago
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A noi pare che quella del sostanziale divorzio in atto fra mafia e potere politico sia una delle tipiche tesi consolatorie che la cultura progressista elabora periodicamente in omaggio all'«ottimismo della volontà». D'altronde, la circostanza che il giudice Chinnici cui non mancavano gli elementi di conoscenza diretta — si sia dichiarato convinto che i rapporti fra mafia e potere politico non solo persistevano, ma si erano fatti più stretti, e abbia suffragato con fatti concreti il suo convincimento, non può non far riflettere. Soprattutto, non può non far riflettere il fatto che — pochi mesi dopo aver fatto pubblicamente queste dichiarazioni — Chinnici è stato ucciso. Se questo rimane, a nostro avviso, un punto-chiave indispensabile per tentare un'analisi seria della mafia nella società dell'eroina, la relazione tenuta a Castelgandolfo da Chinnici fornisce altre riflessioni di grande interesse. Il materiale di cui si era servito Chinnici per preparare il testo proveniva in buona parte dalle inchieste di un magistrato che lavorava con lui, Giovanni Falcone. C'è nella relazione Chinnici un passaggio che implicitamente conferma quella che abbiamo definito la piccolezza del pianeta: «La multinazionale della droga non è espressione giornalistica, né è priva di significato. Le indagini condotte da Falcone, in particolare, hanno messo in evidenza i legami della mafia siciliana e di quella calabrese e napoletana e dei gruppi che operano nell'Italia del Nord, con trafficanti di eroina e di armi, belgi, francesi, mediorientali; hanno fornito conferma al fatto che le potenti famiglie mafiose che operano negli Usa e nel Canada, e che provengono in massima parte dalla Sicilia occidentale, e con particolare riferimento ai traffici illeciti di eroina, sono in posizione di dipendenza rispetto alle associazioni mafiose dei paesi d'origine, specie dopo che il centro di produzione dell'eroina si è spostato dalla Francia meridionale a Palermo e forse anche in Calabria e nel Napoletano». Nella lotta contro la corruzione politica — e in quella, contigua, contro la mafia — la magistratura italiana ha certamente compiuto gravi errori, peraltro di gran lunga inferiori ai meriti acquisiti dai giudici più lungimiranti e coraggiosi. Il successore di Chinnici, Antonio Caponnetto, per fronteggiare da Palermo le strategie internazionali della criminalità organizzata, creò, secondo le indicazioni del predecessore, un pool antimafia, la cui azione incisiva inserì elementi di crisi fra le cosche e permise alla giustizia di ottenere finalmente risultati concreti. Fra i più attivi magistrati del pool si distinsero Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Ayala. Ben presto però il pool fu smantellato. Questo accadde quando il governo, su pressione soprattutto della segreteria socialista, sostenne l'esigenza di un coordinamento centralizzato: in questa proposta non pochi videro la volontà di sottoporre l'azione della magistratura al controllo dell'esecutivo. Giovanni Falcone fu trasferito a Roma, al ministero della Giustizia, da dove peraltro continuò a mantenere contatti con i colleghi siciliani, per impedire che l'esperienza acquisita dal disciolto pool andasse perduta. Evidentemente la mafia ritenne che il trasferimento a Roma non avesse ridotto la pericolosità dell'esperto magistrato siciliano, e nel maggio del 1992 — giusto nei giorni in cui il parlamento italiano era riunito per eleggere il nuovo presidente della Repubblica — ordì contro Falcone un micidiale attentato, provocando, con un'esplosione spaventosa sull'autostrada fra l'aeroporto di Punta Raisi e Palermo, la morte del magistrato, della moglie, degli uomini che componevano la scorta. Non era trascorso un mese, quando il potenziale successore di Falcone, Paolo Borsellino, fu trucidato a Palermo in un'imboscata mafiosa di altrettanta precisione tecnica. Il nuovo presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, democristiano come il predecessore Cossiga, esordì pertanto nell'alta carica partecipando a cerimonie funebri durante le quali l'esasperazione di molti, a cominciare dagli agenti di polizia, creò attorno alle autorità momenti di tensione e contestazione.
Sergio Turone, Politica ladra. Storia della corruzione in Italia 1861-1992, Laterza (collana I Robinson), 1993²; pp. 278-79.
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