#di che parla la caduta dei giganti
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Recensione di "La caduta dei giganti" di Ken Follett
“Credo che fosse convinta che era meglio morire piuttosto che rinunciare alla speranza di un’esistenza migliore”. L’ho incominciato e interrotto svariate volte, ma alla fine l’ho finito ed è stata una lettura incredibile. La caduta dei giganti, primo volume della The Century Trilogy, è un romanzo storico di Ken Follett che si sviluppa a partire dal 1911 e si conclude nel 1924, attraversando gli…
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#di che parla la caduta dei giganti#libri follett belli o no#primo libro the century trilogy#recensione la caduta dei giganti
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1.
Nel corpo di una giovane imbarazzata dalla vita, voce flebile e testa tra le nuvole piene di oscuri pensieri, vige un certo tipo di Follia che nessuno potrebbe mai immaginare: la vita prende vita, come se nel mondo passato, presente e futuro si fossero scontrati creando una ninfetta dagli occhi giganti, capelli così lunghi da sentirne il profumo sin dalla vi[t]a più vicina.
Il sorriso così dolce da sembrare amaro, dal corpo piccolo cui dita sembrano dei piccoli boccioli di rosa. Parla così come sente nella scuoletta sua, e poi parla come se avesse vissuto nel passato, come un poeta tra i comuni. Conosce l’effetto che fa, purtroppo, e si nasconde come le Camelie quando vengono viste da fin troppi occhi. La vita prende vita tra le curve del suo sorriso e dei suoi occhi, la morte sale dagli inferi per poggiarsi sulle sue mani e lungo le sue gambe snelle. Violini acuti suonano quando passa, e nelle orecchie riesci a sentire No, Please. Let me Live! Dalle vittime che miete e indelicata preme sulle incapacità altrui e vive. E respira. E Danielle è cosciente. Danielle ha letto fin troppi libri, ha visto fin troppi film, ha sentito troppe voci dietro le porte dei bagni della scuola, ha provato e ha assaggiato mordendo la mela dell’Eden, e ha peccato. Lo ricorda, eppure non la sente sua. Caduta in un bicchier d’acqua Danielle vive ora, Delilah vive nel passato di un affetto infinito e Lime sboccia ubriaca nella sua vita-non-vita ove cammina per le strade con libri sotto mano e le cuffiette nelle orecchie che ad ogni suo passo si annodano contro il suo petto.
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Analisi del capitolo 104 di Attack on Titan
Quante cose possono succedere in un capitolo senza riuscire a dare la benchè minima risposta ai dubbi del mese scorso? Può un'assenza pesare molto più di una presenza? Credevo che in questo capitolo la storia avrebbe preso una china ripida, magari con una serie di decisioni avventate in un paio di situazioni critiche.
Ma a questo punto andiamo di SPOILER e chi li teme, si fermi QUI perchè stavolta ne dirò di tutti i colori *Q*
Dunque. Credevo che le prime pagine mi avrebbero mostrato l'impasse fra Falco e Jean: da una parte il piccolo mini-warrior che vuol solo fermare questa inutile carneficina, vuole salvare Pieck. Dall'altra Jean che aveva giurato, proprio dopo aver esitato davanti a Pieck, che non si sarebbe fatto più fermare da niente e nessuno. Mi sono detta: se Jean non spara, sparerà Flocke, il piccolo Falco morirà, probabilmente morirà anche Pieck e qui le cose precipiteranno, Gabi sparerà in fronte a Jean, insomma, un finale Shakespeariano.
Invece Isayama, come sempre, ci sorprende. Perchè Jean spara davvero. Certo, come fa fuoco e viene investito dal getto di vapore ad alta pressione che Pieck riesce a sparargli addosso, si domanda se sia stato quello a disturbare la sua mira o se non abbia fallito volontariamente. Jean che uccide un bambino? Mai nella vita. Ma facciamo un passo indietro. L'inizio del numero è per Armin che, è proprio il caso di dirlo, giganteggia nella baia di Marley. Finalmente vediamo il suo Colossal, mastodontico ma lievemente più skinny di quello di Bertholdt. Notiamo infatti come mantenga alcune caratteristiche del Mindless di Armin come l'assenza del naso e la gabbia toracica particolarmente sporgente e pronunciata.
Il Colossal di Armin ha un volto molto malinconico e, a mio parere, bellissimo: è un bellissimo gigante, Isayama non ci ha dato un banale scheletrone ciondolante dallo sguardo infelice ma un meraviglioso colossal e ha dato ad Armin come PRIMA battuta per il suo ritorno in scena, un pensiero per Bertholdt. E' triste vederlo in piedi nella baia proprio come è stato solo quattro anni prima, ma dall'altra parte del mare, sperando con la sua promessa mantenuta, di aver portato un po' di sollievo nel cuore tormentato del suo amico che a quel punto è unicamente velato dalla furia. Contempla dall'alto dei suoi (saranno sessanta metri anche in questo caso? Sembra davvero altissimo!) la distruzione della flotta, le navi accartocciate, le persone maciullate e si domanda retoricamente rivolgendosi in prima persona a Bertholdt "E' questo a cui devi aver assistito, Bertholdt?". Non per niente lo chiamano "God of Destruction".
Passiamo la palla agli Scout vs Pieck. La mia warrior preferita è messa MALISSIMO ma nonostante questo è riuscita con un ultimo colpo di genio a distrarre Jean e a permettere a Falco e Gabi (che ha già il fucile in spalla, giusto per capire che soldatina d'acciaio sia la piccola Braun) di trarla in salvo, coperti dal fuoco amico di Magath (premio Best Daddy dell'anno) e dei suoi pochi soldati superstiti.
Le forze di Marley stanno ancora cercando di riprendersi da questo assalto e Galliard, che nel numero scorso avevamo lasciato nel suo slancio eroico contro Mikasa, nell'atto di vendicare la morte di Bertholdt, se ne sta rendendo conto. Pieck è caduta e lì, alle spalle di Eren, c'è il corpo SENZA VITA del Beast Titan (sicuro Zeke, vincitore del Razzie Awards per il Peggior Attore Protagonista!). Ma Galliard non è sveglio come noi e ci crede, si ricorda dei suoi due amici in questa singola immagine di flashback e io ho immaginato questo deluso giovane Galliard che è rimasto a casa mentre suo fratello è partito per il fronte assieme a quella pappamoscia di Braun. Lui è rimasto a casa a far la calza con la nerd e il Warchief che parla solo per enigmi, per altro senza avere nemmeno un gigante. Insomma, che gli restava se non reggere il thermos e portare i panini? Ma voleva bene ai suoi amici e vederli a terra lo fa andare letteralmente in berserk. Ora a parer mio, senza l'aiuto di due Ackerman, Eren le avrebbe prese e pure solide. Galliard è veloce, motivato, ha zanne e artigli così potenti da poter scalfire la crisalide di Lady Teiber, cosa che Eren nota immediatamente, usando la poverina come scudo. Mentre Lady Teiber realizza che forse il vento del cambiamento stia iniziando a girare da una parte drammaticamente sbagliata, i piccoli Warrior stanno assistendo Pieck che non sembra riuscir a tener testa con i suoi poteri rigenerativi all'entità delle ferite che ha subito. Sembra stia morendo anche se ci auguriamo davvero possa guarire (la mia Pieck!). Gabi vuole evidentemente sapere che fine abbia fatto Reiner e perchè, in nome di tutti i santi, non sia uscito per piantare Jaeger a terra come un cipollotto. Falco però che sa tanto, troppo, pensa solo che Reiner debba essere lasciato in pace in questo momento. Ma Gabi non può accettare questa non-spiegazione e senza rendersene conto sputa in faccia a Falco che i loro due amici, Udo e Zophia, sono morti. Uccisi proprio da Eren Jaeger. E Falco si prende questa secchiata gelida e non reagisce, la incassa, la butta giù come una medicina tanto, troppo amara.
Finalmente però l'operazione di estrazione del gruppo della 104esima ha inizio e vediamo comparire un fantastico dirigibile che sembra un filino troppo moderno per le forze di Paradis. Stai a vedere che... E infatti a guidarlo c'è l'alter ego di John Boyega (che non vedeva l'ora di entrare in questo manga, lui è un grande fan di Attack on Titan, chissà quant'è contento!), Olangobo che per aspetto, incarnato e sonorità del nome ricorda molto l'Ambasciatore Ogweno: la mia teoria è che Paradis si sia appoggiata ad una potenza straniera per un ottimo supporto sul campo. La domanda però sarebbe: chi mai si alleerebbe con i diavoli eldian senza un intermediare davvero efficace? Non ne ho idea, ma credo che quell'intermediario possa essere Kyomi Azumabito che si è defilata prima dell'inizio della carneficina. Con lui c'è Armin, maturo e saggio ma con un modo di riflettere su quel recupero abbastanza fumoso, tanto da dire ad Hanji (versione Capitan Harlock, meravigliosa): "Se non riusciamo ad avere tutti a bordo su questa nave, non avremo comunque un futuro". Cosa significa? Evidentemente c'è ancora qualcosa che non sappiamo o forse Armin si sta concedendo un pensiero molto più elevato e distante (cosa di cui dubito).
Il povero Galliard che non è riuscito ancora a fare a pezzi Eren, si accorge del dirigibile e decide di tirare giù tutta la baracca, peccando forse ancora una volta di grande ingenuità. Mikasa lo fa a pezzi ed il resto lo fa Eren che lo trasforma da Gigante Ganascia in Gigante Apriscatole, regalandoci forse una delle morti più brutali dell'intera serie: Lady Teiber viene stritolata dentro la sua crisalide dalle solide mascelle del Jaw, spinte con forza dalle mani di Galliard. Galliard che non aveva fatto altro che lagnarsi dei Teiber di sicuro non avrebbe mai voluto essere costretto a compiere un'esecuzione del genere visto che, soprattutto, quel che resta di Lady Teiber viene inghiottito da Eren che così ci mostrerà se i poteri dei giganti si sommano, si possono usare uno dopo l'altro o se, semplicemente, stanno lì di background. Sembrava che Eren volesse mangiarsi il War Hammer Titan dall'inizio: forse QUALCUNO (Zeke *cof cof*) gli ha detto di farlo per poter prendere le preziose memorie dell'antica famiglia? Forse con i poteri del War Hammer potrà fracassare anche la crisalide di Annie (ma, Eren, per l'amor del cielo, più piano la prossima volta :v)?
Eren non si accontenta e con l'espressione da passivo-aggressivo a cui oramai ci ha abituato, decide di mangiarsi anche Galliard. Questo sotto gli occhi di Gabi e Falco che vedono i loro eroi cadere uno dopo l'altro, fatti a pezzi, divorati.
Qui ha inizio una delle scene secondo me più importanti del capitolo. I bambini iniziano ad invocare Reiner che è lì sotto, da qualche parte. A loro non resta nessun altro in cui riporre la loro fiducia, hanno bisogno di un eroe che salvi Galliard, l'ultimo Warrior rimasto, l'ultimo difensore oramai abbattuto. E Reiner, anche se praticamente incosciente, li ascolta. Ed emerge FINALMENTE dalla terra e quando ho visto il design del suo gigante mi sono detta "Oh BEH, magnifico!" (no, sono stata più sguaiata, credo di aver emesso solo dei versi a caso).
Qualcuno si è detto stranito dall'aspetto dell'Armored senza armatura perchè sotto la corazza dovrebbe avere solo fasce muscolari. Secondo me però, da quel che si vede del suo corpo, l'Armored è in grado di far crescere la sua stessa pelle in questi strati chitinosi, trasformandola in un'armatura. Quando non lo fa, in sostanza è un Reiner ma alto quindici metri. Quando l'Armored emerge dalla piazza lo fa unicamente guidato dal suo unico scopo: proteggere. E' l'unico momento in cui l'espressione di Eren cambia, sembra sorpreso e subito lo attacca per liberarsi di lui: il tempo per gli scout è finito, Eren è senza forze, bisogna andarsene e in fretta. Così Eren si ritrova privato del corpo esanime del Jaw che Reiner gli ha strappato dalle mani prima di essere abbattuto ed enigmaticamente riferisce a Mikasa che "anche stavolta non potremo ucciderlo". Non sembra però essere troppo rammaricato dalla cosa, non sembra smaniare di sete di vendetta come ha sempre fatto. L'ultimo sguardo di Eren sul campo di battaglia è molto, molto triste. E non credo lo sia per non aver ucciso Reiner, tant'è che gli promette "ci incontreremo ancora".
Gli Scout sono in ritirata ma se questo può decisamente bastare per Falco, non è sufficiente per Gabi che armata del suo fido fucile, decide di uscire per uccidere Eren. Anzi, per ucciderli tutti. Ricordandoci giusto qualcuno, un centinaio di numeri fa.
Le ultime pagine ci mostrano gli Scout pronti a risalire sul dirigibile e Jean, come già Hanji prima di lui sembra voler ricordare la fragilità del mezzo che stanno usando. Qualcuno si ricorda la tragedia dell'Hindenburg che segnò praticamente la fine dell'epoca dei dirigibili? Ecco.
Curioso per altro che l'unico pericolo mortale per questo mezzo sarebbe stato Zeke con i suoi micidiali proiettili ma, guarda caso, Zeke è caduto come un sacco di patate. E Levi dov'è finito?
Torniamo però un passo indietro alla bellissima scena in cui Reiner viene "richiamato" da Gabi. Il parallelo a cui ho pensato subito è stato quello con Eren in una scena che non riuscivo a collocare bene. Mi ricordavo di lui, piccolo, nella cucina di casa Jaeger, assieme a mamma, papà e Mikasa. Qualcuno lo disturbava dal suo sonno, lui voleva solo dormire eppure c'era una voce che lo chiamava, quella di Armin. Questa scena non è un vero ricordo ma una sorta di "sogno lucido" in cui Eren era sprofondato dopo essersi trasformato la prima volta (capitoli 13 e 14). Nel suo sogno la mamma e il papà erano vivi, lui viveva con loro e con Mikasa e tutto andava bene. Non fosse per Armin che, da fuori, gli urlava che aveva promesso di sterminare i giganti, di vendicare la morte di sua madre, di combattere, di svegliarsi. Eren si era rifugiato in questo mondo fittizio perchè era esausto e Reiner... non è anche lui allo stremo delle forze mentali, più che fisiche?
L'interrogativo finale è se gli Scout riusciranno a lasciare il campo di battaglia o se dovranno affrontare la rappresaglia Marlean: personalmente credo che la scena si sposterà nuovamente a Paradis e che, su quel dirigibile, ci troveremo anche Levi e Zeke.
Il prossimo numero, grazie alla Golden Week giapponese, uscirà prima, alla fine di Aprile. Quindi il panico, questo mese, sarà DOPPIO!
Ma come vivo, io? :v
#snk#aot#snk 104#aot 104#italian#italianfandome#attack on titan#attacco dei giganti#shingeki no kyojin#chapter 104#snk spoilers#aot spoilers
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[ Blake & Shoto _ 21/07/20 _ Night _ #Ravenfirerpg ]
* È un putiferio. Simile al girone dei condannati per non si sa quale grave peccato, Blake sente dentro di sé un tormento ben più profondo di quello che aveva sentito in altre occasioni alquanto gravi, un tormento che lo sta spingendo a disperarsi, ma soltanto interiormente. Non ha parlato per tutta la serata, o meglio ha pronunciato qualche sillaba per dirmostrare che quel suo stato di confusione e tormento non fosse dovuto a Shoto. Ha cercato, così, disperatamente di evitare di litigare senza un vero motivo. Lo ama profondamente, ma vorrebbe vomitare al sol pensiero di quello che ha fatto il giorno prima e della parola della commessa. È difficile, così tanto difficile che il ragazzo dai capelli corvini ha taciuto per ore, ammirando Shoto e accarezzando i suoi capelli. In verità, lo sta ancora facendo. È proprio lì, con le mani guantate, mentre gli accarezza un ciuffo. In quel vortice di pensieri e di piccoli gesti per tranquillizzare se stesso e per proteggere Shoto da se stesso, il pantalone di Blake viene tirato da Palla Di Pelo. * « Cagnolino, che c’è? Ares sarebbe a nanna a quest’ora. » * Pronuncia in modo pacato. Lo sguardo non si stacca da quello dell’animale che, se avesse il dono della parola, gli racconterebbe di tutto. Al contrario di come pensava, quel cane sembra voler avere un legame con Edward e lui ne è pressoché felice. Pressoché, per l’appunto. * Shoto Ryuck *il mutismo di Blake si nota, soprattutto dal momento che Shoto sa perfettamente cosa lo provoca. Se non lo sapesse forse avrebbe chiesto e insistito affinché parlasse, ma dato che lo sa già, si limita ad abbracciarlo, a stringersi a lui e tranquillizzarlo, si spera, con il proprio amore. Si stava addormentando mentre lui gli accarezza i capelli, quando lo sente parlare con il cane e sorride* Forse ha avuto in incubo, vuole stare in braccio a te, gli piace il tuo odore, di solito si infila nelle tue maglie e ci dorme. Insomma...non posso dargli torto *Shoto stesso dorme meglii da quando c'è Blake nel suo letto, è gigante, quindi può abbracciarselo tutto e poggiare la testa sul suo petto come una mogliettina, che termine infelice. Probabilmente ha avuto davvero un incubo, il cane, visto lo spavento che si è preso quando ha visto Shoto usareno i poteri* Blake Edward Hill * Non può far altro se non scegliere di stare in silenzio, lì, fra i suoi pensieri e i suoi desideri, fra l’incudine ed il martello di una preoccupazione, di un passato che non andrà mai davvero via nella sua mente. In tutto quel caos mentale l’unico santo consolatore è proprio il silenzio. Quel silenzio. Edward, il dooddrear più fragile dell’universo, invece di aggredire il mondo, ha scelto di rimanere in silenzio, ha scelto di provare paura invece che di nutrirsene. Blake potrebbe essere il colmo della sua razza, dovrebbe ammetterlo a se stesso. Nonostante i suoi pensieri e quel mutismo, la figura di Shoto appare come una vera e propria guida alla sua vita, una luce splendida che, al solo tocco, lo guarisce. Al suono della voce divina di Shoto, il cuore di Blake palpita, lo invita a parlare, ovviamente non solo con il cane. * « Un incubo? » *”Basta incubi”, sussurra usando soltanto il labiale, cercando di evitare di trasferire la sua negatività a Shoto. Alla fine sorride, lo fa perché dolcemente immagina quel cagnolino infilarsi ovunque, ma non immagina altro, perché, nel profondo, ha una certa paura che quel cagnolino gli abbia rubato un po’ d’affetto del suo ragazzo. * « Insomma... Ci dormiresti davvero con quelle mie maglie che ti vanno super giganti? » * Alza il sopracciglio, imitando quell’ “insomma” proprio di Shoto. Per un attimo il ventisettenne dai capelli corvini ha dimenticato il caos della sua testa, ma forse è per un attimo, forse è irreversibile... * Shoto Ryuck *Shoto allunga un braccio e lo aiuta a salire sulle gambe di Blake, il cucciolo vi si accoccola facendosi piccino piccino e solamente così riesce a calmarsi* So che non ti piace...ma fallo restare un po'...si è preso uno spavento e lui ti ama davvero tanto, lo ha imparato da me *gli sorride, facendogli gli occhi dolci. Gli dispiace tremendamente di aver sottoposto il suo cucciolo a tale spettacolo, non ci aveva pensato che si sarebbe spaventato...eppure è davvero intelligente, gli ha immediatamente tolto gli oggetti da mano anche se ha pianto per tutto il tempo che Shoto è rimasto svenuto sul pavimento. Ci mette un secondo a far sparire il senso di colpa, affinchè non stuzzichi l'appetito di Blake e lo faccia star male, anzi lo bacia sulla guancia a quella domanda* Amore lo faccio già...come credi che sopravviva quando non dormi con me? Indosso le tue maglie e Blake si ci infila dentro, beato fra i nostri odori Blake Edward Hill * Quando il ragazzo si trova sulle proprie gambe il piccolo cane, inevitabilmente gli tremano le mani. Non riuscirebbe mai a comprendere come fanno le persone a custodire quegli animali così troppo sensibili e fedeli. Ama i gatti anche per questo motivo, perché, a suo parere, riescono ad essere più testardi. Nonostante quei pensieri gli occhi cerulei del dooddrear riescono a comprendere che la sua vicinanza fa bene al cane e così allunga una mano verso il suo pelo. Alza lo sguardo, quasi fulmineo, quando Shoto parla di uno spavento. * « Cosa vuol dire che ha preso uno spavento? » * La voce trema, l’ansia lo corrode dentro. Non vuole che entrambi si spaventino, che stiano male, nonostante non è fatto per i cani. Il sorriso di Shoto lo rasserena per un secondo, probabilmente non è una cosa da preoccuparsi. Blake di fida ciecamente, ma forse non dovrebbe farlo, perché Shoto deve e merita solo il bene del mondo e la benedizione del Signore. È a quella confessione che gli si blocca l’anima, il respiro, il cuore. Spalanca appena gli occhi e deglutisce. * « E... Non è pericoloso?.. I guanti..? » Shoto Ryuck *ama guardarli vicini, sono entrambi così piccoli e dolci ai suoi occhi...da proteggere. Ed è proprio dalle risposte a quelle domande che vorrebbe proteggerlo. Non vuole mentirgli, quindi cerca di rispondergli in modo vago, sperando basti ad esaudire i suoi dubbi e non indaghi oltre, anche se forse può sentire il suo disagio, seppur flebile e trattenuto* Mi ha visto avere una visione per la prima volta...non lo sapeva ovviamente, quindi si è spaventato, anche se si è preso cura di me egregiamente *ovviamente Blake ha capito subito, è troppo attento e innamorato di lui per non accorgersi che Shoto tocca anche le sue cose con i guanti, perchè altrimenti avrebbe delle visioni. Anche se questa cosa mette in pericolo il suo "segreto", o meglio i suoi segreti, Shoto non può fare a meno di sorridere, perchè è bello essere amati tanto e avere tutte queste attenzioni da lui* Preferisco dormire con i guanti, tenerli anche in casa, piuttosto che stare senza almeno il tuo odore Blake Edward Hill * Lo sguardo di Blake è lontano da quello che possa esistere in un innamorato, piuttosto freme d’amore, piuttosto scapperebbe anche da quel momento, perché, beh si vede, minuto dopo minuto, la faccenda sembra essere seria. E lo è. Quello sguardo ceruleo si congela d’ansia quando Shoto gli risponde in quel modo, sente andare in frantumi. Shoto si è fatto male, per vedere il cane in quel modo e lui così vago... c’è nettamente qualcosa che non va. Deglutisce, guardando altrove per un decimo di secondo, poi ritorna su Shoto e, spudoratamente, finge di essere rilassato. * « Vuoi comprargli una medaglia d’oro? Era... una visione che ti ha fatto star male? » * E la seconda domanda è lecita, forse fin troppo, dopo aver visto il cane /Blake/ in quel modo. Distrattamente, appoggia la mano guantata sul ginocchio dell’altro e gli dà un colpetto, stile pacca sulla spalla. * « Non dimenticartene. » * Conclude, quasi come una raccomandazione, fingendo che sia per Shoto tutta quella preoccupazione quando, invece, nella sua mente il problema è uno: Shoto che tocca le sue cose senza guanti. Saprebbe troppe cose, saprebbe di Johanna e potrebbe lasciarlo seduta stante, perché, a suo parere, nessuno dei due è pronto a quella merda. * Shoto Ryuck *Blake è proprio sulla strada per capirlo, o meglio per costringere Shoto a spiattellargli tutto, lo capisce dalla sua domanda. A prenderlo in contropiede però è il colpetto sul ginocchio, Non è così forte ma inaspettato e, a causa dei lividi causati dalla caduta durante la visione, il veggente non riesce a trattenere una smorfia di dolore. Sa che questo scatenerà l'inferno, che Blake la noterà in un secondo e inizierà ad indagare* Sei tu la sua medaglia, gli ho promesso he sarebbe stato in braccio a te ed eccolo...già dorme, tu fai bene Blake. Si....è successo per sbaglio ma niente di chè, si è solo spaventato perchè non lo sapeva *gli dice la verità, nella speranza che si distragga dal dolore che gli ha sentito provare alle ginocchia, i lividi che gli sono usciti sono piuttosto grandi anche se non c'è frattura o niente di grave, ha preso solo una brutta botta quando è svenuto...ma Blake non deve assolutamente sapere che si è spinto talmente tanto in là da svenire solamente con un oggetto. Non può raccontargli ciò che ha visto o lo spaventerà più del giorno in gioielleria* Non li dimentico....ero solo distratto....speravo di...non averne Blake Edward Hill * Blake non è sulla strada per capire tutto, Blake è diventato LA strada per fargli cacciare il rospo, o forse meglio ancora il colpetto innocuo delle sue dita sul ginocchio di Shoto. Non c’è niente di più letale del dolore di un veggente, non c’è niente di più negativamente strabiliante per Blake di quella smorfia di dolore. Corruga la fronte, senza emettere alcun suono, alcuna parola. Gli occhi dannatamente ghiacciati d’ansia del momento prima diventano ancor più solidi, immobili. Sta fissando Shoto, lo sta facendo in un immobilismo e in un silenzio che farebbe paura a chiunque, mentre le sue orecchie ascoltano le parole del ragazzo. Per sbaglio. Non c’è niente che coincide con un “per sbaglio” ed una smorfia di dolore. È un cittadino medio Blake, gli hanno regalato il diploma, ma ciò non vuol dire che è stupido. * « E per sbaglio... vorresti alzare il pantalone fino al ginocchio? » * La voce è agghiacciante quanto gli occhi e la domanda non è nient’altro che il prodotto tra il voler essere freddo e tranquillo e il sentire il suo senso di protezione toccare i limiti dell’inverosimile. * « Di non averne... cosa? Bisogno? Sì che ne hai. Ne hai. » * Si sta scaldando, era inevitabile forse. Non può permettersi che Shoto si faccia male, che Shoto rischi... Non più il suo cuore più umano degli umani può permettersi lo stesso spettacolo ottenuto con Johanna. Deglutisce, guarda altrove, afflitto ma anche piuttosto determinato. * « Non è optional. Tu non sei un optional. Tu servi vivo a questo mondo di merda. » * Ha gli occhi sciolti, ricolmi di lacrime. Si sente colpevole di qualsiasi sbaglio abbia potuto commettere. In fondo, nella vita si sbaglia sempre. *
Shoto Ryuck Ok... Ti faccio vedere... Però non impanicare ok? *alza il pantalone fino alle ginocchia, rivelando due enormi lividi violacei a ricoprirle completamente, si è fatto visitare e non sono rotte ne niente, deve solo applicare una pomata due volte al giorno* Sono caduto sulle ginocchia e poi svenuto... Ma sto bene, mi sono fatto dare un'occhiata e devo solo mettere una pomata per qualche giorni, spariranno. Sono solo due brutti lividi, te lo giuro *gli poggia una mano guantata sulla guancia per cercare di tranquillizzarlo e baciargli le labbra* Lo so che ne ho bisogno.. Ma io... Volevo solo provare se con qualche vestiro, come con piccolo Blake, avrebbe funzionato... Sono stato sciocco *sospira, prendendogli il viso fra entrambe le mani, preoccupato nel vederlo così sconvolto, così fuori di sé.... Sta per piangere* Blake Hill io ti amo. E hl intenzione di rompere le scatole a te e a questo mondo di merda per tanto. Non morirò, non ti lascerò mai
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{Come Elia. Il Libro di Enoch è suddiviso in sette parti Chi era Enoch? Cose contiene il libro di Enoch? Enoch era il sesto discendente diretto di Adamo e Eva lungo la linea di set. Figlio di Iared, genera a sua volta Matusalemme, il nonno di Noè. Enoch viene accreditato sulla scrittura del antico Libro di Enoch, anche se altre teorie suggeriscono che potrebbe essere scritto da diversi scrittori ebrei. Il libro di Enoch è una scrittura biblica che fa parte degli scritti accettati nella Bibbia dei Settanta, che più tardi divenne la base per modellare l’Antico Testamento nel resto delle Bibbie Cristiane. Sebbene la Bibbia dei Settanta sia accettata dalla Chiesa copta o egiziana e quindi anche il libro di Enoch, è considerata un testo apocrifo dalle chiese cristiane. Fu scritto tra il terzo e il primo secolo a.C. e ciò che è sopravvissuto fino ad oggi potrebbe essere stato “pubblicato” nel primo secolo della nostra era. Inoltre, sono stati trovati altri due libri di Enoch scritti tra il I e il V secolo. Il contenuto del libro di Enoch è apocalittico e consiste nelle seguenti parti: Libro di prova Libro degli osservatori o degli angeli caduti Libro delle parabole Libro del cambiamento dei luminari celesti noto anche come libro astronomico Libro dei sogni Lettera di Enoch frammenti Esistono varie versioni del libro di Enoch, ad esempio quella Etiopica. Un ottimo articolo che ne svela i contenuti lo puoi trovare Qui Indubbiamente il passaggio più interessante nel libro di Enoch si trova nel libro degli osservatori o nella caduta degli angeli nel capitolo 7 dove si parla degli angeli caduti . Questo passaggio è appena menzionato nella Genesi 6: 2; Tuttavia, nel Libro sono citati anche i nomi dei più importanti angeli caduti, come nel caso di Samyaza, Tamiel, Ramuel, Batraal, Turel, ecc.Si parla anche dei Nephilim , giganti che hanno generato i figli dell’uomo e dei grigori o angeli caduti. Viene menzionato come i figli di dio ( angeli) insegnarono l’arte della guerra ai figlie dell’uomo e come i loro figli, i giganti, seminarono sangue e distruzione sulla terra. Un altro passaggio interessante nel Libro è la Carta di Enoch che sembra parlare profeticamente} Copy https://www.instagram.com/p/CDseAuEC5AK/?igshid=1r6v8h0m5t8t4
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Ma come è nato il Cirque? La sua storia è strettamente intrecciata a quella del suo fondatore.
Guy Laliberté non è un tipico artista circense.
Con una mentalità sia per gli affari che per le performance artistiche, Laliberté ha trasformato la sua compagnia circense con sede a Montreal in un impero di intrattenimento da svariati miliardi di dollari, partendo da una sovvenzione per artisti da solo 1 milione di dollari, secondo Forbes. Da quando ha venduto la quota di maggioranza del Cirque du Soleil nel 2015, Laliberté ha speso parte della sua fortuna da 1,2 miliardi di dollari in un viaggio nello spazio da 35 milioni di dollari, in una rete tentacolare di immobili (inclusa un’isola privata nella Polinesia francese), e mantenendo la sua nuova impresa di intrattenimento che organizza spettacoli ad alta tecnologia all’interno di gigantesche piramidi.
Un rappresentante di Laliberté non ha immediatamente risposto alla richiesta di Business Insider di commentare il background di Laliberté, il patrimonio netto, il coinvolgimento nel Cirque du Soleil e Lune Rouge o l’arresto del 2019.
Ecco tutto ciò che sappiamo sull’ascesa di Laliberté e su come spende il suo tempo e denaro.
Laliberté è diventato un artista di strada dopo aver lasciato il college nel 1978, secondo quanto ha scritto il New York Times nel 2011. È stato in grado di diversificare le sue esibizioni dopo aver aggiunto abilità circensi al suo repertorio mentre attraversava l’Europa facendo l’autostop, secondo Forbes.
“Sono cresciuto in questo tipo di mondo molto equilibrato tra affari e creatività”, ha detto Laliberté a Forbes nel 2019. “Mia mamma era molto, molto creativa, eccentrica. E mio padre era uno da pubbliche relazioni, un faccendiere”.
Laliberté alla fine si unì a un gruppo circense che organizzava spettacoli di strada su larga scala.
Laliberté ha anche aiutato la compagnia, poi chiamata Les Échassiers, a organizzare spettacoli e raccogliere fondi, ha detto a Forbes. Les Échassiers ha avuto la sua grande occasione quando ha ricevuto una sovvenzione di 1 milione di dollari dal governo del Quebec per produrre uno spettacolo itinerante come parte delle celebrazioni per il 450° anniversario della scoperta del Canada nel 1984, secondo Forbes.
“Abbiamo avuto tutti i problemi che possono esserci nell’iniziare un circo”, ha detto Laliberté a Forbes nel 2004. “La tenda è caduta il primo giorno. Abbiamo avuto problemi a far entrare le persone agli spettacoli. Solo con il coraggio e l’arroganza della gioventù siamo sopravvissuti “.
Lo spettacolo fu in seguito ribattezzato Cirque du Soleil, che significa “Circo del sole”. “Quando ho bisogno di prendermi del tempo per rigenerarmi, vado da qualche parte in riva all’oceano per sedermi e guardare i tramonti”, ha detto Laliberté a Fortune nel 2011. “È qui che è nata l’idea di” Soleil “, su una spiaggia alle Hawaii, e perché il sole è il simbolo della giovinezza e dell’energia“.
Il Cirque du Soleil fu un successo quasi istantaneo, che Laliberté attribuisce alla sua capacità di pensare sia all’arte che alle finanze allo stesso tempo.
La compagnia ha guadagnato $ 40.000 dal suo tour canadese e ha usato i soldi per portare spettacoli in California, secondo Forbes. Nel 1993, Cirque stava guadagnando $ 30 milioni all’anno.
“Credo davvero che il regalo che la mia vita mi ha fatto sia questo cervello da cinquanta e cinquanta per affari e creatività“, ha detto Laliberté a Forbes.
Il Cirque du Soleil è ora un enorme franchise, che vende ogni anno lo stesso numero di biglietti di tutti gli spettacoli di Broadway di New York messi insieme.
Cirque è “una delle opere d’arte più redditizie e famose del secolo scorso“, ha scritto Madeline Berg di Forbes nel 2019.
La compagnia ha diverse versioni dei suoi spettacoli itineranti, tra cui spettacoli subacquei e su ghiaccio e altri basati su Michael Jackson, Lionel Messi, i Beatles. Ci sono anche otto spettacoli permanenti del Cirque du Soleil a Las Vegas, secondo il sito web dell’azienda.
Il successo di Laliberté è stato reso memorabile con l’attribuzione di una stella sulla Hollywood Walk of Fame nel 2010.
La stella è stata messa fuori dal Kodak Theater di Hollywood nel 2010, proprio mentre il Cirque du Soleil ha lanciato lì una serie pluriennale di uno spettacolo ispirato al cinema, secondo il sito wed del Walk of Fame.
Nonostante la giocosità dei suoi spettacoli, Laliberté ha una “reputazione di ferocia”, secondo il New York Times.
Mentre intervistava il miliardario nel 2011, Jason Zinoman del New York Times ha notato che Laliberté ha “un’espressione impassibile” durante i suoi incontri, e “un energico movimento del braccio” e una “voce quasi senza emozioni” quando parla.
Philippe Decouflé, che ha diretto uno spettacolo del Cirque per Laliberté, ha descritto il CEO a Zinoman come un “bel bulldozer”.
La sua dedizione ha dato i suoi frutti – Laliberté ha venduto una quota del 90% del Cirque du Soleil per $ 1,5 miliardi nel 2015.
Laliberté ha mantenuto una partecipazione del 10% nel Cirque, ma ha venduto anche quella da poco, secondo quanto riportato da Las Vegas Review-Journal. Laliberté ha detto in una dichiarazione che rimarrà coinvolto nell’azienda come consulente creativo.
Tuttavia, Laliberté ha affermato che la vendita alla società di private equity TPG Capital di San Francisco non è stata motivata dal denaro. “Mi mancava davvero esibirmi come artista”, ha detto Laliberté a Forbes nel 2019. “Quando ho iniziato il Cirque, ho praticamente smesso di esibirmi. È davvero qualcosa che volevo rivivere.”
Una parte sostanziale di quell’assegno – $ 100 milioni – è andata alla nuova impresa di Laliberté, ha riferito Forbes. Lanciata a giugno 2018, Lune Rouge Entertainment organizza spettacoli ad alta tecnologia utilizzando solo laser, luci e proiettori all’interno di piramidi giganti, secondo Forbes. Il primo spettacolo di Lune Rouge, “Through the Echoes”, racconta la storia della Terra.
Laliberté ha anche speso un po’ del suo stipendio al Cirque per l’arte, istituendo il proprio ufficio di famiglia, investendo in alcune startup e ampliando la sua estesa rete di case, secondo Forbes.
Laliberté colleziona arte africana contemporanea e tradizionale.
La sua collezione comprende pezzi di Ugo Rondinone, Camille Henrot, Sarah Lucas, Giuseppe Penone, Takashi Murakami e Jenny Holzer, secondo Artnet News. Gareth Harris del Financial Times ha definito il gusto di Laliberté nell’arte “basato su investimenti su artisti consolidati ed esigente. ma eccentrico” in un profilo del 2015.
Laliberté possiede sette case, di cui una su un’isola privata nel mezzo dell’Oceano Pacifico.
L’isola privata di Laliberté, di nome Nukutepipi, si trova nella Polinesia francese vicino a Tahiti. Il miliardario ha speso $ 100 milioni per costruire varie strutture sull’isola, tra cui un osservatorio, secondo quanto riferito da Artnet News. L’intera isola si affitta per 143.581 $ a notte, secondo Forbes.
Laliberté ha anche una casa alle Hawaii e una tenuta di 64 acri a Ibiza, secondo Forbes.
Il miliardario usa un jet privato, il suo yacht a vela di 178 piedi di nome Tiara, o la sua Range Rover per viaggiare tra le sue case, secondo Forbes.
Laliberté è stato arrestato per coltivazione di cannabis sulla sua isola a novembre 2019.
Laliberté è un utilizzatore di cannabis terapeutica, ha detto un portavoce della sua azienda a Reuters a novembre. In una dichiarazione a Reuters, il portavoce ha anche affermato che Laliberté “nega categoricamente e si dissocia completamente da tutte le voci che lo implicano nella vendita o nel traffico di sostanze illegali”.
Laliberté è stato successivamente rilasciato senza essere accusato e ha detto che avrebbe continuato a collaborare con le autorità.
“L’importanza sproporzionata data a questo argomento, che è generalmente banalizzato per qualcuno in possesso di diverse piante di cannabis per uso strettamente personale, mi sorprende molto”, ha detto Laliberté in una dichiarazione dopo il suo rilascio, secondo la Montreal Gazette.
“D’altro canto, tuttavia, vorrei sottolineare che i gendarmi di Faa’a sono stati molto cortesi e mi hanno trattato in modo professionale e rispettoso, il che è un punto luminoso in questa disavventura”, ha detto Laliberté, secondo The Gazette.
Laliberté è diventato il primo cittadino privato canadese a esplorare lo spazio nel 2009.
Il viaggio è stato progettato per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla scarsità d’acqua, secondo Forbes.
Secondo The New York Times, il viaggio è costato a Laliberté $ 35 milioni e il suo record perfetto di produzione di spettacoli di successo – “Banana Shpeel”, spettacolo fusion con sede a New York City che metteva insieme le acrobazie del Cirque e il teatro musicale in stile Broadway, è fallito ed è stato costretto ad accorciare la sua durata.
“Continuavo a sentire che c’erano troppe canzoni, troppo simile a uno spettacolo di Broadway”, ha detto il direttore della produzione David Shiner al Times nel 2011. “Guy voleva fare qualcosa di diverso. Ma era nello spazio”.
Laliberte aveva “le più grandi scuse nella storia del fallimenti di spettacoli “, ha scritto Zinoman del Times sul flop dello show.
È anche un DJ ed è stata programmata la sua esibizione al Coachella entro la fine dell’anno.
Laliberté si è dilettato come DJ professionista nel 2016, tenendo un concerto che gli è stato pagato $ 4.000 a New York, secondo Forbes. Tuttavia, l’assegno con cui era stato pagato è stato respinto.
“Mi ha davvero riportato ai miei tempi da artista di strada”, ha detto Laliberté a Forbes riguardo all’incidente. “Non era proprio accettabile che quelle persone se la cavassero senza pagarmi.”
Da allora Laliberté ha preso parte a eventi più famosi, tra cui Coachella, secondo CTV News . L’esibizione del miliardario è programmata al festival il 12 e 17 aprile.
Laliberté è anche un attivo filantropo.
Laliberté è il fondatore della One Drop Foundation senza scopo di lucro, secondo Artnet News. I progetti di One Drop hanno migliorato le condizioni di vita di 1,6 milioni di persone in tutto il mondo migliorando il loro accesso all’acqua pulita, secondo il suo sito web.
A Laliberté piace anche il poker e in passato ha organizzato tornei di beneficenza, secondo Canadian Business.
Nonostante il suo stile di vita appariscente, Laliberté è estremamente riservato.
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“Credetti di aver sbagliato persona. Dopo aver letto i suoi reportage, me l’ero immaginato forte come un Indiana Jones…”. Ricordo di Ryszard Kapuściński
Le scarpe e la penna. Bastano queste due cose qui per vivere, conoscere, spostarsi. Le prime per una fenomenologia del viaggio, la seconda, corredata di bloc-notes, per l’imprescindibile fase successiva al viaggio: quella del racconto.
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È un gioco di matrioske, Trans Europa Express di Paolo Rumiz, uscito per la Feltrinelli qualche anno fa. Seimila chilometri a zigzag da Rovaniemi (Finlandia) a Odessa (Ucraina). Un percorso che sembra tagliare, strappare l’Europa occidentale da quella orientale. Una strada che tra acque e foreste e sentori di abbandono si snoda tra gloriosi fantasmi industriali, villaggi vivi e villaggi morti. Dogane, recinzioni metalliche, barriere con tanto di torrette di guardia, attese interminabili e severissimi controlli ma anche e soprattutto la generosità degli uomini e delle donne che incontra sul suo cammino. Un pescatore di granchi giganti, prosperose venditrici di mirtilli, un prete che ha combattuto nelle forze speciali in Cecenia, l’accoglienza di chi è senza voce. E il ricordo di Ryszard Kapuściński (1932-2007).
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Se per i sommelier della musica Trans Europa Express riporta al sesto album in studio del gruppo musicale teutonico Kraftwerk (1977), per chi ama i libri dei viaggi lenti invece è il racconto verticale dell’Europa, alla ricerca delle frontiere.
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“Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile”.
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Paolo Rumiz parla spesso di Ryszard Kapuściński in Trans Europa Express: un Virgilio illuminato che gli indica la strada negli inferi della società. Nel 2007, quando morì, il giornalista e scrittore triestino gli fece un ritratto di parole bello come un’opera di Salvador Dalí e uscito per Repubblica.
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“Al primo incontro con lui, nel gennaio del ’99 all’aeroporto di Zurigo, credetti di aver sbagliato persona. Dopo aver letto i suoi reportage, me l’ero immaginato forte come un Indiana Jones. E così, quando vidi sbucare dalla tormenta un omino agitato, dal passo sbilenco e lo sguardo indifeso, per non salutare la persona sbagliata sbirciai la foto sul retro di copertina del libro che avevo con me. Non poteva essere quello, pensai, l’eroe che aveva sfidato l’inverno artico e la malaria dei Tropici, l’uomo che aveva assistito a ventisette rivoluzioni, traversato Africa e Sudamerica in guerra, vissuto il grande gelo della Russia sovietica e il rovente risveglio dell’Islam. Invece era lui. Ryszard Kapuściński, l’autore di Ebano, capolavoro sulla forza e fragilità del continente africano, scritto in quarant’anni di viaggi, o di Imperium, straordinaria testimonianza vissuta dal di dentro del crollo dell’Unione Sovietica. Era lui, l’uomo che aveva fotografato come nessuno la caduta dello Shah di Persia e l’avvento al potere dell’ayatollah Khomeini, il giornalista che era stato capace di entrare nei segreti della corte dell’ultimo imperatore d’Etiopia e di raccontare le storie del greco Erodoto, vecchie di due millenni, e di calarle negli eventi del mondo attuale. Kapuściński, uno dei pochi giornalisti al mondo ancora capace di andare nei luoghi non illuminati dai riflettori, lontano, il più possibile lontano dall’informazione-spettacolo. Diavolo d’un uomo, pensai quando mi fu di fronte nella sala del check-in. Dove starà la sua forza? Come avrà fatto, pensai, questo curato di campagna, a tornare con i taccuini pieni di storie dai luoghi più difficili del Pianeta? Sul volo da Zurigo a Milano m’accorsi che ringraziava le hostess per ogni nonnulla. ‘La nostra professione dipende dagli altri’, sorrideva quasi per scusarsi della sua gentilezza. ‘Se non hai rispetto per gli altri, ti si chiudono tutte le porte’. Era euforico, non mostrava di avere diecimila ore di volo alle spalle”. *
Ryszard Kapuściński si considerava un reporter diverso, controcorrente, anomalo. E faceva di queste sue peculiarità la sua forza, la sua carta vincente per vedere cose che altri non vedevano, captare segnali che altri non captavano e riportare sensazioni che altri non riuscivano a spiegare.
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Un cittadino del mondo e portavoce delle minoranze.
*
“Il dramma delle culture, infatti – compresa quella europea –, è consistito in passato nel fatto che i loro primi contatti reciproci sono stati quasi sempre appannaggio di gente della peggior risma: predoni, soldataglie, avventurieri, criminali, mercanti di schiavi e via dicendo. Talvolta, ma di rado, capitava anche gente diversa, come missionari in gamba, viaggiatori e studiosi appassionati. Ma il tono, lo standard, il clima fu conferito e creato per secoli dall’internazionale della marmaglia predatrice che non badava certo a conoscere altre culture, a cercare un linguaggio comune o a mostrare rispetto nei loro confronti. Nella maggior parte dei casi si trattava di mercenari rozzi e ottusi, privi di riguardi e di sensibilità, spesso analfabeti, il cui unico interesse consisteva nell’assaltare, razziare, uccidere. Per effetto di queste esperienze le culture, invece di conoscersi a vicenda, diventavano nemiche o, nel migliore dei casi, indifferenti. I loro rappresentanti, a parte i mascalzoni di cui sopra, si tenevano alla larga, si evitavano, si temevano. Questa manipolazione dei rapporti interculturali da parte di una classe rozza e ignorante ha determinato la pessima qualità dei rapporti reciproci. Le relazioni interpersonali cominciarono a venir classificate in base al criterio più primitivo: quello del colore della pelle. Il razzismo divenne un’ideologia per definire il posto della gente nell’ordinamento del mondo. Da una parte i Bianchi, dall’altra i Neri: una contrapposizione dove spesso entrambe le parti si sentivano a disagio”. *
Come un direttore d’orchestra, Kapuściński conduce il lettore attraverso un lunghissimo viaggio spaziotemporale, polifonico, all’interno di una realtà che non esiste più.
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“L’India rappresentò il mio primo incontro con la diversità, la scoperta di un altro mondo. Un incontro straordinario e affascinante, ma anche una grande lezione di umiltà. Il mondo ci insegna ad essere umili. Ritornai da quel viaggio vergognandomi di non aver letto abbastanza e di essere un ignorante. Avevo scoperto che una cultura estranea non si svela a comando e che, per capirla, occorre una lunga e solida preparazione”.
Alessandro Carli
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Il diavolo di tutte le terre - Daichi no Akuma
In seguito all'analisi del capitolo 103 mi sono trovata a ragionare sulle motivazioni di Zeke e, soprattutto, sulla sua attuale situazione. All'inizio pensavo lavorasse da solo, poi ho creduto lavorasse solo con Eren, adesso penso lavori *anche* con Levi e gli SC... ma sinceramente non credo di aver capito, né di aver intuito cosa passi nella testa di Zeke. Sappiamo che il suo principale "segreto" è legato al suo sangue reale ma sono quasi certa che ci siano diverse cose che non sappiamo di lui a partire di quando è arrivato a Paradis per raggiungere Berthold, Annie e Reiner assieme a Pieck, prendendo quindi parte alla battaglia di Shiganshina. Dove è stato per tutto quel tempo? Quando lo vediamo per la prima volta ha i capelli lunghi e l'aria del soldato di lungo corso rimasto per troppo tempo allo stato selvaggio.
Quando, al Castello di Uthgard, Ymir e Reiner trovano delle scatolette di cibo con scritte che entrambi riescono a capire, oltre ad un bivacco, io ho sempre sospettato (vista anche la presenza di Zeke in forma Beast Titan poco distante) che quell'accampamento fosse proprio il suo. E' impossibile ragionare su Zeke senza prendere in considerazione anche il suo gigante e nell'analisi del capitolo 103 ho citato il parallelo fra lui e Kenny Ackerman: entrambi avevano e hanno "un grande sogno", nel caso di Kenny sappiamo trattarsi di qualcosa di semplice quanto banale, ossia il potere. Zeke è un caso più complesso ma la chiave del discorso è semplice: entrambi sanno che per ottenere i propri scopi è necessario sacrificare qualcosa, qualcuno, molto, moltissimo. Tutto? Ho pensato che, come Kenny Ackerman, anche il Beast Titan potesse essere qualcosa dal potere difficilmente gestibile, una creatura che non può essere domata o comandata a bacchetta così sono finita a chiedermi: come sarebbe la storia se il "diavolo di tutte le terre" fosse proprio l'antenato del Beast Titan? E, da qui, un'altra domanda: chi era lo shifter all'interno del "diavolo di tutte le terre"? C'era? Oppure questo "mostro" era una cosa diversa dai titan shifter che conosciamo oggi?
Sappiamo che questo gigante è "sempre stato più grande degli altri" come affermano i soldati Marlean sul campo di battaglia di prova in cui si allenano i piccoli warrior e, semplicemente guardandolo, notiamo che è diverso dagli altri. Ho sempre considerato i giganti macchine organiche funzionali ad uno scopo specifico, nel caso, il fare la guerra. Ora, se il Beast Titan è una sorta di enorme macchina d'assedio (tipo un trabucco o una catapulta), perchè non crearlo semplicemente con la forma di un umanoide deforme ma per perfetto per il proprio scopo? In sostanza, perchè coprirlo di pelliccia? Qual è la funzione del pelo e dell'aspetto simile ad una grossa scimmia? Facciamo un passo indietro e torniamo al "diavolo di tutte le terre" che vediamo ritratto con Ymir e che reca gli attributi che tutti possiamo rimandare all'iconica immagine "diabolica" della radice cristiana.
Corna, denti ed artigli affilati, corpo irsuto, orecchie ferine.
Facciamo un passo indietro verso quindi le origini del "diavolo" proprio nella cultura cristianam avvalendomi di un ottimo documento trovato in rete di F. Rompazzo che, per comodità, cito testualmente.
"Alla base della rappresentazione iconografica del maligno nell’arte romanica e gotica c’è proprio l’idea di diversità, di rovesciamento e stravolgimento dei connotati umani e divini. Sia che esso venga ritratto in forma umana, come nel mosaico del Duomo dell’Isola di Torcello, dove il diavolo è rappresentato come un vecchio dalla barba bianca, privo di connotati bestiali, sia che compaia nei dipinti come una figura ferina, come nel Mosaico del Giudizio nel Battistero di San Giovanni a Firenze, la sua fisicità è sempre, in ogni caso, esagerata e mostruosa, questo perché l’obiettivo era quello di spaventare i peccatori con le minacce delle dannazioni eterne, e le fattezze mostruose e bestiali concorrevano proprio a distinguere Satana, i dannati e i demoni dalle figure angeliche. Nell’iconografia, a partire dall’arte paleocristiana fino a tutto il IX secolo, il demonio ha prevalentemente fattezze umanoidi. Viene, infatti, rappresentato
a. come un vecchio b. come un essere piccolo e deforme c. con artigli ai piedi.
Gli attributi iconografici più caratteristici nella forma umana sono:
a. la capigliatura liscia e scura, e successivamente serpentina b. gli occhi di fuoco c. il naso lungo e ricurvo (questo particolare dovuto alla stereotipizzazione degli ebrei al fine di demonizzarli)
Dal IX secolo inizia, invece, ad essere rappresentato come animale o mostro in pandant con l’immaginario medievale, richiamando in un certo qual modo: serpenti, gatti, lupi, caproni, pipistrelli. Fra gli attributi tipici di questo periodo è opportuno ricordare:
a. la coda b. le orecchie animali c. la barba caprina d. gli artigli e le zampe da capro
Le corna, attributo per eccellenza di quando si parla del diavolo, cominciarono a diffondersi nell’arte figurata a partire dall’XI sec. Per quanto riguarda le tinte e i colori utilizzati nelle raffigurazioni, Satana era dipinto, di solito, con il nero; altre volte potevano essere utilizzati il blu o il viola, colori che comunque mettono in risalto la sua natura infima e oscura."
Se vogliamo quindi escludere le corna, aggiunte alla figura diabolica solo successivamente per accrescerne il grottesco, si può ottenere una sorta di strana chimera con parti bestiali assortite nella sua anatomia.
Occupatici dell'aspetto, passiamo quindi all'etimologia del nome di Zeke. Si parla principalmente di un contrattura del nome "Ezekiel" (Ezechiele) e, in minor parte, di una lieve storpiatura del nome "Sieg" da Siegfried. Occupiamoci quindi di Ezechiele: chi era costui?
Cito da Wikipedia.
Ezechiele nacque verso la fine del regno di Giuda, intorno al 620 a.C. Apparteneva ad una famiglia di sacerdoti, ma visse ed operò da profeta.
Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin e si stabilì nel villaggio di Tel Abib sul fiume Chebar, come riportato nel Libro di Ezechiele, in un sito da identificare probabilmente lungo il canale di Khabur, vicino all'antica città di Nippur nell'odierno Iraq. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta. Doveva rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Non è conosciuta la data della morte, ma si sa solo che era ancora vivo 22 anni più tardi della chiamata profetica. Inascoltato all'inizio della sua missione, dopo la caduta di Gerusalemme il popolo gli diede ascolto perché aveva compreso la veridicità delle sue profezie. La sua predicazione si concentrò, da quel momento, sulla ricostruzione della Città santa.
Dal testo biblico si evince che ricevette delle profezie complesse ed era in grado di vedere i fatti che si verificavano a Gerusalemme, pur essendone distante quasi 2.000 km.
Vedeva se stesso come pastore che doveva vegliare sul popolo, guidandolo dall'interno. Si considerava come anticipatore del Messia. Si presentava anche come guardiano del popolo poiché doveva annunciargli l'imminente giudizio di Dio. Accusava gli israeliti per i loro peccati e li invitava alla conversione.
Una delle sue visioni più famose, quella del campo cosparso di ossa che tornano a rivivere al soffio di Dio, viene vista dai cristiani quale simbolo della resurrezione della carne.
Un'altra visione è quella che mostra quattro viventi (uomo, leone, bue e aquila; cfr. Ezechiele 1, 10) attorno al trono dell'Eterno, nei quali si sono visti i simboli degli evangelisti.
Giuseppe Ricciotti, sempre da Wikipedia, ci fa presente questo.
È una caratteristica degli scritti e dell'attività profetica di Ezechiele l'abbondanza di visioni, simboli, azioni simboliche anche stranissime, e altri espedienti allegorici: le quali cose rendono particolarmente difficile l'esatta interpretazione, perché spesso non appare chiaramente il limite ove la realtà finisce e l'allegoria comincia. Ciò vale anche per le azioni simboliche compiute dal profeta (ad es. quelle del cap. 4).
Per interesse, vi lascio qui sotto cosa si dice nel capitolo quattro del "Libro di Ezechiele".
«Figlio dell’uomo, prendi una tavoletta d’argilla, mettila dinanzi a te, disegnaci sopra una città, Gerusalemme, e disponi intorno ad essa l’assedio: rizza torri, costruisci terrapieni, schiera gli accampamenti e colloca intorno gli arieti. Poi prendi una teglia di ferro e mettila come muro di ferro fra te e la città, e tieni fisso lo sguardo su di essa, che sarà assediata, anzi tu la assedierai! Questo sarà un segno per la casa d’Israele.
Mettiti poi a giacere sul fianco sinistro e io ti carico delle iniquità d’Israele. Per il numero di giorni in cui giacerai su di esso, espierai le sue iniquità: io ho computato per te gli anni della sua espiazione come un numero di giorni. Espierai le iniquità della casa d’Israele per trecentonovanta giorni.
Terminati questi, giacerai sul fianco destro ed espierai le iniquità di Giuda per quaranta giorni, computando un giorno per ogni anno. Terrai fisso lo sguardo contro il muro di Gerusalemme, terrai il braccio disteso e profeterai contro di essa. Ecco, ti ho cinto di funi, in modo che tu non potrai voltarti né da una parte né dall’altra, finché tu non abbia ultimato i giorni della tua reclusione.
Prendi intanto grano, orzo, fave, lenticchie, miglio e spelta, mettili in un recipiente e fattene del pane: ne mangerai durante tutti i giorni in cui tu rimarrai disteso sul fianco, cioè per trecentonovanta giorni. La razione che assumerai sarà del peso di venti sicli al giorno: la consumerai a ore stabilite. Anche l’acqua che berrai sarà razionata: un sesto di hin, a ore stabilite.
Mangerai questo cibo fatto in forma di schiacciata d’orzo: la cuocerai sopra escrementi umani davanti ai loro occhi». Il Signore mi disse: «In tale maniera mangeranno i figli d’Israele il loro pane impuro in mezzo alle nazioni fra le quali li disperderò». Io esclamai: «Signore Dio, mai mi sono contaminato! Dall’infanzia fino ad ora mai ho mangiato carne di bestia morta o sbranata, né mai è entrato nella mia bocca cibo impuro». Egli mi rispose: «Ebbene, invece di escrementi umani ti concedo sterco di bue; lì sopra cuocerai il tuo pane».
Poi soggiunse: «Figlio dell’uomo, ecco io tolgo a Gerusalemme la riserva del pane; mangeranno con angoscia il pane razionato e berranno in preda all’affanno l’acqua misurata. Mancando pane e acqua, languiranno tutti insieme e si consumeranno nelle loro iniquità.
Ci sono alcuni passaggi straordinariamente calzanti soprattutto volendo ampliare la possibilità di approfondimento della storia.
Se Ezechiele si sentiva un anticipatore del Messia come sarebbe se il nostro Zeke si sentisse altrettanto e fosse in possesso del gigante che ha dato l'inizio a tutto, il "Diavolo di tutte le terre" che non era altro se non un beast titan gestito da un essere vivente dal sangue "speciale", dove questa specialità è poi diventata sinonimo di sangue reale? Se il nostro Zeke volesse anticipare il "messia" di Paradis, ossia Eren? Se Zeke non fosse altro, alla fine, che strumento consapevole di un'architettura mastodontica ad opera della fine mente di Eren Krueger che ha guidato Dina Fritz da Grisha proprio per avere un bambino dal sangue reale da poter "muovere" secondo i propri scopi? E... Se accanto a questo straordinario bambino speciale Eren Krueger avesse lasciato un uomo di fiducia ossia quello che per comodità dal fandome viene chiamato "goggles-kun" ma che nella Wikia ufficiale è chiamato "Mystery Man" per assicurarsi che il piccolo Zeke facesse esattamente ciò che ha fatto, portando il mondo sull'orlo di un baratro per poter "rinascere dal suo personale campo d'ossa"?
Io sono tutt'ora convinta, per esempio, che alla coppia Krueger+Goggles-Kun debba essere aggiunta anche Kyomi Azumabito (evidentemente loro coetanea) che, da quel che immagino, sia alle spalle del letale colpo di stato in corso a Marley, un colpo di stato nel colpo di stato, quindi, un colpo al non ancora nato "stato" di cui Magath dovrebbe essere il Generale.
Ma la domanda ora è: chi era questo "diavolo di tutte le terre" che Ymir ha incontrato in un non meglio specificato strato sotterraneo?
Concludo con una citazione dal "Signore degli Anelli", una di quelle che ti fanno sentire ancora i brividi e la pelle d'oca a distanza di anni dalla prima volta in cui la sentisti, in un vecchio cinema di Bologna con addosso due dita di trucco da Uruk-Hai:
"I Nani hanno scavato troppo a fondo e con troppa avidità. Sai cos'hanno risvegliato nell'oscurità di Khazad-dûm? Ombra e fiamme."
#snk#crazyteoris#aot#shingeki no kyojin#attack on titan#attacco dei giganti#zeke jaeger#zeke yeager#zeke fritz#beast titan
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I 10 libri di poesia più belli del Ventennio: il canone è questo! (Lo dico io, con la cerbottana in bocca). Da Francesca Serragnoli ad Alessandro Ceni, da Isacco Turina ad Andrea Temporelli
Ritorno su Andrea Cortellessa. Su “Tuttolibri” de “La Stampa” il critico letterario ha allineato i libri più belli degli ultimi vent’anni, sotto il logo “Del XXI secolo il canone è questo”. Ha fatto bene. Nell’epoca dell’obliqua ubiquità, dove si stampa di tutto ma è letteralmente impossibile leggere tutto quello che passa per il cortile editoriale, bisogna fare delle scelte. Opinabili per forza di cose: uno che sceglie obbliga un altro a prendere posizione. O a scegliere altro. Cortellessa si concentra sui romanzi italiani, è un intellettuale autentico, io sono un trickster, per cui posso permettermi di vergare la lista dei 10 libri italiani di poesia più importanti del Ventennio. Due cose, superficialmente, mi sorprendono. Primo: l’Italia è, letteralmente, terra di poeti. La poesia, intendo, porta avanti la fiamma del linguaggio, piantando la torcia in un futuro a venire – che forse non avverrà mai. Il romanzo mi pare stia sul ciglio della cronaca e delle buone intenzioni, di solito si esaurisce presto – fatta salva l’avventatezza linguistica di alcuni, pochissimi. Secondo: quando si parla di poesia contemporanea il balbettio sfinisce, è un’orda di pettegolezzi. Di norma, il problema si risolve impilando una vasta lista di autori, più o meno autorevoli, la poesia è vacca dalle poppe abbienti. Insomma, non si sceglie. Così, ad esempio, il saggio di Alberto Bertoni, “Poesia italiana dal Novecento a oggi” (Marietti, 2019), si riduce a un registro di lirici nuovi; quando il prof s’impegna a fare “Lezioni di poesia”, si concentra sui soliti noti (nel caso specifico: Giovanni Giudici, Emilio Rentocchini, Valerio Magrelli). Bertoni ha ragione: nella notte in cui le vacche sono nere, più che sondare le ombre (snidate nel nome&cognome) meglio affidarsi all’usato sicuro. Ma io, ripeto, non sono un critico, sono uno con la cerbottana nella cinghia, per cui oso la scelta. Mi doto di una sola regola: scegliere libri che costituiscano, nell’ultimo ventennio, l’esplosione di un autore e non il riassunto della sua pur luminosa parabola (esempio: Milo De Angelis e Valerio Magrelli, per dire, sono poeti che hanno già espresso il loro talento ben prima del nuovo millennio). Intanto, i primi 10 libri a mio giudizio necessari. (d.b.)
***
Maria Grazia Calandrone, La scimmia randagia (2003)
Epica e politica, assoluta e senza assoluzione, teatrale e combattiva, offesa e inoffensiva, la poesia della Calandrone nasce per essere detta, è dettato che si fa atto. Ne filai gli esordi, ricordo, all’inizio del millennio, che restano ancora statuari. “E la parte arcaica del cervello intravede/ nuvole in cielo cattive e poi copre il tuo volto nel crematorio bianco.// File di pioppi nel silenzio atomico. Della disadorna anemica delle erbe/ sale il Te Deum, la lode”.
*
Pierluigi Cappello, Assetto di volo (2006)
La poesia è così: affare per pochi, misura della solitudine. Eppure, è rito che va spartito, condiviso. Cosa simile al pane. A questo mi manda la poesia di Cappello, allo stesso tempo iliadica, epica, e nuda. “Ci vuole un’estate piena e un padre calmo,/ un dio non assiso in mezzo agli sconfitti/ ma così in tutta bellezza lo posso immaginare/ come un bambino alle prime pedalate”.
*
Simone Cattaneo, Peace & Love (2012)
Tra Martin Scorsese e Machiavelli, tra lo sketch periferico, da sottosuolo, alla rivelazione meridiana, che incatena alla nostra inadempienza al vivere. Ne amo, pure, quelle pozze di intrepida dolcezza. “Quella forza che tramuta/ il giorno in sera/ e la sera in giorno,/ proprio quella forza/ vorrei scheggiare/ così che trascini anche me/ in quel nulla, in quell’umore/ dove nuda si libra/ la gemma del tuo dolore”.
*
Alessandro Ceni, Mattoni per l’altare del fuoco (2002)
Libro visionario, orfico, selvatico, boschivo, anomalo, di ricerca linguistica e sciamanica. Va sussurrato con la dedizione dell’inno dato in pasto alle foglie. “Sia la nostra morte/ al suo occhio teso di passero/ grande di rami e di viluppi/ né mai distolga il passo una volta compiuto”. Poesia che va sorbita, servita.
*
Federico Italiano, L’invasione dei granchi giganti (2010)
Poesia complessa, colta, ironica, letteraria, scanzonata, vertiginosa, europea. Alcuni poemetti di questa raccolta (“Il tradimento dei rospi”; “La nuova età gregaria o l’invasione delle locuste”; “Schiller”; “I Mirmidoni”) dovrebbero essere delle acquisizioni ‘scientifiche’, date, della letteratura italiana recente. Ritaglio da “Discorso di un giovane alla sua prescelta”, ambientato “In una tenda a oriente del Volga, 3500 a.C. circa”: “Coltiveremo la terra estirpata al bosco,/ il fuoco la renderà albume,/ e tu ingrasserai come conviene,/ avremo tempo per le arnie/ e per la contemplazione dei temporali. Non temere”.
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Gian Ruggero Manzoni, Scritture scelte (2006)
Il talento di GRM esplode nell’ultimo ventennio, sia nel campo del romanzo (“Il Morbo”, 2002; “Acufeni”, 2014) che in quello poetico (“Tutto il calore del mondo”, con opere di Mimmo Paladino, è del 2013). Poesia di lotta e di sapienza, quella di GRM (“Più la vita è randagia più/ il senso vero che l’abita è/ sedentario”), che percorre gli assoluti con nitore apodittico, da vergare sugli stipiti delle porte. Vale, di questo libro antologico, la scelta di farsi fuori da tutti: stampato per le Edizioni del Bradipo, introvabile, per pochi accoliti. La poesia di GRM va stanata, va scelta, prediletta, al di là di ogni magagna editoriale.
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Alessandro Rivali, La caduta di Bisanzio (2010)
Scrittura distillata dal fuoco, dove tutto – presente, passato, avvenire – è uno, significativo, con tensione di icona. L’epica gratificata da una gioia per la parola esatta, sfocia in un progetto che Rivali lavora da anni, “La terra di Caino”. “La sella di pietra è un veliero/ che contempla la rosa dei mari.// Nelle terre alte dei sette laghi/ l’acqua ristora la sete di Dio”.
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Francesca Serragnoli, Il fianco dove appoggiare un figlio (2011)
Esplosione in cristallo, la poesia ha trame che ti bucano gli occhi – e cosa puoi fare se confondi il lamento con la legge? Rigore e visione si equilibrano nella poesia di Francesca Serragnoli, tra i grandi poeti del tempo presente. “Ti raccolgo con le mie braccia bucate/ regina di paglia sento/ irrigidirsi l’osso del passero/ prima del volo/ e la fiamma agitarsi/ e ballare”
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Andrea Temporelli, Terramadre (2012)
Il poema che ricapitola ogni amare fino al punto che precisa la rinuncia. L’atto di nascita specifica il precipizio: adorare l’uomo, per estinguerlo. Leggete qui, che grandezza: “Non c’è più tempo e non c’è solitudine:/ se la fine certifica l’amore/ fermo il respiro adesso nel poema:/ adamantino chiodo dentro il vuoto/ per darti appiglio, figlio, almeno un poco./ Qui poggia il piede per la capriola/ con cui mi onorerai dimenticandomi.// Noi viviamo definitivamente”.
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Isacco Turina, I destini minori (2017)
Scrittura incisa nel quarzo, che disorienta con inesorabile lucidità, praticata da un autore che si nasconde. L’esito è un libro memorabile. “La mano del bambino stacca i camion/ dalla strada e li solleva nel volo./ Le cose che ora chiami vere/ avranno la misura di un giocattolo”.
L'articolo I 10 libri di poesia più belli del Ventennio: il canone è questo! (Lo dico io, con la cerbottana in bocca). Da Francesca Serragnoli ad Alessandro Ceni, da Isacco Turina ad Andrea Temporelli proviene da Pangea.
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Per riscattare la follia, la ferocia e la magia. Liliana Heker nel mattatoio della Storia
Nel 2015 la prestigiosa Yale University Press pubblica, con il titolo Please Talk to Me, un ciclo di “Selected stories” di Liliana Heker. A guidare la traduzione, Alberto Manguel, amico di Jorge Luis Borges, tra i più autorevoli intellettuali e scrittori argentini viventi. Straordinaria interprete del racconto breve, audace nell’arte da miniaturista di vite altrui – genere specificamente argentino, e questo (il tema dell’elusione e dell’allusione, del gioco d’ombre, dell’improvvisa coltellata verbale, del passo rapido e della vibrazione repentina) sarà forse un simbolo – la Heker, all’uditorio americano, è presentata così: “Durante gli anni della repressione violenta (1976-83), ha continuato a scrivere e a ideare riviste di resistenza che hanno contribuito a dare voce ad autori silenziati dal regime”. Per molti scrittori argentini la salita al potere del generale Jorge Rafael Videla significò la scelta, manichea: restare nel proprio paese, e patire, o partire. Alberto Manguel partì. Julio Cortázar, il maestro ideale di Liliana Heker, aveva lasciato l’Argentina molto prima, nel 1951, trapiantandosi a Parigi. Liliana Heker aveva 33 anni quando si insediò Videla. Precocissima – comincia a pubblicare neppure ventenne, nel 1961 fonda insieme ad Abelardo Castillo la rivista letteraria “El Escarabajo de Oro”, ha risolto i primi due libri, Los que vieron la zarza e Acuario – decide di restare a Buenos Aires. E di non abbassare la testa.
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Durante gli anni del regime militare, Liliana Heker fonda una rivista – El Ornitorrinco, insieme ad Abelardo Castillo e a Sylvia Iparraguirre – sostanzialmente non pubblica (Un resplandor que se apagó en el mundo esce nel 1977), intervista Borges e litiga con Cortázar. In qualche modo, sembra che la scrittrice – che sotto il regime vive il ‘fiore’ dei suoi anni – senta l’urgenza di confrontarsi con i giganti della letteratura argentina contemporanea. E di incenerirli, di incenerire tutto. Nel 1980 la Heker va a stanare Borges. Nell’intervista – pubblicata in Italia come Jorge Luis Borges. “Diffido dell’immortalità”. Conversazione con Liliana Heker, Castelvecchi, 2019), la Heker interroga Borges in merito all’aldilà, alla speranza, alla resurrezione. L’idea è quella di costruire un libro di “Dialoghi sulla vita e sulla morte”, interpellando i massimi studiosi, filosofi, psicologi, antropologi, artisti argentini. “Come altri intellettuali e scrittori, ero stata allontanata dal mio lavoro con l’accusa di essere una sovversiva”, ricorda la Heker. Il libro non si farà, gli eventi precipitano, Diálogos sobre la vida y la muerte sarà pubblico molti anni dopo, nel 2003. La Storia è una ustione che fatica a sanarsi.
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Piuttosto, quarant’anni fa Liliana Heker ingaggia una battaglia etica con Julio Cortázar. Ancora oggi, ne parla con tramortita dolcezza. “Ero una amica personale di Cortázar, lo ammiravo e lo ammiro ancora come scrittore… la sua morte è stata vissuta da me come qualcosa di desolatamente ingiusto e irreparabile”. La polemica, che ha un interesse ben più vasto dei confini argentini, passa sotto il titolo “Exilio y literatura”. Gli interrogativi, gridati ed esasperati in quella cronaca di dispersi, di imprigionati, di ammazzati (pensiamo anche soltanto ad Haroldo Conti, lo scrittore di Sudeste, il giornalista, sequestrato appena dopo il golpe e svanito nella gola degli infami), sono i soliti: che rapporto c’è tra la letteratura e il potere, tra l’atto letterario e la Storia? In che posizione deve porsi lo scrittore e che rischio è disposto a percorrere per la salvaguardia della propria scrittura? Che rapporto ha il verbo con la morte, con la vita? Che senso hanno parole come ‘etica’ ed ‘estetica’ in un tempo che tritura e uccide i propri poeti? Quelle stesse parole di ogni giorno, ‘vita’, ‘morte’, che ormai si scambiano caratteri e criteri, che senso hanno?
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Per Cortázar la questione è semplice: il regime è responsabile del “genocidio culturale” che vive il paese; per lo scrittore, l’unica via è l’esilio, sola condizione per essere libero e scrivere ciò che il cuore e l’intelletto detta. Liliana Heker fa un’altra valutazione, che flirta con l’imponderabile, con il fatto che lo scrittore, in ogni circostanza, soprattutto in era orrida, debba disciplinarsi alla libertà interiore. “No, Cortázar, un intellettuale non è così ingenuo; non si aspetta che nessun governo gli dia il permesso di esprimere le proprie idee, né che i supplementi domenicali lo invitino a manifestare il suo pensiero. Quando i mass media accettano di diffondere parte del suo pensiero, buon per lui. Ma anche se ciò non accade, c’è sempre modo per divulgarli. Ed è in momenti come questo che diventa necessario creare strade marginali e sfruttare tutte le risorse possibili – la sottigliezza, ad esempio – nonostante i decreti ufficiali… Un’altra cosa. Da Parigi mi spieghi cosa è successo in Argentina. Mi spiace, Cortázar, che tu dimentichi il fatto che alla fine del 1978 io ero in Argentina. E la mia situazione era meno confortevole di quella che avrebbe potuto essere la tua, qui. Non importa. Questa scomodità è ciò che la maggior parte di noi ha scelto. Molti di noi hanno scelto la resistenza. Altri, più tardi, verranno a fare festa”. Più che sulla censura, la Heker ha sempre posto lo sguardo sull’autocensura che troppi scrittori si impongono, che esista un regime militare o che si subisca l’egida del successo. Un mattatoio accade anche nell’anima dello scrittore.
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Come scrivere la ‘cronaca’, come domare il ghepardo della Storia, come dire, della vita, la delazione e il delitto, l’orrore che non è solo nel corpo scomparso e squartato, nel censimento della tortura – e c’è la tortura, vaginale, medioevale, bastarda, in questo libro – ma nel clima, nell’intruglio del sospetto, nella trama tortile del tradimento. Perché bisogna dire anche questo: l’atto d’amore tra la vittima e il carnefice. Anche l’amore va detto, già, mentre ovunque è il regno della morte. Le possibilità, in superficie, sono due: il romanzo canonico, ‘realista’ – esempio: Vita e destino di Vasilij Grossman, che racconta Stalingrado e il regime sovietico rievocando l’affresco e il pathos tolstojano. Oppure, comprimere il barbarico con il magico, shakerare la Storia nell’imbuto della metafora, del simbolo. Regola, per altro, in cui i romanzieri sudamericani sono geniali. La Heker non segue né l’una né l’altra via. Pensa. Guarda. Si lascia falciare e fecondare dai fatti. Attende alla stagionatura della Storia.
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Bisogna considerare il tempo. La Heker lavora ai suoi “Dialoghi” dal 1979, sotto la stortura militare. Li pubblica quasi 25 anni dopo. “Non c’erano morti, malgrado tutti sapessimo, o sentissimo, che la morte ci accerchiasse da ogni lato. Era dunque necessario strapparla a quegli specialisti della morte, recuperarla come una questione esistenziale, filosofica, biologica, che ci riguardava; ripensare alla morte per motivi ideologici, riparlare della trascendenza, dell’angoscia, del sogno di essere immortali, di una morte degna. Almeno su quel terreno che gli assassini non avrebbero potuto sottrarci, quello intellettuale. Dovevano restituirci la vita, la morte”. Così scrive nell’introduzione a quel libro. La Storia corre, ma è chi resiste al suo massacro che ne sa definire il tratto e destinare il tracciato. Da dietro, armati di cerbottana, colpire l’occhio a spirale della Storia, sbandarla.
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Allo stesso modo, il primissimo nucleo de La fine della storia (ora edito da Theoria) nasce nel 1971, sotto l’onda letteraria de Il gruppo di Mary McCarthy. Cinque anni dopo la Heker perde un’amica, caduta nel gorgo del regime. Guarda. Resiste. Scopre. Non esistono innocenti, purezza è il modo in cui gli assassini giustificano i loro atti. Come i grandi scrittori, Liliana Heker fa del suo corpo una cattedrale di fantasmi. Ricomincia a pubblicare. L’idea di quel libro erode il tragitto onirico. “Un giorno di aprile del 1994 mi sveglio alle quattro di mattina, perché queste cose accadono così, improvvisamente, e ho capito che cosa avrei dovuto scrivere. Alle cinque e mezza ho cominciato la scrittura de La fine della storia”.
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Il titolo dice di una forza e di una resa. El fin de la historia. Della Storia dice una fine – la fine del regime militare – ragionando sul suo fine – esiste una ragione che agita la Storia o è il fragore del caos, e perché ogni ordine diventa una ordalia del bene? D’altronde, il libro indaga l’impossibilità di raccontare una storia, la tensione di una storia a protrarsi all’infinito. E il modo in cui, come una mandorla, la storia di certe amiche s’incastri nella Storia – e da essa è irrimediabilmente alterata. La fine della storia è che ogni storia è infinita; e che non ha un fine.
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“El Ornitorrinco”, 1980: uno dei numeri in cui compare la polemica tra Liliana Heker e Julio Cortázar
Il regime militare argentino si è caratterizzato per l’enorme massa di ‘dispersi’. Il corpo non viene ucciso e messo in piazza, visto, pianto. Il corpo scompare. Come se il quaderno su cui hai scritto, in inchiostro scuro, improvvisamente sbiancasse, tornasse nudo. Non c’è segno del tuo passaggio – e neanche una viltà, ma il vuoto. Del corpo scomparso non si può reclamare il corpo, non si può pronunciare il nome: esso non c’è, non è mai esistito, è obliato. Buenos Aires è una palude: improvvisamente, puoi sparire. Necessaria, qui, è una scrittura che sappia dire questa assenza, questa confisca dei nomi. Per questo, la Heker scova una lingua che tiene in una più storie, che non dice e non denuncia e non declama, ma trascina, con una polifonia di protagonisti. Il tempo, d’altronde, serve a questo: per riprenderlo, tutto. Non può essere una scrittura ‘facile’, perché la vita si è svolta tra le maschere e i vuoti, tra sorrisi sacrileghi e trabocchetti. Non battaglia a viso aperto, ma sotterfugio, catacomba dove il corpo viene marcato: verità e tortura adempiono lo stesso omicidio. A volerne suggerire la fisiologia, si tratta di una lingua ‘modernista’, con sinuosità, certezze e agnizioni micidiali – come se Henry James sapesse disossare gli occhi dal viso di Videla, lanciandoli come dadi nell’ego del caos.
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Dire l’indicibile dell’uomo, squartarne il cuore fino alla camera della tortura. “Io cercavo una storia, figlia, andavo alla ricerca di una storia che avesse una trama tranquilla, quotidiana, però al tempo stesso lasciasse filtrare, come un tenue bagliore, la follia, la ferocia e la magia che segretamente incoraggiano gli atti degli uomini. Ma loro hanno raso al suolo l’intera fragile trama”, è scritto nel gorgo limpido del romanzo. Di lato, ricordano le parole di Vasilij Grossman, dopo il sequestro di Vita e destino, chiamato a giustificare il suo romanzo ‘antisovietico’. “Facendo del mio meglio con le mie limitate capacità, scrissi sulle persone comuni, il loro dolore, le loro gioie, i loro errori e le loro morti. Scrissi del mio amore per gli esseri umani e della mia solidarietà con il loro dolore”. Lo scrittore penetra nei cerchi oscuri dell’uomo perché è certo che, nascostamente, ci sia una gioia, un amore, da estrarre anche là dove è l’orrore. Perché basta il frinire di una amicizia a riscattare un’epoca di strazio.
Davide Brullo
*In copertina: Liliana Heker e Abelardo Castillo fanno a pugni; insieme, con Sylvia Iparraguirre, hanno fondato “El Ornitorrinco” , rivista di resistenza culturale durante il regime militare argentino
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“Cultura è ciò che si sceglie e che ha un costo, che comporta una fatica. Riguarda uno stato di attenzione, di veglia”. Un dialogo con Romeo Castellucci
Desiderai il dialogo per una ragione portante – l’uomo che ha disastrato le forme, con spettacolare audacia teatrale, reso alla fama. Cosa fa? Adempie il rito degli applausi o ne fa scempio, estraniandosi in un monastero interiore? Così, cercai Romeo Castellucci, da alieno al teatro, affascinato dalla giunzione del genio. Sapevo ciò che sanno tutti: la “Socìetas Raffaello Sanzio”, fondata nel 1981 a Cesena da Romeo e dalla sorella, Claudia Castellucci, con Chiara Guidi e Paolo Guidi, i lavori che infuocano, ora travi di marmo della storia recente del teatro – da Gilgamesh ad Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco, da Orestea (Una commedia organica?) a Giulio Cesare, al ciclo della Tragedia Endogonidia. Affrontai l’apice di quell’uomo, Romeo Castellucci, una autentica presenza, detto tra i massimi registi teatrali in Europa, una vera intelligenza. Dal sottosuolo cesenate all’apertura dell’Opéra national de Paris con la messa in scena del Moses und Aron di Schönberg, nel 2015. Prima c’era stato il Leone d’oro alla carriera dalla Biennale di Venezia, nel 2013, l’anno dopo la laurea honoris causa in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo da parte dell’Università di Bologna.
Una foto di scena da “Salome” (2018), spettacolo con la regia di Romeo Castellucci, allestito per il Festival di Salisburgo e pluripremiato; photo Ruth Walz
Ora, leggo in un comunicato, Castellucci ha ricevuto un “triplo premio per Salome (allestita nel 2018 al Festival di Salisburgo sotto direzione musicale di Franz Welser-Möst per la Wiener Philharmoniker) dagli “Oscar” della lirica europea, un sondaggio della rivista tedesca Opernwelt tra cinquanta critici musicali internazionali: l’allestimento dell’opera di Richard Strauss, basata sull’atto unico di Oscar Wilde, ha ricevuto il premio come “Miglior spettacolo” decretando Castellucci come “Miglior regista” e “Miglior scenografo” della stagione 2018-19”. Il 5 ottobre, a Bruxelles, Castellucci si appicca un’altra medaglia: “l’onorificenza di membro dell’Accadémie Royale de Belgique, storica accademia scientifica e artistica della Comunità francese del Belgio, fondata nel 1772”. D’altronde, nel 2020, a Salisburgo, sarà impegnato per la regia del Don Giovanni e “nel 2021 a Parigi per L’Apres midi d’un Faune, il poema sinfonico di Debussy ispirato a Mallarmé, al Théâtre du Châtelet”. Il tema è sempre quello: porre l’artista sul trono, censirlo in uno sfarfallio di medaglie: si rischia l’accecamento? Come conciliare la platea gremita con la necessità dell’eremo? Su questo, cinque anni fa, cominciammo a intenderci, a interloquire, con Castellucci. Intitolai quel dialogo “La caduta verticale della bellezza”, fu pubblico su La Voce di Romagna. I passaggi che replico non sono maceria, ma materia di pensiero, ora. (d.b.)
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Ma la fama non fa paura, non giunge a corrompere l’opera?
«Un riconoscimento è un peso. Che influenza sia chi lo riceve che chi osserva chi è stato insignito del premio. Chiaramente, il premio ci dispone in una maniera diversa di fronte all’opera. Il mio problema è non ascoltare la voce che blandisce, continuare a lavorare in modo indifferente».
Quanto è necessaria la solitudine nel lavoro artistico?
«La solitudine è senza dubbio la condizione dell’artista perché è la stessa dello spettatore. L’era dell’informazione satura la solitudine, la scongiura. Eppure, siamo insieme ma siamo soli. E l’unica cosa da fare è condividere questa solitudine».
Tra i tuoi lavori, ‘maneggi’ Wagner e Hölderlin: perché loro?
«C’è stata una attrazione, ma anche un destino. O il caso. Wagner ha inventato il teatro moderno come esperienza unica, collocando lo spettatore al centro del problema. Musicalmente, poi, Wagner è un morbo, la sua opera, con l’utilizzo della mitologia, è oceanica, pronta a infinite interpretazioni, molto diversa dal melodramma italiano, che ha narrazioni più circoscritte alla realtà borghese. Insomma, è un incontro ineluttabile. Come quello con Hölderlin, che ha giocato tutto sulla poesia e per cui la parola è azione».
Esistono affinità tra Parsifal ed Empedocle?
«Entrambi si sono posti a guida di un gruppo umano, aprendo una strada dall’esoterismo all’essoterismo, alla comunità. Parsifal entra in un cerchio di adepti, i cavalieri del Graal, e spezza il cerchio spalancando la via alla società».
Cosa c’è dentro la carne di Castellucci? Quale è stato l’evento, l’incontro determinante per la sua vita?
«Intanto, mia sorella Claudia, di due anni più grande di me. Rapinavo immagini e sensazioni dai suoi libri di scuola ed è grazie a lei se ho lasciato l’Istituto tecnico agrario per iscrivermi al Liceo artistico. Poi, ci sono stati i giganti, che ho ammirato pur con un senso di antagonismo. Ricordo Carmelo Bene, che aveva scelto il “Bonci” di Cesena per una serie di spettacoli in anteprima. Per un ragazzo di 15 anni era un privilegio incredibile vederlo, e anche il fatto di non capire, di osservare la rottura dei vincoli della mimesi è stata una occasione importante».
Nella sua opera spinge spesso sul concetto di “disciplina”.
«Per me disciplina non è un metodo o uno stile, ma una tecnica, per lo più intangibile, invisibile. La mia disciplina è trovare una strategia ogni volta diversa per avere un contatto con lo spettatore. Che è materia vivente e nella cui intelligenza ho fede».
In ogni suo lavoro si tocca la dimensione religiosa.
«La dimensione religiosa non è un argomento, ci siamo dentro. Tutto ciò per il quale abbiamo bisogno di genufletterci ha un carattere religioso: può essere lo schermo di una televisione o i colori freddi di un supermercato, non mi interessa. Dove abbiamo bisogno di venerare è già religione. Per il teatro, poi, questo rapporto è inevitabile, fin dalle sue origini».
Ma come si può nominare Dio a teatro, affrontarlo pur con gli escrementi?
«Il rapporto può essere anche negativo. Ci si può rivolgere all’assenza di Dio. Riguardo al lavoro a cui lei allude, “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”, si parla della caduta verticale di ogni bellezza, che è poi la vera condizione umana, neppure degna di essere nominata. Da qui, gli escrementi. Perché solo dalla dimensione più profonda, solo dal “De profundis” è possibile formulare domande al Creatore».
Molti politici si sciacquano le labbra parlando di “cultura”: ma cosa intendiamo per fatto culturale?
«La cultura, come forma di intelligenza che rispettiamo, non è quella che passa dal dominio dell’informazione e dell’immagine, la cui gestione è un esercizio di potere. Cultura è ciò che si sceglie e che ha un costo, che comporta una fatica. Riguarda uno stato di attenzione, di veglia».
Ritiene necessario un luogo che ospiti la drammaturgia contemporanea, magari affidato a lei?
«In Italia dovrebbe esserci un luogo oppure un momento di confronto alto sul teatro contemporaneo inteso come arte vivente e non museale. Questo non c’è o è osteggiato. In Italia gli enti culturali sono gestiti dai politici, dunque sono materia di scambio, sono inerti. Per il resto, ho dei dubbi sul fatto che un artista abbia la lucidità intellettuale necessaria per gestire un luogo di questo genere».
*In copertina: Romeo Castellucci in un ritratto fotografico di Yuriy Chichkov
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“Anche nell’atto d’amore c’è violenza… San Francesco e Hitler sono agli antipodi, ma lo sono come lo sono due lottatori sullo stesso terreno”: Bruno Giurato dialoga con Emanuele Severino
E «a cosa debbo la sua telefonata, dottore?», e «potremmo fare il giorno x a casa mia, dottore», e «prego si accomodi dottore». Emanuele Severino è gentilissimo, quasi cerimonioso. Si scusa lui se l’intervistatore vuole solo un bicchier d’acqua, e sta ad ascoltare bene, seduto sul divano, prima di rispondere puntuale, completo. Ha una bella voce dolce, un po’ impostata. Energica. Ride. A 90 anni fa lezione, all’Università Vita e Salute di Milano, assicura che i suoi esami sono facili, e dice di non essersi mai arrabbiato con un allievo ignorante in vita sua perché «bisogna incoraggiare i giovani», e in questo non assomiglia a Kant, convinto che bisognasse aiutare gli studenti di medio livello, perché “per i cretini non c’è speranza, e i geni si aiutano da sé”.
Poi alla domanda qual è la tesi di laurea che l’ha colpita di più sta per rispondere: «Goggi». Poi si ferma: «Sa ho tanti allievi, parecchi sono diventati ordinari, anche se molti di essi sono in pensione, e la cosa mi rammarica un po’. Comunque non vorrei fare nomi, sa, non vorrei si offendesse qualcuno».
Emanuele Severino nella stanza ha un pianoforte a coda marrone, ma non suona da dieci anni: da quando se n’è andata la moglie Esterina: Ester Violetta Mascialino. Lei un’enfant prodige, oltre che la ragazza più bella del liceo “Arnaldo” di Brescia, lui uno studente brillante, di padre siciliano, di Mineo, madre bresciana («una vichinga», e fa la voce più profonda). Una sera di primavera, tra i vari ragazzi che arrivarono in gruppo sotto la finestra, Esterina salì sulla canna della bicicletta di Emanuele. “Mi scelse perché la incuriosivo”. 60 anni insieme, due figli. Di lei mi mancano gli sbuffi -ha raccontato in un’intervista a Panorama- Non erano sbuffi di fastidio, erano smorfie giocose, come quelle di una micia. Una gatta”. A volte, mentre Esterina rileggeva i suoi scritti, alla menzione dell’eternità dell’essere lei gli diceva: “come vorrei che le cose stessero davvero come dici tu”.
Severino racconta: «Il mio primo libro è intitolato La coscienza. Pensieri per un’anti filosofia, dove l’antifilosofia è la musica. C’è Schopenhauer, c’è Nietzsche. E non era neanche malaccio. L’ho scritto nelle vacanze di terza liceo». Il secondo è Note sul problematicismo italiano, scritto negli anni universitari, il terzo la sua tesi di laurea (con Gustavo Bontadini) intitolata Heidegger e la metafisica, scritto a 21 anni, nel 1950, è diventato un “caso” filosofico. Lo fecero avere ad Heidegger, ed è notizia recente che Heidegger avesse nei suoi appunti, scritto a proposito della tesi di Severino. Nei giorni scorsi a Brescia si è sviluppato un convegno internazionale Heidegger, nel pensiero di Severino. Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica, con la partecipazione di numerosissimi studiosi italiani e internazionali. Un omaggio a Severino da parte di tutto il mondo intellettuale, e un dialogo tra due giganti della filosofia contemporanea. Da qualche parte Severino ha scritto che Heidegger è il più grande pensatore del Novecento.Chiedo conferma: «Non mi sono mai posto una domanda di questo genere -risponde pacato-. Insieme ad Heidegger mi interessai al neopositivismo, che mi sembrava una filosofia molto seria. A me interessava il panorama della filosofia contemporanea, non tanto vedere chi fosse l’emergente. Ma devo aver scritto da qualche parte che Heidegger è il maggiore filosofo del Novecento». Ride.
E a proposito delle accuse di antisemitismo fatte ad Heidegger? Nei Quaderni neri si trovano note in cui gli Ebrei sono definiti popolo sradicato, “metafisico” per eccellenza. Donatella Di Cesare, studiosa di Heidegger, ha definito la filosofia del maestro di Turingia: “ontologicamente nazista”.
«Non sono d’accordo – risponde Severino – Le critiche di Heidegger al semitismo rientrano alle critiche che Heidegger rivolge all’intero Occidente. È la stessa critica che Heidegger rivolge al Cristianesimo, alla Metafisca, alla Tecnica. E che rivolge al nazionalsocialismo. Quando parla di vicinanza tra camere a gas e sistema di produzione industriale è chiaro che include anche il nazionalsocialismo. Oh intendiamoci, che lui abbia avuto queste attrazioni non fa meraviglia. Se pensiamo che a quel tempo Churchill ammirava Hitler, la Chiesa in Germania pure. Perfino il partito socialista tedesco era favorevole a Hitler. Allora, se ci portiamo a quel tempo, che uno possa vedere nel movimento Nazionalsocialista, in una Germania ridotta in quei termini, una forma di riscatto, non è che sia così terrificante e sorprendente».
***
Severino filosoficamente dice il contrario di Heidegger. La cosa strana è che alcuni tendono a vedere molte similtudini tra i due pensatori, Heidegger e Severino, che invece sono precisamente all’opposto. Heidegger ritiene che l’Essere sia temporale, storico, che il Nulla insidi ogni istante una verità che si rivela solo a tratti, in alcuni momenti storici di epifania. Per Heidegger la verità è “a-letheia”, non-nascondimento di un essere che si svela come “evento” non preannunciato, e poi si dimentica. Pensa che tutta la filosofia occidentale, la metafisica, con la sua pretesa di trovare verità universali e valide fuori dal tempo sia una “dimenticanza” dell’essere.
Severino pensa invece che tutto sia nell’eterno. Che un’ombra di un secondo o un’unghia caduta abbiano una consistenza inscalfibile. Che tutte le cose, anche le più labili e apparenti abbiano una super-sostanzialità che le consegna, ipso facto, all’eterno. E allora com’è che, per esempio il filosofo Giacomo Marramao ha scritto che Severino è una sorta di “heideggeriano in Italia”? «Si vede che Marramao non ha letto quello che ho scritto. In una telefonata mi ha anche detto che è perfettamente d’accordo con me. Non capisco come possa accadere, e non so come mai ebbe a scrivere questa cosa». Ridacchia gentilmente, e precisa: «poi Marramao è bravo eh». […]
***
Severino sostiene che la vera globalizzazione è quella tecnica, non economica. Siamo già nell’epoca della dominazione tecnica? «Siamo soltanto ai primissimi inizi di questo tempo. Ci saremo pienamente quando la tecnica guidata dalla scienza moderna riuscirà ad essere una potenza di diritto e non solo di fatto. Quindi non una semplice prepotenza. E ci riuscirà solo se ascolta la voce del sottosuolo filosofico del nostro tempo. Cosa dice questa voce del sottosuolo? Mostra l’impossibilità dell’esistenza degli immutabili, che stanno al centro della tradizione culturale e filosofica dell’occidente. Questa voce dice: “la storicità del mondo rende impossibile Dio”. La voce del sottosuolo filosofico dice alla tecnica: “Guarda che davanti a te non esiste alcun limite che tu non possa superare”. Oggi questa voce non è sentita ancora. La tecnica si trova come una prepotenza che ha accanto a sé gli ammonimenti della tradizione. Si trova essa stessa in una posizione instabile. È una tecnica al servizio del sistema capitalistico. Oppure, e questa è una variante interessante, pensiamo alla Cina. Lì c’è un capitalismo alle dipendenze di un sistema ideologico.
Fin tanto che la tecnica è di servizio a qualcosa non ha quello strapotere che oggi viene paventato. Occorre che la tecnica ascolti queste voci, e poi che si metta in moto un meccanismo in cui la tecnica, da servitrice, diventi il padrone che si serve magari anche del capitalismo, e della democrazia. E lo scopo della tecnica non è uno scopo specifico, come quello di realizzare un mondo capitalista, un mondo comunista, un mondo cristiano. Lo scopo della tecnica è quello di aumentare all’infinito la capacità di realizzare scopi. Quando questa volontà di incremento indefinito di realizzare scopi diventerà lo scopo allora sì, quello sarà il momento di dominazione autentica della tecnica».
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Mi viene in mente il caso di Noa Pothoven, sul quale ha aleggiato la notizia -poi rivelatasi falsa- di eutanasia. Notevole che di fronte a questa parola associata a una diciassettenne malata di depressione i media mondiali non avessero una chiave intrerpretativa forte, né di condanna, né di giustificazione. Sembra un non-luogo a procedere della cultura contemporanea: «È uno dei tanti fenomeni che accadono in un’epoca di grande transizione. Un’ epoca di estremo interesse, dove la stessa superficialità delle masse ha delle ragioni profonde. Epoca dovuta al fatto che c’è stato l’addio alla tradizione. Il sottosuolo filosofico mostra l’impossibilità dei valori assoluti, dei limiti assoluti. Da un lato si sta abbandonando la dimensione della tradizione Occidentale, dall’altro non si è ancora fatta avanti la dominazione autentica della tecnica. Tutto questo spiega i comportamenti di sbandamento, e anche di imbecilimento, delle masse». E gli domando a bruciapelo: lei si è mai sentito depresso? «No. Nemmeno adesso, nonostante l’età».
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Severino sostiene che la volontà, tutta la volontà, anche la volontà più buona, ha in sé una componente di violenza. Non si salvano l’amore per il prossimo, il pacifismo, l’ambientalismo. Tutto è sottoposto a questa legge, o meglio convinzione: «Ritorniamo alla definizione platonica di “poiesis”, anzi ritorniamo a quella fede nel diventar altro da parte delle cose del mondo. Siamo convinti che la realtà sia un continuo diventar altro. Quell’oggetto non è più quello che era prima. L’esempio che mi piace fare è la legna che diventa cenere. Quando qualcosa diventa altro non dobbiamo forse dire che si strappa da se stesso? Non c’è la quiete dello stare in sé, c’è lo strappo. E lo strappo allude alla violenza? Il diventar altro non è forse una invasione dell’altro? È la legna che ha invaso la cenere identificandosi all’esser cenere. E anche questa un’invasione. Nel diventar altro in quanto tale c’è quella violenza che noi crediamo di trovare solo negli atti feroci. Anche nell’atto d’amore c’è violenza, perché c’è il voler far diventare altro. San Francesco e Hitler sono agli antipodi, ma lo sono come lo sono due lottatori sullo stesso terreno. Io non intendo identificare San Francesco e Hitler, ma intendo dire: e nell’uno e nell’altro c’è quel terreno senza il quale non potrebbe nemmeno prodursi il loro scontro».
Bruno Giurato
*Il servizio esteso, con il titolo “Emanuele Severino, quattro eterne risate con un pensatore Terribile”, lo leggete su Linkiesta, qui
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