#cosa chiedo alla letteratura
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schegge da un pomeriggio d'ordinaria follia
Romeo caracolla verso il banco, in tenuta da calcetto. Controllo il diario: compito di italiano: leggere pagina 6, trasformare il testo descrittivo soggettivo in oggettivo, per poi illustrarlo con un disegno. Guardo il testo: L’elefante. “L’elefante è uno degli esseri viventi più grandi al mondo. Possiede due zanne di 3 metri e una proboscide con cui attacca, se minacciato, e si procura cibo e acqua. Vive prevalentemente in Africa e Asia...” Il testo è già oggettivo. Cosa accidenti devo fare? Scrivo alla madre. Romeo mi guarda, sperso: “Intanto lascia una pagina e fai il disegno” dico “Sai disegnare un elefante?” “Sì, ma alle 4 e mezza me ne devo andare”.
Nel frattempo corro a segnare i compiti di Paolo, gentilmente offerti dal registro elettronico inviatogli da sua madre: compito di aritmetica: pag. 172, es. 160-163-165. Apriamo il libro a pag. 172: il nulla. Paolo gioisce entusiasta, “Forse è giusto così, non bisogna fare niente, mi sa”, cerco di tenermi calmo, la prof ha sbagliato chiaramente pagina. Scrivo alla madre. Indico il problema, chiedo ragguagli. Invito Paolo a svolgere la materia successiva. Jacopo mi chiama a gran voce: “Giuseppe, il bagno è allagato, qualcuno ha fatto pipì per terra!” Non ho tempo d'andare a controllare, perciò lo invito momentaneamente a scansarla. Si mette a ridere e continua: “Sai che somigli a Daniele? Siete fratelli!” Daniele per tutta risposta lo guarda e fa: “Magari Giuseppe fosse mio fratello!” poi fissa mio padre e aggiunge: “E Andrea è mio nonno”. Mio padre gongola felice e in un certo senso lo sono anch’io, se il mio lavoro ha il potere di compensarlo dei nipoti che non ha. “Qui siamo tutti fratelli” conclude Jacopo “e Giuseppe �� nostro padre”. Prossimo alla commozione, li invito piuttosto a sbrigarsi. Controllo il telefono, la mamma di Romeo ha risposto: “Dicono che il testo è soggettivo e devono trasformarlo in oggettivo”, “Ma non è vero!” m’incazzo, “Faglielo fare come credi. Non so che dirti”. Getto via il telefono. Sono seriamente tentato di bruciare il libro. Che faccio? Romeo sta disegnando ancora l’elefante. È un elefante bello grosso, quindi ho ancora un po’ di tempo. Ma devo pensare a una soluzione, e in fretta. Nel frattempo entra Melissa, secondo superiore: “Domani ho il compito di letteratura sui Promessi Sposi” vorrei uccidermi “E tu ti ricordi il giorno prima? Sono due settimane che ti ripeto di cominciare a prepararti per il compito. Sai che dobbiamo studiare oltre 30 pagine, vero? Come pretendi di poter fare tutto in un giorno?” Mi guarda sconsolata “Comincia a fare le mappe, mo vengo e vediamo insieme”. Una voce fuori campo grida: “Giuseppe alle 5 meno un quarto me ne devo andare!”. Fingo di non sentire e corro da Paolo. La madre ha finalmente risposto: “È giusto così”. Ma come può essere giusto così? La chiamo. Ribadisco il problema, non capisce, “Ok, non farglielo fare”. Paolo gioisce al settimo cielo. Su tutte le furie, lo minaccio di dargli dei compiti extra se non la smette. Volo da Romeo, ha finito l’elefante, devo farmi venire un accidenti d’idea. Trasformarlo da oggettivo in soggettivo è impossibile, dovrebbe aggiungere delle considerazioni personali, farlo proprio, non voglio spingerlo a sbagliare, data la consegna, in più non c’è più tempo, così gli dico: “Ok, lo vuole oggettivo? Lo facciamo oggettivissimo”. Ricopiamo il testo, estromettendo avverbi e aggettivi, rendendolo così ancor più neutro e scientifico. “Giuseppe tra mezz’ora me ne devo andare!” Mi precipito da Melissa. La professoressa ha stabilito uno schema base per indicare i punti che vorrebbe veder analizzati nel commento del primo e del secondo capitolo dei Promessi Sposi il giorno dopo: biografia dell’autore, cenni storici, analisi del periodo, influenze e ispirazioni, commento al primo capitolo, commento al secondo capitolo. Melissa mi mostra le mappe: “Vanno bene così?” ha appena iniziato la biografia di Manzoni, sarà un lunghissimo pomeriggio. Giankarol intanto langue addormentato, “Giankarol studia scienze” “No” risponde “Non ho il libro”, “Usa quello della compagna”, “NO, non mi va” e si rimette a dormire, “Giankarol, guarda che chiamo tua madre! Studia scienze e non farmi arrabbiare!” “No” sussurra riaddormentandosi, mentre m’allontano. “Giuseppe tra dieci minuti me ne devo andare!”
Squilla il telefono, è la mamma di Paolo. “Giuseppe, avevi ragione, la professoressa ha sbagliato, era pagina 138, grazie”, Paolo smette di ridere e comincia a piangere disperato, dimenandosi matto sulla sedia. Chiedo ad una delle mie dipendenti di metter fine alle sue pene, mentre Giankarol persiste a dormire. “Giankarol, fai scienze”, “No”. Loris mi saluta zaino in spalle: “Giuseppe, ho finito, me ne devo andare” “Ma non ti ho ancora corretto!” “Mio padre mi sta aspettando, è già fuori!”. Bestemmiando, lo costringo a togliersi lo zaino e a farmi vedere i compiti. Lo spedisco fuori a calci e corro da Melissa, in lacrime: “È troppo… ho mal di testa, non ce la faccio”, mi siedo accanto a lei e sottolineo le informazioni essenziali al posto suo, la sprono a continuare. Ha finito la biografia, siamo alle influenze. Il romanzo storico, Walter Scott. So già come andrà a finire, ma non voglio dirlo. Bisogna fare le maledettissime mappe, dopodiché studiarle ed elaborarle infine in un discorso organico (cosa che in secondo superiore non è ancora in grado di fare), creando una bozza di commento, una simulazione di prova. La vedo nera. “Giuseppe alle 5 e mezza me ne devo andare!” Giankarol intanto sogna. All’ennesimo rifiuto, chiamo la madre. Sta arrivando, dice. Il doposcuola si svuota, m'accorgo che Melissa è allo stremo, sono già le sei, non ce la farà. M’avvicino a lei, ha smesso già da un po' di lavorare e, preso esempio da Giankarol, s’è lasciata andare sul banco, atrocemente afflitta. “Chiama mamma” le dico “le devo parlare”. Intanto arriva la mamma di Giankarol. Lo grida un po’, lo redarguisce, fanno teatro, lei lo prega, lui le sibila parole d’odio alle spalle, soddisfatta se ne va. Mentre assisto al bieco spettacolo, la mamma di Melissa chiede spiegazioni al telefono: “Allora domani non la mando a scuola…” Non so che dirle. Per me è un enorme fallimento. Mi siedo accanto a Melissa e le faccio un veemente discorso sul reagire e tramutare la rabbia e le emozioni negative in determinazione e voglia di rivalsa. Se ne va, guardandomi sconsolata. Il compito dovrà comunque farlo, se non quel giorno, un altro ancora. L’appuntamento con Manzoni è solo rimandato, ma almeno avremo tempo per prepararlo con più calma. Giankarol dorme ancora. Mi siedo con lui e lo prego di studiare. Cerco di convincerlo in ogni modo, ma non m’ascolta. Odia la prof di scienze e tutto ciò che ad essa è collegato. “Io non voglio fare lo scienziato” dice “non me ne frega niente”. Non so che fare. Lo supplico, come se ne andasse della mia stessa vita e mi domando se forse non dovrei essere io stesso a instillargli quella voglia che gli manca, inventarmi qualcosa, la differenza fra un bravo maestro ed uno mediocre. Finisce con lui sonnecchiante ed io a ripetergli asmr le varie tipologie di tessuto: epiteliale, connettivo, muscolare e nervoso, sperando entrino in lui per via inconscia. Buonanotte Giankarol, e fai bei sogni.
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Io voglio dire solo una cosa:
il fumetto di W - della serie W - è uno dei fumetti peggio scritti che io abbia mai letto.
Mentre guardo la serie, certe volte, mi chiedo come sia possibile che quest'opera abbia così tanto seguito tra il finto pubblico della serie.
Prima di tutto il protagonista è stato creato da una tredicenne. Con tutte le caratteristiche che una adolescente troverebbe affascinanti che si riassumono quindi in un essere perfetto. Il protagonista di W infatti è un super uomo. Bello, ricco, intelligente, simpatico, gentile, amorevole, fedele. Non ha un caz...o di difetto manco se lo cerchi! Lo stereotipo perfetto!
E io qui mi domando: ma nella letteratura che crea protagonisti sfaccettati, umani, sbagliati, fallaci, complessi, pieni di dubbi ed errori, a tratti grigi...come può questo tizio senza macchia e senza paura piacermi? Ma soprattutto perché l'autore del fumetto non ha sfaccettato il protagonista ma a preso pari pari dall'idea della figlia adolescente?
In secondo luogo gli altri personaggi, oltre ad essere pochi per 33 volumi, sono piatti come tavole. Nessuno di loro ha una storia a sé stante ma vivono unicamente per il lead. Non sono interessanti e se al posto della guardia del corpo/migliore amico del protagonista ci mettevi un cartonato, non sarebbe cambiato nulla.
Bocciati tutti i personaggi del fumetto, veniamo alla trama.
La storia parla di questo adolescente figo come non mai che vince le Olimpiadi di tiro con la pistola risultando un vero e proprio fenomeno, l' orgoglio della nazione. Giustamente. L'impianto da tredicenne si sente potente. Tuttavia la gioia a vita breve quando poco dopo la vittoria, un tizio a volto coperto entra in casa del giovane atleta e ammazza TUTTA LA SUA FAMIGLIA. Fratellini compresi. Compiuta la mattanza, l'assassino butta la pistola in un vicolo. Pistola che si rivelerà essere quella dello stesso lead e che lo porterà ad essere accusato dello sterminio della sua famiglia. Mandato in carcere - senza prove sufficienti - viene scaglionato per mancanza di prove - ma dai!. Tuttavia la sua vita è ormai allo sbando: la sua famiglia è morta e viene visto come un reietto dalla comunità. Decide quindi di farla finita e ammazzarsi ... ma mentre sta per compiere l'insano gesto, ci ripensa e decide di dedicare la sua vita a cercare l'assassino della sua famiglia ed ottenere giustizia. Non si sa bene come, diventa ricco, compra un emittente televisiva che collabora con la polizia nel ricercare i criminali e si trasforma in un eroe cittadino. Un personaggio così in vista che viene invitato a cene di Stato, per dire.
Fine.
Dico fine perché a partire da questo momento la trama prende una piega più "umana", diciamo. XD
Ora, questa trama ha una caterva di problemi per me:
Prima di tutto la storia copre 33 volumi. Trentatré volumi sono - più o meno - la saga dell'Est Blue, Arabasta e la Saga dell'Isola del Cielo di One Piece. Se confronti questi numeri con altri fumetti ti rendi conto che ad esempio con One Piece, copre tre saghe e più.
Mi riesce quindi difficile capire come l'autore abbia spalmato questa storia, fondalmentalmente basic, in 33 volumi rendendola così avvincente da essere un successo strepitoso. Soprattutto se consideri che il villain, dopo la mattanza, sparisce nel nulla.
Il secondo problema inizia a venire fuori quando la storia continua e si ci avvicina al finale ed i nodi vengono tutti al pettine:
Nei 10 anni che passano nel fumetto da quando la famiglia del lead è morta, al suo divenire l'eroe della città, l'assassino non si è mai fatto vedere. Mai. Sparito dalla circolazione. Non ha lasciato un indizio, una pista, una mollica di pane...nulla.
Ed è parlando con l'autore del fumetto che viene fuori il vero motivo del perché quest'opera è terribile per me:
Il cattivo non lascia tracce semplicemente perché non esiste. Lo scrittore infatti ha ammazzato la famiglia del lead per dare un trauma al protagonista.
E basta.
E per farlo ha scritto il delitto perfetto. Un uomo senza volto che appare quando deve apparire e scompare senza lasciare traccia rendendolo impossibile da catturare.
E se posso essere d'accordo con il trauma mi chiedo se è una scelta giusta trasformare il trauma nell'evento, nel punto centrale della storia, impossibile da superare.
Prendiamo le Nozze Rosse di GOT. Quelle sono state un trauma che è servito a tutti i ragazzi Stark ma non è stato mai il punto focale tramite cui si risolve tutta la storia.
Ma se dai al cambiamento emotivo il valore di risoluzione finale rischi in credibilità. Ed infatti, quando nel 9° episodio l'autore spiega come intende finire il fumetto, tira fuori un finale che - cito testuale dall'autore del fumetto: è pieno di buchi - e non ha senso.
Il tizio che ammazza la famiglia del lead perché geloso del padre del protagonista ha un movente che cozza con il voler incastrare il lead a tutti i costi, usando la sua pistola appositamente. Da come è andata la vicenda si vede subito che il colpevole voleva che il protagonista fosse accusato. L' assassino che ha in casa tutte le prove del suo crimine - venisse mai la polizia a bussare non hanno manco bisogno di frugare tra la roba - dopo che ha compiuto il delitto perfetto, è una presa per il culo. Così come il politico cattivo che complotta per mettere nei casini il lead ma che viene convenientemente tradito dai suoi uomini ed incarcerato. Concludendo con la storia d'amore tra il lead e la segretaria che per 33 volumi non hanno mai dato segno di essere innamorati ma nel finale lui le fa intendere- cosi a caso - che gli piacerebbe tanto uscire con lei.
Ora, mi si potrebbe contestare che questo finale è stato scritto in fretta e furia dall'autore per via delle circostanza poco piacevoli che sta passando nella serie.
Ma dopo averci pensato bene, questo è l'unico finale possibile. Perché per come è stata scritta la morte della famiglia del lead -dando valore emotivo e non narrativo - non c'è modo che il protagonista risolva il crimine se non in questa maniera. D'altronde come catturi un tizio che è stato scritto per non esistere?!
E sapete qual è la cosa che lo rende ancora peggiore? Avere la certezza che lo scrittore non avesse idea di come finire il fumetto. Non ha mai avuto idea di come finirlo, scrivendo in base alla giornata o in base all'umore. Se è felice, il protagonista ha successo. Se è triste e depresso, il lead tenta il suicidio. Semplice.
Che ce frega della logica narrativa, della coerenza, del realismo e credibilità.
Tutto questo si evince ancora di più nella storia d'amore prevista per il fumetto: quella tra il lead e la sua segretaria.
MAI, per tutta la storia si è notato un qualche interesse da parte del lead per questa donna. Sono amici d'infanzia e lei è palesemente innamorata del protagonista. Amore chiaramente non ricambiato visto che non ci sono state parole, sguardi, momenti che facessero pensare a qualche interesse....
Però l'autore pensa di finire il fumetto con una scenetta di 5 secondi dove, una volta che il lead ha catturato il colpevole, s'incontra con la segretaria, si sorridono e si mettono insieme. Così. A membro de cane!
Mi rendo conto che sono cazzate... ma io ci penso di continuo ogni volta che vedo la puntata: come può piacere e avere tutto sto successo un fumetto così?!
Ma oh, il problema sono chiaramente io che mi faccio pippe mentali sulla cosa meno importante di tutta la serie. XD
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@ Memorie di una vagina
Quando avevo 20 anni Morgan mi piaceva un casino.
Non che lo abbia mai propriamente amato, il mio unico vero amore del panorama italiano è sempre stato quel signore di Manuel Agnelli. Però mi piacevano i pezzi dei Bluvertigo e pure i suoi. Mi piacevano gli arrangiamenti che faceva dei classici della musica italiana. Mi piacevano gli stralci delle prime edizioni di X Factor in cui era giudice. Mi piaceva il suo eloquio forbito da tizio che ha fatto il classico. Mi piacevano i suoi spiegoni.
Mi piacevano anche le interviste che faceva con Daria Bignardi, in cui parlava, e suonava, e si raccontava, mettendosi a nudo, non per puro esibizionismo, ma per scelta. Perché l’imperfezione può essere una scelta, perché l’auto-miglioramento può essere un comandamento da rifiutare in un mondo che ti dice che puoi fare tutto ed essere tutto anche se non è vero.
Perché si può essere outsider, si può fare fatica, si può anche fallire, concludere poco, non fare un disco da chissà quanto, non trovare una collocazione, né la giusta ispirazione. Si possono avere dipendenze da cui non si guarisce, e custodire ferite che non si rimarginano, che spesso ne chiamano altre, e altre ancora peggiori, e tutto questo esiste, magari non luccica, ma è parte della vita. O almeno, questo era ciò che io vedevo nella sua parabola.
Ero, in modo sciocco e certamente puerile, affezionata alla sua fragilità, ai suoi denti da tabagista, gialli come i miei; alle foto che lo ritraevano giovane, truccato, con le unghie pittate in un’epoca di machismo; mi piaceva che fosse ribelle, imprevedibile, sempre un po’ strafatto come i poeti maledetti francesi, rock in quel senso autodistruttivo in cui molti artisti si sono dissolti in passato.
Oggi, dopo anni di liti pubbliche, sproloqui smodati, comportamenti misogini, sbrocchi omofobi, bullismi sanremesi, cause giudiziarie, simpatie discutibili, amicizie improbabili, tentativi stentati di tornare in sé, ma chi è poi questo sé verrebbe da chiedere, ebbene oggi leggo i fatti riportati da Lucarelli. Leggo gli screenshot dei suoi messaggi. E mi arrendo.
Provo solidarietà, per Angelica Schiatti che ha subito questa persecuzione (immaginate, immaginate le conseguenze psicologiche di certi messaggi).
Provo rabbia, per un sistema che lascia passare 4 anni dalla prima denuncia e intanto nulla di fatto, a parte ripetuti tentativi di indurre la vittima a trovare un accordo col suo stalker! Però, mi raccomando, a novembre dipingiamoci un baffo rosso sulla guancia, mentre contiamo il numero delle vittime sull’abaco impossibile della violenza di genere.
Provo delusione, per l’artista che ho apprezzato, per l’ignoranza che ha dimostrato, per la stupidità.
Provo disprezzo, per le connivenze sistemiche e istituzionali di cui questa violenza campa e prospera. Provo disgusto, per un uomo adulto, un uomo colto, uno che ha vissuto, uno che ama l’arte, la musica, la letteratura, e poi è capace di una tale miseria. Nel 2024. A cosa serve la cultura, se non ci salva dalla brutalità?
Infine, mi chiedo quanto ci si possa odiare, per fare di sé questa maschera grottesca. Quanto male si può invecchiare? Quanto in basso si può cadere? Quanto privi di amor proprio bisogna essere, per diventare questo genere di persona? Quando esattamente si decide di abdicare alla bellezza, di rinunciare alla civiltà? C’è un momento preciso o è un lento processo degenerativo?
Che gran peccato, ridursi così, Marco Castoldi, in arte Morgan. Non so se era questo ciò che desideravi per te. Non so cosa tu abbia mai desiderato per te. Non lo so. Non ti conosco. Per fortuna, mi tocca dire. Oggi mettiamo un punto. Definitivo. Di non ritorno.
Che gran peccato. Che cazzo di schifo.
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The Lady Orlando
Orlando è così bello che a volte mi chiedo come sia possibile che esista una cosa del genere a questo mondo. Come è possibile che davvero una persona abbia dentro la testa e nel cuore così tanta bellezza, io non lo so. Mi fa essere felice perché riesco a vederla, la bellezza, è per me, e sono anche inspiegabilmente triste al pensiero che il resto del mondo non stia leggendo Orlando, in questo preciso istante. Per me Mrs Dalloway era stato memorabile. ricordo di averlo letto in metro, nei pomeriggi di ritorno dall'Università, e intanto ascoltavo Antony and the Johnsons. è stata l'unica volta che in vita mia sono riuscita a leggere qualcosa ascoltando della musica. E questo perché Virginia Woolf e quella musica si conoscono, parlano la stessa identica lingua. Quella musica è così trasparente, così profonda che mi fa pensare spesso alla morte. E così anche Virginia Woolf. Ci sono tantissimi pensieri dentro Mrs Dalloway che vanno lì senza cercare scuse, senza mezzi termini. È bellissimo. Bellissimo ma vertiginoso. E Orlando lo scrive subito dopo Mrs Dalloway: questo mi ha fatto pensare, quando l'ho scoperto, che tra i libri di uno stesso autore esiste una relazione di parentela che è inversa rispetto a quella che c'è tra i figli di una stessa madre: i primi nati non sono i più grandi; i figli maggiori sono gli ultimi partoriti dalla mente dello scrittore. per capirci, Orlando è il fratello più grande di Mrs Dalloway, e questa è una garanzia di buona condotta nel ragazzo, lui è presumibilmente maturo, assennato, serio almeno quanto la sorella, probabilmente lo è anche di più. E invece, quando lo conosci bene, vedi subito che Orlando è sbarazzino come un fratello minore. Con lui Virginia Woolf si è voluta concedere una "writer's holiday": e si sente tutto, perché lei se la concede gloriosamente. Questa è una vacanza in un hotel di cinque stelle, e l'hotel si chiama Knole. In vacanza, si sa, uno ci va spensierato e leggero, ma Virginia Woolf non lascia niente al caso, tutto è preparato e organizzato nel minimo dettaglio, prima ancora che per se stessa, per la sua compagna di viaggio, Vita. Perché in fondo questa non è solo una vacanza da scrittore, no: è una lettera d'amore. La più lunga lettera d'amore della letteratura. Ogni parola in questo libro è una parola d'amore. E di un amore invidiabile, almeno io lo invidio: perché è fatto proprio di letteratura, costruito con pezzi di quella, raccolti con cura da ogni epoca passata. E a leggere bene, è un amore fatto di poesia, ecco in realtà perché lo invidio. Poesia, proprio come nell'incipit di quella lettera bellissima in cui Virginia annuncia a Vita la sua intenzione di scrivere questo romanzo. Una poesia travestita da lettera, ché a guardar bene quelli a me sembrano proprio pentametri
Never do i leave you without thinking/
it's for the last time. and the Truth Is,/
we gain as much as we lose by this./
E Orlando è una poesia che trasuda arguzia da ogni poro, ed è travestita da narrativa che è travestita da biografia. Ogni idea dentro questo libro è una trappola, fin troppo intelligente, per far capitolare Vita: è un incallito tentativo di compiacerla, di sedurla con le parole, un corteggiamento letterario, un glorioso e velleitario occhiolino: vuole farla ridere, vuole farla innamorare. Difatti per tutto il tempo si ha la netta sensazione di essercisi seduti per sbaglio ad un tavolino che era prenotato per due. E quelle due del tavolino si guardano negli occhi e, appunto, ridono: tu se vuoi puoi pure sederti, tanto loro non ti sentono proprio.
Virginia Woolf inizia a scrivere la sua biografia proprio quando Vita Sackville-West sembra più incostante, le volta le spalle, passeggia con altre donne. Allora deve riprendersela, allora l'invenzione deve essere altissima, deve farla cadere ai suoi piedi, deve lasciarla senza parole con le uniche armi che ha, lei che non sa neanche riconoscere il davanti di un abito dal dietro: allora le regala il tempo, e le regala l'ironia. Le regala un corpo da uomo, e un paio di calze nere perché possa sfoggiarci dentro le sue gambe perfette, le più belle gambe su cui un nobiluomo si sia mai messo in piedi; le regala una vecchia regina Elisabetta, infatuata di lui; le regala una risalita del Tamigi di fronte alla nuovissima Londra di Wren; le regala le coffee houses appena fondate, e le regala i poeti. I poeti sono il suo più grande asso nella manica: sono le sue parole d'amore più irresistibili, e Virginia Woolf lo sa perfettamente. Perché è impossibile che Vita non si sciolga al pensiero di aver cenato con Pope, pranzato con Addison, e preso il tè con Swift. Meglio ancora: i poeti glieli porta dentro casa, e lì dentro Vita può finalmente ridere anche di loro, fino quasi a vergognarsene, può vederli in tutti i loro miseri difetti e in tutti i loro piccoli limiti. Può vederli umani insomma, può vederli davvero. E allo stesso tempo, mentre è così impegnata a disegnare Vita, a dirle quanto è bella, a dimostrarle quanto a fondo la conosce, quanto può riuscire a compiacerla, Virginia Woolf si sta spogliando davanti alla signora Orlando, si sta arrendendo a lei, senza pudore. Il suo amore per il 700 inglese è una confessione spudorata. È seducente persino sentirla descrivere il passaggio di secolo, l'umidità che si arrampica su per le pareti delle case insieme alle rampicanti di edera, le barbe che crescono, i tappeti che avanzano, che conquistano ancora una stanza: i matrimoni che si stringono al freddo del nuovo secolo e la conseguente, inevitabile nascita dell'impero britannico. È un libro intimo: è una conversazione a un tavolo per due.
Verso la fine di questa vacanza nel tempo, sento distintamente che Virginia Woolf comincia a prepararsi per il rientro a casa. Gli ultimi capitoli del libro sono più impegnativi, sembra quasi di sentirla ogni tanto tirare un colpetto di tosse, a far uscire la sua voce di sempre, quella della signora Dalloway, la sorella minore ma più assennata. Con quella stessa voce raccoglie finalmente tutti i fili seminati per la sua biografia fittizia e, senza curarsi di te che stai lì al tavolino, li mette in mano alla sua interlocutrice, la vera questione di questa lettera d'amore: cara Vita, ha forse senso questo mio rincorrere la tua bellezza nei secoli? esiste davvero la poesia? ha qualcosa a che vedere poi con la vita? e dimmi, Dryden può mai essere una parola d'amore? Avvicinati ancora una volta, ascolta: Dryden.
La questione era già perfettamente formulata nella meravigliosa lettera che annunciava il concepimento di Orlando: alla vigilia della scrittura, quando ancora il libro è quasi solo un'idea. Questo è un momento mitico, come quando per la prima volta si incontrano gli sguardi di due amanti della leggenda. Sto per scrivere Orlando perché non voglio più lasciarti: never do I leave you without thinking, It is for the last time. Prima ancora che Orlando abbia iniziato la sua gestazione, molto prima che abbia aperto gli occhi sul mondo, la domanda c'è già, rotonda, sbigottita: come faccio a restare con te? come faccio a tenerti per sempre? come faccio a evitare che questa sia la mia ultima lettera? come può la poesia vincere la vita, o meglio, vincere la morte?
La risposta io credo sia in quella cassaforte dove, allo scoppiare della guerra, Vita aveva nascosto i suoi smeraldi insieme al piu inestimabile dei tesori in suo possesso: il manoscritto di Orlando, che Virginia Woolf le aveva fatto recapitare a casa un giorno prima della pubblicazione del libro per il resto del mondo. Loro due sono ancora sedute a quel tavolo, e lo saranno nei secoli, a ripetersi tre semplici parole d'amore:
Addison, Dryden, Pope.
E a guardare bene, Vita Sackville-West ride e piange allo stesso tempo:
Never do i leave you without thinking, it's for the last time.
#virginia woolf#vita sackville west#orlando#literature#poetry#poesia#illustration#watercolor#watercolour art
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A volte parlo con me stessa, vi capita mai? Di avere troppi pensieri per la testa e di avere la necessità di pensarli a voce alta. Sono sicura di non essere l’unica, è una legge statistica. A volte mi consola pensare le cose in questi termini: “è una legge statistica”; come in questo caso, o come quando mi chiedo se io sia l’unica a immaginare intere conversazioni e rapporti nella mia testa (e a voce alta).
Oggi sono andata a correre sotto la pioggia, una sensazione magnifica. Mi sentivo così libera. Da qualche giorno ho dell’energia in eccesso di cui non riesco a liberarmi. Credo sia perché sabato scorso ho preso una sbornia colossale e potrei aver tentato di baciare uno dei miei coinquilini e lui potrebbe avermi rifiutata. (Uso il condizionale perché io non lo so e neanche lui lo sa, nessuno dei due ricorda che sia accaduto. Me lo ha detto un amico che era lì, a cui la mattina del giorno dopo ho chiesto se non avessi fatto qualcosa di stupido. Ho un buco nero di sei ore, incredibile.) Così sono andata a correre sotto la pioggia per sfogarmi; sono una dottoranda in letteratura comparata, stavo letteralmente fremendo sulla sedia del soggiorno davanti a un articolo di critica cognitiva su Shumona Sinha, era doveroso. E visto che ciò che potrebbe o non potrebbe essere successo è qualcosa di molto stupido, ho deciso di parlarne con me stessa o, quantomeno, con una versione di me stessa piuttosto adrenalinica. (In fondo in fondo, io temo che sia successo davvero. Capiamoci: non ricordo davvero nulla e P**** si comporta normalmente, ergo dovrei stare tranquilla, ma… quando ti svegli dopo una sbornia come quella e, in mezzo alla tabula rasa che è la tua mente in quel momento, ti preoccupi così istintivamente di aver fatto qualcosa del genere forse dovresti darti ascolto.) Il mio analista pensa che P**** rappresenti una sorta di valvola o di veicolo di transito verso chissà quale stadio di libertà (o di liberazione); questo perché, durante gli ultimi dodici mesi, è comparso in tutti o quasi i sogni sentimentali che ho fatto. Tendo a essere d’accordo con il mio analista, anche perché, di solito, lui è circa sei mesi di terapia in anticipo (nel senso che io ci metto sei mesi per capire quelle cose che lui, come se le tirasse fuori da un cilindro magico, mi pone sotto forma di domande o provocazioni). Ammetto che la situazione sia curiosa: è quasi un anno che mi sono resa conto dell’esistenza di queste sensazioni (chiamarli “sentimenti” sarebbe decisamente esagerato) e non ne sono ancora venuta a capo. La cosa più strana è che non ho alcun desiderio sessuale nei confronti di P****, non voglio andare a letto con lui e a malapena potrei dire di volerlo baciare; eppure, ogni volta che ride o che sorride (soprattutto se mi sta guardando) mi sembra di tornare ad avere quindici anni.
E oggi, mentre correvo, mi sono chiesta perché – tra tutte le persone al mondo – debba piacermi proprio lui: viviamo nella stessa casa, abbiamo una discreta barriera linguistica che ci tiene alla debita distanza (ed è probabilmente per questo che le “sensazioni” non sono “sentimenti”); non so neanche se abbiamo davvero qualcosa in comune oltre alla propensione per il sarcasmo e una generalizzata insoddisfazione. Non sono sorpresa perché l’avevo capito: sin dal primo giorno, da quel primo pomeriggio in cui J**** me l’ha presentato sapevo, mi correggo: sentivo che il ragazzo mi piaceva (o poteva piacermi) in modo particolare. Credo fosse – e sia – perché ci somigliamo, ed è moltissimo tempo che non incontro qualcuno che mi somigli. Il problema è che somigliarsi non è necessariamente una cosa positiva nei rapporti, soprattutto in un rapporto a due. In questo caso, per esempio, temo di vedere in lui alcune delle cose di me che mi rendono la vita difficile: una sorta di costante insoddisfazione, la volontà di fare e di vivere di più senza riuscirci e, al contempo, il desiderio di essere in pace con se stessi e col mondo senza doversi scomodare troppo. Non basta l’amore per il sarcasmo a controbilanciare questo mix letale. Mi ricorda Leonardo. Forse è per questo che mi sembra di avere quindici anni (anche se quando conobbi Leonardo ne avevo sedici). Possibile che l’enorme quantità di nostalgia che ha preso il sopravvento negli ultimi mesi sia la causa di questa cotta adolescenziale, che – a questo punto – assume piuttosto le sembianze di una bizzarra proiezione all’indietro. Allora perché il mio analista pensa che sia invece simbolo/metafora/allegoria di un processo in atto proiettato verso il futuro? La mia deformazione professionale mi obbliga a pensare all’angelus novus di Klee (come angelo della storia benjaminiamo in grado di guardare in entrambe le direzioni). Se volessimo azzardare un’autoanalisi potremmo ipotizzare che P**** sia un doppio – piuttosto sbiadito – di Leonardo e (in seguito a determinati sogni che non posso analizzare qui) contemporaneamente ne sia il superamento. Anche se mi resta davvero difficile capire come una persona così poco significativa nella mia vita possa rappresentare un nodo così cruciale; perché dovrei caricare P**** di un tale peso? Perché, di volta in volta, devo in/caricare un uomo per poter proseguire?
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Chiedo scritture che strappino lembi dell’invisibile, dell’inesistente, in qualunque modo, con rabbia o con distacco, con freddezza o con frugalità, con carnalità accesa o con astratto furore. Tutto, davvero tutto, purché si avveri il miracolo dell’indentramento e del trascendimento di questa complessità. Un empito che mi faccia trasalire e che non inventi mondi alternativi, bensì mondi profondi, capaci di farmi comprendere il mondo. Che l’universalità sia percepita nella cosa stessa del racconto, delle volute a cui uno stile necessario implichi la mia presenza. L’antico gioco delle forme e dei nomi divelto, nel momento in cui vi si aderisce con qualunque dispositivo, con lo strappo dell’anima, dell’animale. Vento sulle più alte cime. Fuoco dalle radici delle mangrovie più sorprendenti. Immobilità e gelo nella furia che rendiconta l’amore, la morte, l’esserci: il ghiaccio brucia. Questo chiedo alle scritture, pochissime mi danno questo che chiedo. Attendo ormai pochi libri, pochissimi nomi: padri, madri, fratelli e sorelle nell’inebetimento davanti all’eccelso, allo sprofondamento. So che questa non è una poetica: è un misurare gli esiti, è percezione mia di ciò che fu detto: letteratura. Non smetto di domandare, a prescindere dalle risposte. Datemi complessità, nutrite la mia fame, ammazzate i vitelli, ammazzate me.
Giuseppe Genna, Cosa chiedo alla letteratura
#giuseppe genna#cosa chiedo alla letteratura#realtà della parola#letteratura e realtà#letteratura#blog#giugenna#non smetto di domandare
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Stiamo diventando sempre più stupidi? A quanto pare sì: il governo, la televisione, i media, i giornali ci trattano come se avessimo cinque anni.
Ogni anno fioccano in questa stagione gli “articoli” su come affrontare il grande caldo: bere molta acqua, non sostare all’esterno nelle ore più calde della giornata, cercare un riparo all’ombra, mangiare cibi non troppo grassi. Ora mi chiedo: ma solo io trovo questi articoli altamente offensivi? Chi li scrive, crede forse che i suoi lettori abbiano cinque anni? Che siano ebeti?
Oggi c’è una considerazione bassissima da parte dei giornalisti, dei politici, dei cosiddetti influencer nei confronti dell’uomo medio. È forse una strategia ben congegnata, trattare la gente comune come se avesse cinque anni, come se fosse ebete per farla sentire ebete e dunque bisognosa di un padrone/tutore o semplicemente questo linguaggio paternalistico, stucchevole si adatta alle esigenze e alle aspettative di un pubblico ormai preda di un istupidimento collettivo?
La scienza ci dice che il quoziente collettivo della popolazione si è abbassato negli ultimi venti anni. Forse la colpa è dei media o della crisi che affronta la scuola, l’ultima ruota del carro in un paese che non investe e non crede più nell’istruzione, o forse semplicemente certi programmi televisivi hanno alla fine inebetito i loro telespettatori. E lo stesso accade nella letteratura. Ricordate quando alle elementari la maestra vi chiedeva di scrivere dei “pensierini”? Fanno tenerezza, nella loro disarmante semplicità, i primi temi scritti dai bambini, almeno quando sono i bambini a farlo.
Vi confesso di provare spesso un forte disagio leggendo molti libri che oggi vengono stampati. Quali sono queste grandi verità che i libri di oggi ci svelano? La vita è dolorosa e crudele, amare significa soffrire, l’uomo alle volte è cattivo, va bene, ma dimmi cosa ti ha spinto a questa riflessione, com’è nata, da cosa è scaturita, sviluppala, approfondiscila, rendila viva, non lasciarla buttata lì, in una riga di una superficialità avvilente come se fosse uno slogan politico. E anche la politica ormai è questo: pensierini, frasi ad effetto e slogan da far memorizzare ai propri elettori, creati ad hoc per manipolare e stupire, ma certamente non per far pensare.
G.Middei, anche se voi mi conoscete come Professor X
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Perchè vai ai Pride, papero? Curiosa di sapere il tuo punto di vista.
Ciao!
Scusa se ci ho messo un po' a risponderti, è una domanda tosta questa, che richiedeva una bella riflessione.
Penso che il miglior modo per farlo è darti due risposte, una di tipo politico, l'altra molto più personale. Ti chiedo un po' di pazienza, ne approfitto per raccontare un aspetto della mia vita che non ho mai raccontato.
Le prime manifestazioni della mia vita sono state quelle classiche delle superiori, ovvero quelle legate alla scuola. Sono onesto, non ci capivo mai un cazzo, vuoi perché a me interessava solo la matematica, vuoi perché non avevo, nel senso più crudo della frase, abbastanza conoscenza e maturità per capire se ci fossero o meno dei disagi veri dietro quelle proteste, e quale fosse il messaggio. In soldoni: era un modo per saltare le lezioni, soprattutto quelle di letteratura che mi stavano veramente sul cazzo.
All'Uni tutto cambiò. Dal punto di vista locale entrai in una sezione del PdS, e anche se al comando del partito c'era baffetto-li-mortacci-sua, questo mi diede l'opportunità di conoscere gli "anziani" del partito, quelli che si erano fatti il culo militando nel PCI, gente che la mattina lavorava alle catene di montaggio e la sera faceva lotta politica, e mi insegnarono a suon di ceffoni come girava il mondo. Ho sfilato tante volte con loro, a volte anche con mia madre, che ha visto anche lei da operaia i momenti poco felici e la perdita del lavoro, provando ad evitare qualche carica della polizia. All'Università conobbi quelli che ancora oggi sono miei amici, e con i quali si discuteva tantissimo di problemi sociali, economici e politici, e ancora oggi litighiamo come allora ogni santa volta. Insomma, vuoi perché per me era tutto nuovo, vuoi perché a 20 anni si pensava di poter cambiare il mondo se uno ci credeva davvero, ero sempre in piazza, nelle sezioni si discuteva, si litigava anche pesantemente a volte, e credo che uno dei mali di oggi sia il fatto che queste cose non si fanno più dal vivo, ma su queste merde di social, in piazza ormai non si scende quasi più, ma non voglio divagare troppo, altrimenti faccio la fine di quegli anziani nei parchi che bestemmiano mentre tirano la granella ai piccioni.
Avevo anche amici nelle fazioni opposte, uno di questi era di Forza Italia, un ragazzo col quale si usciva anche volentieri a bere una birra e dopo 5 minuti ci si mandava affanculo, ma ci si voleva bene nonostante tutto. Figlio di avvocato, auto di lusso, sciarpa di cachemire fissa, orologio al polso sempre diverso, ça va sans dire. Diceva tante puttanate, dal mio punto di vista ovviamente, ma un giorno mi disse una frase che non ho dimenticato più
"Anto', capisco fare il comunista a 20 anni, ma esserlo a 40 vuol dire che o sei pazzo o sei scemo" (andrebbe pronunciata in dialetto napoletano).
All’epoca non la capii, ma poi uno cresce, trova un lavoro, inizia a viaggiare, magari ha una famiglia e dei figli, insomma finisci tra le maglie della società “quella da PIL”, per intenderci, inizi a vedere gli ingranaggi veri e a capire che il mondo non è tutto o rosso o blu (nero MAI), che certi meccanismi non si possono più invertire ma con tanto olio di gomito magari curvare, insomma iniziai a capire il senso di quella frase. Con questo non sto dicendo che ho rinunciato ai miei principi, sto solo dicendo che, ad una riunione di condominio che decide che la facciata deve essere viola quando a te sta sul cazzo perché giallo è il colore giusto, a 20 anni ti sdrai davanti al furgone del pittore per non farlo lavorare, a 40 dici “ok, falla viola ma almeno dipingila come si deve!!”. Ovviamente questa è la descrizione di un concetto generale, ci sono aspetti della vita dove non si deroga mai, anche quando hai 80 anni, provo solo a far capire come un pensiero si trasformi nel tempo, pur restando fedele agli ideali.
Il Pride per me è invece un mondo completamente diverso, è un concetto senza età né parte politica, perché non stiamo parlando se i soldi di uno Stato è meglio spenderli per la scuola o per le armi, o se è meglio togliere una montagna per farci una autostrada oppure lasciarla lì e farci una oasi naturale per i panda marchigiani, stiamo parlando del diritto di ognuno di essere riconosciuto come persona, l’affermazione di un principio che dovrebbe essere scontato e invece non lo è (non lo è manco qua su Tumblr, pensa un po’, che in questo social l’accettazione del prossimo è una chimera!), che le scelte personali, di qualsiasi natura, non generano una classifica di persone da premiare e persone da condannare. A me dispiace quando i media (purtroppo la stragrande maggioranza) provano a liquidare il Pride come “la manifestazione delle persone LGBTQ...” perché a mio parere se ne snatura il messaggio, e paradossalmente si finisce con l’attribuire etichette proprio in un momento dove le etichette dovrebbero sparire dalla schiena delle persone! Ovviamente è un dato di fatto che chi compie alcune scelte, nella società di merda dove viviamo, viene emarginato, quindi capisco la semplificazione e l’attribuzione mediatica, però al tempo stesso mi piacerebbe che TUTTI, ma davvero tutti, da 2 mesi a 100 e passa anni, non importa la storia personale, le scelte, i percorsi, TUTTI, partecipassero, perché è responsabilità di ognuno pretendere che la società e le istituzioni riconoscano una volta per tutte il diritto fondamentale alla parità di ogni individuo. Per me il Pride non è soltanto l’affermazione di una libertà sessuale, bensì una libertà che riguarda ogni aspetto della vita.
Dal punto di vista personale, invece, ti dico che ci vado perché è la foto della vita che vorrei. Tu non immagini come possa farti felice stare lì in mezzo, e te ne rendi conto quando passi tra le persone ai lati dei marciapiedi, o affacciate alle finestre dei condomini: sono felici. Lo vedi dai loro visi che vedono colori, gente che danza, e forse per un momento si ricordano che il mondo non è così una merda come lo dipinge la TV ogni giorno, e sono convinto che ogni volta che fai “ciao” a qualcuno e ricevi una risposta, hai cambiato le cose. A parole è veramente complicato spiegare cosa si prova, quindi vi invito ad andarci, dovunque voi siate, se ne avete l’opportunità, perché che ci crediate o no, riguarda la libertà di ognuno.
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Sono una persona colta, leggo saggi, romanzi, giornali. Mi informo. Ho anche una laurea in letteratura. Eppure, ogni volta che si comincia a parlare di Nobel, sento i nomi e penso: e mo’ questo chi è? Guardo nel vuoto, mentre il mondo ne discute con euforia e competenza: devono darlo a Fisky Berulen! una grandissima Fisky Berulen! Vado a vedere e scopro che la pubblica Einaudi, oppure Adelphi. Cavolo, Fisky Berulen è un autore Adelphi e io non lo sapevo. Alle volte sono talmente confuso che non so nemmeno se Berulen è un maschio o una femmina. A questo punto la cosa esplode e compare gente, conoscenti, parenti, che affermano di aver letto tutta l’opera di Fisky Berulen. Doppie pagine di giornali su Fisky Berulen, laddove ieri c’era un servizio su come curarsi con il sughero. Alla Feltrinelli ti cominciano a fermare estranei e ti urlano Fisky Berulen con disprezzo. Ma come non conosci Berulen? Ma come non conosci Berulen? Vetrine su Berulen. Amici che affermano di conoscere tutto su Fisky Berulen e mi chiedo come mai non me l’abbiano nominata prima. Mai una parola. Voglio dire: ti conosco da trent’anni, perché non mi ha mai detto che ti piace Fisky Berulen? Abbiamo fatto vacanze insieme non vi ho mai visti con Fisky Berulen sotto l’ombrellone. Se vi piace una cosa ditemelo in anticipo, così mi preparo, invece di sentirmi sempre in colpa.
Il sempre sul pezzo Riccardo Falcinelli su Facebook
#cose mie#Falcinelli#di nuova me#di vecchie cose#facebook#letture#tutti conoscono il nobel ovviamente#nobel
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Chiedo a un autore italiano i suoi libri preferiti:
oggi tocca a Francesca Cani
Era da tempo che volevo sperimentare questa mia picola idea. Intendo dedicare una serie di post e video a delle interviste con gli autori, in cui chiederò loro di confessarci i loro libri preferiti da lettori. Cosa ne pensate?
Iniziamo con la scrittrice Francesca Cani, e questa è la sua top five, i suoi cinque libri preferiti di sempre:
1. IL CAVALIERE D’INVERNO di Paullina Simons
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Trama: Leningrado, 1941. In una tranquilla sera d’estate Tatiana e Dasha, sorelle ma soprattutto grandi amiche, si stanno confidando i segreti del cuore quando alla radio il generale Molotov annuncia che la Germania ha invaso la Russia: è la guerra. Uscita per fare scorta di cibo, Tatiana incontra Alexander, un giovane ufficiale dell’Armata Rossa che parla russo con un lieve accento, e tra loro scatta subito un’attrazione reciproca e irresistibile. Ma è un amore impossibile che potrebbe distruggerli entrambi. Mentre un implacabile inverno e l’assedio nazista stringono la città in una morsa, riducendola allo stremo, la dolce Tatiana dal cuore generoso e il valoroso soldato Alexander trarranno la forza per affrontare mille avversità e sacrifici proprio dal legame segreto, sempre più intenso e profondo, che li unisce… La storia di due indimenticabili protagonisti e di un sentimento puro e assoluto, sullo sfondo delle terribili sofferenze e dei quotidiani eroismi di un intero popolo travolto dal flusso della grande Storia.
2. ORGOGLIO E PREGIUDIZIO di Jane Austen
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Trama: I Bennet vivono con le cinque figlie a Longbourne, nello Hertfordshire. Charles Bingley, ricco scapolo, va ad abitare vicino a loro con le due sorelle e un amico, Fitzwilliam Darcy. Bingley e Jane, la maggiore delle Bennet, si innamorano; Darcy, attratto dalla seconda, Elisabeth, la offende con il suo comportamento altezzoso. L’amore trionferà comunque?
3. Piccole donne di Louisa May Alcott
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Trama: Le sorelle March sono quattro: c’è Meg, che non può fare a meno di sognarsi circondata dai lussi di cui la povertà la priva; c’è Josephine, detta Jo, una passione smisurata per le storie e un’insofferenza soffocante per i limiti che le impone l’esser nata donna; Beth, quieta e silenziosa, più appagata dal fare da spettatrice alla vita delle sorelle che dall’essere protagonista della propria; e infine Amy, vanitosa ed egoista, troppo concentrata a rimirarsi in ogni superficie riflettente per curarsi di ciò che accade a chi le sta intorno. Meg, Jo, Beth ed Amy sono quattro “piccole donne” dai caratteri diversi eppure complementari, unite da quel legame unico e speciale che si alimenta di risate sotto le coperte e risvegli condivisi, di litigi furiosi e scuse accigliate, di abiti prestati e prime volte vissute nei racconti l’una dell’altra: la sorellanza. Ed è proprio la potenza di questo legame che rende grande una storia piccola come le sue protagoniste, una storia in cui il percorso di una diventa quello di tutte.
4. Dracula, di Bram Stoker
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Trama: In Transilvania per concludere la vendita di una casa londinese al Conte Dracula, discendente di un'antichissima casata locale, il giovane agente immobiliare Jonathan Harker scopre che il suo cliente è una creatura di mistero e orrore... Dracula, archetipo delle infinite storie di vampiri narrate dalla letteratura e dal cinema, mette in scena l'eterna lotta tra il Bene e il Male, ma anche tra la ragione e l'istinto, tra le pulsioni più inconfessabili e il perbenismo non solo vittoriano.
5. La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo
di Audrey Niffenegger
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Trama: Clare incontra Henry per la prima volta quando ha sei anni e lui le appare come un adulto trentaseienne nel prato di casa. Lo incontra di nuovo quando lei ha vent'anni e lui ventotto. Sembra impossibile, ma è proprio così. Perché Henry DeTamble è il primo uomo affetto da cronoalterazione, uno strano disturbo per cui, a trentasei anni, comincia a viaggiare nel tempo. A volte sparisce per ritrovarsi catapultato nel suo passato o nel suo futuro. È così che incontra quella bambina destinata a diventare sua moglie quando di fatto l'ha già sposata, o sua figlia prima ancora che sia nata...
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L’ULTIMO LIBRO PUBBLICATO DA FRANCESCA :
Isabella d’Este Il regno del diamante, di Francesca Cani
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Trama: 1473. Per generare un diamante occorre sangue puro, per questo motivo il duca Ercole d’Este, detto Tramontana, sposa la principessa Eleonora d’Aragona. Una delle figlie di questa unione andrà a casa Gonzaga per riparare il difetto genetico che fa nascere i marchesi di Mantova con la gobba. Isabella è perfetta, intelligente, scaltra e di bell’aspetto, cresce in un mondo di eruditi sapendo di andare in moglie a un uomo che le è socialmente inferiore, nonostante ciò gli dovrà obbedienza e contribuirà ad aumentarne la fama. Ma le lotte per il potere e l’ambiente di corte forgiano lo spirito della giovane donna fino a renderlo eccezionale, lei è la vera stratega e abile mente politica di Mantova. Francesco Gonzaga è un soldato, erede di una città che è una pietra grezza, troppo rozzo per comprendere fino in fondo il potenziale di una moglie colta. Il loro matrimonio ha basi di cristallo, conosce alti e bassi e la terribile rivale Lucrezia Borgia, ma la dinastia è fondata e l’obiettivo di Isabella è renderla immortale. Guerre, nemici di ogni sorta, invidie, adulazioni e macchinazioni sullo scenario delle più prestigiose corti italiane. L’ambizione, la grandezza, il sogno, il ritratto di una donna che rompe gli schemi. “Né con speranza, né con timore” dirà Isabella, la dama più imitata del Rinascimento, la prima donna d’Italia.
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Ora vorrei tornare a quel 2016 in cui ascoltavo lo stato sociale e le luci della centrale elettrica, uscivo ogni sabato con il mio migliore amico e ci ubriacavamo spesso, non avevo idea di come si dovesse vivere ma quelle sere erano l'unico spiraglio, l'unico momento che aspettavo con speranza perché dal lunedì al sabato mattina vivevo nell'ansia paralizzante dei corridoi scolastici, che sembra un cliché ma per me voleva dire avere attacchi di panico frequenti e vomitare perché credevo davvero che il mio valore dipendesse da numeri e paragoni. Però amavo studiare la letteratura greca e quella latina, tornare a casa e guardare grey's anatomy, dormire al pomeriggio e studiare di notte, dare un senso alla serate del weekend applicando il concetto di simposio e il nunc est bibendum, che se ci ripenso ora mi sento banale ma anche felice. E poi c'è questa cosa di ricordare con gioia periodi che so, oggettivamente, essere stati duri da affrontare, e mi chiedo se questo strano meccanismo sia lo stesso che mettono in atto i nostalgici della guerra dopo che l'hanno vissuta e ne sono stati travolti, mi chiedo se quei momenti lì siano gli unici in cui riusciamo davvero a trovarci in contatto con parti lontane di noi, gli unici che possano, nel bene o nel male, segnare la memoria, dare una coerenza narrativa alle vite individuali che altrimenti sarebbero solo un susseguirsi di persone conosciute, cose da fare, traguardi da raggiungere, tempi da perdere e spazi da occupare. E poi so che ogni autunno della mia vita si porta addosso una dose di difficoltà e di incertezza, di paura dell'abbandono, di noia, di paranoia, ma che ogni volta che ci ripenso mi ricordo la molteplicità e la profondità delle cose usuali che vedevo per la prima volta in modo tridimensionale. E non che questo abbia davvero un'utilità pratica, serve solo a farmi sentire nostalgica e a ricordarmi che crogiolarsi nella malinconia è una condizione che in fondo cerco spesso, perché ne ho bisogno. Nell'autunno del 2016 la depressione era ancora una realtà invadente, ma stava andando meglio, forse proprio perché era autunno e io vedevo tutto da un punto di vista più ampio, senza giudicare troppo la sofferenza, come una spettatrice che ha voglia di lasciarsi trasportare da ciò che accade. E credevo anche di aver trovato l'amore e di poterci finalmente ricamare attorno la letteratura che volevo. Ancora adesso mi sembra di usare l'amore come pretesto per essere poetica e romantica nel suo senso più tragico. E infatti mi piacevano i tramonti, la pioggia e i finali tristi dei film. Non è cambiato molto, la mia tristezza si è solo fatta più pragmatica e inquadrata.
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LE POESIE DELLO SCRITTORE FRANCESE
Paul Verlaine, le poesie più belle del poeta maledetto
Paul Verlaine è stato uno dei massimi esponenti della poesia francese del Novecento assieme a Charles Baudelaire e Arthur Rimbaud

MILANO – Paul Verlaine (1844-1896) è riconosciuto come il maestro dei giovani poeti del suo tempo, nonché come uno dei massimi rappresentanti della poesia simbolista francese. La sua breve vita fu estremamente travagliata e drammatica, dalla relazione omosessuale con Arthur Rimbaud (che gli valse la nomea di poeta maledetto), all’incarcerazione, fino alla conversione al cattolicesimo e alla morte di tifo a soli 52 anni. Oggi ricorre l’anniversario della morte del poeta e lo ricordiamo con le sue poesie più belle.
La poesia e la musica
La poesia di Verlaine ebbe un effetto dirompente nel panorama poetico francese del tempo. Sulla scia di Baudelaire, Verlaine sente l’esigenza di rompere gli schemi delle metriche tradizionali, con i loro ritmi regolari e simmetrici, e si dedica alla creazione di versi liberi, irregolari, estremamente musicali. Secondo Verlaine la Parola è un simbolo, incapace di descrivere esaustivamente la realtà, ma capace di evocare immagini potenti dietro a cui risiede il senso profondo delle cose. La sua poetica pone al centro l’esigenza della musicalità, assimilando i componimenti poetici ai testi musicali attraverso il rifiuto dell’eloquenza, della rima e delle strutture metriche tradizionali. La poesia, dunque, necessariamente deve essere vaga, e non limitarsi alla semplice descrizione di eventi ed emozioni, ma trasmettere immagini, alludere, evocare sensazioni, proprio perché il senso profondo delle cose risiede al di là della Parola.
Arte poetica
La musica prima di ogni altra cosa,
E perciò preferisci il verso impari
Più vago e più solubile nell’aria,
Senza nulla in esso che pesi o posi…
È anche necessario che tu non scelga
le tue parole senza qualche errore:
nulla è più caro della canzone grigia
in cui l’Incerto al Preciso si unisce.
Sono dei begli occhi dietro i veli,
è la forte luce tremolante del mezzogiorno,
è, in mezzo al cielo tiepido d’autunno,
l’azzurro brulichio di chiare stelle!
Perché noi vogliamo la Sfumatura ancora,
non il Colore ma soltanto sfumatura!
Oh! la sfumatura solamente accoppia
il sogno al sogno e il flauto al corno.
Fuggi lontano dall’Arguzia assassina,
dallo Spirito crudele e dal Riso impuro,
che fanno piangere gli occhi dell’Azzurro,
e tutto quest’aglio di bassa cucina.
Prendi l’eloquenza e torcile il collo!
E farai bene, in vena d’energia,
a moderare un poco la Rima.
Fin dove andrà, se non la sorvegli?
Oh, chi dirà i torti della Rima?
Quale fanciullo sordo o negro folle
ci ha forgiato questo gioiello da un soldo
che suona vuoto e falso sotto la lima?
Musica e sempre musica ancora!
Sia il tuo verso la cosa che dilegua
che si sente che fugge da un’anima che va
verso altri cieli ad altri amori.
Che il tuo verso sia la buona avventura
Sparsa al vento increspato del mattino
Che porta odori di menta e di timo…
E tutto il resto è letteratura.
Spleen
Le rose erano tutte rosse
e l’edera tutta nera.
Cara, ti muovi appena
e rinascono le mie angosce.
Il cielo era troppo azzurro
troppo tenero, e il mare
troppo verde, e l’aria
troppo dolce. Io sempre temo
– e me lo debbo aspettare!
Qualche vostra fuga atroce.
Dell’agrifoglio sono stanco
dalle foglie laccate,
del lustro bosso e dei campi
sterminati, e poi
di ogni cosa, ahimé!
Fuorché di voi.
.
Viviamo in tempi infami
Viviamo in tempi infami
dove il matrimonio delle anime
deve suggellare l’unione dei cuori;
in quest’ora di orribili tempeste
non è troppo aver coraggio in due
per vivere sotto tali vincitori.
Di fronte a quanto si osa
dovremo innalzarci,
sopra ogni cosa, coppia rapita
nell’estasi austera del giusto,
e proclamare con un gesto augusto
il nostro amore fiero, come una sfida.
Ma che bisogno c’è di dirtelo.
Tu la bontà, tu il sorriso,
non sei tu anche il consiglio,
il buon consiglio leale e fiero,
bambina ridente dal pensiero grave
a cui tutto il mio cuore dice: Grazie!
.
Vola, canzone, rapida
Vola, canzone, rapida
davanti a Lei e dille
che, nel mio cuor fedele,
gioioso ha fatto luce
un raggio, dissipando,
santo lume, le tenebre
dell’amore: paura,
diffidenza e incertezza.
Ed ecco il grande giorno!
Rimasta a lungo muta
e pavida – la senti?
– l’allegria ha cantato
come una viva allodola
nel cielo rischiarato.
Vola, canzone ingenua,
e sia la benvenuta
senza rimpianti
vani colei che infine torna.
.
.
Il clown
Saltimbanco, addio! Buona sera, Pagliaccio! Indietro, Babbeo:
Fate posto, buffoni antiquati, dalla burla impeccabile,
Fate largo! Solenne, altero e discreto,
ecco venire il migliore di tutti, l’agile clown.
Più snello d’Arlecchino e più impavido di Achille
è lui di certo, nella sua bianca armatura di raso:
etereo e chiaro come uno specchio senza argento.
I suoi occhi non vivono nella sua maschera d’argilla.
Brillano azzurri fra il belletto e gli unguenti
mentre, eleganti il busto e il capo si bilanciano
sull’arco paradossale delle gambe.
Poi sorride. Intorno il volgo stupido e sporco
la canaglia puzzolente e santa dei Giambi
applaude al sinistro istrione che l’odia.
.
.
Noi saremo
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell’amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l’anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
.
..
Le conchiglie
Ogni incrostata conchiglia che sta
In quella grotta in cui ci siamo amati
Ha la sua propria particolarità.
Una dell’anima nostra ha la porpora
Che ha succhiato nel sangue ai nostri cuori
Quando io brucio e tu a quel fuoco ardi;
Un’altra imita te nei tuoi languori
E nei pallori tuoi di quando, stanca,
Ce l’hai con me perché ho gli occhi beffardi.
Questa fa specchio a come in te s’avvolge
La grazia del tuo orecchio, un’altra invece
Alla tenera e corta nuca rosa;
Ma una sola, fra tutte, mi sconvolge.
.
.
Poiché l’alba si accende
Poiché l’alba si accende, ed ecco l’aurora,
poiché, dopo avermi a lungo fuggito, la speranza consente
a ritornare a me che la chiamo e l’imploro,
poiché questa felicità consente ad esser mia,
facciamola finita coi pensieri funesti,
basta con i cattivi sogni, ah! Soprattutto
basta con l’ironia e le labbra strette
e parole in cui uno spirito senz’anima trionfava.
E basta con quei pugni serrati e la collera
per i malvagi e gli sciocchi che s’incontrano;
basta con l’abominevole rancore! Basta
con l’oblìo ricercato in esecrate bevande!
Perché io voglio, ora che un Essere di luce
nella mia notte fonda ha portato il chiarore
di un amore immortale che è anche il primo
per la grazia, il sorriso e la bontà,
io voglio, da voi guidato, begli occhi dalle dolci fiamme,
da voi condotto, o mano nella quale tremerà la mia,
camminare diritto, sia per sentieri di muschio
sia che ciottoli e pietre ingombrino il cammino;
sì, voglio incedere dritto e calmo nella Vita
verso la meta a cui mi spingerà il destino,
senza violenza, né rimorsi, né invidia:
sarà questo il felice dovere in gaie lotte.
E poiché, per cullare le lentezze della via,
canterò arie ingenue, io mi dico
che lei certo mi ascolterà senza fastidio;
e non chiedo, davvero, altro Paradiso.
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“Sono attratto dal caos”. Dialogo con Rudy Wurlitzer. Benedetto da Thomas Pynchon, ha scritto per Sam Peckinpah e Bernardo Bertolucci
Quando chiedo di intervistarlo, mi dicono che è on the road. Sulla strada. Fuori dal mondo. Dal tempo. Poi. Riemerge. Avete presente Johnny Depp che in Dead Man si fa chiamare William Blake e naviga su una canoa, al margine del regno dei morti, stordito, in un Far West di desolante nitore? Beh, alle spalle del più bel film di Jim Jarmush c’è lui.
C’è lui, in effetti, anche nella pellicola epica di Sam Peckinpah, Pat Garrett & Billy the Kid; ed è sempre lui che scrive Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci e aggiusta il testo di Dune, griffa David Lynch. Solo che a Rudolph ‘Rudy’ Wurlitzer, classe 1937, tra gli scrittori più originali degli States, nato alla letteratura con Nog, nel 1968, battezzato da uno come Thomas Pynchon («Speriamo che il Romanzo delle Cretinate sia morto, speriamo che una nuova luce sia sorta, perché Wurlitzer è uno bravo, bravo davvero»), le etichette non piacciono. Fugge a tutti. Resiste tra gli inafferrabili. Così, svezzato alla sapienza narrativa a Maiorca, da un maestro come Robert Graves, scrive libretti per Philip Glass e quando, dopo troppi anni – l’ultimo romanzo, Slow Fade, è del 1984 –, nel 2008, per la casa editrice indipendente Two Dollar Radio, se ne esce con The Drop Edge of Yonder, è una ovazione generale, ne scrivono come del «più allucinato dei western, che mescola furiosamente il Sutra del Cuore a Meridiano di sangue». Dieci anni dopo, come Zebulon, il nome del protagonista, un Don Chisciotte screziato dai morti in un West dilaniato dagli enigmi, il romanzo di Wurlitzer arriva in Italia (Fandango/Playground, 2018). Un libro di corrotta bellezza, di «coscienza dissolta in ombre sognanti e apparizioni su cui non aveva alcun controllo». Dell’esito delle sue creazioni, gusci di notte istoriati con parole di salvezza e anatemi, d’altronde, Rudolph non si cura, è uno che corre. D’altronde, «il destino… è una specie di schiavitù», dice uno dei suoi controeroi, a precipizio nel grido.
Zebulon è un western mistico, che fonde l’etica buddhista all’epica violenta di Peckinpah… è così?
«Mi sono sempre occupato di Far West e mi ha sempre appassionato il tema di quel che resta della nostra natura selvaggia, provando a separare l’essenza del sé dalle abitudini culturali. Dal momento che sono nato e cresciuto a New York, in un ambiente musicale (mio padre era un esperto di vecchi strumenti a corda con tastiera), in qualche modo i miei viaggi solitari verso l’Ovest degli Stati Uniti hanno rappresentato la mia iniziazione all’esperienza dell’esplorazione, che è a sua volta una specie di musica interiore. Quando mi hanno presentato a Sam Peckinpah, vivevo nel New Mexico e mi stavo appassionando alla storia del vecchio West. Leggevo molti libri sulla vita nel vecchio West e anche le lettere vergate a mano dagli esploratori, e quelle letture hanno influenzato alcuni dei miei personaggi cinematografici così come la loro lingua ossessiva e informale. Mi affascina da sempre, inoltre, la letteratura taoista e buddista e le sue relazioni con la forma e con il vuoto. A Bertolucci hanno fatto il mio nome, presentandomi come uno degli sceneggiatori in grado di scrivere Piccolo Buddha perché legato in più modi al tema e perché avevo vissuto in India e in Nepal».
Come le è venuto in mente il personaggio di Zebulon Shook e questo romanzo lisergico, che sta tra Cormac McCarthy e Philip K. Dick? Insomma, cosa le piace leggere?
«Ho letto pochissimo di Cormac McCarthy e di Philip K. Dick. Ho letto soprattutto romanzi dell’Ottocento alternandoli a Samuel Beckett e James Joyce. Sono stato influenzato anche da Gabriel García Márquez, Genet, Nabokov, Rimbaud, Hermann Hesse e i russi: Tolstoj e Dostoevskij, ma anche Camus, Kafka e Nietzsche. E naturalmente anche da Hemingway – il suo stile intenso e criptico ha influenzato le mie sceneggiature – e poi ci sono le avventure di Proust e Melville, che non ho mai smesso di leggere».
So che è stato per un periodo il segretario di Robert Graves: come è accaduto? Graves ha influito sulla sua scrittura?
«Non ho mai lavorato direttamente per Robert Graves: eravamo vicini di casa a Maiorca, dove andavo quando avevo vent’anni. Mi ha influenzato nelle letture, incoraggiandomi a scrivere frasi brevi e chiare, un consiglio che mi è stato utile quando è arrivato il momento di scrivere sceneggiature. Mi sono dedicato al cinema per potermi permettere di continuare a scrivere romanzi sperimentali, eccentrici, lontanissimi dal mainstream, che all’epoca scrivevo e che ancora scrivo nella solitudine di Cape Breton, in Nuova Scozia dove ho un capanno che si affaccia sulla solitudine dello Stretto di Northumberland».
Che rapporti ha con la letteratura statunitense contemporanea? La legge, le interessa, intrattiene dei rapporti di amicizia con gli scrittori di oggi?
«Ho parlato spesso di narrativa americana contemporanea con due vecchi amici, che però sono morti: Mike Herr, l’autore di Dispacci, e Sam Shepard con cui ho condiviso alcune esperienze cinematografiche e anche la frequentazione degli ambienti newyorkesi quando era ancora possibile conversare con artisti del calibro di Claes Oldenburg, Philip Glass e Robert Frank, un vecchio amico che cercava anche lui di forzare le convenzioni artistiche e con cui ho lavorato a molti film, compreso Candy Mountain, che abbiamo codiretto, insieme ad altri corti cinematografici improvvisati».
In un momento del romanzo, Delilah dice, «Siamo tenuti insieme da un destino sul quale non abbiamo alcun potere». Lei la pensa così? Che senso ha, per lei, la vita? Cos’è il destino? È più forte la furia del caos o esiste un ordine nel mondo?
«Sono attratto dalla letteratura e dall’arte che affrontano l’impermanenza, il caos, così come la forma legata al vuoto e viceversa, in particolare in questi tempi frenetici in cui il mondo sembra avviato verso un’apocalisse globale. Anche da bambino, quando vivevo in un ambiente sicuro, sorretto da una famiglia generosa, ero interessato a sabotare le forme accademiche, contemplando e accogliendo l’impermanenza e le illusioni della permanenza. Pronti o meno, tutto scorre. Anche la vita».
Davide Brullo
*In origine, l’intervista è uscita in forma leggermente diversa su “il Giornale” del 26 novembre 2018
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È già da un po' che penso alla tesi perché sono una testa di cazzo vorrei farla su un argomento che mi appassiona, a differenza della tesi triennale (che feci su un'autrice del periodo classico), che sì mi piaceva per carità però insomma.
Il problema è che, si sa, oltre all'argomento bisogna considerare anche il relatore, perché altrimenti potrebbe essere anche più dura del previsto.
Finora ho avuto qualche idea:
1. Scrivere la tesi sul nascente movimento femminista giapponese (o su qualcosa inerente alla sottomissione/emancipazione femminile): però a chi la chiedo? L'unica che ha parlato di questo argomento è stata la prof di letteratura giapponese classica (che è bravissima e sarebbe perfetta come relatrice) però non c'entra niente e non penso mi farebbe parlare di cose del contemporaneo;
2. La faccio sulle religioni in Giappone solo perché pure questa prof è bravissima e lo dicono tutti che è perfetta, ti segue ecc (già dalle lezioni si capisce che è una santa scesa in Terra). Non saprei su che un argomento in particolare farla ma comunque è stato un esame interessante, quindi why not.
3. Vivo il mio sogno: TESI MAGISTRALE SU MISHIMA YUKIO (non ho idea su quale aspetto e su cosa la comunità accademica stia attualmente discutendo). MA, c'è un MA grande quanto una casa: la prof di letteratura moderna non si è comportata per niente bene in questo periodo nell'organizziazione delle lezioni durante sto corona (della serie che ha fatto MESI di ritardo nel caricare video e materiali) e se è così lenta, disorganizzata nelle lezioni, penso sia anche peggio con i tesisti... Insomma, mi fido poco e ho leggermente paura.
Che caxxo farò? 🙃
#vabbè direi che è il caso di vedere prima come va questa sessione#perchè sennò alla tesi ci pensiamo tra 2 anni tipo#poi se vado in Giappone proprio ciao#tesi#tesi magistrale#università#tesisti e relatori#idee#i'm already in the shit#k bll
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Adore you (capitolo 1)
Il suono insistente e fastidioso della sveglia si fa strada tra i cuscini, fino a raggiungere il suo obbiettivo. Schiudo gli occhi e mi metto a sedere sul letto. Odio la scuola, no l'ho mai sopportata. Un pò a causa della mia negazione per lo studio, un po' per il cibo, un po' per i professori e un po' per le sedie ultra scomode su cui sono costretto a stare per cinque ore. Ma soprattutto odio la scuola per quello stronzo di Louis Tomlinson e dei suoi amici. Da quando ho messo piede in quella scuola, tre anni fa, non hanno fatto altro che causarmi problemi. Fortunatamente questo è l'ultimo anno che dovrò sopportarlo, poi se ne andrà al college e non lo rivedrò mai più. Sospiro, mi alzo dal letto ed apro le finestre. La luce del sole invade la stanza, illuminandola e riscaldandola. Vado in bagno e prima di entrare nella doccia mi guardo allo specchio: ho le occhiaie e i miei capelli sono fuori controllo. Alcune ciocche ricce mi cadono sulla fronte, ma non ci faccio caso, e dopo essermele scostate dalla fronte entro in doccia. L'acqua calda mi rilassa immediatamente e mi fornisce calma e tranquillità, elementi importanti per superare una giornata dentro quella scuola. Gli unici amici che sono riuscito a farmi in tre anni sono Liam e Niall. Loro sono fantastici. Sono i classici ragazzi che tutti vorrebbero come amici e che le madri vorrebbero per le proprie figlie. Sono educati, gentili, simpatici e sempre molto protettivi. A volte mi chiedo come farei senza di loro. Con questi pensieri esco dalla doccia e mi avvolgo un asciugamano intorno alla vita. Prendo il telefono e chiamo mamma, che al secondo squillo risponde con voce felice e squillante.
<Tesoro finalmente mi hai chiamata! Ero così in pensiero....non ti sei fatto sentire per tre giorni>
<Hai ragione, scusami. Sono stato impegnato e non ho trovato il momento di chiamare. Come sta Gemma?> chiedo cambiando argomento.
<Sta benissimo! Lei e Jake stanno organizzando tutti i preparativi per il matrimonio e sono così felici> sento che si sta per commuovere, quindi la saluto e dopo avermi detto tre volte di fila che gli manco si decide ad attaccare.
Ultimamente non l'ho chiamata molto e mi sento veramente in colpa. Ricordo che qualche settimana fa, quando ho annunciato che sarei andato a vivere da solo per seguire meglio le lezioni e non arrivare sempre tardi, mamma é scoppiata a piangere e non la smetteva più. Per mia fortuna Gemma é riuscita a calmarla e a farle capire che era la cosa migliore se non voleva che perdessi l'anno. Dopo aver indossato un paio di boxer neri, tiro fuori dall'armadio una t-shirt grigia e dei jeans neri attillati. Prima di uscire tento di sistemare invano i capelli. "Dovrei tagliarli" penso tra me e me, mentre chiudo a chiave la porta di casa. Essendo Settembre ancora fa molto caldo e molte ragazze sullo scuolabus indossano pantaloncini e mini gonne. Noto che una ragazza mi fissa e quando mi giro per guardarla distoglie lo sguardo imbarazzata. Quando arriviamo davanti scuola, o meglio inferno, mi catapulto da Liam e Niall, che sono appoggiati al muretto davanti all'entrata.
<Ciao ragazzi che fate?> chiedo avvicinandomi.
<Niall mi stava raccontando della ragazza con cui é uscito ieri>
<Non dovevi uscirci domani?> chiedo confuso.
<Si. Ieri lei é riuscita a staccare prima dal lavoro e siamo andati a cena insieme. É stato bello! É una ragazza molto intelligente e molto simpatica. Sono sicuro che se la conosceste ci diventereste amici>
Annuisco per circa venti minuti mentre Niall continua a raccontarci del suo, testuali parole "incredibile, magico, speciale e perfetto" appuntamento. Quando finisce di raccontare ha un sorriso idiota sulle labbra e Liam scoppia a ridere. Non avevo mai visto Niall così preso da una ragazza e sono felice che lei lo renda così spensierato. Il suono della campanella ci distrae, ma prima di riuscire ad entrare una voce profonda e fin troppo familiare ci blocca. Ci voltiamo e subito i mio occhi entrano i contato con quelli blu di Louis. La sua bocca si apre in un sorriso perfido e pian piano avanza verso di me. Sento una leggera stretta alla stomaco e non capisco per quale motivo. Forse ho solo paura che possa picchiarmi o deridermi davanti a tutta la scuola. Abbasso lo sguardo e inizio a percepire le mani sudate.
<Come va frocietto? Hai succhiato molto durante l'estate?> dice ridendo.
I suoi amici ridono sonoramente in coro con lui, fatte eccezione per il ragazzo dai capelli neri, gli occhi dorati e la pelle ambrata. Lui resta in silenzio e guarda, apparentemente privo di emozioni, Louis. Non so perché pensi che io sia gay, insomma mi piacciono le ragazze. Credo. No, anzi ne sono sicuro. In passato ho avuto alcune ragazze e anche se con nessuna di loro é successo qualcosa di eclatante qualche bacio ce lo siamo scambiato. Inizio ad avvertire il peso degli occhi di Louis ne miei e distolgo lo sguardo mordendomi il labbro inferiore. Se possibile il suo sorriso perfido si allarga ancora di più. Si ferma a pochi centimetri da me e ridendo dice <oggi sei fortunato. Non ho voglia di farti niente, solo...evita di guardarmi in modo innamorato per i corridoi, oppure penseranno che anche io sia un finocchio> e se ne va con i suoi amici. Resto immobile qualche secondo, a fare dei respiri profondi e a calmarmi un pò. La strana sensazione alla bocca dello stomaco se n'é andata, così come il groppo in gola. Odio l'effetto che mi fa tutte le volte. Quando mi guarda con quegli occhi blu cielo non riesco più a parlare.È come se le parole mi morissero in gola.
<Harry dobbiamo entrare. Alla professoressa di matematica non piace attendere> dice Niall interrompendo i miei pensieri.
Annuisco e li seguo dentro l'edificio che odio di più al mondo. Raggiungiamo l'aula di matematica e la professoressa ci guarda storto mentre prendiamo posto. Liam e Niall si sono seduti insieme davanti a me. Io invece mi siedo accanto una ragazza con i capelli neri e gi occhi marroni. Noto che é arrossita e subito la riconosco: é la ragazza che mi fissava sullo scuolabus. Sembra molto tesa e spero che non sia a causa mia. Non mi piace fare questo effetto alle persone, specialmente se non le conosco. Le rivolgo un sorriso cordiale e lei arrossisce ancora di più. La professoressa si schiarisce la voce e tutti le prestiamo attenzione.
<Prima di cominciare con la lezione, vorrei informavi che al nostro corso si é aggiunta una ragazza, che sono sicura si voglia presentare>
La ragazza accanto a me si agita sulla sedia. Guarda in tutte le direzioni e fa un respiro profondo prima di alzarsi e presentarsi <sono Kendall Jenner e mi sono trasferita qui qualche giorno fa. Non c'é molto da sapere su di me> esita un momento e poi con garbo si risiede. Sembra una ragazza molto timida ed educata, niente a che vedere con le ragazze che ci sono qui a scuola.
<Bene Kendall, sono sicura che ti farei molti amici, partendo dal signor Styles. Ora é meglio se non mi perdo in chicchere e inizio la lezione> dice in un sospiro.
La lezione sembra non finire più e quando finalmente suono la campanella l'aula si vuota in pochi secondi. Kendall raccimola tutte le sue cose e fa per uscire, ma la chiamo per fermarla. É una ragazza molta timida, e non conosce nessuno. Con Eleanor e le sue amiche non durerà a lungo. Mi rivolge un sorriso timido e quando i nostri occhi si incontrano abbassa lo sguardo. Sorrido e le faccio cenno di seguirmi.
<Come mai ti sei trasferita a Londra?> chiedo spezzando il silenzio.
<Mio padre ha accettato il trasferimento che gli hanno offerto a lavoro, e siamo passati da New York a Londra con due settimane di preavviso>
<Ti piace qui?>
Scuote la testa, ma quando si ricorda di aver detto a un londinese che Londra non le piace si scusa e arrossisce. È molto carina nei modi di fare e la trovo una cosa molto intrigante. Le ragazze con cui sono uscito in passato erano molto sfacciate e questa cosa mi metteva molto in soggezione. Mentre penso a quanto sia gentile mi ricordo di non essermi ancora presentato.
<Comunque io sono Harry. Harry Styles>
Allungo la mano con un sorriso e lei la stringe ricambiandolo. L'accompagno all'armadietto, poco distante dal mio, e aspetto mentre prende i libri per la lezione successiva. Man mano che ci parlo noto che si rilassa, fin quando non é completamente tranquilla. Scopro che frequentiamo gli stessi corsi perciò andiamo insieme verso l'aula di letteratura e ci sediamo vicini. Le ore corrono ed io e Kendall parliamo ogni volta che ne abbiamo l'occasione. A pranzo si é seduta con me e i ragazzi e subito ci ha fatto amicizia. Fortunatamente Louis non mi ha calcolato, tralasciando qualche occhiataccia, e Eleanor non sembra essere infastidita dalla presenza di Kendall. Al termine delle lezioni suo padre la viene a prendere, e quando rimango solo con gli altri loro mi scompigliano i capelli e mi danno delle pacche sulle spalle.
<É carina Harry. Hai fatto bene a mettere gli occhi su di lei> constata Liam con un sorriso.
Niall non si esprime più di tanto, si limita a dire che é molto gentile e simpatica, e subito dopo chiama la sua ragazza. Credo che si stia innamorando e sono molto contento per lui. Faccio per parlare a Liam, ma quando vedo che fissa una ragazza in lontananza chiudo la bocca. La ragazza in questione é molto carina: ha dei capelli molto lunghi color nocciola, gli occhi azzurri ed é leggermente più bassa di lui. La ragazza vien verso di noi e si ferma davanti a Liam, ignorando totalmente me e Niall.
<Ciao. Andiamo?>
Liam annuisce e prima di andarsene ci guarda. Io e Niall restiamo scioccati a fissare la scena. Non ne avevo idea che Liam stesse uscendo con una ragazza. Stamattina e pochi minuti fa, quando abbiamo parlato di ragazze non ci ha detto niente.
<Ne sapevi qualcosa?> chiedo confuso.
<Assolutamente no. Comunque ora devo andare. Ci vediamo domani>
Ci salutiamo e poi sparisce in mezzo alla folla. Mi avvicino alla fermata dello scuolabus e quando vedo Louis seduto ad aspettarlo sono quasi tentato di camminare quattro isolati a piedi. Faccio un respiro profondo, cercando tutto il coraggio possibile. Torna sempre con i suoi amici o con la sua macchina, perché oggi deve prendere lo scuolabus? Quando mi vede sento subito il peso del suo sguardo su di me, e non posso fare a meno di guardarlo. Sento che il cuore batte all'impazzata e il respiro si fa irregolare. Odio l'effetto che mi fa. Si sposta una ciocca di capelli castani dalla fronte e poi si alza. Spero che chiami un taxi o che qualcuno lo sia venuto a prendere, invece viene verso di me. Inizio a torturarmi le unghie e mordo il labbro inferiore.
<Styles sei diventato etero? Stamattina ti ho visto con la ragazza nuova. Non pensavo fosse il tuo tipo. Pensavo che il tuo tipo fosse un ragazzo>
Senza rifletterci rispondo, con il tono di voce più sicuro di quanto non lo sia in realtà <pensavi male. Forse sei così fissato con il fatto che io si gay perché in verità è a te che piacciono i ragazzi>
Non faccio in tempo a finire di parlare. In pochi secondi mi ritrovo con un labbro spaccato e il sangue che esce dal naso. Intorno a noi si é riunito un gruppo di persone che guardano impauriti Louis. A lui non sembra importare molto, dato che continua a fissarmi in cagnesco. <Oggi avevo deciso di lasciarti in pace, ma a quanto pare te le cerchi. Forse ti piace essere picchiato> dice con disprezzo. Se ne va senza aggiungere altro. Immediatamente il gruppo che prima si era creato intorno a noi si dissolve e sale sullo scuolabus. Faccio cenno all'autista di aspettare a partire e fortunatamente lo fa, beccandosi qualche imprecazione dai ragazzi seduti nei sedili posteriori.
Quando arrivo a casa metto il ghiaccio sul naso e accendo la tv. Faccio zapping, ma nessun programma mi interessa particolarmente. Prendo il telefono e cerco Kendall su Instagram, che rintraccio al primo tentativo. Le scrivo un messaggio, e la sua risposta non tarda ad arrivare. Continuiamo a scriverci per il resto del pomeriggio e ci organizziamo per uscire l'indomani. Guardo l'orologio appeso alla parete e spalanco gli occhi per la sorpresa: è ora di cena. Mi alzo e vado in cucina, apro il frigo e impreco ad alta voce. Il frigorifero è vuoto ed io sto morendo di fame. A pranzo ho mangiato il riso e non ho toccato cibo per tutto il pomeriggio. Decido di ordinare una pizza e per ingannare l'attesa riordino il salone. Quando finalmente arriva la pizza sono veramente affamato, perciò la finisco molto in fretta. La sera corre velocemente e verso le undici vado a dormire. Mentre tento di addormentarmi la mia testa viene invasa da due occhi blu. Per quale motivo sto pensando a quello stronzo di Tomlinson? Non fa altro che deridermi e prendermi a pugni, eppure non riesco a fare a meno di pensarlo. Sono tre anni che mi tortura però é come se lo facesse per un secondo fine e non perché gli sto antipatico. Vorrei entrare nella sua testa e scoprire cosa pensa. La cosa più frustante di questa situazione é che non so per quale motivo mi interessi tanto sapere cosa gli passi per la testa. "Forse perché ti piace" aggiunge la vocina nella mia testa. Scaccio quel pensiero, chiedendomi se non sia veramente così. In pochi minuti cado tra le braccia di Morfeo.
Sento la sua mano toccarmi i fianchi, poi la pancia e poi spostarsi in mezzo alle mie gambe. Tento di respingerlo ma é inutile. É più grande e più forte di me. Mentre mi sfila con violenza la tuta mi bacia. Con tutte le mie forze provo a impedirgli l'accesso alla mia bocca, ma quando mi da un pizzico sul fianco faccio un verso di dolore, e schiudo le labbra tanto basta per lasciarlo impadronirsi della mia bocca. Sfila i miei boxer e tenendomi fermi i polsi inizia a baciarmi il collo, scendendo sempre di più. <No, lasciami! Per favore aiuto!>
Apro gli occhi di scatto e qualche istante dopo capisco che era solo un'incubo. Sono completamente sudato e alcuni ricci ribelli sono appiccicati alla fronte. Tiro un sospiro di sollievo e affondo la testa nel cuscino. Era qualche giorno che non avevo più incubi e pensavo che stessero passando, ma a quanto pare non é così. Mi alzo e vado a farmi una doccia che dura più del necessario. Indosso una tuta ed esco di casa. Lo scuolabus passa tra più di mezz'ora, quindi decido di prendere l'autobus. Odio dormire male e se c'é una cosa che odio ancora di più sono i miei stupidi incubi. Arrivo a scuola circa un'ora prima e mi dirigo in caffetteria. Prendo un caffè doppio e lo bevo per i corridoi isolati e silenziosi. Camminando verso l'armadietto non incontro nessuno, e quando il telefono mi vibra in tasca lo tiro fuori. Sul display appare il nome di Liam, ma prima che possa rispondere vado addosso ad una persona, e tutto il caffè si deposita sulla mia maglietta. Impreco sottovoce e quando alzo gli occhi mi manca il respiro. Davanti a me c'é Louis, con un sorriso divertito e gli occhi che vegano su tutto il mio corpo. Sento le guance andarmi a fuoco e il respiro diventare più irregolare. Faccio per alzarmi e lui mi coglie totalmente alla sprovvista: mi afferra la mano e con forza mi tira in piedi. Per un momento rischio di inciampargli addosso però riesco a mantenere l'equilibrio e prendo le distanze. Louis continua ad avvicinarsi ed io continuo ad indietreggiare, finché non finisco con le spalle appoggiate agli armadietti. Lui si fa sempre più vicino, fino ad arrivare a pochi centimetri dal mio viso. Sento le guance andarmi in fiamme, le gambe molli e una stretta allo stomaco. Il cuore batte all'impazzata, talmente forte che sono sicuro se ne sia accorto. Sulla sue labbra rosse e sottili spunta un sorriso, privo di divertimento o cattiveria. Solamente un sorriso.
<Ricciolino...cosa ci fai a scuola così presto?> chiede in un sussurro.
<N-non l-lo so. M-mi sono svegliato p-presto e ho preso l'autobus> mento. Ho la voce incrinata e credo sia molto stridula. Ho fatto una fatica immensa per rispondergli. É come se mi si fosse chiusa la gola.
<Mmm, capisco> alza la mano e con delicatezza insolita sposta un riccio che mi ricade sulla fronte. Da un momento all'altro potrebbe venire qualcuno, vederci così vicini e pensare male. Vorrei spostarlo, anzi no, non vorrei farlo, però vorrei quantomeno riprendere a respirare. I suoi occhi non mollano nemmeno un'istante i miei ed io mi mordo il labbro.
<Mi dispiace per la tua maglietta. Se vuoi te ne presto una io> dice allontanandosi da me.
Annuisco e lui si distacca immediatamente. Finalmente sento l'aria tornare a scorrere nei polmoni. Non posso credere che Louis Tomlinson si stia comportando amichevolmente con me. Lo seguo restando in silenzio. In bagno lui mi porge una maglietta, che prendo e sostituisco con quella sporca. Per tutto il tempo, mentre indossavo la maglietta, ho percepito il suo sguardo attento su di me. É stato sia imbarazzante che eccitante. Non so perché mi piaccia tanto avere i suoi occhi su di me, e non mi interessa scoprirlo. Forse é vero, un pò mi piace. Ma qual é il problema? Molte persone sono attratte da persone dello stesso e del sesso opposto. Forse mi piace sia Louis che Kendall, e mi va bene così.
<Ehy ricciolino mi hai sentito?> chiede, interrompendo i miei pensieri.
Scuoto la testa e lui sbuffa. <La maglietta puoi anche tenerla, non devi ridarmela>
Annuisco e sorrido. Lui ricambia il sorriso e senza aggiungere altro esce dal bagno e mi lascia da solo, con mille pensieri e domande che mi frullano per la testa.
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Ecco, il treno è scomodo, la vicinanza degli altri mi deprime. Vedo pochissime persone di norma, la persona che vedo più spesso è la donna delle pulizie. E ho ragione, perché la loro esistenza peggiora attivamente la mia, seppure è possibile. Ma quest’anno ho dovuto prendere il treno da una parte all’altra del paese, solo perché non avevo più la volontà necessaria a inventare scuse. Non provo assolutamente niente per i miei genitori. C’è stata una radicale, inespressa trasformazione nella mia idea di loro, e coincide col momento, forse dieci anni fa, in cui li ho assolti dalla gravissima ingiustizia di avermi generato: perché, in fondo, non ero io, avrebbero generato uno qualunque. Non ce l’avevano davvero con me, non c’è nessuna ragione perché qualcuno debba essere me. E’ stato il male di tutti gli uomini, una forma di peccato originale. Da allora li considero con la più cordiale indifferenza.
S. ha questa venerazione per il padre, questo legame morboso con la madre, che anche adesso trovo assurdi. Il punto è che qualsiasi sentimento abbia mai provato emerge dal fondo dell’odio. Se amo qualcuna è perché l’ho scelta come gesto di disprezzo nei confronti del resto, se qualcuna mi ama è sacrosanto averla negata agli altri. La presenza della gente mi ricorda come funziono, perché lo so benissimo, senza analisi. Alla stazione di Roma vedo la pubblicità degli hamburger scontati, un negozio di mutande, il tema natalizio nella vetrina della libreria, due fidanzati fastidiosamente brutti - lui le orecchie a sventola, lei una sorta di naso e i denti storti - vedo la pioggia fuori, dove inizia la strada, e mi ripeto che non c’è niente al mondo che non meriti di sprofondare per sempre nel diluvio, e che la permanenza del mondo dimostra ugualmente l’inesistenza di Dio e la malvagità di Dio.
E poi adesso, nel posto accanto al mio c’è una bella ragazza, prima trafficando nella cappelliera le si alzava la maglietta e le vedevo la schiena nuda, e provavo la consueta tristezza asciutta. Ho lasciato il kindle aperto sul tavolino per vedere se avrebbe guardato. Non ha guardato. Io non resisto alla tentazione di guardare cosa leggono gli altri, ma quasi mai è interessante, seppure leggono qualcosa. Io ho guardato, invece, mentre si scambiava messaggi con qualcuno registrato come amo, e gli diceva di aver comprato la carta da pacchi in belle fantasie e lui le rispondeva di comprare anche i nastri. Come sfondo del cellulare, ho visto infine, aveva la foto di due bambini. E’ possibile che chi ha come sfondo del cellulare la foto di cani, gatti, roditori e altre creature sia intelligente, possibile per quanto raro. Ma chi ha i bambini come sfondo è invariabilmente cretino.
Guardando gli esseri umani, dice Bernhard, ci si accorge di come siano sempre mutilati in qualche modo, esteriormente o interiormente. Che spreco, la ragazza della carta da pacchi, così incompleta, mandata nel mondo al grado zero dell’esistenza umana. Leggere Bernhard è uno stato d’animo, mi capita regolarmente, forse una volta l’anno. Mi chiedo quanto mi abbia condizionato la vita questa mia permeabilità alla letteratura, se in un processo chiuso di feedback non sia diventato sempre più simile ai personaggi che vagamente mi assomigliavano. A un certo punto cominciano a scriverti dentro, Pessoa e tutto il resto, Cortazar, Musil, Ibsen. Stanno lì nei libri come malattie nei ghiacciai, aspettano.
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