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"Se il vento sapesse": La delicata poesia di Bruno Mattu. Recensione di Alessandria today
Un’ode alla natura e alla fragilità del ciclo vitale. La poesia “Se il vento sapesse”, scritta il 7 dicembre 2024 da Bruno Mattu, è un invito a riflettere sulla fragilità della natura e sul rapporto intimo tra le forze della vita e quelle della trasformazione. In poche righe, Mattu dipinge un quadro poetico ricco di immagini evocative, dove il vento diventa il protagonista di un dialogo…
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Voglio te, solo ed esclusivamente te. Come un riflesso di stelle in un lago placido, così luminosa nella tua quiete, eppure profonda come l'abisso più insondabile. Così educata, gentile, umile, sincera, introversa. La tua riservatezza è un prezioso scrigno che custodisce tesori inestimabili, e io desidero essere il custode di quei segreti, colui che svela il mistero celato dietro ogni tuo sguardo.
Ma anche con un mondo intero da raccontare, nella tua anima. Un universo intessuto di sogni, di pensieri e desideri che attendono solo di essere svelati. Le tue parole sono come il vento che accarezza dolcemente le fronde degli alberi, sussurrando storie di meraviglie e di passioni segrete. Ed io, affamato di quella tua bellezza nascosta, voglio immergermi in questo tuo mare d’inchiostro, esplorare ogni tua emozione, ogni tua paura, e celebrare la tua essenza.
Voglio plasmarti, guidarti, insegnarti tutto ciò che posso. Con la mano del creatore che modella la creta, ma anche con la delicatezza di chi ama senza condizioni, valorizzando ogni curva della tua anima, ogni tua sfumatura. Desidero essere il faro che ti guida attraverso la tempesta, l’ancora che ti tiene salda nei giorni di burrasca. Ma anche colui che ti insegna il volo, libero e audace, senza catene, per raggiungere insieme cime inimmaginabili.
E tenerti accanto a me per tutta la vita. Come un poeta che non può vivere senza il suo verso più amato, così io non posso immaginare un’esistenza senza la tua presenza al mio fianco. Ti desidero come il respiro desidera l’aria, come la notte brama il giorno, in un abbraccio eterno che non conosce fine. Sarò il tuo compagno fedele, l’ombra che ti segue, la luce che ti riscalda, e insieme, intrecciati in un eterno balzo nel tempo, vivremo la più bella delle storie d'amore, scritta a quattro mani, indissolubile come il destino.
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«Fa domande la gente, fa domande.
Ed il più delle volte non è affatto interessata alle risposte.
Siamo materiale umano, la cui delicatezza è sconosciuta agli aridi.
Hanno il metro nelle mani e la bilancia negli occhi, ma non la grazia necessaria per guardare le lacrime un momento prima che scendano sulle guance.
D’altronde ho visto tremare persino le rose, senza che nessuno mai se ne accorgesse.
Nel silenzio delle foglie, nella consolazione del vento.»
Carolina Turroni
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Rebecca Miller
Rebecca Miller, regista e scrittrice statunitense, indaga le relazioni umane alternando cinema e letteratura.
Sostenitrice delle donne nell’industria cinematografica, le sue storie hanno sempre protagoniste femminili e anche i cast tecnici sono costituiti in gran parte di donne. Per il suo impegno, nel 2003, è apparsa nel documentario In The Company of Women.
Tra i suoi film, che ha scritto e diretto, spiccano Angela, che ha ricevuto il Gotham Independent Film Award, Personal Velocity: Three Portraits, che ha vinto il Sundance Film Festival, The Ballad of Jack and Rose, The Private Lives of Pippa Lee, Maggie’s Plan e She came to me.
Ha scritto i romanzi The Private Lives of Pippa Lee e Jacob’s Folly, il libro che ha anche illustrato A Woman Who e la raccolta di racconti Personal Velocity premiata come miglior libro del 2001 dal Washington Post.
È nata a Roxbury, Connecticut, il 15 settembre 1962, da due celebrità, Inge Morath, fotografa della Magnum e il drammaturgo Arthur Miller. Cresciuta in un ambiente culturale molto stimolante, ha studiato arte a Yale e si è specializzata a Monaco di Baviera, in Germania.
Stabilitasi a New York, nel 1987, ha iniziato la sua carriera come pittrice e scultrice, esponendo in diverse gallerie.
Dopo gli studi di cinema alla New School, ha iniziato a realizzare film muti che esponeva insieme alle sue opere d’arte.
A teatro, si ricorda il suo ruolo di Anya ne Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov diretta da Peter Brook, nel 1988.
Ha lavorato come attrice cinematografica e televisiva in film come A proposito di Henry (1991), Wind – Più forte del vento (1994) e Mrs. Parker e il circolo vizioso (1994).
Ha anche diretto un’opera teatrale.
Da regista e sceneggiatrice, il suo primo lungometraggio è stato Angela, presentato in anteprima al Philadelphia Festival of World Cinema e poi al Sundance Film Festival, che le è valso l’Open Palm Award dell’Independent Feature Project e il Sundance Film Festival Filmmaker Trophy oltre a altri importanti premi per la fotografia.
Dopo il matrimonio con l’attore Daniel Day-Lewis, da cui ha avuto due figli, si era trasferita a Dublino dove ha prestato servizio di volontariato in case rifugio per donne vittime di violenza, impegno che le ha ispirato la raccolta di racconti Personal Velocity che poi è diventata un pluripremiato film in tre episodi che esplora la trasformazione personale in risposta a circostanze che cambiano la vita.
La pellicola, proiettata al Tribeca Film Festival e all’High Falls Film Festival, ha ricevuto importanti riconoscimenti e fa parte della collezione permanente del MoMA di New York.
Nel 2005 ha scritto la sceneggiatura per l’adattamento cinematografico dell’opera teatrale Proof di David Auburn, vincitrice del premio Pulitzer che ha visto come protagonisti Gwyneth Paltrow e Anthony Hopkins e ha diretto The Ballad of Jack and Rose, proiettato al Woodstock Film Festival e all’IFC Center di New York. Il film le ha procurato una menzione d’onore da MTV nel 2010 per le migliori registe che avrebbero dovuto vincere un Oscar.
Nel 2009 ha girato il suo quarto film, The Private Lives of Pippa Lee, un adattamento del suo romanzo del 2002 con un cast stellare composto da Robin Wright, Keanu Reeves, Winona Ryder e Julianne Moore.
Del 2015 è Maggie’s Plan, girato principalmente nel Greenwich Village e presentato in anteprima al Toronto International Film Festival che è stato proiettato in importanti festival internazionali.
La sua ultima fatica risale al 2023, She Came to Me presentato in anteprima mondiale al 73º Festival internazionale del cinema di Berlino, interpretato da Anne Hathaway, Marisa Tomei e Peter Dinklage.
Le sue narrazioni sono pregne di ironia, delicatezza e profondità.
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Forse sei solo nella mia testa
Sbronzi e molesti, sporchi e cattivi. Il festival fatto con la persona giusta è sempre qualcosa di eclatante. Arriviamo praticamente sempre prima per fare sosta al bar del posto, fare un giro per poi ritrovarci davanti ad un monumento dei caduti della seconda guerra mondiale, dinanzi a noi una distesa verde infinita con un tramonto bellissimo, mangiato dalle grosse montagne. Ci sbronziamo fino al midollo, per poi cantare a squarciagola per tutta la durata del concerto. Io di tornare non ho voglia, restiamocene su questa panchina, ascoltando il silenzio. Che poi quanto può dirti il silenzio? Il silenzio è il tuo migliore amico. Mi fa ascoltare qualche pezzo di Franco126, mentre mi legge il testo e mi sorride, io gli faccio ascoltare un altro pezzo a mia volta e mi dice quanto fossi romantico. Ho fumato praticamente il pacchetto di sigarette, e ne avrei fumate altre 20 pur di restare ancora qualche minuto. Poi mi ha mangiato i pensieri, mi ha fottuto con lo sguardo e ha mangiato la mia lingua. Farei le sei ogni notte abbracciato in macchina, o su qualche panchina non a vista guardando le foglie degli alberi muoversi. Viaggerei nei lunghi campi di grano e le distese quasi dismesse al loro essere. Viaggi lunghi con i piedi sul cruscotto leggendo qualche articolo o intrattenendoci con la settimana enigmistica. Che poi di così tanto enigmatico ci sono solo i nostri cervelli, quasi sintonizzati su tutto. Questo mi preoccupa.
Noto molto i movimenti che fai, anche quando accendi la sigaretta e cacci il fumo dalla bocca. E poi parlo alle linee sulle mie braccia. Ai tatuaggi sbiaditi sul braccio sinistro, due linee che formano due volti. Mentre li scopri delicatamente chiedendomi il significato su ogni linea e punto tratteggiato, allora io parlo a te come a loro. Ricordo ancora il locale intorno colmo di gente e di questi bambini urlanti giocare alla palla, quando noi avremmo voluto bere solo una birra fredda e continuarci a guardare negli occhi. Mi sarei perso volentieri lì. Raccontando le nostre paure, dell’esistenza sul pianeta terra. Poi racconto io a te, di come mi piace guardare le distese di prati di paglia, così gialli da prender fuoco quasi sempre e di quanto mi piace fotografarli, meglio ancora riempirli di gente gioiosa e in festa. Della musica folkoristica e corpi deboli ballare. Non passava un filo di vento, eravamo circondati dai palazzi intorno sotto il porticato, ma preferivo passasse il tuo solo filo di voce. Note di canzoni cantate male, i lunghi abbracci interminabili ed incidenti di percorso, fateci caso quando passi del buon tempo con qualcuno di piacevole, l’orologio non lo guardi mica, non sai nemmeno che forma abbia. Guardando il cielo per capire se era tanto luminoso, ci rendemmo conto che quella notte c’era una luna bellissima.
SE FOSSIMO CONCIGLIE?
<< non ti sei fatto male, proprio come pensavo. Vedi, non serve a niente riparasi nel vento, siamo solo conchiglie sparse sulla sabbia. Niente potrà tornare a quando il mare era calmo, ti sei un pò spaventato proprio come pensavo.Vedrai non serve a niente rintanarti in te stesso>>
Mentre intonavo a malapena e con scarsi risultati questa canzone, percorrevamo i vicoletti stretti della città, trovandoci dinanzi al monumento dei rimpianti e di tutti i miei affanni. Ti pregavo come i santi protettori. Come quelle madonne violente.
<< Annullami le paure come io annullerò le tue, scoprimi con la sola delicatezza, di queste preghiere inventate male non ricorderemo nulla, siamo dei fiori unici nati nella roccia di montagna. Siamo sparsi sulla sabbia bianca e l’alta marea ci trascina risucchiandoci come fa per le conchiglie >>
CON TE HO PREFERITO NON RINTANARMI PIU’
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Questa unione era un tema su cui a Creta era proibito fare pettegolezzi, ma le voci mi raggiunsero ugualmente, strisciandomi attorno in rampicanti tralci di malizia e derisione. Era un grande regalo per i nobili risentiti, i mercanti ghignanti, i cupi schiavi, le ragazze divorate dal fascino del macabro, i giovani uomini ammaliati dall’audace bizzarria – i mormorii, i bisbigli, i sibili di disapprovazione e le risatine di scherno erano portati dal vento in ogni angolo del palazzo. [...] Pasifae era splendida e le sue origini divine rappresentavano un magnifico premio per le nozze di Minosse. Fu la sua stessa delicatezza, furono proprio l’eleganza e la dolcezza che l’avevano resa un vanto a far sembrare così dilettevole a Poseidone l’idea di svilirla. Laddove si abbia qualcosa di cui andare fieri, qualcosa che elevi al di sopra degli altri mortali, credo che gli dèi godano terribilmente nel farlo a pezzi.
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Il Papavero: Tra Campi Fioriti, Miti e Memorie
Immaginate un campo fiorito, un mare di rosso che ondeggia al vento. Tra la spiga dorata, spiccano i papaveri, come piccole fiamme accese. I loro petali delicati, morbidi come seta, catturano la luce del sole e la rimandano indietro in mille sfumature, dal rosso scarlatto al rosa tenue. Non è solo la loro bellezza ad affascinare, ma anche la storia e i significati che porta con sé questo fiore antico. Un Fiore dalle Mille Vite Fin dai tempi antichi, il papavero ha accompagnato l'uomo. Nelle leggende greche era associato a Persefone, dea della primavera, e al suo rapimento nell'oltretomba. I papaveri rossi, si diceva, sbocciassero ovunque lei posasse i piedi, come lacrime d'amore versate per il suo ritorno. Nel Medioevo, il papavero era considerato un fiore magico, usato per preparare pozioni e infusi dai poteri misteriosi. Si credeva che racchiudesse lo spirito dei morti e che potesse aprire le porte ad altri mondi. Un Simbolo di Pace e Memoria Oggi, il papavero ha assunto un significato ancora più profondo. E' diventato un simbolo universale di pace e memoria, soprattutto per commemorare i soldati caduti in guerra. Il rosso acceso dei suoi petali ricorda il sangue versato, mentre la sua delicatezza evoca la fragilità della vita. In molti paesi del mondo, il papavero rosso è indossato durante le cerimonie commemorative e venduto per raccogliere fondi per le associazioni che sostengono i veterani e le loro famiglie. Un Fiore per Tutti Ma il papavero non è solo un simbolo solenne. È anche un fiore semplice e spontaneo, che cresce nei campi e lungo le strade, regalando un tocco di colore al paesaggio. I bambini amano raccogliere i suoi petali per farne coroncine e ghirlande, mentre le api ronzano felici intorno al suo nettare profumato. Il papavero è un fiore che ci ricorda la bellezza effimera della natura, il ciclo della vita e della morte, ma anche la speranza e la rinascita. È un fiore che ci invita a fermarci un attimo, ad apprezzare la bellezza che ci circonda e a riflettere sul sacrificio di chi ha dato la vita per la pace. Un Fiore che Ispira Il papavero ha ispirato artisti, scrittori e musicisti di tutto il mondo. Lo troviamo nei dipinti di Van Gogh, nei poemi di Shakespeare e nelle canzoni di De Andrè. È un fiore che ha la capacità di evocare emozioni profonde e di toccare il cuore di chiunque lo osservi. La prossima volta che vedrete un papavero, fermatevi un attimo ad ammirarlo. Pensate alla sua storia, ai suoi significati e alla bellezza che porta nel mondo. Il papavero è un piccolo fiore, ma racchiude in sé una grande storia e un messaggio universale di pace e memoria. Andrea Read the full article
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Se pensi a me pensa alle cancellature, alle parole sbagliate, quelle dette in un momento no, un momento di cose che non vanno, anche se guardate a freddo e poi prendono una direzione. Pensa alla pelle, specie a quella morbida, quella che sotto sotto brama carezze, e mille altri errori, quelli che hanno imparato a saltare nelle pozzanghere ma, hanno ancora paura del fango, quelle che stanno imparando a convivere con lo sporco, specie se viene da dentro. Come una danza viva nell'universo. Una danza accompagnata da suoni o parole, che noi rendiamo sinfonie di dolci note grazie al nostro amore. Noi siamo quella maledetta voglia di vivere repressa in due occhi da bambola: grandi e lucidi, di un colore vivo che abbraccia come quando sorride ingenuamente, sinceramente, di puro cuore. Come se fossi stata una dea che ha osato amare, ma nessuno l'ha amata ma amato lei e allora lei osa amare sé stessa come se finalmente capisse che i temporali e la pioggia non sono niente se non lo sguardo buio di Dio che ti fa vedere la luce, davanti allo specchio fatti di mille sguardi, vestiti nuovi, ma soprattutto giusti e trucco. Ma non quello che ti rende falso o insicura, quello che ti rende vera, come se il mio cuore avesse un sorriso bellissimo che non tutti sanno cogliere. E allora io sradico girasoli come convinzioni e smetto di amare, chi non mi ama e parto da me, che nonostante la tristezza che ho dentro io vorrei essere io, il mio voglio in un mare di vorrei, e la vita, quella troia bastarda mi ha zittito. Mi ha messo una mano sulla bocca per accarezzarmi. Ho capito che c'è bellezza anche negli alberi spogli, quella che ho imparato a vedere anche io davanti allo specchio, accarezzerò i graffi e le ferite che da sé anche se ho una pelle screpolate. Io, solo e soltanto io, un'arrendevole ragazza che veste le sembianze del cielo e della terra. E che si racconta in una stella: quando esplode, quando brilla, quando cade e alza la testa per sé stessa perché merita la sua propria luce. Io, che sono maschio come il sasso e morbida come le premure che trovano la forza di capire quando andare avanti e di restare. Io, che voglio avere la forza di un fiore: sbocciare nonostante la delicatezza e poi cado, per mio desiderio, su spalle o su petti, cercando calore, che talvolta emano io e lo cerco, proprio come cerco la mia voce, quella pura e sincera, quella che talvolta trovi quando ti calpestano e decidi solamente di sentire il tuo canto nel vento, specie se urla ed è per desiderio quella brezza in un torrido caldo, specie nei giorni di estate. Vorrei essere come l'acqua del mare: fredda i primi tempi ma sorprendente con il suo chiarore nonostante la sporcizia. Perciò io racconto, e mi racconto in una carezza, specie se lasciate sulla guancia o sul cuore di chi amo, proprio come i baci sulla fronte. Perché ho un sacco d'amore e voglio la felicità anche se dentro ho la tristezza. Perché tutto questo è Valentina, perciò piacere. Questo è quello che scrivo, è quello che vivo.
-Valentina
5/04/24
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Mio papà dipinge parole (Caissa Italia Editore) di Sandra Siemens, con illustrazioni di Amanda Mijangos e traduzione di Yuri Garrett, è il racconto poetico delle giornate di un giovane mexica che studia per diventare un tlacuilo (scriba), proprio come suo padre che fa il lavoro il più bello del mondo perché dipinge parole. Un giorno anche lui disegnerà le parole dei saggi sulla preziosa carta atzeca chiamata “amatl”. Il libro parla di un luogo e di un tempo lontani, prima che gli spagnoli arrivassero nelle terre del Messico. E descrive con delicatezza il rapporto di profondo contatto fra un papà e suo figlio, sottolineando l’importanza di un mestiere tramandato di generazione in generazione e la necessità di conoscere per conservare memoria e identità. Il piccolo protagonista di questo colorato albo illustrato sa che le parole, tutte le parole, hanno valore, sono trasparenti come farfalle e bisogna stare molto attenti quando ci passano vicine. Per riuscire a prenderle e ad ascoltare quello che dicono basta schiudere le orecchie come si schiude il mattino. Solo così un tlacuilo potrà dipingerle nei libri sacri. Il bambino prende per mano il giovane amico lettore e lo conduce nella bottega paterna, mostrandogli con orgoglio le tradizioni e la storia del suo popolo, partendo proprio dalla scrittura, strumento prezioso del sapere. Spiega che i mexica hanno due gambe, due braccia, un naso e dieci dita delle mani e dei piedi proprio come le persone che vivono al di là della foresta. I loro giorni si chiamano Lucertola, Vento, Serpente, Cervo, Acqua, Cane e il papà dipinge usando due inchiostri importanti, il rosso e il nero, ricevuti in eredità. Un giorno saranno suoi. I libri si chiamano amoxtli e sono lunghe strisce di amatl o pelle di cervo, che vengono preparate con cura. Prima di iniziare a dipingere un buon tlacuilo deve saper scegliere la carta giusta, perché è lì che dormono le parole. Se la carta non è buona svaniranno; se è buona avranno un sonno dolce e lungo. Il libro è un viaggio melodioso che parte dal racconto della parola e arriva al cuore. Il lavoro dello scrittore è un mestiere gentile e generoso perché mette a disposizione degli altri il proprio sentire. I libri custodiscono tesori, storie e suoni che si risveglieranno e parleranno alle persone. E narreranno, attraverso parole belle, quello che sappiamo e come siamo stati, per sempre. Mio papà dipinge parole di Sandra Siemens, pubblicato da Caissa Italia Editore (Cesena) - illustrazioni: Amanda Mijangos; traduzione: Yuri Garrett; pp. 32; euro 16,50 -, è disponibile in libreria e online da settembre 2023.
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Siamo solo aliti di vento: l’eternità della poesia di Tagore. Recensione di Alessandria today
Un viaggio tra sogni, ricordi e l’essenza dell’umanità
Un viaggio tra sogni, ricordi e l’essenza dell’umanità La poesia “Siamo solo aliti di vento” di Rabindranath Tagore è un meraviglioso esempio della profondità e delicatezza che caratterizzano la sua opera. Questo componimento evoca un’immagine suggestiva dell’essenza umana, in un intreccio di ricordi, sogni e la fugacità del tempo. Attraverso versi fluidi e poetici, Tagore esplora la relazione…
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Vi vedo, qui, così estremamente belle. E io mi sento così incompatibile che mi sembra di impazzire. È come se la vostra luce splendente fosse il riflesso di un mondo a cui non appartengo, un mondo fatto di bellezza intangibile, di armonia perfetta, di lineamenti che si intrecciano con la delicatezza di una melodia suonata dal vento. E io, in questa notte senza stelle, mi trovo a vagare nel buio della mia stessa esistenza, dove ogni pensiero si perde, si confonde, come un eco che svanisce nell’abisso dell’inquietudine.
Mi sembra che ogni vostro sguardo, ogni vostro sorriso, sia un universo a sé stante, un universo in cui non trovo il mio posto. Mi sembra di essere una nota stonata in una sinfonia sublime, una sfumatura di grigio in un quadro dove voi siete colori vibranti, vivi, pulsanti. Eppure, non posso distogliere lo sguardo. Non posso fare a meno di essere attratto da questa bellezza che mi consuma, da questa bellezza che mi sembra così irraggiungibile, eppure così vicina.
È un tormento dolce, questo. Un tormento che mi strappa via ogni certezza, che mi lascia nudo davanti all’immensità del vostro essere. E mentre vi osservo, mentre il mio cuore si perde nei vostri occhi, mi chiedo se mai ci sarà un momento, un singolo istante, in cui le nostre anime potranno sfiorarsi, in cui le mie insicurezze si dissolveranno come nebbia al sole, lasciando spazio solo alla pura essenza di ciò che siamo.
Forse, è proprio in questa distanza che risiede la nostra bellezza. Forse, è questo il segreto di ciò che ci rende umani: il desiderio incolmabile, l’attesa, la speranza che non muore mai, anche quando sembra destinata a non essere mai soddisfatta. Forse, è questo il modo in cui l’universo ci insegna a sentirci vivi: facendoci assaporare la bellezza dell’impossibile, facendoci desiderare ciò che non possiamo avere.
E mentre vi guardo ancora, in silenzio, sento che c’è qualcosa di sacro in tutto questo. Qualcosa che va oltre le parole, oltre i pensieri, oltre la ragione. C’è una verità nascosta nelle pieghe del tempo, una verità che solo i cuori più audaci possono comprendere: che è nell’incontro delle nostre fragilità, delle nostre paure, che si nasconde la vera forza. Che è nel riconoscere la nostra stessa vulnerabilità di fronte alla bellezza del mondo che diventiamo davvero umani, davvero vivi.
E allora, anche se mi sento così piccolo, così lontano, continuerò a cercare quel legame invisibile che ci unisce, quella scintilla che, anche solo per un attimo, farà brillare la mia oscurità. Perché in fondo, in questo grande teatro della vita, non è forse la bellezza di quel che sfugge, di ciò che non possiamo possedere, a renderci eterni sognatori?
#citazioni#compagnia#distanza#frasi famose#frasi pensieri#mancanza#nuove amicizie#pagine di libri#sentimenti#tristezza
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In questi giorni dubito fino a consumarmi le sinapsi, sento di non avere diritto di godere della bellezza in mezzo a tutto il dolore del mondo. Ma è proprio in momenti così oscuri che affiora la luce ed io devo avere il coraggio di scegliere.
Così, scelgo di sentire nel profondo ogni ingiustizia, di non chiudere gli occhi, di non abbassare la testa, ma scelgo anche di riconoscere le briciole di bellezza che si nascondono in questa valle di orrori, con la speranza che questa decisione origini un'onda di amore sincero, talmente forte da espandersi nell'aria.
Perciò, quando una farfalla interrompe il suo gioco nella corrente per riposarsi qualche istante sulla mia mano, posso solo percepire gratitudine con ogni sfumatura del mio essere.
Grazie, mia dolce amica farfalla, per questo dono e per la leggerezza con cui mi insegni a danzare nel vento, per la tua delicatezza intrinseca, che posso solo cercare di imitare, per il tuo coraggio che custodisco nel cuore, come lezione da imparare ad ogni risveglio.
6 novembre
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Grazie a Dio! Mina sta dormendo e non ha sogni. Ho paura di ciò che potrebbe sognare, con ricordi tanto terribili a cui i suoi sogni potrebbero attingere! Per quanto ho potuto vedere, dal tramonto in poi è stata piuttosto agitata; poi, gradualmente, sul suo viso è apparsa una quiete simile alla primavera dopo le raffiche di vento di marzo. In quel momento ho pensato che fosse la delicatezza del tramonto sul suo viso, ma adesso penso che in qualche modo avesse un significato più profondo.
Dracula, Bram Stoker
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Pier Gonella, nel gotha della sei corde
Se scrivere un disco strumentale è difficile e rischioso, ancora di più lo è un lavoro basato sulla chitarra. Pier Gonella, poliedrico strumentista dalla lunga carriera, si è cimentato proprio su questo terreno minato. Inutile cercare nascondersi dietro un dito. Al di là delle ipocrisie, un progetto di questo genere rischia di incorrere in numerose critiche. Il ‘suona come’ è dietro l’angolo. E non ci si può fare nulla. Fortunatamente la creatività è un fattore soggettivo e per quanto si possa ‘suonare come’ il margine di personalizzazione resta in ogni caso alto. In questo anfratto si pone Gonella con il suo 667.
I richiami immediati vanno ai contemporanei eroi della sei corde, Satriani su tutti. Ma anche Lary Basilio, Vai, Guthrie Govan, Petrucci e via sciorinando. Un’ottima compagnia, tutto sommato. E il disco è esattamente ai livelli dei colleghi citati. Non ci sono barocche scariche di note inutili. No, il tutto è costruito con gusto e delicatezza. Anche le accelerazioni sono perfette. I brani le richiedono in quell’esatto punto. 667 è un disco sul quale non si può muovere nessun tipo di critica. I brani sono eterogenei, variegati come stile, sonorità, esecuzione. Il filo rosso che li unisce è la passione per lo strumento. Questa trasuda da ogni singola nota.
I suoni utilizzati non sono mai troppo ‘carichi’, troppo distorti. Anzi. È quel sound che riesce ad enfatizzare la chitarra senza farle perdere di potenza ed incisività. Rotondo quanto basta per essere carezzevole, ma altrettanto tagliente quando serve. Gli ‘espedienti’ per ottimizzare la volontà espressiva, Gonella li usa tutti. Espedienti non in senso negativo. Qui sono intesi come ricchezza di vocabolario. Che non vuol dire solo tecnica, per quanto questa non possa mancare. Suonare uno strumento è come parlare un’altra lingua. Per riuscire a dire ciò che si vuole esattamente come si vuole si devono conoscere a mena dito grammatica e lessico. Gonella è un madrelingua.
Detto ciò, ci si può concentrare sul disco nel suo insieme. Assaporare i brani singolarmente toccherà ad ogni ascoltatore che troverà suggestioni diverse. Il disco è un volo radente sulle dune di un deserto assolato. Spazi aperti, nessuna nuvola. Il vento che trasporta leggende e storie mitologiche. Sotto, il mare di sabbia che si sussegue senza interruzioni. L’ascoltatore, come uno novello sperman, ma senza la super velocità, sorvola tutto ciò. Braccia larghe. Occhi socchiusi. Sensi rilassati. Una carovana, un’oasi, un villaggio berbero. Un palazzo reale. Tutto scorre alla vista lasciando l’eco di un’esperienza.
Le note sono le voci di questa esperienza. I racconti, sono le azioni degli uomini, i libri scritti tra la sabbia. Sono la forza che riesce a spingere avanti l’ascoltatore senza nessuna fatica. Le tracce si susseguono ma il volo non accenna a terminare. Non ci sono cali, imperfezioni, tentennamenti. Ci sono invece folate improvvise, o vuoti d’aria. Questi ora innalzano, ora fanno sfiorare la rena. Nel frattempo il sole lentamente scende all’orizzonte. Il deserto cambia colore. Il cielo diventa blu, blu scuro striato di arancione. Compaiono le prime stelle. Le note si affastellano. I suoni cambiano. Il ritmo, muta.
Il viaggio prosegue. Non si sa dove porterà esattamente. Ma poco importa. Ciò che conta è continuare a volare. Proseguire l’esplorazione si un mondo in ogni caso nuovo. Sconosciuto, anche se lo abbiamo visto mille volte. Unforgettable segna il passaggio tra il sol leone e la sera. Un brano morbido, evocativo, carezzevole. Caldo. Dove non mancano alternarsi di momenti inattesi. La chiusura del disco è affidata a Planet for sale. Un perfetto epilogo della lunga traversata tra sabbia e vento. Una foto di un antico villaggio beduino dove le fiaccole illuminano il cammino, le case, la grande porta d’accesso.
Un vocio sussurrato quasi si perde nei vicoli. I ragazzini si inseguono. L’ascoltatore cerca un posto in cui poter riposare mentre assapora fino all’ultima nota questa atmosfera sospesa.
Tirando le somme. Un lavoro superlativo quello di Pier Gonella. Degno di essere annoverato tra i migliori esponenti della sei corde. Un disco consigliatissimo a tutti, indistintamente. Non per sminuirlo, anzi. Consigliato a tutti perché è così ricco di sfumature e suggestioni che ognuno troverà le proprie senza sforzo. Chi vorrà addentrarsi nei meandri tecnici, non avrà che l’imbarazzo delle scelta per saziare la propria fame di sapere. Se volessimo trovare un appunto, tuttavia, lo si potrebbe vedere nell’eccessivo uso del wha. Ma è gusto personale. Il suono fa parte dello stile del nostro.
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"[…] Molto presto Recanati, culturalmente grigia, comincia a stargli stretta e così egli sogna di poterla lasciare per conoscere luoghi più stimolanti e persone con le quali dividere i suoi interessi letterari. Il suo fisico irrimediabilmente rovinato dalle tante ore di studio “matto e disperatissimo” contrastava orrendamente con la delicatezza del suo cuore e la sua acuta sensibilità, colpite dagli insulti che il volgo recanatese gli rivolgeva chiamandolo “saccentuzzo, filosofo [in tono dispregiativo], eremita” o, peggio, “presuntuoso gobbaccio” quando, alla pubblicazione delle sue due prime Canzoni, non se ne compresero i versi. Le cose peggiorarono quando, a diciannove anni, iniziò ad uscire da solo. Con gli occhi già rovinati dall’affaticamento, un giorno d’inverno Giacomo, immerso nei suoi pensieri, si incamminava verso il “suo” monte Tabor. Un colpo di vento dispettoso gli fece, d’improvviso, volare via il cappello. Egli se ne accorse dopo un po’ e, rinunciando a rincorrerlo, avvolgendosi il mantello intorno alla testa per ripararsi dal freddo, se ne ritornò in paese. La gente, nel vederlo così imbacuccato, lo derise lanciandogli epiteti, mentre i monelli l’accompagnarono fino all’uscio del palazzo facendo un chiasso indecoroso. Egli fece finta di niente, ma una volta oltrepassato il portone, mormorò con la voce che tradiva l’emozione del suo cuore: “Zotici, vili, vili!”. Ed intanto pregustava, in cuor suo, il momento in cui se ne sarebbe andato lontano, via, via verso la libertà. Così quando usciva aveva preso l’abitudine di camminare rasente le case mentre i ragazzacci gli gridavano: “Il gobbo di Monte Morello!”. Anche se Giacomo per farli stare buoni distribuiva loro qualche moneta, loro continuavano ad ingiuriarlo: “Gobbus esto, / fammi un canestro, / fammelo cupo, / gobbo f…” "
Note: il fisico non è stato "rovinato" dallo studio, bensì da una malattia reumatica autoimmune su base genetica; non userei il termine "rovinato", perché risulta offensivo per tutti coloro che sono in condizioni simili (compresa me). Tralascerei anche l'avverbio "orrendamente" per indicare la modalità del contrasto del suddetto fisico con la "delicatezza del cuore": la scoliosi, provocata dalla malattia reumatica, certamente nulla toglie alla delicatezza, ovvero alla raffinata piacevolezza, dell'aspetto esteriore, ed è perciò un madornale errore associarla alla "bruttezza".
La leopardista, per riguardo verso il prediletto oggetto dei suoi studi, censura l'ultima parola della filastrocca.
Una signora recanatese, a questo post, si è indignata dicendo che i suoi compaesani non sono così come dipinti in questo scritto, e che, al contrario, sono sensibili alla malattia e alla disabilità e sono molto inclusivi. La leopardista la ha risposto che erano altri tempi e che, se le aggrada, può continuare a vivere nell'illusione.
Credo che anch'io, trovandomi a Recanati in quei tempi, avrei fatto parte della gente "zotica e vile" o, se fossi stata una bella e nobile donna romana, bolognese o fiorentina, non mi sarei prostrata innanzi a lui.
Adesso mi trovo in condizioni favorevoli per amarlo ad ammirarlo: sono mediamente alfabetizzata, non corro il rischio di essere fustigata dalla sua ironia e, ciò che più conta, sono in condizioni di salute (o dovrei dire di malattia) simili alle sue.
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Fino a quando non amerai
l'intuito selvaggio e umido
dei fiori e del muschio,
l'acqua sorgiva
del mio sangue
che muta
e muore
e torna ancora.
La delicatezza e la furbizia.
Fino a quando non sentirai
senza paura il mio piacere.
Fino a quando non riconoscerai
nutriente e puro
il mio Potere
di Terra e Luna
non potrai mai conoscermi davvero.
Sarò distorta e mutilata
senza vita senza gioia.
Senza uno scopo.
Nel mio essere raminga
ho riconosciuto le sacre erbe
della guarigione
e reso calda la zona in ombra
dove si dormiva da soli.
Se ancora hai timore
della mia voce
quando si alza e dei passi
che a volte mi allontanano da te,
se ancora non vuoi guardare
oltre l'acqua della lontananza
che ci fa compagni uguali e opposti,
inseparabili e lontani,
torno allora nella profondità del mio bosco.
E lì sono neve.
Sono Vento Saggio e Giustizia implacabile
Terra sollevata.
Fuoco Sacro che arde.
Io sono la Vita.
S.Cabella
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