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Lercaro: I Sindaci dell’Ovadese Uniti Contro la Vendita dei Terreni. Un appello collettivo per salvaguardare il patrimonio dell’I.P.A.B. Casa di Riposo Lercaro
A seguito dell’incontro convocato dal Sindaco di Ovada, Gian Franco Comaschi, i sindaci dell’Ovadese si sono riuniti giovedì 21 novembre 2024 per affrontare la questione legata alla vendita dei terreni dell’I.P.A.B. Casa di Riposo Lercaro.
A seguito dell’incontro convocato dal Sindaco di Ovada, Gian Franco Comaschi, i sindaci dell’Ovadese si sono riuniti giovedì 21 novembre 2024 per affrontare la questione legata alla vendita dei terreni dell’I.P.A.B. Casa di Riposo Lercaro. Durante la riunione, svoltasi presso la sala Giunta del Comune di Ovada, è emersa una forte posizione unitaria contro le decisioni prese dal Commissario…
#Alessandria today#amministrazione pubblica#Casa di riposo#Comune di Ovada#Comuni dell’Ovadese#comunità locale#conflitti istituzionali.#conflitto amministrativo#costituzione Fondazione#decisioni condivise#delibera regionale#democrazia locale#difesa del territorio#Enti pubblici#gestione enti pubblici#gestione trasparente#Gian Franco Comaschi#Google News#I.P.A.B. Lercaro#italianewsmedia.com#Ivana Nervi#Ovada#partecipazione collettiva#patrimonio collettivo#patrimonio pubblico#Pier Carlo Lava#polemiche locali#Politiche sociali#Regione Piemonte#rendicontazione finanziaria
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Riforma della giustizia, pronti i decreti: cosa cambia?
Il Consiglio dei Ministri è pronto per il via libera a quattro decreti legge che danno il via alla riforma della giustizia. Si tratta di un provvedimento complesso e articolato che mira a modificare in profondità il sistema giudiziario italiano, con l'obiettivo di renderlo più efficiente, equo e trasparente. I quattro decreti riguardano: - Separazione delle carriere: magistrati requirenti e giudicanti avranno due percorsi di carriera distinti fin dall'inizio. - Organizzazione del CSM: il Consiglio Superiore della Magistratura sarà riformato con l'istituzione di un "doppio CSM", uno per i magistrati requirenti e uno per quelli giudicanti. - Alta Corte di Disciplina: sarà istituita una nuova Alta Corte per le valutazioni disciplinari dei magistrati. - Processo penale: saranno introdotte diverse modifiche al processo penale, tra cui l'ampliamento del ricorso ai riti alternativi e l'estensione del regime di procedibilità a querela per alcuni reati. Riforma della giustizia, le nuove modifiche proposte Le novità più significative riguardano la separazione delle carriere e la riforma del CSM. La separazione delle carriere mira a evitare il conflitto di interessi che può derivare dal fatto che gli stessi magistrati che indagano e accusano i reati poi li giudicano. La riforma del CSM, invece, mira a maggiore indipendenza e autonomia dei due rami della magistratura, quello requirente e quello giudicante. Le altre modifiche al processo penale sono volte a ridurre la durata dei processi e a aumentare l'efficienza del sistema. Tra le novità più importanti, l'ampliamento del ricorso ai riti alternativi, come il patteggiamento e il giudizio abbreviato, che consentono di definire i procedimenti in tempi più brevi. L'estensione del regime di procedibilità a querela per alcuni reati, come quelli contro la persona e contro il patrimonio, mira invece a favorire la risoluzione dei procedimenti mediante la conciliazione tra le parti. Complesso e controverso La riforma della giustizia è un provvedimento complesso e controverso. I suoi sostenitori ne sottolineano i potenziali benefici in termini di efficienza, equità e trasparenza del sistema giudiziario. I suoi detrattori, invece, temono che la separazione delle carriere possa portare a una frammentazione della magistratura e che la riforma del CSM possa indebolire il ruolo del Consiglio. Solo il tempo dirà se la riforma della giustizia avrà gli effetti sperati. Quel che è certo è che si tratta di un provvedimento importante che avrà un impatto significativo sul futuro del sistema giudiziario italiano. Nuove misure? Oltre alle novità contenute nei decreti, il governo sta lavorando anche ad altre misure per migliorare il funzionamento della giustizia, come la digitalizzazione dei processi e l'aumento del numero di magistrati e di personale amministrativo. L'obiettivo del governo è quello di creare un sistema giudiziario più efficiente, equo e trasparente, in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini e di rafforzare lo stato di diritto. La riforma della giustizia è un processo complesso e di lungo periodo. Ci vorrà del tempo per valutare i suoi effettivi risultati. Tuttavia, si tratta di un provvedimento importante che rappresenta un passo avanti nella direzione di un sistema giudiziario più moderno ed efficiente. Foto di Sang Hyun Cho da Pixabay Read the full article
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Il doppio standard delle cosidette democrazie occidentali che tanto fieramente si oppongono ai regimi oligarchici, teocratici e “comunisti” d’oriente si prefigura plasticamente nella vita civica di queste stesse cosidette democrazie. In italia una legge elettorale dai profili incostituzionali per stessa ammissione della Corte produce storture elettive in cui non viene scelta alcuna maggioranza se non la stessa commistione di partiti, partitini e transfughi della marea da solstizio che compongono un’offerta elettorale arappresentativa; ed in cui il vero partito a vincere è quello dell’astensione elettorale; roba che Bobbio e Brencht stan ancora rivoltandosi nella tomba. Come una linea tracciata pedissequamente dai suoi stessi carnefici, il doppio standard occidentale prosegue poi, sempre nel paesucolo italico dalla rinomata storia, con lo stesso Capo dello Stato, in-eletto ma inquilino del Quirinale per virtù di incompetenza parlamentare altrui, che esprime e promuove una netta posizione bellicista in favore di una parte di un conflitto che ha generato centinaia di migliaia di morti e in aperto conflitto con l’articolo 11 della Costituzione -nonché in conflitto col dovere di onorare la natura stessa della carta fondante del vivere civico di una nazione intera.
“Se l’Ucraina cadesse, assisteremmo ad una deriva di aggressioni ad altri paesi ai confini con la Russia e questo condurrebbe ad un conflitto generale devastante” Sergio Mattarella.
Dal Presidente si discende poi nei gironi di altre cariche dello stato e poi ancora nei suoi parlamentari di cosiddetta democrazia indiretta, il cui eloquio esprime poi solidarietà verbale ad un regime come quello nazi-sionista israeliano che da anni trucida il popolo palestinese in aperta violazione di numerosi trattati di pace e sui diritti umani -proprio all’indomani di un feroce attacco del suddetto regime.
“Stamattina Israele è sotto attacco. Un’operazione terroristica di Hamas con morti e feriti nel sud del Paese. Un atto che va condannato con fermezza. Solidarietà a Israele.” Enzo Amendola, PD
Nel meraviglioso mondo del doppio standard della cosiddetta democrazia occidentale italica poi il formidabile comparto di 'liberali' dove il garantismo va bene solo se applicato agli italiani: ti spiega pure che 18 mesi di trattenimento amministrativo via questore, fuori dalla naturale giurisdizione senza garanzia difensiva alcuna, non sono da Stato di Polizia. Nel contesto di un paese soggetto a normalissime e storiche migrazioni, la reazione serve come utile sintomo nella diagnosi dello stato di salute della sua, ormai uso la parafrasi, “cosiddetta democrazia”. Cosi come è sintomatico di uno stato di polizia, lo scontro violento della propaggine governativa del parlamento contro il sistema di pesi e contrappesi per garantire la convivenza civile in una democrazia: in questo caso l’esempio del rovinoso atto di terrorismo legalizzato verso la giudice Apolostolico: schedata e rea di aver partecipato ad una manifestazione, per altro promossa in seguito da una delle ultime parvenze di lucidità di un Capo dello Stato, che come descritto poc’anzi, ormai istituzionalmente catatonico.
Potrei ulteriormente dilungarmi, affrontare gli aspetti del lavoro, dei diritti,del walfare, della violenza di genere, dell’energia e ambiente della nostra ormai fu carta costituzionale sotto i neo fascisti meloniani e para mafiosi berlusconiani; potrei dilungarmi e affrontare aspetti riguardanti anche altri stati europei, non necessariamente in umani ma esempi virtuosi di convivenza civica evoluta; ci si potrebbero scrivere libri, ma la chiosa può essere una sola: il medioevo non è mai stato fattualmente e storicamente ‘dark ages’, l’attualità è l’oscurantismo e in epoca di declino della civiltà è dovere di ciascuno leggere il più possibile e informarsi secondo i propri strumenti di comprensione: quali che essi siano; sono l’informazione e la lettura parti importantissima della manifestazione del proprio io civico, oltre ad altri metodi di disobbedienza; non siate indifferenti, parteggiate, siate partigiani, sempre.
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Frosinone: il Questore dispone sette “Daspo Willy” per i protagonisti di una rissa avvenuta in un bar di Alatri
Frosinone: il Questore dispone sette “Daspo Willy” per i protagonisti di una rissa avvenuta in un bar di Alatri. Il provvedimento è stato emesso dopo gli accertamenti della Divisione Polizia Anticrimine che ha istituito il procedimento a seguito della segnalazione effettuata dalla Compagnia Carabinieri di Alatri. Il Questore della provincia di Frosinone ha decretato il provvedimento amministrativo del Divieto di Accesso ai pubblici esercizi o ai locali di pubblico trattenimento, ubicati nel territorio del Comune di Alatri, per un periodo di due anni nei confronti sette soggetti che nel mese di maggio si erano resi protagonisti di una violentissima rissa in un locale situato nella medesima cittadina. Il provvedimento amministrativo, adottato dalla Polizia di Stato, rientra nell’ambito delle attività denominate di Polizia di Prevenzione, volte cioè a disincentivare i cittadini dal tenere comportamenti illegali e antisociali. In questo specifico caso, il provvedimento si inserisce all’interno di un intervento molto più ampio, che la Polizia di Stato ha inteso attuare in quel territorio della provincia negli ultimi mesi, secondo l’indirizzo che è stato dato dal Questore Domenico Condello. Infatti, negli ultimi giorni, numerosi sono stati i controlli straordinari del territorio e le operazioni denominate ad “Alto Impatto” che hanno interessato la città di Alatri e diversi sono pure i provvedimenti adottati nei riguardi dei pubblici esercizi, nei quali sono stati riscontrati illeciti nel corso dei controlli. Uno di questi locali pubblici, dopo un’accurata istruttoria svolta dalla Divisione Amministrativa della Questura, con decreto del Questore si è visto disporre la sospensione per 20 giorni dell’autorizzazione per somministrazione di alimenti e bevande: si tratta proprio dell’esercizio pubblico di Alatri, teatro della rissa che è alla base delle motivazioni che hanno portato all’emissione degli odierni provvedimenti. L’episodio di violenza si era verificato lo scorso mese di maggio e aveva visto coinvolti una decina di soggetti, tutti pregiudicati per reati che vanno dai reati contro il patrimonio ai reati in materia di stupefacenti e possesso illegale di armi. L’acceso diverbio, nato per futili motivi, si era ben presto trasformato in una violentissima rissa, nel corso della quale sono intervenuti anche i soggetti che oggi sono i destinatari del provvedimento di Polizia. Tutti e sette le persone, che hanno un’età che varia dai 19 ai 42 anni, hanno preso parte attiva alle violenze, chi sferrando calci e pugni, chi lanciando bicchieri, chi colpendo l’avversario con una sedia. Tutta la scena era stata ripresa da una telecamera di sorveglianza e le immagini hanno permesso così di individuare i protagonisti di questo grave episodio. La dettagliata e completa segnalazione, ricevuta dalla Compagnia Carabinieri di Alatri, ha permesso così di istruire il provvedimento di Polizia di Prevenzione e di emettere nei confronti dei sette soggetti identificati il Divieto di Accesso e di stazionamento nei pressi dei locali di pubblico trattenimento, ubicati nel territorio del Comune di Alatri, per un periodo di due anni. I decreti, notificati agli interessati dai militari dell’Arma dei Carabinieri, sono volti a produrre un effetto dissuasivo sui soggetti ritenuti pericolosi, il cui diritto a frequentare le attività commerciali può legittimamente subire limitazioni nel bilanciamento degli interessi ove entri in conflitto con il bene primario della sicurezza della collettività. Il decreto è un chiaro segnale che il rispetto delle regole rappresenta l’obiettivo principale da perseguire anche nel contesto “movida”.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Giornata dei Giusti, chi sono oggi? Coloro che danno una possibilità alla pace, nonostante tutto In molti abbiamo trascorso la notte fra il 3 il 4 marzo insonni, guardando le fiamme levarsi dalla centrale nucleare ucraina di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa. Con un tweet, l’Agenzia Internazionale per l’Energia atomica esortava le forze militari ad astenersi da ogni violenza nei pressi del sito per evitare una nuova Chernobyl, valutata sei volte più letale di quella che è unanimemente considerata la maggiore catastrofe nucleare civile mai occorsa. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky avvertiva che, se fosse esploso l’impianto intero con i suoi sei reattori nucleari, l’Europa avrebbe dovuto essere evacuata. Solo a tarda notte è giunta l’assicurazione che a essere stato colpito non era un reattore ma un ufficio amministrativo situato nel perimetro esterno della centrale. Per la prima volta nella storia, un impianto nucleare attivo cadeva sotto il controllo militare di uno Stato occupante. Il mattino del giorno dopo, il 4 marzo, più di centocinquanta radio europee, in simultanea, alle 8.45. hanno trasmesso la canzone di John Lennon Give Peace a Chance, divenuta, nel 1969, l’inno pacifista contro la guerra in Vietnam, per chiedere la pace in Ucraina e la continuazione dei negoziati. In questo scenario cade, il 6 marzo, la Giornata europea dei Giusti, proclamata dal Parlamento europeo esattamente dieci anni fa e istituita per legge in Italia nel 2017, nella volontà condivisa di commemorare non solo ”tutti coloro che hanno salvaguardato la dignità umana durante i periodi totalitari del nazismo e del comunismo”, ma anche “istituzioni e persone che hanno salvato vite umane nel corso di tutti i genocidi e omicidi di massa, come quelli di cui sono stati vittime armeni, bosniaci, cambogiani e ruandesi, e degli altri crimini contro l’umanità commessi nel ventesimo e ventunesimo secolo”. Appena dieci anni fa, il Parlamento europeo proclamava che “il ricordo del bene è fondamentale nel processo dell’integrazione europea, perché insegna alle generazioni più giovani che chiunque può decidere di aiutare gli altri esseri umani e di difendere la dignità umana”. Chi sono i Giusti, e cosa vuol dire essere Giusti oggi, mentre in Europa divampa una crisi di violenza impensabile, a un passo dallo spalancare le porte al baratro atomico? I giusti sono, secondo il Talmud, 36 persone che, in ogni generazione, portano su di sé la salvezza del mondo. Lo sono, forse, in questo nostro tempo dilaniato e immemore, i testimoni: della Shoah e del conflitto nucleare – gli Hibakusha, le persone colpite dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, come pure le altre vittime degli esperimenti delle armi atomiche – e i sopravvissuti ai disastri del nucleare civile di Chernobyl e Fukushima, che ci ricordano, nella carne, ciò che stiamo trasformando in set mediatico, in irrealtà, in fiction a puntate dalle quali entrare e uscire a nostro piacimento. Giusti sono coloro che ci aiutano a ritrovare la realtà essenziale – e la gravitas necessaria ad accoglierla – della distruzione di un Paese e del martirio di un popolo innocente, ma anche di una possibile catastrofe nucleare d’un tratto liberata, anche nel linguaggio, a cominciare dalla facilità nel nominarla. Giusti sono coloro che danno una possibilità alla pace, che le aprono ogni minuscolo spiraglio, con tutte le forze, senza alimentare l’odio e la contrapposizione. Che sanno che la pace non si costruisce con le armi e nemmeno indossando elmetti, anche ideologici. Giusti sono coloro che smascherano l’inganno dell’apposizione dell’aggettivo “umanitario” alle guerre, e l’ipocrisia delle retoriche che ammantano di “valori” politiche che uccidono. Ciascuno di noi può essere ridotto a profugo, per questo dopo la seconda guerra mondiale è stata istituita la Convenzione ONU per i rifugiati, eppure l’Europa se ne è via via dimenticata, è diventata un reticolato di fili spinati, campi di prigionia, cani addestrati dalle polizia di frontiera, droni, patti con Stati criminali per il trattenimento di chi fugge, rottura della secolare legge del mare che impone il soccorso dei naufraghi. Questa Europa vede adesso masse di profughi interni passare per gli stessi confini resi trappole feroci per chi veniva da paesi non occidentali. Si sente ripetere con sempre maggiore insistenza che il pacifismo, così come la guerra, sono arnesi del Novecento – che “la giungla della storia” sia tornata, “e le sue liane vogliono avvolgere il giardino di pace in cui eravamo convinti di abitare”, come ha detto il presidente del Consiglio Draghi nella sua informativa sull’Ucraina del 25 febbraio davanti alle Camere riunite, citando lo storico Robert Kagan, ideologo neocon della “sesta espansione” americana. Non vivevamo in un giardino di pace, vivevamo, e viviamo, su una distesa nucleare, e su un’immensa coazione del capitalismo internazionale, compreso quello russo, a divorare a dismisura, come tarli in un tavolo, ogni possibilità che gli si apra: fino a ridurre il proprio oggetto – che siamo noi, e tutto il Pianeta – a un enorme cumulo di polvere, probabilmente radioattiva. I Giusti, oggi, sono quelli che chiedono mitezza, che accolgono i profughi, che soccorrono le vittime, che raccolgono e inviano aiuti e cibo, che curano. Sono quelli, come lo sarebbe stato Gino Strada – che proponiamo come Giusto – che assistono tutti, da qualsiasi parte, sempre guardando agli individui, uomini, donne, vecchi, bambini, ai corpi inermi, ostaggi di logiche mortali. Daniela Padoan
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D.U.P. DOCUMENTO UNICO DI PROGRAMMAZIONE 2023-2025 (Parte Prima)
Il Documento Unico di Programmazione (D.U.P.) è lo strumento di guida per l’attività strategica ed operativa degli enti locali e costituisce, nel rispetto del principio del coordinamento e coerenza dei documenti di bilancio, il presupposto necessario di tutti gli altri documenti di programmazione. In particolare: ANALISI STRATEGICA DELLE CONDIZIONI ESTERNE ALL’ENTE Quadro della finanza locale Al contempo dell’emergenza COVID 19, si è’ presentato un altro scenario complesso dovuto, in primis, al conflitto Ucraino. Accanto all’emergenza umanitaria, infatti, occorre affrontare anche quella legata all’impennata dei prezzi dei beni e dei servizi, trainati da quelli dell’energia, che ha portato ad una inflazione attesa per l’anno in corso pari al 6,8% (Fonte Banca d’Italia). Ovviamente tale situazione si riflette a livello finanziario locale con costi aggiuntivi da sostenere. Continua, di conseguenza, la difficoltà a far “quadrare i conti” migliorando, allo stesso tempo, la quantità e la qualità dei servizi rivolti ai Cittadini. In un tale contesto lo sforzo prioritario dell’Amministrazione Comunale rimane comunque quello di identificare il miglior assetto possibile in tema di risorse/impieghi con l’obbiettivo di lasciare ai Cittadini al termine del mandato amministrativo una situazione migliore di quella presente all’inizio dello stesso senza introdurre eccessivi ulteriori sacrifici in capo ai medesimi. Obbiettivi strategici del territorio di riferimento Dovere prioritario dell’Ente rimane sempre quello di assicurare il finanziamento delle spese obbligatorie per legge, nonché gli interventi ritenuti indispensabili e prioritari, in primis quelli rivolti al sociale, volti a soddisfare i fabbisogni dei Cittadini e la convivenza tra i medesimi, target ancora più importante alla luce dell’emergenza in corso. Obbiettivi generali Restano confermati i valori che accompagneranno l’operato dell’Amministrazione per la durata del mandato: ascolto, trasparenza, informazione, partecipazione e legalità.
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I GUARDIANI DELL'IPOCRISIA
L'assegnazione del premio Nobel per la Letteratura allo scrittore austriaco Peter Handke è stata un’imperdibile occasione per i pasdaran del 'correttismo politico', per mettersi in scena come autoproclamati guardiani della morale.
Peter Handke era in odor di Nobel già nella seconda metà degli anni '90, quando ebbe l’infelice idea di uscire dal coro politico-mediatico ufficiale, pubblicando (1996) "Eine winterliche Reise zu den Flüssen Donau, Save, Morawa und Drina oder Gerechtigkeit für Serbien" (Un viaggio d'inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina, ovvero giustizia per la Serbia). In questo diario di viaggio Handke rifiutava la vulgata costruita dai media occidentali, dove alla Serbia venivano imputate unilateralmente le colpe ed atrocità della sanguinosa guerra civile iniziata nel 1991, e dava spazio alle ragioni serbe.
Handke, che si è sempre considerato socialista, è legato anche per ragioni biografiche (da parte di madre) alla Jugoslavia, la cui dissoluzione ha sempre considerato una tragedia. In quest’ottica egli condannò dall’inizio come illegittime ed esiziali le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia.
È impossibile percorrere qui l'accidentata storia della guerra in Jugoslavia. A titolo di spunto, senza nessuna pretesa di esaustività, è però utile ricordare un paio di questioni.
Alle origini della guerra non stanno affatto, come si sente dire spesso, inveterati odi nazionalistici. Il livello di 'odio etnico' presente in Jugoslavia dal dopoguerra fino agli anni ‘80 era più o meno lo stesso che si può percepire in Italia in forma di battute ‘etniche’ su 'polentoni' e 'terroni', o baruffe di campanile. La principale differenza rispetto ad un contesto come quello italiano era rappresentata dall’esistenza di tradizione religiose diverse (cattolici in Slovenia e Croazia, ortodossi in Serbia e Montenegro, una maggioranza relativa di musulmani in Bosnia). Queste differenze rappresentavano potenziali linee di faglia, ma erano faglie silenti, trattandosi di un paese essenzialmente laico e dove la mescolanza della popolazione, per ragioni lavorative e matrimoniali, era stata elevata.
Con la morte di Tito e la crisi economica degli anni '80 si avviò un processo di esacerbamento delle tensioni di matrice etnico-nazionale con il fattivo contributo di agenti esterni, e nello specifico dell’attivismo tedesco, che ambiva a ricondurre l’area industriale della Jugoslavia (Slovenia e parte della Croazia) nella propria zona di influenza. La Germania fu la prima a far sapere che eventuali richieste di indipendenza sarebbero state da loro riconosciute, fornendo di fatto una sponda perfetta ai nazionalisti sloveni e croati. Il problema della rottura dell’unità jugoslava era infatti innanzitutto un problema di natura economica: nella ‘divisione del lavoro’ avvenuta all’interno della Repubblica Federale di Jugoslavia il settore industriale era rimasto concentrato in Slovenia e Croazia, mentre alla Serbia, il territorio più esteso e popoloso, era stato attribuito principalmente un ruolo agricolo, amministrativo e militare. Una rottura del paese con la promessa al Nord di entrare nell’area produttiva tedesca significava un futuro potenzialmente roseo per Slovenia e Croazia, e un destino di arretratezza e minorità per il Sud (Serbia, Montenegro e Bosnia-Erzegovina).
Anche il contesto degli eventi internazionali non va dimenticato: il 1991 è anche l'anno della fine ufficiale dell'URSS e la Jugoslavia, in quanto repubblica socialista non allineata, poteva rappresentare un potenziale fattore aggregante per orfani del socialismo reale.
In questo contesto la ‘comunità internazionale’ avrebbe potuto giocare le proprie carte in vari modi. La scelta esplicita di Germania e USA, sia per ragioni economiche che politiche, fu quella di alimentare le istanze separatiste, promuovendo di fatto la guerra civile.
Nel 1991 il presidente croato Franjo Tuđman (noto simpatizzante degli Ustascia di Ante Pavelic ed antisemita) annunciò (con il sostegno, come oggi si sa, della C.I.A.), la costituzione di un esercito nazionale croato trasformando e incrementando le forze speciali di polizia. Successivamente Croazia e USA firmarono un accordo militare che includeva l’addestramento dell’esercito croato da parte di una compagnia militare privata (Military Professional Resources, Inc.) sull’isola di Brac (Dalmazia).
Una volta incendiata la questione nazionale vennero anche rimpatriati molti estremisti nazionalisti, che negli anni di Tito erano rimasti in esilio in Germania e Svizzera. Con la dichiarazione di indipendenza della Slovenia il conflitto iniziò a fare il suo corso, tragico ed efferato come possono essere solo le guerre civili.
Gli orrori di quella guerra, perpetrati da tutte le parti in causa, furono narrati in Occidente con singolare unilateralità. Di alcuni orrori (Srebrenica) si parlò per anni, di altri (come il massacro di 1400 civili serbi in Krajina da parte dell’esercito croato) si sentì parlare poco o nulla. (Incidentalmente l’offensiva croata in Krajina fu approvata dai governi statunitense di Bill Clinton e tedesco di Helmut Kohl, che fornirono anche armi e strumentazioni all'esercito croato.)
Ora, tornando a Handke, ho un ricordo personale molto forte del suo posizionamento di allora. In quel periodo (1996) vivevo a Vienna, e Handke iniziava ad essere bersagliato per il suo accoglimento delle ragioni unioniste della Serbia. Ricordo a questo proposito la sua reazione all'ennesima giornalista che, in una conferenza pubblica all’Akademietheater, lo aveva assalito chiedendogli se non si sentisse in colpa per le "vittime" (die Betroffenen).
La risposta di Handke (ritrovata testualmente in rete) fu: "Stecken Sie sich Ihre Betroffenheit in den Arsch! Ihr tut so, als gehört Euch das Leid und die tausenden Toten, Sie Jammergestalt! Ich rede nicht mit Ihnen, hauen Sie ab!" (“Si metta il suo ‘vittimismo’ nel culo, miserabile, lei fa come se la sofferenza e le migliaia di morti le appartenessero. Io con lei non parlo, sparisca!”). Al tempo ricordo di aver trovato la risposta assai appropriata, ma il conto arrivò a stretto giro di posta. Handke, prima una celebrità invitata ovunque, venne fatto letteralmente sparire dalla scena pubblica. Molte librerie restituirono le opere di Handke, annunciando che non le avrebbero vendute più. I suoi lavori smisero di essere tradotti all’estero. La morte civile coprì l’autore e la sua opera per oltre un decennio.
Di fronte a questo linciaggio morale Handke, essendo caratterialmente piuttosto lontano dalla genia degli yes-man, si arroccò nella propria posizione, probabilmente più testardamente di quanto sarebbe stato giusto fare. Quando nel 2006 Milosevic venne ‘trovato morto’ in circostanze mai chiarite nel carcere dell’Aia (proprio a ridosso della decisione sulla sua richiesta di confronto in aula con Bill Clinton e il generale Wesley Clark), Handke si recò al suo funerale, dove parlò in sua difesa.
Ora, non è possibile, né ha alcuna importanza cercare qui di stabilire con acribia ragioni e torti relativi a quell’orrore che è stata la guerra civile jugoslava, dall’indipendenza della Slovenia a quella del Kosovo (1991-1999). Quello che si può dire con considerevole sicurezza sono però almeno tre cose: che ci furono colpe gravi da tutte le parti; che la guerra venne alimentata inizialmente dall’atteggiamento di autorevoli paesi occidentali; che quegli stessi paesi si schierarono nella guerra civile con una parte, e contro l’altra, per ragioni che nulla avevano a che fare con motivazioni ‘etiche’.
In questo quadro non è importante stabilire se Handke avesse ragione o torto, o quanta parte di ragione e quanto di torto. Il punto è che delle posizioni di Handke il minimo che si può dire è che fossero posizioni critiche degne di essere ascoltate e discusse con rispetto, non certo di essere fatte oggetto della versione ‘liberal’ del rogo dei libri.
Ma tolleranza per le opinioni eterodosse, amore per la ragione critica, ricerca della verità, sono formule con cui i ‘liberal’ occidentali si sciacquano la bocca quotidianamente, salvo non connetterle ad alcun contenuto reale.
I moderni 'liberal' sono quelli la cui narrativa e cinematografia glorificano a getto continuo i personaggi 'franchi e trasgressivi', applaudono i ribelli 'che non la mandano a dire', osannano gli eroi scapigliati che hanno il coraggio di dire 'verità scomode'; ma quando accidentalmente qualcuno se ne esce dal giardinetto ammuffito delle convenzioni mainstream la loro reazione è solo sdegno inorridito e la richiesta di quella testa su un vassoio (e che si tratti di Assange, Handke o altri poco importa).
È tutta gente che ama molto gli intellettuali. Purché siano decorativi, leggano le veline o siano educatamente morti.
[A.Zock]
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Dall’ultimo corteo a oggi le tensioni nelle scuole pisane non si sono fermate. Forte criminalizzazione, scontri con i presidi e i docenti, assemblee, tutti gli istituti superiori della città occupati. Un movimento in piena regola che pur sulla scala ridotta di una sola città suggerisce di un’insofferenza generale a una scuola dissestata e trasformata in fabbrica del controllo e dell’impoverimento per migliaia di ragazzi e ragazze. Abbiamo assistito al propagarsi di un virus che cura una pestilenza peggiore: una scuola che fa soffrire. Abbiamo raccolto qualche testimonianza.
Di cortei a dire il vero se ne sono visti pochi. È un movimento studentesco ma i suoi riti sono profanati e le sue forme esteriori e ufficiali superate: i collettivi sono a rimorchio, la politica e le sue istanze di sinistra in secondo piano, i cortei rari e chiamati non dalle organizzazioni studentesche ma per catene di messaggi whatsapp. Viene prima il rifiuto di una condizione che la presa di parola sul mondo politico. Perché la politica giudica, non conosce e aggredisce. Pure Nardella si è messo a ficcare il naso nelle scuole di Pisa: “non si deve punire ma far pagare ai responsabili delle occupazioni”. Da sbirro a padre e da padre a padrone il passo è breve. Il cerchio si chiude. Allora ci si ritrae, si cercano altre armi senza esporsi frontalmente, per non essere dei bersagli facili, per non stare al gioco della politica, ai suoi temi, alle sue preoccupazioni. Lo scontro vero è sul controllo delle scuole, a tutti i livelli, dal controllo dei cancelli al controllo sulla vita dentro le aule.
“Al collettivo della scuola non si sapeva nulla, io però ero in contatto con un gruppo di ragazzi e ragazze di scuola che al mattino sono andati da quelli del collettivo e gli hanno detto – beh che volete fare, noi si occupa oggi – e quelli mica erano uniti, davanti a un bivio si sono spaccati. Avevano tutti paura delle minacce del preside e allora alcuni parlavano come lui, intimorendo chi voleva occupare, dicendo che finivamo come quelli del Matteotti che hanno spaccato tutto e sono passati dalla parte del torto. Perché è così, un po’ in ogni scuola quando sente aria di casino il Preside va a cercare prima quelli del collettivo per controllare meglio la situazione. Fortuna che da noi questi gruppi di ragazzi organizzatisi su whatsapp hanno imposto l’occupazione al collettivo, perché erano la maggioranza e le ragioni c’erano tutte”. È la mattina di giovedì 24 gennaio, lo scientifico Buonarroti è di nuovo occupato dopo pochi giorni dalla prima occupazione. Al pomeriggio rioccupa anche il Santoni, l’istituto tecnico che condivide con il liceo il complesso Marchesi, una delle strutture più disastrate dell’edilizia scolastica pisana. La provincia stima che per metterlo in sicurezza servano 56 milioni di euro. “I miei compagni di classe, quelli che si dicevano di destra, che poi destra, tanti dicono così perché magari gli sta sul cazzo il PD o per la famigli. Ma comunque quelli che non avevano mai partecipato ai cortei sono stati i primi a muoversi. Ora siamo assieme. Non è che sono fasci. E non è che non gliene frega nulla della politica, anzi c’è molto di politico in quello che sta succedendo, ma riguarda noi”.
Gli incappucciati
Una campagna a tamburo battente sulla stampa locale dedica per quasi una settimana di fila l’apertura dei giornali alla protesta studentesca. O quasi. A capeggiare nelle prime pagine sono i vandali, i teppisti, gli incappucciati. Delle motivazioni che portano migliaia di studenti pisani a disertare le aule e a bloccare le scuole non si parla: né dell’innesco esplicito della protesta, i problemi dell’edilizia scolastica, né della latenza che ha scoperchiato, l’insofferenza verso una didattica omologante, la restaurazione di rigide gerarchie di controllo e potere, la diminuzione di ogni ambito decisionale per ragazzi e ragazzi la cui maturità è riconosciuta, o meglio calcolata, solo come atto amministrativo conclusivo. La criminalizzazione prende le mosse dall’episodio dell’alberghiero Matteotti in cui al secondo tentativo di occupazione alcuni locali della scuola vengono danneggiati. A essere presi di mira sono i computer, la sala professori, alcuni arredi. Si monta lo scandalo per la sparizione di un defibrillatore donato alla scuola in ricordo di una ragazza scomparsa. Una rabbia distruttiva presa a pretesto per gettare fumo negli occhi e attaccare i ragazzi. Il preside conduce la crociata, minaccia denunce. I giornali lo seguono.
Un giornalista locale, Luca Lunedì, fa irruzione nella scuola e bracca alcuni ragazzi che si riparano dalla telecamera correndo per i corridoi e lasciando alle loro spalle dei banchi rovesciati per coprirsi la fuga. Sono spaventati ma rabbiosi perché il territorio di libertà che si erano riconquistati è stato di nuovo invaso. Il giornalista ne mette all’angolo uno o due: “Perché vi coprite, abbiate il coraggio delle vostre azioni”. Di coraggio ne hanno avuto da vendere invece, perché sanno di rischiare i ragazzi e per questo, per quello che possono, si proteggono, mentre la strafottenza del giornalista è fastidiosa per loro come la campanella del (Luca) lunedì mattina: la stessa condanna di sempre, sempre uguale. Ma tant’è, un po’ in ogni istituto dietro le barricate di banchi, dai balconi della presidenza dai quali vengono calati gli striscioni che proclamano la conquista della scuola da parte degli occupanti, si scorgono giovani bardati. Per qualche giorno anche sui giornali diventa il movimento degli incappucciati.
Le occupazioni infatti proseguono. I fatti del Matteotti dividono ma quello che si legge sui giornali non è quello che si vive a scuola. Quindi si va avanti. Quasi nessuno condivide la devastazione dell’alberghiero ma dissociarsi non è facile. I più a dire il vero ai danneggiamenti sono indifferenti. Quindi si va avanti. È un’esperienza che vogliono fare tutti: “finalmente sei padrone di qualcosa di tuo e sacrificarsi per questo, vuol dire dormire due ore a notte, pulire la scuola, organizzare i pranzi”. Marted�� 22 rioccupa il Carducci, occupano il Pacinotti e il classico Galilei dove l’esperienza di riconquista della scuola si fa ricca e complessa. “In una grossa assemblea i professori hanno iniziato ad attaccarci criminalizzandoci per esserci coperti all’inizio dell’occupazione – Se non avessimo fatto così ci avreste presi uno a uno, minacciati, messi all’angolo e ora non saremmo qui a discutere assieme di come cambiare la scuola – così abbiamo risposto e su quello non hanno più detto nulla”. La democrazia, a volte, prende forme bizzarre e a volte i modi della sua attuazione funzionano altre volte no. “Sì poi quando anche al Santoni siamo andati davanti ai professori questi non ci riconoscevano e non volevano parlarci e alla fine uno di noi s’è sfavato e si è levato il passamontagna dicendo – o ma lo vede che sono io insomma! Allora quelli si sono girati e quando il preside mi ha detto – ci sei anche te? allora deh me lo sono tolto pure io, non funzionava più”. Per lottare serve proteggersi, anzi si lotta per proteggersi, perché si è tutti uguali contro una macchina distruttiva: “Ci copriamo perché rappresentiamo tutti gli studenti del Buonarroti e per tutelarci da eventuali ricatti”, sono le parole finali di un video rilasciato da dentro le mura del Buonarroti occupato per spiegare le ragioni della protesta.
Mercoledì 23 viene occupato il Dini e rioccupato l’artistico. Mentre la campagna di diffamazione della protesta investe anche il Buonarroti dove vengono segnalati diecimila euro di danni con una stima spaventosamente gonfiata, al Matteotti vengono identificati alcuni studenti. Uno di questi compare nel video del giornalista. La madre è intervistata e mentre sulla stampa l’esperto sociologo e l’esperto professore danno il proprio parere, la donna racconta che ha già messo in punizione suo figlio ma che lui in effetti aveva sempre avuto buoni voti ma poi per via dell’alternanza scuola lavoro è stato bocciato. Troppe ore, poco studio. Ai ragazzi denunciati il preside vorrebbe far risarcire i danni alla struttura ma nella scuola inizia a circolare una raccolta firme in difesa dei “vandali”. Firmano anche alcuni professori. A ogni attacco c’è una risposta. È un conflitto vivo perché dialettico e produce sempre nuovi aggregati di ragazzi impegnati a difendere un nuovo interesse conquistato autonomamente riprendendosi la scuola. “Qualche giorno fa, finita l’occupazione, mi hanno convocato in sala professori, tutti molto seri, mi hanno detto che c’era stato un collegio dei docenti il giorno prima e che al prossimo ce ne sarebbe stato un altro in cui avrebbero deciso la sospensione mia e di un altro, ma che ce l’avevano in particolare con me e che la scuola doveva tornare alla normalità. Ho spiegato tutto, che non avevo nulla di cui pentirmi e che la scuola era stata occupata contro la normalità. A ricreazione ho fatto un giro tra le classi e ho tirato fuori una trentina di ragazzi e siamo andati in presidenza e loro hanno detto – lui non si sospende, sospendete noi e tutta la scuola allora. Sì hanno parlato loro, cioè lo hanno detto loro, ma prima glielo avevo detto io perché poi è vero che si dovrebbe fare così”.
L’impresa
Nella scuola dei numeri, dei ranking e della contabilità i numeri hanno un valore solo sulla scala della valutazione dei ragazzi e della misurazione della capacità finanziare dell’istituto. Ma i numeri contano anche in assoluto. “Eravamo tanti fuori a bloccare i cancelli, trecento. E il preside ci fa dove volete andare siete solo trecento. Quindi qualcuno gli ha detto – se non aveste chiamato a casa saremmo tutti. Anche a me lo hanno fatto, hanno chiamato mia madre e lei mi ha richiamato dicendo – ma che succede dicono che sta venendo la polizia a scuola che ci sono guai, io poi gliel’ho detto, stai tranquilla ma’, tutto a posto e lei mi ha detto va bene mi fido di te, ma altri magari non hanno questa fiducia e sentono la paura”. Se si facesse una stima di quante ore di lezione e di quanti studenti hanno saltato scuola in queste settimane si impallidirebbe. Un vero sabotaggio di massa. “Infatti no, le assenze non le stanno segnando, perché se dovessero segnare come assenza i giorni di occupazione allora a fine anno saremmo tutti a rischio bocciatura e non possono farlo perché poi si ferma tutto davvero, ancora di più. Anche se pure su questa cosa provano a dividerci, ad esempio a quelli della sede staccata segnano le assenze mentre a noi no”.
La normalità deve essere preservata perché il processo di impresizzazione della scuola richiede continuità. Le leggi sull’autonomia scolastica sono diventate pienamente operative con la riduzione dei finanziamenti statali alle scuole. Ogni istituto è di fatto un’impresa che deve procacciarsi da sé fondi e finanziamenti da altri enti pubblici o da privati. Il preside deve saper investire per valorizzare il proprio brand. Non è un caso che sull’edilizia scolastica si produca una grossa contraddizione: il pubblico non mette le risorse e nessun privato copre la voce di bilancio. Così basta spulciare i siti on-line delle scuole per scoprire come i cosiddetti P.O.F., i piani di offerta formativa, siano costellati di agenzie formative, progetti con questo o quell’altro ente o privato, corsi di accreditamento etc. Questo non solo permette la sopravvivenza – più che l’autonomia – finanziaria della scuola, ma la quota entro un mercato della formazione. “È stato importante che occupassimo anche al classico. Siamo considerati una scuola d’eccellenza sotto molti aspetti, uno dei licei migliori d’Italia. Se anche il classico viene occupato allora si dimostra che è questa eccellenza a non essere veritiera, che i problemi ci sono e stanno altrove”.
Se si deve realizzare un buon investimento, se si deve acchiappare un finanziamento su qualcosa si deve pur risparmiare. A essere sacrificato è il rapporto formativo. Il suo tempo, la sua durata, la sua cura. La formazione è sempre un investimento a perdere in realtà… difficile inscriverlo nel P.O.F. “In alcuni casi questa preoccupazione non viene neanche simulata. All’ITIS c’erano proprio i banner pubblicitari delle aziende. Nel frattempo la struttura crolla a pezzi, ci sono crepe nei laboratori, nella palestra ci piove addosso, l’altro giorno sono caduti dei calcinacci in testa a una ragazza, nelle aule il riscaldamento non funziona. Abbiamo scritto quattro volte alla provincia ma non abbiamo ricevuto risposta”. La scuola è occupata il 25 gennaio. È la situazione di tutti gli istituti professionali, dove maggiormente questa dinamica risalta: andare incontro alle esigenze delle aziende e della realizzazione finanziaria della scuola significa confondersi con quell’interesse. “Il Matteotti ad esempio ha un’agenzia formativa sua propria con a capo il preside Caruso, e tutta una serie di responsabili d’area: marketing, qualità, responsabile valutazione e apprendimenti etc. Cosa fanno loro? Prendono i soldi dalla regione o dalla provincia per i corsi, quelli per la ristorazione, ad esempio, come l’haccp e hanno delle classi speciali che fanno solo quello praticamente. Ad esempio uno dei ragazzi a cui ora vogliono accollare i danni dell’occupazione, stava in una di queste classi. Però andava bene quando li portavano a fare gli stage a servire nei catering dei convegni, ci faceva bella figura la scuola e il preside, come quando era preside anche del classico che mandava quelli dell’alberghiero ai catering pure lì, nel liceo”.
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Ma la formazione dei ragazzi? “Sì c’è, ma si chiama in un’altra maniera. È valutazione. Ci sono dei ragazzi con potenzialità enormi che si perdono perché vengono letteralmente avviliti da uno studio che si risolve nella valutazione. Anche perché il metodo di valutazione non va bene. Privilegia solo la memoria e la logica mentre le capacità inventive, emotive o la capacità di stabilire connessioni tra i fenomeni non sono prese in considerazione. La didattica è la trasmissione di un metodo di apprendimento, non c’è comprensione ma l’importante è centrare il bersaglio. Nei compiti spesso veniamo penalizzati di 0,5 punti per le risposte sbagliate, per non farci tirare a caso. Questo è un po’ come se il banco barasse perché se pensi l’insegnamento come apprendimento di una risposta giusta allora anche chi studia fa economia visto che l’obbiettivo è raggiungere il punteggio giusto anche noi studiamo in base a quell’obbiettivo e non per conoscere”.
È in ballo qui la questione radicale di cosa sia l’intelligenza e di cosa farne. Una questione non da poco per degli adolescenti, affrontarla implica una grossa responsabilità, si potrebbe dire stiano lottando per questo. Per capire. “È stata come una scoperta. Noi stiamo al classico, no? La scuola rinomata e all’avanguardia. La struttura non ha problemi, tutte le aule hanno la lavagna elettronica, non ci manca nulla in teoria. Però quando abbiamo sentito che al Santoni protestavano per il freddo o che non mi ricordo dove era caduta una finestra in testa a una ragazza allora ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti, anche noi stiamo male. Anche noi viviamo con disagio questa scuola, il fatto di essere trattati come contenitori, non essere mai partecipi di quello che studiamo. Vogliamo porre il problema perché basta guardarci siamo tutti stressati, tutti travolti dall’ansia, ma che sarà quest’ansia a sedici anni”. E i professori sono parte di questo rapporto, lo attuano, lo dispongono. Un anello intermedio che a volte vive con disagio questo sistema di infilare i ragazzi nella gabbia del numero e della burocrazia, sa che fa una violenza, altre volte tace, per paura di vedere compromessa la sua autorità.
“Quando provano a intervenire con gli strumenti a disposizione fanno più danni che altro. Allora fioccano i b.e.s, i bisogni educativi speciali, le richieste di sostegno, gli appuntamenti con gli psicologi, i disturbi dell’attenzione. Non so quanto funzionino queste cose, non possiamo mica essere tutti con dei disturbi, oppure se è così può essere che sia la scuola ad avere un disturbo”. Al Classico in particolare l’occupazione si è trasformata in un nuovo incontro con parte del corpo docente, a partire però dallo scontro contro il funzionamento della scuola, su cosa fa, a cosa serve, in cosa trasforma i ragazzi. “I primi giorni sono stati segnati da un muro contro muro. Le minacce di non fare i progetti, le gite scolastiche, di comprometterci l’anno, i compiti infilati in mezzo alla protesta, poi quando hanno visto che proseguivamo alcuni hanno iniziato a capire”.
Sabato mattina, il 26 gennaio, prima di lasciare l’occupazione gli studenti del classico convocano un’assemblea con i professori. La vogliono fare avendo ancora la scuola sotto il proprio controllo. I professori vengono quasi scortati in palestra dal servizio d’ordine. L’assemblea inizia tesa con reciproche accuse, alcuni se ne vanno, ma qualcosa passa. Esce fuori un documento in cui viene rivendicato rispetto per la voce studentesca, spazi autogestiti per gli studenti, il ritorno a una comunicazione diretta e non mediata dal registro elettronico, strumenti di valutazione reciproca e non unilaterale: “Ci accorgiamo che talvolta i professori formulano opinioni sugli studenti basate esclusivamente sul voto; ci teniamo a ribadire che prima di tutto siamo persone, con un valore che va al di là del mero rendimento scolastico. Inoltre frequentemente le valutazioni, sia positive che negative, non vengono sufficientemente motivate, impedendo così che ci possa realmente essere una crescita dello studente”.
È una partita sulla normalità. La normalità dell’ordine precedente non è più accettata. Se a difesa di questo la diga dei professori cede c’è quella del preside, se quella del preside cede c’è quella delle guardie. Con l’occupazione del Biologico il 25 gennaio e del Fascetti il 30 a Pisa si tocca quota 11 istituti occupati su 11. Al Pesenti di Cascina, a pochi chilometri dal capoluogo non vogliono essere da meno. Le motivazioni sono le stesse. Martedì 29 inizia un’assemblea permanente. Dopo poche ore arrivano le volanti della polizia municipale e dei carabinieri. Questi irrompono nell’edificio e appendono letteralmente al muro il primo ragazzo che gli capita a tiro. Scoppia il parapiglia, anche un docente si frappone per liberare il ragazzo. Le volanti se ne vanno. Inizia l’occupazione della scuola. I prof si uniscono alla protesta: “anche noi docenti ci siamo riuniti in una nostra assemblea per prendere posizione rispetto al documento fornitoci dagli alunni contenente le loro motivazioni. Ci preme stigmatizzare il comportamento delle forze dell’ordine che, con tono intimidatorio e non consono ad una comunità scolastica, hanno prelevato fisicamente uno studente, già precedentemente identificato, che non stava commettendo alcun atto provocatorio”.
Con l’avanzare dei giorni sarà difficile tenere alta l’intensità della mobilitazione, anche perché la posta è alta e sta sulle regole di controllo delle scuole, sulla vita al loro interno, sul loro funzionamento. Eppure non sarà facile tornare indietro, ristabilire a pieno le precedenti gerarchie. Un virus si è propagato. Perché più o meno come recitava un volantino o una poesia scritta al Santoni sul banco durante una lezione al primo giorno dopo l’occupazione: “siamo stanchi ma determinati, infine desiderosi di essere quello che siamo...”
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Riassumendo - lo Stato come Assenza
L'assenza può essere concettualizzata come una relazione di potere, in senso foucaultiano, e trasformarsi in una forma di controllo? Questa domanda, credo abbia una particolare rilevanza in un contesto come quello di Buenaventura. Fin qui ho cercato di mostrare che sin dalla sua fondazione con l'arrivo della colonia spagnola, le élite governanti hanno considerato lo sviluppo del porto della città come una questione strategica. L’importanza per fini commerciali riconosciuta alla sua baia ha segnato profondamente ogni traiettoria di crescita urbana. Da dopo l’apertura del canale di Panama, quindi da più di 80 anni, la città è divenuta uno dei più importanti poli logistici della Colombia (il maggiore per quantità stoccate). Il suo porto è stato posto al centro di un complesso sistema tecno-giuridico, che nel corso di questo blog ho chiamato globalmente “Economia Offshore”, concepita per assicurare lo sviluppo delle infrastrutture per lo spostamento di merci e materie prime e per permettere la circolazione monetaria. Sviluppando queste idee, ho cercato di mostrare le modalità e le forme con cui il progetto di urbanizzazione e di colonizzazione della baia abbia prodotto spazi, modalità di vita e conflitti in funzione di generiche e cangianti nozioni di trasportabilità e connettività. Ho così definito Buenaventura una città-infrastruttura evidenziando una frattura costitutiva tra il “Puerto”, inteso come dispositivo tecno-giuridico-amministrativo che definisce la città, e “la Gente**”, intesa come moltitudine eterogenea ma prossima e conoscibile.
Quello che vorrei chiedermi a conclusione del blog è se la città possa essere pensata intorno ad un'assenza costitutiva dello Stato in senso più ampio. Diversi apparati di governo hanno storicamente servito un interesse specifico e multinazionale centrato sulla creazione di ricchezza attraverso il commercio. Nel post [1] ho proposto un’intepretazione di come il governo di Buenaventura abbia oscillato tra una “forte presenza dello Stato” mediata attraverso contratti di concessione ad imprese appaltatrici di progetti di pubblica utilità ed un’assenza generata invece dalla decentralizzazione dei suoi poteri amministrativi. Da un lato si garantivano poteri da “Stato” ad imprese private che includevano anche il permesso di operare con milizie paramilitari per proteggere i cantieri o per facilitare gli sgomberi di terre incluse nelle concessioni. Dall’altro, dalla definizione del “Puerto Franco” a quella di “Districto Economico Especial”, il governo della città si poggiò su di un apparato giuridico-amministrativo fondato su autonomie speciali molto difficili da incontrare in altre aree del paese. Ho dunque affermato che la combinazione tra una presenza mediata ed un’assenza legale permise di fatto un prolungato “governo dei pochi” sulla città. Nei post della sezione [2], ho mostrato anche come negli ultimi 50 anni, su queste dinamiche si sono inseriti ulteriori ed altrettanto vasti flussi economici legati all’industria bellica ed a quella narcotica, destabilizzando e frammentando ulteriormente gli spazi politici urbani. Una prima conclusione di questo blog è stata quella di mostrare che le Corporate della città, attraverso i loro CDA ed i comitati che le legano all’amministrazione municipale, sono emerse come le istituzioni più stabili, durature e per certi versi credibili di Buenaventura. Sono però interpretabili anche come un’incorporazione storicizzata dei meccanismi del “governo dei pochi” che ha segnato la storia della città.
Seguendo questa analisi, il tentativo di comprendere la nozione di assenza come una relazione di potere implica allargare la sua osservazione ad una teologia che considera lo Stato "un principio di ortodossia" e la manifestazione di un ordine pubblico sia fisico che simbolico (Bourdieu 2014:4). Questa ortodossia è da intendersi come una forma di consenso sul mondo sociale e sulla moralità, ma è anche un meccanismo di strutturazione attraverso il quale i flussi dell’accumulazione di capitale incontrano le intensità soggettive piegandosi in una credenza collettiva circa l’esistenza di un’origine “che organizza in un tutto le parti ed i flussi” (Deleuze Guattari 1975:154-310 in particolare il paragrafo “Urstaat”). Lungo queste tendenze lo Stato è analizzabile come un'illusione o una finzione collettiva resa possibile dal suo potere simbolico (Taussig 1992;111-140, Abrams 1988), oppure come un insieme di pratiche ed atti che permettono alla sua teologia di essere inscritta nelle categorie cognitive dei cittadini (Bourdieu 2014:6-11). Il caso di Buenaventura potrebbe dimostrare quanto la sua forza o il cosiddetto effetto-Stato, risieda nella "reificazione di un'idea" che trova materialità ed esistenza attraverso l’incorporazione di nozioni come quelle di modernità o di progresso tecnologico nel Puerto. Le storie del Barrio presentate nella sezione [3] ci spingono però oltre. Evidenziano anche che i rapporti di potere reali possono rimanere sullo sfondo ed essere confusi o nascosti dall’interesse generale che invece obbliga gli abitanti a vivere quella stessa forza idealizzata "come un'apparizione traumatica del Reale che rompe i parametri ed i presupposti della realtà ordinaria" (Aretxaga 2005:261-262). Sulla base di queste considerazioni, l’obiettivo del post è allora capire come e se sia possibile entrare in relazione con l'assenza come unica forma disponibile della presenza dello Stato, di una totalità cioè che, dal punto di vista del Barrio “non esiste come presenza ma solo come virtualità” (Eco, 1968:351).
In uno spazio sociale sovraccarico di poteri frammentari, dove la prolungata coesistenza di gruppi armati in contrasto tra loro ha definito strategie di sopravvivenza fluide e mutevoli e dove le concettualizzazioni weberiane dello Stato non riescono a descrivere accuratamente la complessità, l'assenza non può essere considerata solo come l'incapacità territorializzata di un'istituzione di affrontare i conflitti e le necessità locali. Come ha notato Serje (2012), in Colombia, questa nozione di "assenza dello Stato" è storicamente servita allo scopo di creare specifiche geografie dell'immaginazione in cui l'assenza è stata elaborata come un fallimento strutturale delle categorie prevalenti di cittadinanza. Questo a sua volta ha permesso la creazione di un vasto insieme di luoghi nel "fuori della nazione" come le zonas rojas (zone rosse) o zonas de conflicto (zone di guerra) che racchiudevano l'esterno, gli davano una forma, per quanto astratta e barbarica, e lo rendevano accessibile allo Stato. L’entrata trasformava le zone in "un'interiorità di attesa o un’eccezione" (Blanchot, 1969) tanto ostili quanto spesso ricche di risorse naturali. Qui lo Stato doveva arrivare con una qualche combinazione di eserciti ed altri apparati burocratici. Tuttavia, descrivere l’assenza a partire da un'operazione di inclusione e di integrazione, forzata o no, di un territorio ad una geografia della nazione rappresenta solo una manifestazione parziale della nozione che vorrei usare qui. Date le traiettorie storiche di Buenaventura, l'assenza a cui mi riferisco sta invece dentro un'eccezione che si mostra come regola prolungata e coerente delle relazioni politiche della città mantenendo i suoi processi urbani in una estimità o in un’intima esteriorità dal progetto dello Stato-Nazione colombiano.
In questa prospettiva, una prima qualificazione dei rapporti di potere locali potrebbe rappresentarli dentro una forma-Stato in cui "non c'è Stato, solo controllo statale" (Deleuze 1986:75). Già Clastres (1987) e più tardi Scott (2009) hanno descritto come certe organizzazioni sociali si siano rappresentate all'interno di uno spazio politico formato dal loro tentativo cosciente di opporsi o evitare "lo Stato”, spesso raffigurato come l’Altro che poteva interrompere la coerenza interna della loro communitas. Tuttavia, la configurazione coloniale di Buenaventura in quanto città-infrastruttura ha innestato i suoi abitanti su di un apparato tecno-giuridico che li ha inclusi nelle stesse infrastrutture per poi espellerli dai meccanismi di ripartizione dei risultati prodotti, fino a radunarli in zone della città da risignificare essenzialmente in chiave securitaria (sul concetto di persone come infrastrutture si veda anche Simone 2004 e 2021 sul Sudafrica). Durante più di due secoli il paesaggio e la vita urbani sono stati infatti modellati, distrutti e rimodellati dall'impossibilità storica di sfuggire al progetto politico ed economico che riguardava la funzione logistica di Buenaventura. Le connessioni che venivano prodotte, lungi dall’essere neutrali o oggettivamente “buone”, hanno generato un incontro per lo più violento che ha necessitato di un’assimilazione progressiva del conflitto latente della città, quello tra Puerto e Gente, da parte degli abitanti. Come già notato da Clastres e da altri studiosi degli indiani amazzonici (Fausto, 2015), queste pratiche, però, piuttosto che sconvolgere la socialità locale, hanno generato anche una vasta gamma di rituali e processi identitari che nel caso specifico di Buenaventura potrebbero essere utili per descrivere l'assenza come una relazione di potere.
In diversi post ho proposto una seconda qualificazione dei rapporti di potere di Buenaventura definendo una forma-Stato, lo Stato-e-Clan, che non si è prodotta o che non è radicata in una precisa genealogia delle popolazioni locali. Ai legami biologici si sono invece sostituiti e/o sommati formazioni rizomatiche di persone fisiche e giuridiche, di attori statali o non statali capaci, in determinati periodi storici, di influenzare il senso degli eventi della città. L’aspetto cruciale della congiunzione, -e-, riguarda il conferire una natura nomadica alla statualità al di là dell’eternità del suo progetto politico. In maniera speculare -e- impedisce di interpretare il Clan semplicisticamente come un sostituto dello Stato o come un suo avversario neo-tribale. Ne emerge così un'istituzione-macchina che nella sua fluidità risulta comprensibile e potente per la capacità che possiede di abitare le nozioni di prossimità di una città concepita per la distanza e la velocità e per soddisfare i desideri di entità lontane (sulle nozioni di prossimità e lontananza si veda anche Virilio 1997). Come ho già scritto in precedenza, ontologicamente, a Buenaventura, il Clan è lo Stato che lo Stato non può essere. O seguendo un'altra prospettiva, lo Stato è il Clan che mette in atto l'eternità del suo progetto politico. Accanto quindi ai dispositivi di potere prodotti dalla guerra civile ed alla macchina astratta incorporata dal Puerto, è possibile rintracciare un apparato dell’Assenza che va oltre le geografie dell’immaginazione, rendendo lo Stato un feticcio senza più la capacità di incantare (si vedano anche Delueze&Parinet 2019:123-124). Una terza qualificazione delle relazioni di potere di Buenaventura riprende allora un articolo di Michael Taussig che, osservando le fratture politiche colombiane, discusse le condizioni per le quali lo Stato, con la S- maiuscola, risultasse una finzione o meglio un feticcio, intriso di magia invece che di tecnica, prodotto da un rituale cui solo pochi effettivamente assistevano piuttosto che da un sistema ordinato di leggi di tutt* (1992: 111-140). L’unico modo di pensare allo Stato era quindi quello di trovare un modo in cui il Clan si fondasse in esso e viceversa, palesando l’egemonia che sosteneva l’incantesimo (si veda anche Abrams 1988:77).
Eppure definire l’origine dello Stato in un rito e non in un atto di violenza originaria costituisce di per sè una divergenza concettuale abbastanza importante rispetto ad un vasto campo di filosofia politica. In una tradizione che da Hobbes arriva fino a Carl Schmitt, gli Stati e le loro leggi sono definiti sulla base della capacità di sovranità di certi momenti di rottura, spesso traumatici, in cui quei pochi passano dal rito alla manifestazione di sè. “Attuano”, cioè, “lo Stato” affermando il loro spazio di dominio, di controllo e di capacità di azione. La nozione di Assenza qui utlizzata serve precisamente per superare l’eccezione di quell’atto originario e fuori-legge, svuotandolo della sua specialità ed osservandolo invece nelle relazioni di politica economica che lo producono. Seguendo gli studi amerindiani ho inteso osservare quelle dinamiche di rottura dentro le continuità storiche di Buenaventura e per questo di considerarle dentro anziché fuori il corpo sociale. E’ possibile infatti dimostrare che la violenza sovrana che aspira a creare un ordine abbia, in realtà, già un suo posizionamento nelle modalità di comprensione e di relazione al mondo dei soggetti che vorrebbe assoggettare. D’altronde, solo in questo modo una guerra civile protratta può divenire una pratica di governo. Deve produrre socialità ritualizzate che non celebrano solo un’interruzione o una perdita, inscenando, ad esempio, un funerale per ristabilire la primarietà della comunità sugli eventi avversi. Deve anche creare diversi dispositivi che vanno dalla purificazione alla vendetta, passando per la spartizione di risorse economiche, con i quali si conferisce un senso ed una coerenza a quella violenza da dentro il corpo sociale e non fuori di esso. Nella sezione [3] ho cercato di mostrare alcuni dei meccanismi comunitari che si mettevano in moto ad ogni cambiamento di “ordine” imposto da dinamiche del conflitto percepite come incontrollabili localmente. Il nuovo ordine appariva fondare una Legge rinnovata, fatta di nuove chiese, nuovi luoghi per la festa e nuovi paramilitari ripuliti dal “vizio”. Tuttavia dal punto di vista antropologico ciò che si disvelava era il tentativo di costruire un’alleanza con “il nuovo” attraverso un processo di divenire-quel gruppo armato che aveva sostituito il precedente. Questa operazione di avvicinamento risultava coerente rispetto al codice-territorio locale. Manteneva cioè tratti di continuità con le strategie di convivenza e di sopravvivenza che erano implementate anche con la vecchia presenza armata.
Ho menzionato in precedenza che diversi studi politologici regionali si sono spinti a definire questo tipo di dinamiche e queste continuità all’interno dei processi democratici dell’America Latina, contraddistinti, in quei testi, dall’impossibilità di applicare concettualizzazioni weberiane dello Stato. Invece che un monopolio dell’uso della forza, osservano la coesistenza di una pluralità di formazioni storiche che ne sono capaci e che sono quindi in grado di occupare uno spazio simbolico, normalmente dello Stato, nella tradizione europea. Un aspetto interessante è che in questa prospettiva, la dimensione rituale, cioè simbolica ed immaginifica, delle formazioni storiche assume una particolare rilevanza rispetto a quella Reale, legata all’uso della forza ed alla produzione di eventi traumatici. La capacità di “far morire” viene sottoposta a quella di fornire senso e significati alla vita, di ripartire risorse, liberare zone, costruire reti di appoggio e quant’altro. Questo non significa certo “pacificare” i territori. Piuttosto obbliga a riconsiderare l’interazione sociale sulla base di un pluralismo democratico ordinato per clan e compenetrato dai meccanismi di produzione della vendetta e dell’industria bellica.
In un suo recente lavoro di cui ho scritto in precedenza (1, 2), Mbembe descrive come, storicamente, istituzioni totali ed ordinamenti totalitari come la piantagione, lo schiavismo, il campo di lavoro o la prigione non appartengano solo a governi dispotici ed autoritari ma siano da considerarsi interni alla forma-Stato democratica; elementi di quello che chiama il corpo notturno. Rivisitando alcune considerazioni di Franz Fannon sull'esperienza coloniale, osserva come anche le democrazie africane siano rappresentabili attraverso un potere che si legittima con la forza di una legge costituita nel fuori-legge, che si impone “come se fosse voluta dal destino”. E’ cioè assoggettata ad imperativi politici in cui la legge stessa appare “assolutamente strumentale” al governo dei pochi e ad interessi parziali. Muovendo su tematiche analoghe da diverse prospettive, il filosofo napoletano, Esposito, in un suo recente lavoro, Pensiero Istituente, prova invece a pensare le modalità di superamento del corpo notturno nella democrazia. Afferma allora che la forma-Stato democratica è tale solo se è in grado di stabilire una rottura con quella violenza arbitraria. Per sciogliere questi legami occorre però ripensare l'idea stessa del corpo politico e si spinge fino a definire la società democratica come società senza corpo. Citando Lefort, Esposito spiega che una società democratica può realmente definirsi tale solo ipostatizzando la caduta dell’immagine di una totalità organica che tenga assieme il sociale, sia essa il Re o lo Stato, senza per forza ritrovare lo spettro della guerra civile hobbesiana, del tutti contro tutti. Questa disarticolazione delle parti dal corpo implica comunque il riconoscimento, come in Mbembe, di un’assenza primordiale e fondativa. Per Esposito, “la società democratica [è] un vortice che [vi] rotea intorno […]” che, a ben vedere, vive l’assenza senza rimuoverne la violenza per liberarne la comprensione profonda e così disinnescarla. Per Mbembe, ma anche per la Serje citata più sopra, invece, la democrazia mantiene una relazione strumentale con l’assenza, abita deluezianamente lo stesso piano di immanenza del suo notturno.
Seguendo queste chiavi di lettura, ho cercato di dimostrare che la rimozione della violenza originaria era un’operazione quotidiana che produceva una consapevolezza etica delle fronteras ed una forma di coscienza dell’Assenza o dello Stato come finzione sintetizzabile nell’enunciato “jugar vivos” (definito nel post [3.2]). Nella sezione [4] ho allargato queste considerazioni descrivendo il blocco del Puerto come un momento rituale che permise un percorso di riconoscimento interno della “Gente”. I giorni dei blocchi delle strade segnalarono, cioè, una ritrovata accoglienza popolare del negativo. Vi fu una critica di fatto del concetto di fronteras per come si autodefiniva nella quotidianità (si veda ancora il post [3.2]) e fu messo in scena, attraverso una performance collettiva, il disvelamento di dinamiche socio-economiche che relazionavano abitanti e malos attraverso meccanismi di debito e credito e/o relazioni di reciprocità (si veda il post [3.1]). In questo modo, i blocchi delle diverse arterie della città non mostrarono solo una ribellione delle parti contro il corpo. Denunciarono e riportarono al loro interno l’incoerenza strutturale della totalità che le teneva assieme per lo più in chiave securitaria o come problema di sovranità nazionale. Riconoscendosi senza corpo, gli attori del blocco abitarono invece l’Assenza come soggetti etici coscienti del “jugar vivos” superando sia la mancanza sia la presenza funzionale dello Stato. Da una frattura esistenziale con il Puerto e con la funzione logistica di Buenaventura emerse quindi un campo politico intimamente decolonizzante e democratico che permise la pacificazione per qualche giorno delle strade. Ciò fu possibile, a mio parere, proprio attraverso il riconoscimento della finzione originaria dello Stato possibile solo vivendo l’Assenza da cui si mise in moto un rovesciamento radicale delle ritualità che lo sostenevano. I blocchi stradali crearono una sostanza non-sovrana o fuori-legge che celebrava la convivialità delle frontiere “riconquistate”. Nell’interregno che così determinavano, le barricate non stabilivano confini ma ripiegavano l’afuera e l’adentro spostando lo sconosciuto, la violenza originaria ed il “Male del Puerto” in un altrove che non si trovava più nel vicino, nella memoria o nell’intimità.
Va detto però che queste ribellioni, pur ripetute, erano sempre segnate da una durata. Non producevano cioè un superamento reale o definitivo di una forma-Stato con l’altra o di un ordine con l’altro, come invece avveniva nelle epoche di passaggio imposte autoritariamente (si vedano i post [3.3.1] e [3.3.2]). Si affermavano in quanto veri e propri intermezzi della guerra civile che permettevano di rimuovere la violenza. Nei casi più estremi, come in quei giorni del gennaio 2011, arrivavano fino a bloccare tutto l’apparato logistico. Altrimenti alimentavano negoziazioni, spartizioni, celebrazioni o guerre commerciali che dipendevano dalle diverse intensità prodotte quando veniva a mancare unitarietà o coincidenza delle pratiche. Un’attenta valutazione di queste traiettorie mi ha allora portato a descrivere la natura “in divenire” dei sistemi politici di Buenaventura caratterizzati dalla coesistenza, conflittuale e insieme funzionale, di regni di signori della guerra, caporalati di quartiere e spazi dell’Assenza che ho chiamato invece interregni. Dalle loro possibili combinazioni emerge un’altra notazione importante di questo blog che riguarda il ruolo centrale, nei sistemi politici di Buenaventura, di raggruppamenti come i combos/muchachos o le pandillas/bandas, definiti in un modo o nell’altro in base alla strutturazione delle fronteras ed alla loro assimilazione ad istituzioni intermedie (si vedano in particolare i post [2.2] e [2.3]). Prima di entrare in un percorso identificativo, qualsiasi esso fosse, si è mostrata l’importanza dei combos nel generare connettività tra le località. Vivendo in un “fuori del barrio”, o in una sua piega (Deleuze 1990), eseguivano una vasta gamma di mansioni con le quali assistevano gli abitanti nell’assenza funzionale, questa volta si, dello Stato. Relazionavano, collegavano, fornivano strumenti agli spazi de adentro, quelli intimi e prodotti dalla memoria, per essere anche nel mondo de afuera, il mondo delle quantità, delle cose, degli oggetti di desiderio. Se è vero che il governo della guerra civile operava una cosciente frantumazione delle loro socialità oppure li spingeva fino a processi di divenire caporalato, è altrettanto vero che i combos partecipavano in una vasta gamma di interregni, divenendo anche capaci di affermarsi come soggetti virtuosi in particolari condizioni di protesta. Collaboravano cioè a ripiegare i flussi sui barrios invece di abbandonarli ai meccanismi di fagocitazione del Puerto, disvelando ed attuando la coscienza del “jugar vivos”.
Sulla combinazione e strutturazione di questi campi politici variabili si articolava un aspetto cruciale della guerra civile della “Gente” che avveniva questa volta non contro ma sullo sfondo del “Puerto”, da intendersi ora come macchina astratta che rimaterializzava lo Stato-e-Clan nel quotidiano. Questa riproduzione avveniva attraverso lo spostamento dei piani in conflitto nei quali la guerra civile si deterritorializzava per prendere posto dentro un’eternità indubitabile incorporata da burocrazie, certificazioni di proprietà, meccanismi elettorali di scelta della leadership, usi legittimi o meno della forza eccetera. Un ulteriore aspetto in effetti tralasciato in queste descrizioni etnografiche riguarda l’insieme di organizzazioni governative e non che operavano intorno al Barrio e che avevano una loro diretta manifestazione nei progetti produttivi che rimasero attivi per alcuni anni prima di venire interrotti, nel Barrio Viejo almeno, durante la fase di “passaggio” (si veda ancora la sezione [3]). Nella letteratura antropologica colombiana, a partire dal testo della Serje qui citato, vi è una chiara preferenza tanto accademica quanto metodologica per lavori di campo centrati su queste istituzioni e gli interventi di sviluppo locale della cooperazione internazionale. Le ragioni sono molteplici ma possono essere sintetizzate osservando come nozioni e pratiche di “sviluppo" abbiano costituito un sistema di potere-conoscenza che i beneficiari dei progetti hanno via via imparato a negoziare (1). I saperi esperti ed i trasferimenti di tecnologie hanno così prodotto cambiamenti sulle realtà locali non completamente inquadrabili dentro semplici valutazioni costi-benefici. E’ infatti interessante notare come vi siano tutta una serie di produzioni relazionabili o dipendenti dai progetti che non sono previsti nelle fasi di pianificazione. Appaiono invece il risultato di un incontro politico-economico che si propaga lungo il campo sociale dell’intervento oltre le aree strettamente legate all’esecuzione (1, 2). Tra i diversi effetti non previsti, è possibile annoverare la crescita di un apparato burocratico statale e parastatale il cui scopo principale è la creazione di uno spazio di concertazione per definire l’allocazione dei fondi. In paesi con scarsa capacità fiscale e con budget estremamente ristretti per sistemi pubblici di welfare, questi apparati burocratici per lo “sviluppo” hanno la forma di veri e propri gruppi di interesse capaci di influenzare le politiche degli aiuti e le linee di spesa governative nelle quali vanno incluse anche forniture di vario tipo; dai veicoli agli accessori tecnologici, software come hardware, fino allo stesso uso di strutture di appoggio per le visite di campo (hotel e stanze) e molto altro. Sebbene la nozione di “sviluppo" venga normalmente tecnicizzata e valutata sulla base di produzione di salari e lavoro, di miglioramenti delle condizioni produttive o di assitenza necessaria, porta con se molte altre criticità giustamente osservate da diversi scienziati sociali. Ad esempio l’emergere di una classe media parastale con salari “non governativi” spesso più alti di quelli governativi e con diverse tipologie di interessi rispetto ai progetti da finanziare ha avuto implicazioni politiche locali con modalità e forme variegate. Un’accurata descrizione dello Stato-e-Clan di Buenaventura dovrebbe quindi tener conto anche di queste dinamiche.
La mia ipotesi di partenza è stata tuttavia quella di considerare gli interventi di sviluppo come una parte, pur importante, ma non pienamente rappresentativa della vita del Barrio. Credo cioè, che le descrizioni principali di questo blog non verrebbero influenzate osservando le diverse fondazioni, associazioni ed ONG che operavano nella zona del mio lavoro di campo e nemmeno le diverse “mesas de trabajo” (tavoli di lavoro) o comitati interistituzionali pubblico-privato che periodicamente si incontravano definendo strategie degli interventi, aree di criticità eccetera. Dal punto di vista del Barrio, infatti, soprattutto a causa di vincoli legali sempre più stringenti in contesti come quello di Buenaventura, la grande maggioranza dei progetti agiva all’interno dei percorsi di strutturazione imposti dalle fronteras e non sui meccanismi che le formavano. Quando invece ciò avveniva, si trattava solo di casi molto sporadici che richiedevano comunque permessi speciali accordati dagli organi di governo centrale all’ONG stessa (di solito il dipartimento per la cooperazione allo sviluppp del Ministero degli Affari Esteri colombiano). Questo è il caso, ad esempio, della Croce Rossa Internazionale che operava nel quartiere solo per aiuti produttivi a gruppi di beneficiari definiti autonomamente nel Barrio. Nonostante ciò, progetti per certi versi di successo come quelli che seguii nel 2010-2011, furono bruscamente interrotti per le mutate condizioni del conflitto nella comuna. Le diversi ONG, inclusa la Croce Rossa, non ebbero alcuna capacità di influenzarle. Ontologicamente quindi i progetti rappresentarono un tentativo mal riuscito dal punto di vista locale. Tuttavia generarono burocrazie, archivi documentali e salari di un’economia a se stante che sorgeva “grazie al Barrio” e che “orbitava” intorno al Barrio, senza però poter condizionare il passaggio di poteri tra gruppi armati ed i problemi di accesso ai mercati locali che ne derivarono. E’ stato quindi più utile, credo, cercare di comprendere la natura più intima ed etnografica delle fronteras invece che osservare le dinamiche di concertazione e di interposizione delle diverse organizzazioni presenti nell’area. In ogni caso, la definzione di Stato-e-Clan risulta coerente anche aggiungendo queste ulteriori complessità e piani di analisi.
** La Gente è una parola che si ascolta con molta frequenza nel Pacifico colombiano. Il suo significato si sovrappone e restringe quello più vasto di Pueblo caratterizzandolo con sentimenti di familiarità e di vicinanza. Nel gergo quotidiano si fa riferimento spesso a “mi gente” o a “la gente”, per definire segmenti conosciuti o conoscibili del pueblo.
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Insegnante e mediatore: come si evolvono i ruoli nella scuola
Insegnante e mediatore sono due ruoli che convergono o è più opportuno separarli? Se fino a qualche anno fa il docente era ritenuto anche un facilitatore dell'apprendimento oggi il panorama è divenuto più complesso fino a comprendere diverse figure di supporto alla classe e alla scuola. Insegnante mediatore: il processo di apprendimento Se partiamo dal presupposto che insegnare non significa trasmettere delle competenze ma accendere un interesse, allora il docente diventa un facilitatore. Nel suo insegnare giorno dopo giorno, infatti, il suo compito è facilitare l'apprendimento dei suoi studenti attraverso gli strumenti che ritiene più idonei. Un insegnate efficace deve essere, tra l'altro, anche molto attento a capire gli stati d'animo dei suoi studenti. Le emozioni, infatti, sono un elemento importante dell'apprendimento. Dall'idea di facilitatore dell'apprendimento a mediatore didattico il passo è stato breve. Il docente fa un passo in più: si pone al centro del processo di apprendimento tra le nozioni da apprendere e lo studente che le riceve. Cos'è la mediazione didattica Le ultime correnti di pensiero sull'insegnamento interpretano il docente come un mediatore didattico. Come colui, cioè, che fa da moderatore tra il sapere e gli studenti. Esistono diverse tipologie di mediatore che dipendono dagli strumenti utilizzati nel processo di mediazione: - il mediatore attivo è colui che si rifà all’esperienza diretta, all’esplorazione, dall’azione in contatto con la realtà fino all’esperimento scientifico. Trova la sua massima espressione nell'attività di laboratorio; - il mediatore iconico utilizza per lo più un linguaggio grafico: dai disegni spontanei agli schemi, dalle mappe concettuali ai grafici; - il mediatore analogico è denominato anche ludico poiché basa il suo metodo sul gioco, la drammatizzazione e la simulazione; - il mediatore simbolico utilizza, invece, gli strumenti propri della narrazione: concetti astratti, codici linguistici, figure retoriche. Ovviamente una didattica che voglia arrivare con successo all'intera classe deve saper integrare tutti gli strumenti. Un bravo docente mediatore deve, infatti, riuscire a comprendere la personalità e il modo di relazionarsi dei suoi studenti. Il mediatore scolastico Restando sempre nell'ambito scolastico, troviamo un'altra figura mediana molto importante che è il mediatore scolastico. Il mediatore scolastico è colui che si pone al centro dei rapporti tra le diverse figure presenti nella scuola: dirigente, personale amministrativo, docenti, collaboratori e alunni. Il suo apporto è fondamentale anche nel rapporto tra scuola e famiglia. Il mediatore scolastico può intervenire per gestire i conflitti che sorgono all'interno del gruppo classe, ovviamente con la collaborazione del docente di riferimento. Molto spesso le dinamiche che si sviluppano tra docenti e discenti sono molto simili a quelle che si sviluppano tra docenti e tra questi ultimi e il personale ATA. Il mediatore ha dunque il compito di richiamare le singole figure alla responsabilità individuale nel creare relazioni funzionali. Il ricorso al mediatore scolastico può essere positivo anche nel caso in cui si verifichi un conflitto tra la scuola e le famiglie. In questo caso, il suo lavoro richiederà di attingere a tutte le qualità diplomatiche e a tutti gli strumenti di sua conoscenza per risolvere la questione. In copertina foto di 14995841 da Pixabay Read the full article
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Metodo Basaglia come nuovo modello di terapia psichiatrica
La malattia psichiatrica non si cura solo con farmaci e ricoveri. “Mancano cinquemila rose, perché tante ne abbiamo messe, ma altrettante ne avevamo in più promesse”, scrive in Quale psichiatria? (Alpha Beta 2021) Franco Rotelli, uno dei collaboratori più stretti di Basaglia, per anni direttore dei Servizi di salute mentale (Ssm) a Trieste. Oggi, quando si entra nel parco dell’ex manicomio di San Giovanni, a colpire sono i colori e i fiori. Gli edifici dipinti di giallo e rosso, le finestre e le porte spalancate da cui esce musica jazz e canti stonati, le prove teatrali dell’Accademia della follia che si mescolano nell’aria estiva alle chiacchiere dei triestini seduti al Posto delle fragole, lo storico bar del parco, e tutt’attorno il profumo delle rose. C’è un’aria allegra, anche se sono giorni di tensione per il mondo psichiatrico italiano e soprattutto triestino. A giugno la conferenza nazionale promossa dal ministro Roberto Speranza è stata disertata dalla Società italiana di psichiatria (Sip) che ne ha contestato il titolo e l’orientamento criticando “il metodo autoreferenziale di scelta degli argomenti senza confronto né discussione”. Il presidente della Sip Massimo Di Giannantonio ritiene che i metodi basagliani siano “superati”. “Forse la scelta di intitolare la conferenza ‘Per una salute mentale di comunità’ deve aver scontentato chi si riconosce in una psichiatria più tradizionale, meno sensibile ai ‘determinanti sociali’ e scarsamente impegnata nell’assistenza sul territorio”, ha ipotizzato Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di salute mentale di Modena e membro del Consiglio superiore di sanità. A Trieste questa linea di frattura si è rispecchiata nello scandalo del risultato del recente concorso per il rinnovo della direzione del Centro di salute mentale (Csm) di Barcola, aperto da Franco Basaglia nell’omonimo rione. Mario Colucci, psichiatra di formazione basagliana con una ventennale esperienza sul territorio, al primo posto della graduatoria per pubblicazioni e titoli, si è visto scalzare da Pierfranco Trincas, che dal terzultimo posto è salito al primo dopo un breve colloquio a porte chiuse.
Parco dell’ex manicomio di San Giovanni, Trieste. (Per gentile concessione dell'Accademia della follia) Trincas negli ultimi anni è stato direttore del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) di Cagliari, una realtà segnalata nel 2019 dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale a causa dell’uso della contenzione, della presenza di porte chiuse allarmate e di diverse irregolarità nelle procedure dei trattamenti sanitari obbligatori (Tso). A presiedere il concorso friulano c’era Emi Bondi, direttrice dell’Spdc di Bergamo, dove nel 2019 è morta bruciata Elena Casetto, una ragazza di 19 anni legata al letto in una stanza chiusa a chiave. L’esito del concorso, difeso dalla Sip, ha suscitato subito reazioni allarmate e ha agitato le comunità psichiatriche internazionali portando alla petizione “Save Trieste’s mental health system”, approdata sulle pagine dell’Indipendent e dell’autorevole British Medical Journal, mobilitando medici e scienziati di tutto il mondo in difesa di un modello recentemente indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità come “sistema complessivo d’eccellenza” al livello mondiale per i servizi di salute mentale di comunità. La posta in gioco Ma perché un concorso locale suscita tanta preoccupazione internazionale? In gioco c’è qualcosa di più decisivo e ingombrante: la vita di un modello di cura che da solo costituisce una scomoda anomalia e chiama in causa una certa idea di società e di politica, ma anche di scienza medica, e in definitiva il rapporto tra pubblico e privato. Che la salute mentale a Trieste e in Friuli Venezia Giulia sia gestita diversamente dal resto d’Italia lo dicono i dati e la storia. Nel rapporto “Salute mentale” del ministero i dati dell’ultimo aggiornamento mostrano alcune differenze che saltano all’occhio. In Friuli Venezia Giulia gli utenti che ricevono una visita psichiatrica entro 14 giorni dal ricovero sono l’88,9 per cento (il 100 per cento per tutte le fasce d’età tranne quella tra i 45-54 anni), contro una media del 20,1 per cento nel Lazio, del 16,5 in Veneto, del 32,8 per cento in Liguria. La percentuale delle persone ricoverate di nuovo dopo sette giorni dalle dimissioni è del 6,9 per cento in Friuli Venezia Giulia, del 9,3 per cento in Piemonte, del 14,8 per cento nel Lazio. Per quanto riguarda i Tso ogni diecimila abitanti, il Friuli Venezia Giulia ha una media molto bassa dello 0,4 per cento, contro l’1,6 per cento della Liguria, il 2,5 per cento dell’Emilia-Romagna, il 3 per cento dell’Abruzzo. Solo per citare alcuni indicatori. Questi dati hanno una storia e si radicano in un’esperienza oggi liquidata come ideologica, legata a quella rivoluzione degli anni settanta che è ora di lasciarsi alle spalle, magari smantellandola in favore di realtà private più profittevoli. La verità è che il modello psichiatrico triestino non è poi così conosciuto, vuoi per l’ingombrante fantasma di Basaglia, spesso invocato a sproposito, vuoi perché Trieste è sempre stata una città periferica rispetto alle dinamiche della società italiana. Il modello Basaglia Forse allora vale la pena di raccontarlo questo modello, per capire perché un parco con un roseto e gli edifici colorati faccia così paura, e perché a lanciare la prima pietra sia proprio la Società nazionale di psichiatria. “In gioco ci sono due diversi modi di intendere il lavoro nella salute mentale, ma direi anche due diverse idee di società”, spiega Giovanna Del Giudice, psichiatra del gruppo di Basaglia e promotrice della campagna “…e tu slegalo subito” per l’abolizione della contenzione. “Da un lato c’è una psichiatria clinica che si fonda su un paradigma biomedico, una psichiatria del posto letto, e dall’altra invece c’è una pratica che guarda all’individuo come soggetto di bisogni complessi e si basa sui servizi, perché la gente ha il diritto di essere curata in libertà. Che sia scoppiato questo conflitto è un bene, perché chiede alla politica e alla società di schierarsi”.
Parco dell’ex manicomio di San Giovanni, Trieste. (Per gentile concessione dell'Accademia della follia) È d’accordo anche Franco Rotelli: “Le persone che hanno un disturbo mentale non hanno solo bisogno di farmaci e colloqui con lo psicoterapeuta. Hanno bisogno di diritti e di poterli esercitare, hanno bisogno di una casa, di un lavoro, dell’indipendenza economica, di una sfera della sessualità e degli affetti. E questo non è affare solo della psichiatria: perché sia possibile serve un’alleanza con i cittadini e la città, le parrocchie e gli artisti, i giornali, serve un’alleanza globale”. Ed è su questa alleanza che si fonda il modello basagliano, articolato su tre fronti: quello amministrativo, quello della pratica concreta e quello della pratica artistica. Quello amministrativo è fondamentale perché a Trieste le attività che riguardano la salute mentale non hanno il loro centro nei reparti ospedalieri, come accade nella maggior parte delle città italiane, ma nei Csm che sono realtà organizzate sia per il ricovero sia per le cure ambulatoriali e domiciliari. I Csm a Trieste sono aperti tutta la settimana 24 ore su 24, il che significa avere una vicinanza costante e una conoscenza profonda delle persone con disagio mentale, che rende possibile l’eliminazione totale di qualsiasi coercizione (in Italia ci sono 319 reparti di diagnosi e cura e solo venti non usano la contenzione. Il Friuli Venezia Giulia è l’unica regione in cui in tutti i servizi della psichiatria non si contengono le persone). L’unicità di Trieste è che al centro c’è sempre la libertà dell’individuo Alla base di questo sistema non c’è solo una buona amministrazione, ma anche una pratica concreta il cui obiettivo è rendere autonoma la persona. In gran parte d’Italia, quando un utente esce dal reparto di diagnosi e cura finisce in comunità, dove la situazione si cronicizza e non esce più. A Trieste invece per ogni soggetto si predispone un budget di cura, cioè un percorso economicamente sostenuto che risponda alla domanda: cosa serve a questa persona per rientrare nella società? Si costruisce un progetto sul singolo che parte dai suoi desideri. Per fare questo è fondamentale il lavoro con le cooperative sociali, le istituzioni cittadine, il tessuto urbano. A Trieste la rete è forte. “Da noi più del 40 per cento dei lavoratori proviene dall’area della salute mentale”, spiega Stefania Grimaldi, operatrice della cooperativa La collina. “C’è il pregiudizio che realtà come le nostre, che hanno a che fare con la salute mentale ma possono anche gestire bar, musei, occuparsi di pulizie o formazione informatica, forniscano servizi di bassa qualità, ma da anni non è più così, altrimenti non stai nel mercato”. Anche questa rete di lavoro è sotto attacco. “È un modello difficile da portare avanti, ma dobbiamo cogliere questa occasione per rinsaldare alleanze storiche, mettere in sicurezza quello che fa parte delle nostre pratiche. Nel percorso di Basaglia le assemblee sono state una pratica fondamentale per gettare le basi del cambiamento ed esercitarlo fino in fondo. Non si trattava solo di buttare giù i muri del manicomio, ma di ridefinire le relazioni di potere perché salute mentale di comunità non vuol dire solo che esistono i servizi e non gli ospedali, ma che la comunità diventa corresponsabile della salute dei suoi cittadini”. Penso alla parola assemblea e fatico a immaginarla come una pratica efficace per gestire una realtà così complessa, forse lo è stato nei rivoluzionari tempi di Basaglia quando lo scontro tra pubblico e privato era meno feroce. Poi invece, mentre vago nel parco di San Giovanni, sotto l’ombra del caseggiato con la scritta rossa “La libertà è terapeutica” disegnata dall’artista Ugo Guarino – che insieme a Giuliano Scabia fu uno degli artisti che diedero voce alle pratiche basagliane – vedo un centinaio di persone riunite sotto un glicine. Sono psichiatri giovani e della vecchia guardia, utenti, familiari, studenti, qualche infermiere. Cosa stanno facendo? “È un’assemblea autoconvocata”, mi spiega sorridente un giovane operatore sociale conosciuto come Pantxo Ramas. “L’assemblea è sempre stata uno strumento centrale nella vita delle strutture psichiatriche basagliane. Qui la persona con disturbo mentale ha gli stessi diritti dello psichiatra, ma anche gli stessi doveri, tutti devono spiegarsi, raccontarsi, autocriticarsi, nessuno accusa e nessuno si difende”. Se Foucault aveva descritto lo psichiatra come il “signore della follia”, depositario di un sapere incontestabile, nel cortile dell’ex manicomio triestino è evidente come a essere messa in crisi sia proprio l’idea di un sapere come potere, il controllo del medico sul malato. In ballo è invece l’apertura di uno spazio di espressione dove la malattia mentale riesca a mettere in gioco tutti. “Qui lavorano tre dimensioni: quella del corpo fragile, del corpo curante e del corpo sensibile”, continua Ramas. “Il corpo fragile è costituito dalle persone con disagio, ma la precarietà delle condizioni di lavoro rende fragili anche gli operatori. Il corpo sensibile dovrebbe essere quello degli operatori e dei cooperanti, ma spesso la sensibilità degli utenti è la più sottile. Il corpo curante poi esiste solo dentro una relazione e quindi è sempre molteplice”.
Un’attività nel parco dell’ex manicomio di San Giovanni. (Per gentile concessione dell'Accademia della follia) Sotto il glicine, in questa atmosfera di allarme ma anche di grande energia e voglia di fare comunità perché un modello di cura non finisca demolito, le voci si alternano con partecipazione. Conosco Arturo, ha 31 anni ed è entrato in contatto con i servizi di salute mentale quando ne aveva 18: “Posso dire di aver vissuto in prima persona dei momenti di esclusione dalla società, ma da quando sono entrato in contatto con i servizi le cose sono migliorate sempre di più. Per me è stato importante cominciare fin da subito a lavorare, prima in una casa editrice, poi nell’organizzazione di un festival di poesia, poi in un’azienda. Oggi lavoro come addetto alla formazione in una cooperativa sociale per attività di inclusione digitale e progetti culturali, per cui organizzo conferenze internazionali lavorando anche come interprete”, racconta con calore. “L’unicità di Trieste è che al centro c’è sempre la libertà dell’individuo. Nessuno nega la terapia, ma è sempre negoziata con la persona. Il farmaco è utile, ma da solo non è niente, non riesce a farti superare quel vuoto di relazioni, di significato”, dice Arturo. “Qui il vuoto è colmato grazie a un sistema dove, anche se decidi di non prendere la terapia per un periodo, il servizio ti sta vicino, ti segue, ma senza forzarti a fare nulla. Se alla persona manca una casa per vivere bene, le viene offerta una soluzione abitativa, se manca il lavoro vengono fornite delle opportunità, se manca la socialità, si lavora tantissimo per crearla. E piano piano tu riesci a emanciparti e pesare sempre meno sul servizio. A quel punto sta a te decidere se rimanere all’interno di questo tessuto o uscirne. Io ho scelto di restare qui seguendo un po’ la filosofia racchiusa nel concetto giapponese dell’ikigai, che vuol dire ‘ragione d’esistere’, ciò che ti permette di avere una vita felice in un equilibrio tra le tue vocazioni e la società. Lavorando in una cooperativa sociale faccio delle cose che hanno un’utilità e restituiscono anche un senso di responsabilità etica”. Un’esperienza dove la scelta, l’esercizio di una responsabilità da parte delle persone è al centro. “Il modello triestino non è una semplice risposta a una difficoltà ma è la creazione di un circuito che va a dare senso a un’esperienza, come quella della malattia mentale, che senso non ne ha. Se tu pensi che i problemi si risolvano con un farmaco, è una risposta molto riduttiva. Anche il discorso della pericolosità sociale si azzera se c’è un sistema che dà senso all’esperienza. La cosa importante è che le crisi, che possono capitare nella vita, siano trasformate in opportunità. Se togli lo stigma e il giudizio le crisi sono energie in movimento, e se riesci a canalizzarle bene possono portarti a una determinazione maggiore e renderti più forte”. Modelli a confronto Basterebbero le parole di Arturo a zittire molti discorsi che animano il conflitto tra la Società italiana di psichiatria e realtà basagliane. Basterebbe venire a san Giovanni dove le porte sono aperte, la gente si ritrova a discutere con responsabilità e tutti si raccontano volentieri in un’aria allegra e propositiva. Un’aria molto diversa da quella che si respira in questi mesi nel dipartimento di salute mentale, dove la direzione dell’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina del Friuli Venezia Giulia ha negato ai suoi dipendenti l’autorizzazione a raccontarci il loro lavoro. Perché tanta paranoia tra la dirigenza dell’Azienda sanitaria? Perché tanto accanimento contro il modello triestino? “Perché è un modello difficile”, dice Rotelli. “Studi medicina per anni sognando di indossare un camice, poi diventi psichiatra e capisci che il camice non serve a niente, che la psichiatria ha uno statuto epistemologico debole e allora devi guardarti dalla tentazione di sostituirlo con il potere. La politica guarda alle persone fragili pensando ‘dove le metto?’, perché dove li metterai produrrai denaro. Invece qui ci si è sempre interrogati sul ‘cosa faccio insieme?’, che è una domanda che produce complicazioni. A Trieste è stato possibile dimettere le persone dai manicomi perché siamo andati fuori con loro, noi psichiatri e infermieri: non abbiamo scaricato il peso sulle famiglie ma non abbiamo nemmeno scaricato i malati. Abbiamo costruito servizi”. Per capire quanto il modello triestino sia lontano da quello del resto d’Italia basta ascoltare le parole di Pierfranco Trincas, il vincitore del concorso: “Intendo lavorare moltissimo con i pazienti” dice il neodirettore del Csm, rispondendo alle mie domande sulle novità che vuole portare a Trieste. Colpisce l’uso disinvolto del termine “pazienti” che nelle realtà del Friuli Venezia Giulia non si sente pronunciare da almeno quarant’anni tra gli operatori della salute mentale. Una differenza minima che però sottintende una consapevolezza tutt’altro che secondaria. “Vorrei migliorare i servizi per le famiglie, come ho fatto a Cagliari, dove ho istituito dei consulenti legali perché i pazienti possono creare dei problemi. Voglio fornire alle famiglie assistenti con varie competenze, perché spesso i pazienti hanno bisogno di essere amministrati. E poi vorrei istituire un ricovero solo di volontari, perché spesso il paziente chiede di essere ricoverato, e spesso questo è un sollievo per lui e per la famiglia”. Per ricovero Trincas intende quello ospedaliero. “Noi cerchiamo di umanizzare il reparto, per esempio permettendo ai familiari di entrare, di passare del tempo in giardino dove i pazienti possono liberamente fumare, facciamo anche delle piccole feste per i compleanni”.
Un’assemblea nel parco dell’ex manicomio di San Giovanni, Trieste. (Per gentile concessione dell'Accademia della follia) Un modello di salute psichiatrica che suona semplicistico rispetto a quello triestino. Ma allora perché quest’ultimo non si è diffuso in tutta Italia nei più di quarant’anni trascorsi dalla legge 180? Giovanna Del Giudice sorride: “L’esperienza triestina è nata sotto una buona stella. Basaglia e noi che lavoravamo con lui volevamo cambiare un pezzo di mondo. Lavoravamo perché non ci fosse distanza tra i cambiamenti nel nostro privato e quelli del nostro lavoro. Questo è un mestiere faticoso perché presuppone una grande responsabilità nei confronti della singola persona con un disturbo mentale, della sua famiglia, del gruppo di lavoro in cui è inserito, è una responsabilità che significa un impegno professionale, umano e etico che costa tanto e non finisce quando scadono le ore. E non parlo di volontariato o buoni spiriti, ma di responsabilità. Non a caso le persone che hanno lavorato a Trieste non hanno mai fatto professione privata”. Read the full article
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Vinco perché nessuno mi nota, nessuno mi vede mai arrivare: lo dice Al Pacino al giovane Keanu Reeves nel film “L’avvocato del diavolo”. Una parte che sembra attagliarsi bene a un attore come Giuseppe Conte, fino a 3 anni fa perfettamente sconosciuto. Ma il due volte premier, prima al servizio del sovranismo-populismo gialloverde e ora prediletto dall’Ue, non era l’avvocato del popolo? Tutto tiene, se si rilegge la storia con le lenti della pellicola di Taylor Hackford, uscita nel ‘97: puoi fare bingo, se nessuno sa veramente chi sei. Quando lo scoprono è ormai troppo tardi: siedi già a Palazzo Chigi. Da lì obbedirai ai tuoi veri padrini. Dietro a Conte, c’è lo stesso potentissimo club vaticano sul quale poteva contare l’eterno Giulio Andreotti, ininterrottamente in sella per mezzo secolo. Altra stoffa, certo. Ma identici mandanti? «Conte può, come Di Maio, «È un Di Maio 2.0 nel momento in cui Di Maio non viene creduto più». Del resto ne ha fatta, di strada, il devoto di Padre Pio. «Partito da Volturara Appula, a Roma ha costruito un network trasversale di relazioni che spazia tra il mondo dei giuristi-grand commis dello Stato e il Vaticano».
Quando il suo nome viene ufficiosamente fatto pervenire sul tavolo di Sergio Mattarella da Di Maio e Salvini, a maggio del 2018, si avviano discreti sondaggi (non solo da parte del consigliere Ugo Zampetti) per avere qualche notizia in più su questo giurista, «che il capo dello Stato non conosce personalmente»,. Si attiva così un informale giro di pareri, «nessuno dei quali si rivelerà negativo». Viene tenuto in considerazione Giacinto Della Cananea, un altro giurista (allievo di Sabino Cassese) che Di Maio aveva messo a capo di una strana entità, il “Comitato per valutare la compatibilità del programma M5S con i programmi degli altri partiti”. I commenti provenienti dal mondo di più influenti giuristi romani pervengono a Bernardo Giorgio Mattarella, figlio del presidente della Repubblica e docente di diritto amministrativo a Siena, oltre che condirettore del master in management della pubblica amministrazione alla Luiss di Roma (dove anche Conte tiene corsi). «I rapporti accademici di questo avvocato pugliese sono, insomma, ben coltivati». Conte figura tra i relatori – ben più illustri – del forum annuale sulla strategia energetica nazionale: tra questi il consigliere di Stato Luigi Carbone, lo stesso Bernardo Giorgio Mattarella e un altro Cassese-boy, Giulio Napolitano, figlio di Re Giorgio e professore di diritto amministrativo a Tor Vergata.
Insomma, Conte ha un profilo pacato e ben inserito». E, ciò che più conta, «non attiva veti di nessuno sulla sua figura: è talmente poco noto e silente che non fa rumore, si muove abbastanza in sordina, non è osteggiato da influenti colleghi giuristi del Palazzo». Spiega “l’avvocato del diavolo”, nel film di Hackford, all’aitante apprendista: «Non se ne devono accorgere, che arrivi. Devi mantenere un profilo basso. Sembrare insignificante: uno stronzetto, emarginato. Sottovalutato, dal giorno della nascita». Mario Calabresi, all’epoca direttore di “Repubblica”, osserva che è singolarissima la circostanza di un uomo che arriva sulla soglia di Palazzo Chigi senza che nessuno abbia mai sentito il suo tono di voce, o sappia se è in grado di parlare in pubblico. «Conte però sa eseguire, e non è uno con la cattiva fama di voler strafare». «L’esecuzione potrebbe aver trovato il suo uomo. Una capacità che, forse, è stata affinata fin da ragazzo tra le felpate stanze di Villa Nazareth, il collegio cattolico che aiuta i giovani studenti di famiglie non abbienti a mantenersi (anche Conte ci ha studiato, ma da non residente all’interno della struttura; per essere residenti bisognava che in famiglia entrasse un solo stipendio)».
L’Istituto Nazareth – fondato nel dopoguerra da monsignor Domenico Tardini, che dopo la morte darà il nome alla Fondazione che gestisce il centro – è un luogo simbolo del cattolicesimo democratico italiano. «Dietro i suoi cancelli, andando a ritroso, sono transitati negli anni, come professori o come ospiti, Sergio Mattarella, Romano Prodi, Oscar Luigi Scalfaro, fino ad Aldo Moro». Il porporato di peso che tiene d’occhio nella sua prima formazione lo studente Conte è – guardacaso – monsignor Pietro Parolin, oggi segretario di Stato del Vaticano. «Nel corso degli anni si fa sempre più stretto il rapporto di affetto di Conte verso monsignor Parolin, un uomo che in più di una occasione – a Roma come a Washington, e all’ambasciata presso la Santa Sede – Luigi Di Maio ha incontrato e consultato, spesso nella massima riservatezza, nel processo di avvicinamento del Movimento Cinque Stelle alle stanze vaticane, e al governo». In quella fase, a metà maggio 2018, non sono in pochi, anche nel mondo cattolico romano delle più diverse ispirazioni – non solo a Villa Nazareth – a interessarsi a quel movimento «così plasmabile, malleabile, apparentemente romanizzabile», e quindi «così potenzialmente utile per tramandare l’eterna struttura, immutata, del potere temporale e spirituale della romanità».
Certo – è assai diverso il cattolicesimo di Parolin da quello del cardinale Raymond Burke, l’ultraconservatore amico di Steve Bannon, l’ex “strategist” della Casa Bianca, «anche lui di casa sia Oltretevere che nella politica italiana post-4 marzo, e in particolare nel Movimento Cinque Stelle con cui, come sappiamo, Bannon ha dichiarato di aver avuto diversi incontri». Tra parentesi: l’ideologo sovranista Bannon, massone reazionario, è stato formato alla Georgetown University di Washington, culla del potere gesuitico negli Usa. E dunque, si domanda Iacoboni: quale Vaticano sta vincendo, nel 2018, con l’insediamento del primo governo guidato dal premier Giuseppe Conte? Il Vaticano di Parolin o quello di Burke? «Chi prevale nel conflitto, che da allora diventerà endemico di questa stagione italiana: il Conte teorico del sovranismo, allineato agli interessi di Salvini e Casaleggio, o il Conte apprezzato nell’ambiente dei giuristi romani, e nel Vaticano moderato e più “politico”, il Conte che a dicembre del 2018 porta a casa – certamente incoraggiato e quasi guidato dalla presidenza della Repubblica – il negoziato con l’Europa per evitare la procedura d’infrazione, che a un certo punto il suo governo era sembrato quasi cercare?».
La figura del premier-esecutore «riassume in sé tutta l’ambiguità di questo biennio, le ombre e i poteri che si addensano e circondano l’esecuzione, e il fatto che molti segmenti istituzionali, o pezzi di centrosinistra, siano ancora convinti, o a volte semplicemente fiduciosi, di poter disarticolare il Movimento, e usarlo, assimilarlo, ricondurlo nelle spire sempre avvolgenti della romanità». E tuttavia, di nuovo: «L’esecuzione è esecuzione di cosa, e per conto di chi?». Il fine ultimo di questo intreccio così appassionante di storie e relazioni, umane e politiche, resta controverso, «Sebbene il governo Lega-Movimento e la pulsione estremista-sovranista appaiano resistenti e tenaci, nell’autunno-inverno del 2018-2019, degli spread, del degrado dei rapporti dell’Italia con l’Unione Europea e degli editti dei Cinque Stelle contro i giornali, una cosa è certa: non tutto cambia, nel “governo del cambiamento”. Molti poteri sono all’opera per resistere immutati, cambiare tutto per non cambiare nulla o, al limite, staccare il Movimento dalla Lega». Il potere che ha messo Conte a Palazzo Chigi con la Lega ora si gode il Conte-bis col Pd. «Tu non mi crederesti mai un padrone dell’universo, non è vero?», domanda Al Pacino a Keanu Reeves, a cui l’anonimo e insignificante “avvocato del diavolo” svela la sua arma infallibile: «La gente non mi vede arrivare».
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Mare Jonio, sequestro della nave e multa da 300mila euro. Mediterranea: “Surreale, ci hanno dato ok a entrare” Dopo lo sbarco a Lampedusa degli ultimi 31 migranti rimasti a bordo della nave, la Guardia di Finanza ha posto l’imbarcazione di Mediterranea Saving Humans sotto sequestro. “Questo sequestro amministrativo della nave è veramente surreale, noi siamo stati autorizzati a entrare in acque territoriali, è un dispetto fatto a noi per non tornare in mare a salvare vite umane. Ma tanto ci torneremo, perché la giustizia ci darà ragione. Qui siamo davanti a un conflitto istituzionale enorme”, ha commentato la portavoce della ong, Alessandra Sciurba. La responsabile dell’organizzazione sottolinea che l’equipaggio – a differenza di quanto fatto da quello della Eleonore, che è entrata lunedì nel porto di Pozzallo con 104 migranti a bordo forzando il divieto imposto dalle autorità italiane – non ha mai violato il divieto d’ingresso in acque territoriali, fino a quando non gli è stato dato l’ok da parte della Guardia Costiera: “Ci è stato consegnato nella notte il provvedimento di sequestro amministrativo e una multa da 300mila euro per avere violato il decreto Sicurezza – continua – È un conflitto istituzionale, siamo entrati dopo l’autorizzazione della Guardia Costiera, dopo avere avviato le pratiche di sbarco. L’approdo doveva essere stamattina ma per la concomitanza dell’arrivo del traghetto ci hanno detto di potere attraccare solo alle 10″. Il cambio di atteggiamento da parte delle autorità, secondo il racconto della portavoce, è avvenuto intorno a mezzanotte: “Ci è stato consegnato il provvedimento e hanno preso l’armatore e il comandante e li hanno portati in caserma per la verbalizzazione – racconta – L’averci contestato di avere violato il decreto Salvini con un’autorizzazione formale di un’autorità di questo Stato crea una situazione davvero surreale che sembra rinviare più a una sana ‘vendetta’ da parte di chi non sopporta che qualche volta la giustizia prevalga, come è successo ieri”. Punto di vista espresso anche il capo missione, Luca Casarini, che all’Adnkronos ha dichiarato: “Il sequestro della nave Mare Jonio è stato un abuso di potere bello e buono. Una piccola e miserabile vendetta. Il ministro Salvini nei suoi ultimi cinque minuti al Viminale ha voluto fare questo scherzo”. Quando gli hanno notificato il provvedimento, sostiene, i finanzieri si sono detti “costernati”. Ma la Mare Jonio, qualsiasi siano i provvedimenti a suo carico, tornerà sicuramente in mare, conclude Sciurba: “Per noi – aggiunge – la cosa importante è avere portato le persone a terra in sicurezza. E torneremo presto in mare, non ci fermerà nessuno. Ma la giustizia sarà ripristinata come è accaduto altre volte. Solo che questo dispetto rischia di tenere lontana dal mare per un po’ una nave e mentre ci sono bambini, come i 22 salvati da noi, che ci lasciano la pelle in mare”. Il Fatto Quotidiano
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25 lug 2020 13:36 IL FIDANZATO DI ROCCO CASALINO, IL CUBANO JOSÉ CARLOS ALVAREZ AGUILA, SEGNALATO ALL'ANTIRICICLAGGIO - L’UOMO, CHE LAVORA COME CAMERIERE, È FINITO SOTTO CONTROLLO PER AVER MOVIMENTATO SUL PROPRIO CONTO CIRCA 150 MILA EURO: ATTRAVERSO UNA CARTA RICARICABILE, ALIMENTATA ANCHE DAL CONTO CORRENTE DI CASALINO, INVESTIVA FINO A 2 MILA EURO IN UN GIORNO PER ACQUISTARE TITOLI SUI SITI DI TRADING ONLINE, INCAMERANDO COSPICUE PLUSVALENZE - È NORMALE CHE IL COMPAGNO DI UN UOMO CHE CONOSCE IN ANTEPRIMA LE DECISIONI DEL GOVERNO SCOMMETTA SU DEI TITOLI CHE GLI PERMETTONO DI INCASSARE LAUTI GUADAGNI? NON C'È IL RISCHIO DI UN CLAMOROSO CONFLITTO D'INTERESSI?
Giacomo Amadori Giuseppe China per “la Verità”
Per giornalisti e fotografi di tutto il mondo è l'ombra del premier Giuseppe Conte, il suo inseparabile consigliere-portavoce. Affianca il capo del governo in ogni vertice europeo che conti, facilitato dalle sue doti di poliglotta (dice di parlare cinque lingue). Il quarantottenne Rocco Casalino da Frankenthal (è figlio di pugliesi immigrati in Germania) è un tipo eclettico e ambizioso: dopo il diploma a pieni voti e la laurea in ingegneria, ha prima assaporato il mondo dello spettacolo e successivamente ha intrapreso la carriera di uomo comunicazione. Grazie all'attuale incarico a Palazzo Chigi porta a casa un stipendio di tutto rispetto: 170.000 euro l'anno, salario comprensivo di emolumenti accessori e indennità varie.
Ma in pochi sanno che, in caso di uscita dal mondo della politica, ha pronto un piano B: fare l'imprenditore nel settore della ristorazione. La notizia l'abbiamo appresa da una segnalazione inviata all'Ufficio antiriciclaggio della Banca d'Italia dai risk manager di un noto gruppo bancario con filiale in Largo di Torre Argentina a Roma, agenzia in cui ha il conto il compagno di Casalino, il trentenne cubano José Carlos Alvarez Aguila. Ma che cosa c'entra l'Antiriciclaggio con il ristorante?
Partiamo dalla segnalazione, che in qualche modo sfiora anche il ruolo istituzionale ricoperto da Casalino. Al centro dell'alert del giugno scorso c'è la carta prepagata del compagno caraibico del portavoce di Palazzo Chigi. Alvarez Aguila ha movimentato sul proprio conto circa 150.000 euro e il rapporto è stato «alimentato» da un'indennità Naspi di disoccupazione, da «modesti bonifici senza causale provenienti dal compagno» e «da un bonifico proveniente da un conto tedesco della Plus500, società finanziaria internazionale che fornisce servizi di trading online».
Cioè una società che consente la compravendita di valuta e di azioni sulle varie Borse internazionali. Quel che pare di capire è che il trentenne cubano giochi sui mercati finanziari, con ottimi risultati, attraverso una piattaforma di origine israeliana, la Plus500, con filiali in giro per il mondo. Ma scommette anche con la greca Fortissio.com, specializzata in «trading protetto».
Infatti in un altro passaggio della segnalazione si legge che la carta prepagata viene utilizzata per «pagamenti verso siti di trading online come Plus500 e Fortissio.com ed appaiono operazioni rilevanti rispetto al bilancio economico del cliente (ad esempio pari a oltre 2.000 euro nella stessa giornata)».
Ricapitoliamo: il fidanzato di Casalino, di professione cameriere o giù di lì, attraverso una ricaricabile, investirebbe anche 2.000 euro in un giorno per acquistare titoli su siti di settore, incamerando cospicue plusvalenze che vanno ad alimentare il suo conto. Ma è normale che il compagno di un uomo che conosce in anteprima le decisioni del governo scommetta online su dei titoli che gli permettono di incassare lauti guadagni? Non c'è il rischio di un clamoroso conflitto d'interessi? Gli stessi dubbi deve averli avuti chi ha inviato la segnalazione all'Antiriciclaggio.
Alvarez Aguila ha spiegato alla sua banca che la carta di credito è posseduta dalla madre che vive a Cuba, la quale «effettua prelievi di contanti seppur di poco conto presso banche locali». Ma dalla banca obiettano che «l'utilizzo fisico della carta non esclude la possibilità di compiere operazioni online da parte del segnalato». Per arrivare a questa conclusione: «Alla luce di tale utilizzo improprio della carta e della movimentazione compiuta si ritiene opportuno l'inoltro della presente». Infatti vengono ritenuti sospetti «scambi di bonifici tra rapporti collegati con causali generiche, unitamente a operazioni di trading probabilmente eseguite da soggetto terzo».
Non è difficile immaginare chi sia il «soggetto terzo» sospettato di puntare su questo o quel titolo con la carta intestata ad Alvarez Aguila. Chiunque sia, Casalino o meno, chi investe sui due siti di trading online lo fa utilizzando informazioni privilegiate? È probabile che questo tema sia in fase di approfondimento. José Carlos e Casalino vivono in un bell'attico con vista Tevere, la dimora romana dell'ex concorrente del Grande fratello. Sulla riva opposta del fiume si trova la Suprema Corte di Cassazione. Quando suoniamo al citofono, dall'appartamento al quinto piano ci risponde proprio il giovanotto, che parla italiano. Sappiamo che la sua banca ha fatto una segnalazione all'anti riciclaggio. «Uhm uhm».
Chi è che usa quel conto e quella carta? «Il conto è a mio nomeno?» ci risponde. Quindi è lei che gioca in borsa? «Sì». Ma che cosa fa oggi Alvarez Aguila? Almeno sino a maggio ha lavorato come dipendente a tempo pieno all'Antico forno Argentina, enoteca nel cuore di Roma. Un addetto ci spiega che il locale ha riaperto da poco e che José Carlos non fa più parte della nuova squadra.
Il cittadino cubano, che durante il lockdown ha percepito l'assegno del Fondo di integrazione salariale, nega che il rapporto si sia interrotto: «Sono ancora sotto contratto e lavoro in sala». In ogni caso lo stipendio da cameriere poco si concilia con le sue cospicue puntate sui siti di trading online. Da quando è sbarcato nel nostro Paese José Carlos ha lavorato per diverse società, quasi tutte nel settore della ristorazione. Negli ultimi tre anni è stato dipendente anche della Temakinho Italia, che gestisce l'omonima catena di ristoranti nippo-brasiliani.
Dopo questa esperienza, come si legge nella segnalazione, ha percepito per oltre un anno, tra il 2018 e il 2019, l'indennità di disoccupazione Naspi. Poi, dopo un breve part-time allo Sheket, un risto-club a due passi dal Ghetto ebraico di Roma, è arrivata l'assunzione all'Antico forno. Ammortizzatori e stipendi che non hanno mai superato i 2.000 euro lordi al mese. Sarà per questo che la banca ha trovato sospette quelle puntate da 2.000 euro netti in un sol giorno sui siti di trading online.
Nella segnalazione all'Antiriclaggio c'è anche un'altra notizia. Quella del piano B di Rocco e del suo compagno. Infatti la coppia, il 13 novembre scorso, davanti al notaio romano Gianluca Abbate, ha fondato la Riomaki, società a responsabilità limitata semplificata. Le quote societarie sono equamente divise tra i due uomini e hanno un valore nominale di 5.000 euro. Per questo hanno «versato all'organo amministrativo» 2.500 euro a testa «in contanti». Un'operazione che con la regola introdotta dal secondo governo Conte (il tetto di 2.000 euro per i pagamenti cash) non sarebbe stata possibile.
Dall'atto costitutivo apprendiamo che Casalino è ancora residente a Ceglie Messapica (Brindisi) e che il suo compagno, nato all'Havana l'11 ottobre 1989, è, invece, residente all'indirizzo dell'appartamento romano in cui convivono. Inoltre José Carlos nel novembre scorso risultava «munito di regolare permesso di soggiorno rilasciato dalla Questura di Roma in data 12 marzo 2019 con scadenza il 20 marzo 2020». Permessi che vengono via via rinnovati.
L'oggetto sociale della Riomaki, che alla Camera di commercio risulta ancora inattiva e ha come amministratore unico Alvarez Aguila, è l'attività di ristorazione, «con particolare riferimento alla preparazione di piatti e di specialità a base di pesce crudo (sushi, sashimi, carpacci e simili) e in generale di cibi orientali e sudamericani nonché con particolare riferimento a piatti e specialità a base di carne (bisteccheria, braceria, steak house)».
Insomma, sembra di capire che l'idea sia quella di una cucina fusion, dove Giappone e America Latina si fondono, in perfetto stile Nobu. Ma per non farsi mancare nulla Rocco e José Carlos non escludono di lanciarsi nella gestione di pizzerie, trattorie, osterie, tavole calde, self service, pub, paninoteche, bar, pasticcerie, gelaterie, mense, banqueting nonché nella fornitura di pasti preparati. Non è finita.
La Riomaki è pronta a gestire discoteche e locali notturni, ma anche a produrre e commercializzare bevande alcoliche e prodotti alimentari. Infine, tra i possibili business, c'è la direzione di alberghi, villaggi turistici e residence, oltre all'organizzazione di eventi. Insomma Rocco e José Carlos vedono il loro futuro a contatto con il pubblico. Ed è già una notizia, vista la riservatezza che avvolge la vita della coppia. Raramente i due finiscono sui giornali di gossip.
Su Internet si trovano le foto di Chi, quando i paparazzi del settimanale mondadoriano immortalarono l'ex concorrente della prima edizione del Grande fratello e il «fidanzato cubano Marco» (così veniva identificato all'epoca) durante un «week end romantico» sull'isola di Ponza. Era il luglio del 2018. José Carlos, barba appena accennata e cranio rasato, indossava occhiali scuri e uno striminzito slippino rosso da cui debordavano muscoli ben torniti.
Il Corriere della Sera aggiunse che il giovanotto era in Italia dal 2014 e che Rocco lo aveva presentato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella il giorno del giuramento del primo governo Conte.Ora sappiamo anche che Alvarez Aguila è appassionato di trading online e vorrebbe aprire un ristorante di sushi insieme con il suo Rocco. Sempre che la segnalazione all'Antiriciclaggio non complichi i loro piani.
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«Coreografia non autorizzata». Il linguaggio questurino potrebbe sembrare una neo lingua orwelliana, criptica, per iniziati, insidiosa. Coreografia non autorizzata starebbe a indicare l’esposizione di foto di Federico Aldrovandi nelle curve degli stadi. Un gesto da sanzionare penalmente. Come sta accadendo a diversi tifosi. L’unica coreografia che viene in mente, però, è la danza macabra di quattro agenti di polizia attorno al corpo agonizzante di un ragazzo di diciannove anni. Oppure lo spettacolo, indegno per una democrazia, di delegati di un sindacato di polizia legato alla destra politica che tributano una lunga standing ovation ai quattro poliziotti-danzatori, condannati in tre gradi di giudizio per l’omicidio di Federico Aldrovandi. Lo scorso week end, migliaia di appassionati di calcio hanno voluto contestare pacificamente il divieto imposto dall’Olimpico all’ingresso del bandierone storico dei tifosi della Spal, quello con il volto di Federico Aldrovandi. L’iniziativa è uscita fuori dagli stadi di calcio blasonati o amatoriali fino a contagiare luoghi dello sport popolare o della socialità fuori mercato. Ma ora alcune misure repressive che, ufficialmente, dovevano servire ad arginare la violenza negli stadi, vengono brandite contro chi contesta la violenza di Stato e gli abusi di malapolizia. Lo stadio si conferma il terreno per sperimentazioni liberticide da estendere nelle piazze e negli spazi del conflitto sociale. «In occasione dell’incontro di calcio Ternana-Parma dello scorso 8 dicembre, prima dell’inizio della partita, contestualmente all’ingresso delle squadre sul terreno di gioco, dalla tifoseria ospite, sistemata in Curva Ovest, sono stati accesi due fumogeni. Nella pausa fra il primo ed il secondo tempo è stato esposta una coreografia non autorizzata», recita la velina della questura di Terni annunciando che «I fatti sono stati filmati dalle telecamere dello stadio, attraverso cui la Polizia di Stato ha individuato gli autori delle condotte. Al termine dell’indagine, condotta dalla DIGOS, è scattata la denuncia nei confronti di due tifosi per l’accensione di strumenti per l’emissione di fumo ed è stato avviato nei loro confronti l’iter amministrativo per l’irrogazione della misura del D.A.S.P.O; per altri tre tifosi è scattata la sanzione amministrativa per la violazione del regolamento d’uso dell’impianto sportivo». Tutto «senza mai menzionare l’oggetto vero della questione – scrive Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa – l’iniziativa per Federico Aldrovandi a cui la tifoseria del Parma come tantissime altre tifoserie ha aderito. Questa omissione implicitamente ci spiega le vere ragioni di quei provvedimenti. Come ce lo spiega il gesto della questura di Siena che ha strappato, oggi, la pezza con il volto di Aldro dalla balaustra della curva, fatto inammissibile del quale ci hanno appena informato i suoi Ultras. Come ce lo spiegano le minacce ai sostenitori del Prato che ci denunciano questo: “Ad inizio secondo tempo, alcuni steward e poliziotti in divisa e non, (dopo aver strappato un drappo di Aldrovandi dalla curva del Siena) sono entrati nel nostro settore intimandoci (pena il DASPO) di levare lo striscione con la foto di Aldrovandi.” Provvedimenti e gesti di una gravità enorme. Di Federico, ragazzo di 18 anni ucciso da 4 poliziotti, non si deve più parlare. Della risposta coordinata e di massa che hanno dato tantissime curve neanche». Acad, nell’ambito della campagna #FedericoOvunque, partita dopo il divieto di ingresso all’Olimpico per una bandiera della Spal con il volto di Federico, invita tutti i tifosi a segnalare pubblicamente eventuali multe e diffide ritorsive . Dal canto suo, l’associazione metterà a disposizione tutte le proprie risorse morali e materiali per assistere coloro che sono stati colpiti da questi provvedimenti. La vicenda di Federico Aldrovandi, a dodici anni dall’omicidio dell’Ippodromo di Ferrara, è ancora ben presente nella memoria di alcune generazioni di giovani, cittadini, antiautoritari, frequentatori di curve, militanti. E’ l’archetipo di ogni storia di malapolizia: un abuso violentissimo, letale, commesso da pochi ma coperto da molti e molto in alto, che viene alla luce grazie al coraggio dei familiari, degli amici, dei circuiti che quotidianamente si battono contro la repressione, di cronisti di controinformazione fino ad arrivare a un processo pubblico dove le responsabilità emergono finalmente con chiarezza. E in una società dopata dalle fantomatiche emergenze sicurezza si squarcia il velo di Maya e, grazie a Federico, diventa nudo il Re. Per questo sembra che alcuni settori delle polizie cerchino una vendetta. Ma la chiamano legalità. #FedericoOvunque
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"BUONE notizie per te, Donald". Così titolava ironicamente, dopo la pubblicazione di una nuova ricerca dell'Università di Losanna uscita sul Journal of Applied Psychology, un sito americano. Perché secondo i ricercatori svizzeri non bisogna essere troppo intelligenti per essere dei leader davvero efficaci. Come a dire, Trump "non corre rischi". Lo studio sottolinea che un'alta intelligenza può aiutare ad essere un capo migliore, ma soltanto fino a un certo punto perché i leader più brillanti (come QI) sono fra quelli meno efficaci, per lo meno dal punto di vista dei loro dipendenti.
·LA RICERCA SVIZZERA
Per stabilire quanto affermato gli psicologi hanno reclutato circa 380 dirigenti di medio livello di 30 Paesi europei che lavorano in società private di vario tipo, dal campo amministrativo a quello delle banche, la vendita al dettaglio o le telecomunicazioni. L'età media dei partecipanti era di 38 anni e il 27% erano donne. A tutti è stato chiesto di compilare un questionario sulla personalità e di fare un test di intelligenza, il Wonderlic Personnel Test. Il quoziente d'intelligenza medio dei coinvolti era pari a 111, dunque superiore alla media della popolazione generale (100).
·LEADERSHIP: MEGLIO LE DONNE
Il passo successivo è stato quello di far valutare questi "leader" da colleghi o dipendenti subordinati: dovevano giudicare la leadership attraverso un questionario che misura vari stili e metodi di comando. In generale, quando il QI restava intorno al valore medio misurato fra i leader valutati (111) la loro capacità di comandare veniva giudicata positivamente mentre più il QI cresceva (dai 120 in poi) la leadership veniva indicata "problematica" o "non buona" dai subordinati. Inoltre, nel complesso, è emerso che le donne erano leader migliori rispetto agli uomini e in generale i capi più anziani erano più positivi di quelli giovani.
·INTELLIGENZA E COMANDO
Tra le altre considerazioni, trattandosi di un esame su leader di medio livello, c'è anche quella che un leader con un quoziente d'intelligenza molto alto avrebbe avuto più difficoltà, per i colleghi, a raggiungere ulteriori vette nella carriera: questo perché l'estrema intelligenza pareva entrare in conflitto con le capacità di comando. Valutando le risposte su dirigenti con un QI superiore a 128 questo conflitto diventava ancora più evidente: in pochissimi venivano giudicati come buoni leader. Più che altro, sottolinea la ricerca, non tanto perché capi molto intelligenti utilizzassero tecniche sbagliate di comando, ma piuttosto per l'incapacità di usare tecniche veramente efficaci.
·LE IPOTESI
Nel tentativo di rispondere al perché si verificasse questa correlazione i ricercatori di Losanna hanno spiegato di non avere una risposta definitiva ma soltanto delle ipotesi: forse le persone più brillanti appaiono come leader peggiori perché più propense a usare linguaggi complessi ed elaborati e meno capaci di semplificare i compiti o capire quando, per colleghi o dipendenti, qualcosa appare difficile o molto impegnativo. Chiaramente, molto dipende anche dall'interazione fra capo e sottoposti e i rispettivi livelli di intelligenza: per questo è impossibile "indicare un QI ideale per un leader".
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