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Sciopero Nazionale dei Medici il 20 Novembre: Protesta contro la Manovra Economica
Sindacati sul piede di guerra: "Gli aumenti previsti dalla legge di bilancio sono briciole che offendono la categoria."
Sindacati sul piede di guerra: “Gli aumenti previsti dalla legge di bilancio sono briciole che offendono la categoria.” Il 20 novembre 2024, medici, dirigenti sanitari, infermieri e altre professioni sanitarie aderiranno a uno sciopero nazionale di 24 ore. La protesta nasce da una crescente insoddisfazione nei confronti della legge di bilancio presentata dal governo, che i sindacati di categoria…
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Nel ricordo di Marinella… Una scelta di volontariato
“Mi aggiravo tra la folla, attratta da quella moltitudine vociante, dalle bandiere e dai labari delle nostre città istriane, fiumane e dalmate. Era il 1997, si ricordavano nella piazza principale di Trieste i 50 anni dall’esodo, anche i miei cinquant’anni essendo nata nel 1947. Ma il mio pensiero era fisso su mio padre. Vedi – gli dicevo col cuore gonfio – finalmente parlano di noi. Ma lui era mancato qualche tempo prima senza smettere di sentirsi fuori dal coro, un alieno…”
Fu così che, durante quell’esperienza pubblica, Fioretta Filippaz, nata a Cuberton, esule a Trieste dal 1956, si rese conto di sapere ben poco della propria storia e del destino di tanta gente che come lei era stata costretta all’esodo dall’Istria.
Decise così di fare la volontaria?
“Quel ’97 fu per me uno spartiacque importante, i miei genitori non c’erano più ma le domande che avrei voluto rivolgere a loro, erano veramente tante. Allora presi informazioni e mi ritrovai all’IRCI che allora aveva sede in P.zza Ponterosso, nell’ufficio di Arturo Vigini, con lui c’era anche la figlia Chiara. Mi presentai e dissi che avrei voluto rendermi utile, partecipare dopo tanto silenzio. Non cercavo un lavoro di concetto, mi bastava anche semplicemente imbustare e affrancare gli inviti per le numerose iniziative dell’ente o per spedire la rivista Tempi&Cultura. Così ho cominciato”.
Una “volontaria”, oggi una del gruppo che segue l’attività dell’IRCI in via Torino, accoglie i visitatori delle mostre che si succedono numerose durante l’anno a cura di Piero Delbello e con il supporto del presidente Franco Degrassi, raccontando un esodo per immagini, attraverso i suoi personaggi, a volte famosi, a volte sconosciuti…
“Viene sempre tanta gente, chiede informazioni, racconta la propria storia, queste sale diventano un contenitore di tante vicende mai emerse, di tante storie familiari mai portate alla luce. Molti arrivano con fotografie, locandine, documenti per il museo. Per noi volontari è una responsabilità, ma anche un profondo desiderio di condivisione. Vede, questo documento alle mie spalle nell’ambito della mostra ‘Come ravamo’ è quello della mia famiglia, è lo storico dell’anagrafe dal quale hanno cancellato Marinella…”.
Chi è Marinella? È una delle storie emblematiche dell’esodo, quella di una bambina che non ce l’ha fatta, in quell’inverno polare del ’56. Aveva appena un anno e una polmonite se la portò via, “morta di freddo” sentenziarono i medici dell’ospedale che non furono in grado di salvarla.
“Ero già grandicella e Marinella me la portavo in braccio, le davo il biberon, la cambiavo, me ne occupavo per alleviare il lavoro di mia madre che doveva pensare a tutta la famiglia, al marito e ai cinque figli. I suoi occhi erano per me, con i sorrisi e i primi borbottii, una gioia infinita: non sono mai riuscita a dimenticarla, a farmene una ragione”.
Per quanti anni siete vissuti in quella baracca?
“I miei genitori dodici anni, finché io e mio fratello non siamo riusciti a terminare le scuole nel collegio dove eravamo stati trasferiti per poter avere un’istruzione e migliori condizioni di vita”.
Vita?
“Quando la famiglia vive separata tutto è molto duro. Mio padre a Cuberton era un bravo contadino, da esule poté fare il manovale, la qualifica di profugo non era servita a nulla. Aveva sperato di entrare in fabbrica, ma nessuno ci aiutò. Ricordo che spesso diceva con convinzione, non sembrava neanche un lamento ma una semplice constatazione: ‘noi ne vol, proprio noi ne vol’ e così continuò per anni sentendosi fuori luogo, forse sconfitto. Quando ebbi diciannove anni, ci diedero una casa comunale, una sessantina di metri per la nostra famiglia numerosa, ma era comunque un miglioramento. Andai a lavorare alla Modiano”.
In che veste?
“Alle macchine per la stampa, ci ho lavorato fino alla pensione. All’inizio vista con sospetto, la nostra presenza di esuli a Trieste veniva ancora considerata un peso, ma noi istriani siamo lavoratori, disciplinati, vivaci, con il tempo mi sono conquistata le simpatie delle persone che hanno saputo apprezzare il mio impegno”.
E la famiglia?
“Mi sono sposata a 25 anni, per qualcuno era quasi tardi, per me anche troppo presto, vista la tragedia che avevamo vissuto in famiglia, non mi sentivo pronta”.
Non era solo per Marinella?
“Soprattutto per lei il cui sguardo non ho mai smesso di cercare, ma anche per tutto ciò che avevo visto al campo di Padriciano: la gente si lasciava morire, di disperazione, per mancanza di qualsiasi prospettiva, in quelle baracche dove non si poteva accendere un fuoco per scaldarsi. La mia casa era rimasta a Cuberton. Ci sono tornata per andare al cimitero. L’ho vista da lontano, diroccata, non ho avuto il coraggio di avvicinarmi”.
Nessuna assistenza psicologica in tutti questi anni?
“Nessuna. E ce ne sarebbe stato bisogno”.
Che cosa ha rappresentato il Giorno del ricordo?
“La possibilità di parlare, andando nelle scuole, fornendo testimonianza sui giornali, le televisioni. Gli italiani hanno iniziato a conoscere squarci della nostra vicenda. Ogni anno mi invitano a Cremona, in Umbria, nel Veneto, con le docenti è scattata un’amicizia importante. Dopo che Simone Cristicchi ha raccontato di Marinella nel suo spettacolo Magazzino 18, l’interesse è diventato maggiore, mi chiedono di raccontare. Lo faccio per i miei genitori, per restituire dignità a tanta gente, per rivivere il ricordo di Marinella, doloroso, ma necessario. I ragazzi delle scuole mi hanno omaggiato dei loro lavori di gruppo che custodisco gelosamente. È incredibile con quanta pietas abbiano saputo raccontare le nostre vicende, anche quelle più difficili. Mi fanno tante domande”.
E Padriciano?
“Ho accolto le scolaresche per tanti anni insieme a Romano Manzutto, finché l’associazionismo ha deciso di formare dei giovani perché raccontassero la nostra storia”.
In maniera più asettica?
“Certo hanno avuto modo di studiare, approfondire, possono rispondere a tante domande, non certo a quelle sull’esperienza diretta che rimane di chi l’ha vissuta veramente, ormai non siamo tantissimi, il tempo decide per noi”.
Dal campo di Padriciano molti partirono per gli altri continenti…
“Avevamo considerato anche questa ipotesi, ma cinque figli piccoli a carico erano una condizione che non favoriva il giudizio dell’emigrazione. Mio padre era una persona di grande cuore, certo avrebbe fatto fortuna, ma era convinto che nessuno avesse compreso che non eravamo venuti via se non perché fosse impossibile rimanere. Questa sensazione non lo abbandonava mai e forse gli toglieva la forza di tentare altre strade. Non ne abbiamo mai parlato successivamente. Ma mi accorsi del suo dolore quando giunti al cimitero di Cuberton, al momento di decidere di andare a mangiare qualcosa insieme, mi pregò di riportarlo velocemente oltre confine. La paura non li aveva ancora abbandonati e non l’avrebbe mai fatto fino alla fine”.
Di cosa avevano paura?
“Di restare e di tornare. In Istria tutto era cambiato e quindi non ritrovavano più la loro dimensione, c’era stata la dittatura che aveva spaventato tutti. In Italia avevano dovuto imparare a vivere il quotidiano, in Istria pagavano le tasse e basta, non erano abituati ad andare per uffici, fare domande, ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Quando Marinella morì nessuno venne a manifestare la propria solidarietà, non fecero che cancellare il suo nome dal nostro stato di famiglia”.
Quale spiegazione riesce a darsi oggi?
“Lo dico spesso e l’ho anche scritto: fummo accolti con fastidio e indifferenza, eravamo un corpo estraneo che tentava di inserirsi in un tessuto sociale che non voleva intrusioni”. Dire che la storia si ripete è anche troppo ovvio.
Intervista di Rosanna Turcinovich Giuricin a Fioretta Filippaz per La Voce del Popolo, 5 gennaio 2020
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[...] la malattia disumanizza rende quelle donne marionette alla mercé di sintomi grotteschi, bambole molli tra le mani di medici che le maneggiano e le esaminano in ogni minima piega, bestiole curiose che suscitano solo un interesse clinico. Non sono più mogli, madri o adolescenti, non sono donne da guardare o da prendere in considerazione, non saranno mai donne da desiderare o a cui volere bene: sono malate. Pazze. Fallite. E il suo lavoro nei casi migliori è curarle, nei casi peggiori mantenerle internate in condizioni decenti.
#Il ballo delle pazze#il ballo delle pazze#Victoria Mas#Vvictoria mas#citazioni#citazione#citazioni libri#citazione libro#frasi#narrativa
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Il regalo più bello❤️❤️🩹💝🖤
Gaspare ritornava nella sua baracca sulla sponda del fiume dopo aver lavorato duramente nei campi per raccogliere i pomodori con i suoi compagni di lavoro. Trascorrevano belle giornate sotto il sole di Agosto ed il lavoro stancava sempre di più il povero ragazzino, mentre le sue condizioni di salute peggioravano in continuazione: da quando era nato aveva sempre avuto problemi nel digerire il cibo che ingeriva e questo gli causava una forte debolezza del corpo e l'incapacità di compiere lunghi sforzi fisici. Lavorare lunghe ore sotto il caldo afoso dell'estate, perciò, non era il massimo che potesse desiderare, ma la sua famiglia non poteva fare altrimenti data la loro grave situazione economica. Il padre era di bassa estrazione sociale e non aveva ricevuto nessuna eredità da parte della famiglia; anch'egli lavorava nei campi ma non era mai riuscito a trovare un lavoro fisso. Era comunque un uomo forte e robusto con una grande bontà d'animo che, nonostante la difficile situazione, cercava di non far mancare mai niente ai propri figli Gaspare e il fratellino di cinque anni, riuscendo a prendersi cura anche dell'anziano suocero che viveva con loro. La famiglia, però, non viveva nelle migliori condizioni, ma poteva essere considerata una delle migliori a livello di affetto e di rispetto, da modello esemplare per tutte le altre poiché in quel "nido" regnavano i veri sentimenti di pace e d'amore, e la semplicità era la caratteristica peculiare. Tuttavia, i figli conducevano una vita regolare come gli altri bambini, fatta eccezione che Gaspare, già a dodici anni, dovesse lavorare per "guadagnarsi la pagnotta". Andavano a scuola, avevano amici, giocavano e frequentavano il catechismo, nonostante comprendessero di essere più poveri degli altri, e questo aspetto si faceva notare soprattutto per le feste, quando gli altri bambini ricevevano molti regali, mentre i due non potevano averne.
Per esempio, per il Natale, nella loro catapecchia vi era solo un piccolo abete scarno e con poche decorazioni, senza un regalino da mettere sotto, ma il calore familiare riusciva sempre a scaldare un po' di felicità. Gaspare, però, invidiava i suoi amici, la maggior parte dei quali benestanti, che potevano svegliarsi la mattina del 25 Dicembre invasi da una marea di doni. Spesso, perciò, chiedeva al padre per quale motivo egli non potesse averne, e la risposta che otteneva era sempre la solita: "Un giorno otterrai un regalo più grande da ricompensare tutti i Natali trascorsi senza un dono". Gaspare nutriva una fiducia profonda nel padre e, perciò, non smetteva mai di sperare, sebbene non comprendesse bene il significato di quella frase, che gli risuonava costantemente nella testa. Il ragazzo si poneva tante domande sulla vita, non comprendeva il mondo degli adulti con tutti i loro "grandi problemi" mentre sfrecciavano con le loro auto in strada per andare chissà dove. Per lui che si spostava solo a piedi, nonostante i gravi problemi di salute, tutto ciò che vedeva era oggetto di meraviglia e di stupore, non concepiva questo nuovo mondo dell'esistenza del quale si rendeva conto solo adesso. Capisce, però, che suo padre sa contemplare un arcobaleno e goderne il fascino, sa guardare alla natura e tutto ciò gli dà il coraggio di andare avanti e di non arrendersi perché lui sa farlo fantasticare e sognare sul regalo più grande che gli donerà. I giorni passavano e Gaspare cresceva ma, invece di rinvigorirsi, la sua situazione di salute peggiorava sempre più tanto che non riusciva più a mangiare, passava giornate intere in ospedale ma senza risolvere il problema. La situazione, perciò, degenerò e al ragazzo non restavano molte speranza di vita. Il dodicenne fu ricoverato in ospedale per essere curato; il padre e i familiari rimasero sempre al suo fianco senza mai lasciarlo solo. I medici fecero presente che il fegato di Gaspare stava smettendo di svolgere le sue regolari funzioni e che, senza il trapianto dell'organo, il ragazzo non ce l'avrebbe fatta. Il padre era già a conoscenza del problema e aveva meditato a lungo sulla questione, decidendo, infine, dopo vari incontri con i dottori, di farsi asportare una parte del proprio fegato poiché compatibile, per donarla al figlio e salvargli, quindi, la vita. L'operazione richiedeva precisione e sicurezza, per questo motivo i dottori indugiarono a lungo sull'intervento da eseguire sul ragazzo, ma il padre fece di tutto affinché lo operassero. Il ragazzo, sulla barella, prima dell'operazione smise di credere alla promessa del padre in quanto percepiva che i suoi giorni stavano per finire e che quel regalo da sempre atteso con grande speranza non sarebbe mai arrivato. Incominciò a piangere, insultando per la prima volta il padre sulla promessa non mantenuta. L'operazione fu eseguita il giorno successivo e tutto andò per il meglio per il ragazzo, che fu dimesso la vigilia di Natale e, tornando a casa, trovò un biglietto con su scritto:
"Bambino mio, se stai leggendo questa lettera significa che tutto è andato bene e sono felice per te. Ricordi la promessa che ti facevo ogni anno per Natale? Ti ho donato il mio fegato per salvarti la vita. Io sono dentro di te per sempre. Spero di averti fatto un bel regalo.
Con affetto, tuo padre."
Il ragazzo scoppiò in un pianto, portandosi una mano al fianco destro, rimpiangendo di aver insultato il padre proprio nel momento in cui avrebbe dovuto ringraziarlo. Il padre gli aveva donato la sua vita.
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“Una notte di molti, molti anni fa, ero di guardia notturna nel mio ospedale. Mi avvisarono alle 22 dell’arrivo di un traumatizzato stradale: condizioni disperate, dissero, stai pronto. Io sono nato pronto, risposi con la mia deprecabile grinta giovanile.
Partii dall’ecografia nella sala trauma. Poi lo portarono in Tac. C’erano tutti: anestesisti, ortopedici, chirurghi generali, chirurghi vascolari, otorini. L’uomo era sfasciato dappertutto, ma proprio dappertutto. Mentre sul monitor scorrevano le immagini della TC stavano tutti dietro di me, zitti, ad ascoltare la litania di accidenti che poi, di lì a poco, avrei trascritto nel mio referto. Ma a quel punto il referto sarebbe stato inutile: avevamo già fatto il punto della situazione, ci eravamo parlati. Ognuno di noi adesso sapeva cosa fare. Eravamo una squadra, un gruppo di persone che si fidavano gli uni degli altri, ciecamente. Quell’uomo era nelle migliori mani possibili, ve lo giuro su quello che ho di più caro al mondo.
Il Paziente andò in sala. Gli passarono sopra tutti, a turno: chirurghi, ortopedici, otorini. Gli anestesisti in seconda fila, a tenerlo vivo. Intorno alle cinque della mattina il lavoro grosso era stato fatto. Mi chiamarono per dare un’ultima occhiata in ecografia: in sala operatoria c’era sangue ovunque, sembrava ci fosse appena transitata Beatrix Kiddo di Kill Bill. L’uomo, l’omone anzi, perché era grosso come un armadio a tre ante, era disteso ancora sul letto operatorio. Sembrava che dormisse.
La mattina, alle otto, il momento dello smonto, telefonai in terapia intensiva. Mi rispose la collega della notte, con la voce stravolta dalla stanchezza. Disse: È vivo, è stabile, abbiamo fatto un buon lavoro. Tornai a casa carico di adrenalina: i bambini erano all’asilo, mia moglie al lavoro, avevo tutta la mattina per me. Non riuscii a prendere sonno: tutta quell’adrenalina accumulata mi girava ancora in corpo, vorticosamente. Quell’uomo era vivo grazie all’equipe di medici che avevano passato la notte in bianco per lui. È poco, dite? Può essere. Ma se quell’uomo fosse stato vostro marito, vostro figlio, vostro padre, allora sì che avrebbe fatto la differenza. Tutta la differenza di questo mondo.
Da quella notte sono passati vent’anni ed è cambiato quasi tutto nel modo di intendere la vita ospedaliera. I medici sono diventati carne da macello. La sanità si è trasformata in un’azienda che deve fabbricare utili, dividendi e consenso elettorale. Però, siccome costa troppo, deve anche tramutarsi in qualche altra cosa, lasciare spazi, cedere terreno. Mutare natura. Ma in silenzio, senza fare troppo rumore.
E di quel gruppo di medici cosa è rimasto? Qualcuno è andato in pensione, qualcun altro è rimasto dov’era, a svolgere il suo ottimo lavoro, qualcun altro ancora ha avuto il privilegio di trovarsi a dirigere un reparto tutto suo nella pia illusione di costruire qualcosa di buono. Nel mentre, dicevo, è cambiato quasi tutto. La politica ha preso il sopravvento e tirato i cordoni della borsa. Ai nuovi medici, giunti via via a sostituire i vecchi, non piace passare le notti in bianco nel pronto soccorso o nelle sale operatorie. Meglio un lavoro impiegatizio. Meglio un lavoro da casa, se possibile. Meno responsabilità, meno rotture di scatole, più soldi in tasca. Chi è rimasto delega: meglio una Tac in più, anche se non necessaria, che una in meno. Pazienza se tra vent’anni quella Tac causerà un tumore da qualche parte. La medicina ha smesso di essere un’arte, insomma, e le manca ancora troppo per diventare una scienza esatta. Meglio non rischiare. Meglio farsi i fatti propri.
Così, adesso io mi ritrovo in piena notte con un’urgenza addominale, e spesso sono da solo. Io, il tecnico e la Tac, nel silenzio più attonito che si possa immaginare. E non dovrei nemmeno essere lì, in quel momento, perché non è più il mio ruolo, quello. Così, mentre attendo le immagini sul monitor, mi domando perché quasi tutto è cambiato, perché certa politica ha fatto fuggire i medici dagli ospedali, cosa ha fatto perdere loro la passione, l’entusiasmo divorante, il ricordo dei validi motivi per cui, molti anni prima, hanno scelto quella professione e non un’altra. Cosa li spinge a essere indifferenti verso i Pazienti, verso colleghi che in loro assenza dovranno svolgere il lavoro che per qualche futile motivo non hanno voluto portare a termine. Cosa spinga loro, ma alla fine spinga tutti, in senso generale, senza distinzione di sesso, età, censo, lavoro, a credere di essere in perenne credito col mondo. Di essere dalla parte della ragione, sempre e comunque.
Ve lo dico subito: non trovo la risposta, e a questo punto credo che non la troverò mai. La risposta forse verrà fuori quando vi recherete in ospedale e troverete solo medici pagati a cottimo, gente che quella notte è lì e la prossima chissà dove, a quante centinaia di chilometri di distanza. Quando non esisterà più un gruppo, un’equipe affiatata pronta a passare la notte in bianco per salvare una vita, una sola: quella di vostro marito, vostro padre, o vostro figlio. Oppure la risposta andrete a chiederla a certa politica: la quale risponderà che non è sua responsabilità, e che gli errori di programmazione, il numero chiuso a medicina, l’imbuto di ingresso nelle specialità, sono colpa di quelli di prima. Di quelli che hanno governato, male, prima.
Ma quelli di prima eravamo anche noi: il radiologo, l’anestesista, il chirurgo, l’ortopedico, il maxillo-facciale. Quella fantastica squadra di bravi medici, ognuno dei quali si fidava ciecamente dell’altro. Ci rimpiangerete, certo. Come ci rimpiangiamo già noi stessi, ogni giorno, ogni santo giorno di lavoro, finché durerà ancora.”
(Da un post del Dott. Giancarlo Addonisio)
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𝗖𝗢𝗥𝗦𝗜 𝗘 𝗥𝗜𝗖𝗢𝗥𝗦𝗜, 𝗜𝗟 𝗩𝗢𝗟𝗧𝗢 𝗦𝗖𝗜𝗘𝗡𝗧𝗜𝗙𝗜𝗖𝗢 𝗗𝗘𝗜 𝗧𝗢𝗧𝗔𝗟𝗜𝗧𝗔𝗥𝗜𝗦𝗠𝗜
Di Luisella Scrostati
(La Nuova Bussola Quotidiana)
𝙇’𝙖𝙨𝙨𝙤𝙘𝙞𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙧𝙖𝙯𝙯𝙞𝙨𝙢𝙤-𝙣𝙖𝙯𝙞𝙨𝙢𝙤 𝙚 𝙨𝙩𝙖𝙩𝙖𝙡𝙞𝙨𝙢𝙤-𝙘𝙤𝙢𝙪𝙣𝙞𝙨𝙢𝙤 𝙚' 𝙞𝙢𝙢𝙚𝙙𝙞𝙖𝙩𝙖, 𝙢𝙖 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙤 𝙣𝙤𝙣 𝙗𝙖𝙨𝙩𝙖 𝙖 𝙨����𝙞𝙚𝙜𝙖𝙧𝙚 𝙞 𝙙𝙪𝙚 𝙩𝙤𝙩𝙖𝙡𝙞𝙩𝙖𝙧𝙞𝙨𝙢𝙞. 𝘾𝙤𝙢𝙚 𝙝𝙖 𝙢𝙤𝙨𝙩𝙧𝙖𝙩𝙤 𝙇𝙞𝙛𝙩𝙤𝙣 𝙞𝙣 𝙪𝙣 𝙡𝙖𝙫𝙤𝙧𝙤 𝙨𝙪𝙡 𝙣𝙖𝙯𝙞𝙨𝙢𝙤, 𝙡𝙖 𝙘𝙤𝙡𝙡𝙖𝙗𝙤𝙧𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙘𝙡𝙖𝙨𝙨𝙚 𝙢𝙚𝙙𝙞𝙘𝙖, 𝙨𝙖𝙡𝙫𝙤 𝙦𝙪𝙖𝙡𝙘𝙝𝙚 𝙧𝙚𝙨𝙞𝙨𝙩𝙚𝙣𝙯𝙖, 𝙚𝙗𝙗𝙚 𝙪𝙣 𝙧𝙪𝙤𝙡𝙤 𝙙𝙚𝙘𝙞𝙨𝙞𝙫𝙤.
Quando pensiamo ai totalitarismi del Novecento, l’associazione più immediata è quella razzismo-nazismo e statalismo-comunismo. Che il raggiungimento della purezza della razza ariana fosse il più forte motore ideologico di tutto il sistema che ruotava attorno ad Adolf Hitler non credo sia contestabile. Né vi sono dubbi che la statalizzazione dei mezzi di produzione e del capitale fosse l’obiettivo verso cui orientare ogni azione criminale del sistema sovietico. Analogamente, la volontà di eliminare gli ebrei da una parte e quella dello sterminio dei kulaki dall’altra sono realtà storiche ampiamente suffragate.
Tuttavia, ritenere che queste fossero le uniche componenti dei due sistemi totalitari, sufficienti per comprendere quanto accaduto, insieme ad un lato quasi demoniaco di coloro che si prestavano ad atti gravemente immorali pur di attuare l’ideologia, è decisamente riduttivo. Aspetti che portano la nostra generazione a ritenere di non avere nulla a che spartire con quei due sistemi. Il che è sotto certi aspetti vero. Ma le domande da porsi sono altre: sono rinvenibili delle strutture e delle dinamiche fondamentali che consentano a un sistema totalitario di nascere, crescere e rafforzarsi, a prescindere dal volto storico con cui si presenta? Banalmente: è possibile riconoscere il malfattore da alcune caratteristiche apparentemente non così evidenti, anche se cambia l’abbigliamento, la capigliatura, il modo di parlare?
In un lavoro monumentale, Robert Jay Lifton, psichiatra quasi centenario, che ha dedicato i studi alle tecniche di riforma del pensiero (lavaggio del cervello) in Cina e ai rapporti tra psicologia delle persone e storia, mostra i tratti comuni, non immediatamente rinvenibili, di quanti hanno tenuto in vita il regime nazista e hanno reso possibili le grandi iniquità di cui siamo (forse) a conoscenza. Lunghe interviste a 41 ex-nazisti, di cui 29 medici, e 80 ex-internati che avevano lavorato nei blocchi medici hanno permesso di portare alla luce aspetti molto interessanti. Anzitutto, «l’inquietante verità psicologica che la partecipazione all’eccidio di massa non richiede necessariamente emozioni così estreme o demoniache quali sembrerebbero appropriate a un progetto così malvagio. O, per esprimerci in un altro modo, persone normali possono commettere atti demoniaci» (R. J. Lifton, I medici nazisti. Storia degli scienziati che divennero i torturatori di Hitler, BUR, Milano 2022, p. 19).
Quali condizioni dunque possono portare una persona normale a compiere «atti demoniaci»? Lifton ha fiutato che la pista da percorrere era quella medica: non solo perché senza il coinvolgimento dei medici sarebbe stato impossibile mettere concretamente in atto un piano di eliminazione degli “indegni di vivere”, ma soprattutto perché era fondamentale ancorarsi ad una giustificazione medico-scientifica di quanto si stava operando. Lifting l’ha battezzata medicalized killing, omicidio medicalizzato o medicalmente giustificato, non solo possibile, ma necessario all’interno del preteso controllo totale sulla vita e sulla morte. Il progetto nazista, spiega Lifton, puntava ad «una visione di controllo assoluto sul processo evolutivo, sul futuro umano biologico» (p. 36).
Si trattava di una vera e propria «biocrazia», nella quale tutto era orientato al supremo principio biologico, che ovviamente aveva rivendicato la propria fondazione scientifica, e al quale si prestarono luminari ed esperti di ogni ambito, soprattutto medico. «Come si espresse un sopravvissuto che era stato testimone attento di questo processo: “Auschwitz fu come un’operazione chirurgica” e “il programma di sterminio fu diretto da medici dal principio alla fine”» (p. 38). Il regime aveva l’ossessione delle scienze biologiche, al punto che, nel 1934, il generale Rudolf Hess (1894-1987), per sei anni vice di Hitler, fino alla “promozione” del generale Hermann W. Göring (1893-1946), poteva dire, davanti a tutti gli aderenti al partito, che «il nazionalismo non è altro che biologia applicata». In sostanza, organizzazione scientifica della società.
Il passaggio fondamentale per nazificare la medicina e renderla strumento adeguato per il progetto biocratico era quello di mettere ai margini la sua vocazione alla cura del malato, per trasformarla in uno strumento di perfezionamento della società. Non doveri verso il singolo, ma verso la collettività. Il manuale del dott. Rudolf Ramm, della facoltà di Medicina dell’Università di Berlino, Ärztliche Rechts- und Standeskunde (1943), testo di etica medica assai influente, aveva spinto verso questa decisiva “apertura” della medicina: «Il medico doveva interessarsi alla sanità del Volk ancor più che alle malattie dell’individuo e doveva insegnare alla gente a superare il vecchio principio individualistico del “diritto al proprio corpo” e ad abbracciare invece il “dovere di essere sani”» (p. 53).
Corsi e ricorsi storici. Il diritto al proprio corpo e alla propria salute deve cedere il passo alla salute del corpo collettivo, in nome della quale è dunque possibile obbligare chiunque ad adottare soluzioni sanitarie di volta in volta ritenute scientificamente evidenti. La classe medica ‒ che nel frattempo era divenuta un insieme di funzionari dello Stato in camice bianco ‒ diventa così uno strumento imprescindibile per poter “mantenere sano” l’organismo sociale e per poter eliminare tutto quello che è considerato pericoloso, secondo la visione “scientifica” adottata, incluse persone in carne e ossa. Le massicce campagne di sterilizzazione ed eutanasia dal parte del Reich si comprendono solo alla luce di questa medicalizzazione della società e della nuova vocazione della medicina.
È interessante notare che, dal punto di vista giuridico, nella Germania nazista gli aborti erano proibiti; eppure «i tribunali per la sterilizzazione potevano ordinare l’interruzione della gravidanza per ragioni eugeniche in situazioni di “emergenza razziale”» (p. 70). La tanto cara e flessibile emergenza, sempre utile per fare esattamente il contrario di quanto prevede la legge, senza la briga di dover cambiare la legge.
L’emergenza aveva reso flessibili anche i medici. Come il ginecologo Carl Clauberg (1898-1957), professore universitario, che aveva fatto numerose ricerche sugli ormoni femminili, per trattare la sterilità della donna, ma che, dopo l’incontro con Himmler, si era reinventato come ricercatore di metodi non chirurgici per la sterilizzazione di massa. La sfida era quella di sterilizzare più persone in meno tempo possibile; ideò così l’iniezione di formaldeide, direttamente nell’utero, senza anestesia. Degli effetti avversi ovviamente non interessava niente a nessuno, sebbene nel gruppo di prova, formato rigorosamente da donne ebree e rom, ci fossero stati anche dei decessi. Sempre corsi e ricorsi: basta sostituire al verbo “sterilizzare” qualcos’altro.
Clauberg tornò poi al suo primo amore, le ricerche sulla sterilità, diventando, come se nulla fosse, direttore di un istituto: la Città delle Madri. Clauberg purtroppo non fu un caso isolato: «Benché alcuni medici abbiano opposto resistenza, e molti abbiano avuto poca simpatia per i nazisti, come professione i medici tedeschi si offrirono al regime. Lo stesso comportamento si riscontra anche nella maggior parte delle altre professioni; ma nel caso dei medici quel dono comprese l’uso della loro autorità intellettuale per giustificare ed eseguire uccisioni, situate in una prospettiva medica» (p. 71).
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“Una notte di molti, molti anni fa, ero di guardia notturna nel mio ospedale. Mi avvisarono alle 22 dell’arrivo di un traumatizzato stradale: condizioni disperate, dissero, stai pronto. Io sono nato pronto, risposi con la mia deprecabile grinta giovanile.
Partii dall’ecografia nella sala trauma. Poi lo portarono in Tac. C’erano tutti: anestesisti, ortopedici, chirurghi generali, chirurghi vascolari, otorini. L’uomo era sfasciato dappertutto, ma proprio dappertutto. Mentre sul monitor scorrevano le immagini della TC stavano tutti dietro di me, zitti, ad ascoltare la litania di accidenti che poi, di lì a poco, avrei trascritto nel mio referto. Ma a quel punto il referto sarebbe stato inutile: avevamo già fatto il punto della situazione, ci eravamo parlati. Ognuno di noi adesso sapeva cosa fare. Eravamo una squadra, un gruppo di persone che si fidavano gli uni degli altri, ciecamente. Quell’uomo era nelle migliori mani possibili, ve lo giuro su quello che ho di più caro al mondo.
Il Paziente andò in sala. Gli passarono sopra tutti, a turno: chirurghi, ortopedici, otorini. Gli anestesisti in seconda fila, a tenerlo vivo. Intorno alle cinque della mattina il lavoro grosso era stato fatto. Mi chiamarono per dare un’ultima occhiata in ecografia: in sala operatoria c’era sangue ovunque, sembrava ci fosse appena transitata Beatrix Kiddo di Kill Bill. L’uomo, l’omone anzi, perché era grosso come un armadio a tre ante, era disteso ancora sul letto operatorio. Sembrava che dormisse.
La mattina, alle otto, il momento dello smonto, telefonai in terapia intensiva. Mi rispose la collega della notte, con la voce stravolta dalla stanchezza. Disse: È vivo, è stabile, abbiamo fatto un buon lavoro. Tornai a casa carico di adrenalina: i bambini erano all’asilo, mia moglie al lavoro, avevo tutta la mattina per me. Non riuscii a prendere sonno: tutta quell’adrenalina accumulata mi girava ancora in corpo, vorticosamente. Quell’uomo era vivo grazie all’equipe di medici che avevano passato la notte in bianco per lui. È poco, dite? Può essere. Ma se quell’uomo fosse stato vostro marito, vostro figlio, vostro padre, allora sì che avrebbe fatto la differenza. Tutta la differenza di questo mondo.
Da quella notte sono passati vent’anni ed è cambiato quasi tutto nel modo di intendere la vita ospedaliera. I medici sono diventati carne da macello. La sanità si è trasformata in un’azienda che deve fabbricare utili, dividendi e consenso elettorale. Però, siccome costa troppo, deve anche tramutarsi in qualche altra cosa, lasciare spazi, cedere terreno. Mutare natura. Ma in silenzio, senza fare troppo rumore.
E di quel gruppo di medici cosa è rimasto? Qualcuno è andato in pensione, qualcun altro è rimasto dov’era, a svolgere il suo ottimo lavoro, qualcun altro ancora ha avuto il privilegio di trovarsi a dirigere un reparto tutto suo nella pia illusione di costruire qualcosa di buono. Nel mentre, dicevo, è cambiato quasi tutto. La politica ha preso il sopravvento e tirato i cordoni della borsa. Ai nuovi medici, giunti via via a sostituire i vecchi, non piace passare le notti in bianco nel pronto soccorso o nelle sale operatorie. Meglio un lavoro impiegatizio. Meglio un lavoro da casa, se possibile. Meno responsabilità, meno rotture di scatole, più soldi in tasca. Chi è rimasto delega: meglio una Tac in più, anche se non necessaria, che una in meno. Pazienza se tra vent’anni quella Tac causerà un tumore da qualche parte. La medicina ha smesso di essere un’arte, insomma, e le manca ancora troppo per diventare una scienza esatta. Meglio non rischiare. Meglio farsi i fatti propri.
Così, adesso io mi ritrovo in piena notte con un’urgenza addominale, e spesso sono da solo. Io, il tecnico e la Tac, nel silenzio più attonito che si possa immaginare. E non dovrei nemmeno essere lì, in quel momento, perché non è più il mio ruolo, quello. Così, mentre attendo le immagini sul monitor, mi domando perché quasi tutto è cambiato, perché certa politica ha fatto fuggire i medici dagli ospedali, cosa ha fatto perdere loro la passione, l’entusiasmo divorante, il ricordo dei validi motivi per cui, molti anni prima, hanno scelto quella professione e non un’altra. Cosa li spinge a essere indifferenti verso i Pazienti, verso colleghi che in loro assenza dovranno svolgere il lavoro che per qualche futile motivo non hanno voluto portare a termine. Cosa spinga loro, ma alla fine spinga tutti, in senso generale, senza distinzione di sesso, età, censo, lavoro, a credere di essere in perenne credito col mondo. Di essere dalla parte della ragione, sempre e comunque.
Ve lo dico subito: non trovo la risposta, e a questo punto credo che non la troverò mai. La risposta forse verrà fuori quando vi recherete in ospedale e troverete solo medici pagati a cottimo, gente che quella notte è lì e la prossima chissà dove, a quante centinaia di chilometri di distanza. Quando non esisterà più un gruppo, un’equipe affiatata pronta a passare la notte in bianco per salvare una vita, una sola: quella di vostro marito, vostro padre, o vostro figlio. Oppure la risposta andrete a chiederla a certa politica: la quale risponderà che non è sua responsabilità, e che gli errori di programmazione, il numero chiuso a medicina, l’imbuto di ingresso nelle specialità, sono colpa di quelli di prima. Di quelli che hanno governato, male, prima.
Ma quelli di prima eravamo anche noi: il radiologo, l’anestesista, il chirurgo, l’ortopedico, il maxillo-facciale. Quella fantastica squadra di bravi medici, ognuno dei quali si fidava ciecamente dell’altro. Ci rimpiangerete, certo. Come ci rimpiangiamo già noi stessi, ogni giorno, ogni santo giorno di lavoro, finché durerà ancora.”
(Da un post del Dott. Giancarlo Addonisio)
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Foto della mia ultima ispezione all’ospedale “San Francesco” di Nuoro.
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Crampo muscolare
Panoramica
Un crampo muscolare è un irrigidimento improvviso e inaspettato di uno o più muscoli. Talvolta chiamato “charley horse”, un crampo muscolare può essere molto doloroso. L'esercizio fisico o il lavoro intenso, soprattutto in condizioni di caldo, possono provocare crampi muscolari. Anche alcuni farmaci e malattie possono causare crampi muscolari.
Di solito i crampi muscolari non sono dannosi. Le misure di autocura possono trattare la maggior parte dei crampi muscolari.
Sintomi
Crampi muscolari si verificano principalmente nei muscoli delle gambe, più spesso nel polpaccio. Crampi di solito durano per secondi a minuti. Dopo che il crampo si attenua, l'area potrebbe essere dolorante per ore o giorni.
Quando consultare un medico
Crampi muscolari di solito vanno via da soli. Di solito non hanno bisogno di cure mediche. Tuttavia, vedere un fornitore di assistenza sanitaria per i crampi che:
Causare grave disagio.
Avere gonfiore alle gambe, arrossamento o alterazioni della pelle.
Vieni con debolezza muscolare.
Succede spesso.
Non migliorare con l'autocura.
Cause
Un crampo muscolare può verificarsi dopo aver lavorato troppo o sforzare un muscolo, perdendo liquidi corporei attraverso il sudore o semplicemente mantenendo una posizione per lungo tempo. Spesso, tuttavia, la causa non è nota.
La maggior parte dei crampi muscolari sono innocui. Ma alcuni potrebbero essere legati a una preoccupazione medica, come:
Non abbastanza flusso sanguigno. Un restringimento delle arterie che portano il sangue alle gambe può causare crampi dolore nelle gambe e piedi durante l'esercizio. Questi crampi di solito vanno via subito dopo l'esercizio si ferma.
Compressione del nervo. La pressione sui nervi nella colonna vertebrale può anche causare crampi alle gambe. Il dolore di solito peggiora con la camminata. Camminare piegato leggermente in avanti, come quando si spinge un carrello della spesa, potrebbe alleviare i crampi.
Non abbastanza minerali. Troppo poco potassio, calcio o magnesio nella dieta può causare crampi alle gambe. Farmaci spesso prescritti per l'ipertensione possono causare un aumento della minzione, che può drenare il corpo di questi minerali.
Fattori di rischio
Fattori che potrebbero aumentare il rischio di crampi muscolari includono:
Età. Le persone anziane perdono massa muscolare. Allora i muscoli non possono lavorare così duramente e possono essere stressati più facilmente.
Condizionamento insufficiente. Non essere in forma per un'attività fa sì che i muscoli si stanchino più fcilmente.
Sudorazione estrema. Gli atleti che si stancano e sudano molto mentre fanno sport con il caldo spesso hanno crampi muscolari.
Gravidanza. Crampi muscolari sono comuni durante la gravidanza.
Problemi medici. Avere il diabete o malattie che coinvolgono nervi, fegato o tiroide può aumentare il rischio di crampi muscolari.
Peso. Essere in sovrappeso può aumentare il rischio di crampi muscolari.
Prevenzione
Questi passaggi possono aiutare a prevenire i crampi:
Bere molti liquidi ogni giorno. I muscoli hanno bisogno di liquidi per funzionare bene. Durante l'attività, bere regolarmente. Continuare a bere acqua o altri liquidi senza caffeina o alcol dopo l'attività.
Allunga i muscoli. Allungati delicatamente prima e dopo aver usato qualsiasi muscolo per un po'. Per evitare di avere crampi alle gambe la notte, allungati prima di andare a letto. Anche l'esercizio leggero, come andare in bicicletta per qualche minuto prima di coricarsi, può aiutare a prevenire i crampi mentre dormi.
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Il naufragio del super yacht. Ritrovato anche il corpo di Hannah. La famiglia Lynch: "Grazie, Italia" Il ritrovamento del corpo di Hannah Lynch, la settima vittima del naufragio del veliero Bayesian, segna una svolta. L’ambulanza che trasporta la salma della giovane diciottenne, che si era appena iscritta alla facoltà di Lettere a Oxford perché amava la poesia e il teatro, lascia il molo di Porticello tra il silenzio rispettoso e il dolore dei presenti, dirigendosi verso il cimitero dei Rotoli a Palermo, dove riposa già il corpo del padre, Mike Lynch. Il recupero del corpo di Hannah introduce la fase più delicata dell’inchiesta condotta dalla Procura di Termini Imerese. Nelle prossime ore verranno conferiti gli incarichi per eseguire le autopsie sui corpi delle vittime, esami necessari per chiarire le cause della morte e stabilire eventuali responsabilità penali. Le autopsie, affidate ai medici legali dell’Istituto di Medicina Legale del Policlinico di Palermo, coinvolgeranno non solo i corpi di Mike e Hannah Lynch, ma anche quelli di altre cinque persone: Jonathan Bloomer, presidente della Morgan Stanley International, sua moglie Jude, l’avvocato Chris Morvillo e la moglie Nada, e, infine, lo chef Thomas Recaldo. La famiglia Lynch, attraverso un comunicato, esprime il proprio profondo dolore per la perdita dei propri cari e ringrazia pubblicamente le autorità italiane e coloro che hanno partecipato alle operazioni di salvataggio e recupero. "Come componenti della famiglia Lynch – si legge nel messaggio – siamo devastati, sotto shock e siamo confortati e sostenuti dai nostri familiari e amici. Il pensiero, in questo momento, è rivolto a tutte le persone colpite dalla tragedia". Un ringraziamento particolare viene rivolto alla guardia costiera italiana e ai sub per il loro instancabile impegno. I sommozzatori dei vigili del fuoco, protagonisti di 123 immersioni per un totale di 4.370 minuti sott’acqua, hanno svolto un lavoro straordinario e in condizioni difficilissime, culminato nel recupero dell’ultimo corpo. È un momento cruciale per l’indagine della Procura che, si prevede, porterà all’invio di avvisi di garanzia per i reati di omicidio colposo plurimo e naufragio colposo. Le iscrizioni nel registro degli indagati avverranno non appena saranno conferiti gli incarichi per eseguire le autopsie, un atto dovuto per consentire agli indagati di nominare i propri consulenti tecnici e prendere parte agli esami autoptici, che rappresentano una prova irripetibile. Nonostante le circostanze siano ancora da chiarire, si ipotizza che una serie di negligenze e una catena di errori umani possano aver contribuito alla tragedia. Durante i cruciali minuti in cui lo yacht di 56 metri è stato travolto dalla tempesta, l’equipaggio e i passeggeri hanno cercato disperatamente di mettersi in salvo. Tuttavia, per alcuni, lo scafo si è trasformato in una trappola mortale. Tra le vittime, il cuoco Recaldo Thomas è stato il primo a essere ritrovato, sbalzato fuori dal veliero. Le altre sei vittime, rinvenute in una zona opposta alle loro cabine, testimoniano un ultimo tentativo di fuga. Nel frattempo, le operazioni sul relitto continuano. I sub stanno ispezionando minuziosamente lo scafo, adagiato sul fondale di 50 metri, con l’obiettivo di documentare ogni dettaglio rilevante per l’indagine penale, ma anche per le inevitabili conseguenze civili e assicurative. Parallelamente, si apre la delicata fase di messa in sicurezza e recupero dello yacht, che include il prelievo di 18mila litri di carburante per prevenire possibili sversamenti. L’onere del recupero spetta all’armatore. E ci potrebbero volere mesi.
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La Crisi della Sanità Italiana: Mancano Medici e Infermieri, a Rimetterci Sono i Cittadini
Con una carenza di 25.000 medici e 65.000 infermieri, la sanità italiana è in emergenza, penalizzando soprattutto le classi sociali più fragili
Con una carenza di 25.000 medici e 65.000 infermieri, la sanità italiana è in emergenza, penalizzando soprattutto le classi sociali più fragili. La sanità italiana sta attraversando una crisi senza precedenti, aggravata da una cronica carenza di personale medico e infermieristico. Secondo le stime, mancano all’appello circa 25.000 medici e 65.000 infermieri, una situazione che sta mettendo a…
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Paternò, sfruttamento dei lavoratori nelle raccolte di arance: 31enne indagato per caporalato
Paternò (Catania), sfruttamento dei lavoratori nelle raccolte di arance: 31enne indagato per caporalato Questa Procura Distrettuale della Repubblica, nell’ambito dell’attività investigativa svolta dai Carabinieri della Stazione di Paternò e del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Catania, a carico di un 31 enne di Adrano, incensurato, indagato per “reclutamento e sfruttamento di manodopera agricola in condizioni di estremo sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno”, ha richiesto ed ottenuto dal GIP del Tribunale di Catania, nei suoi confronti, la misura cautelare dell’obbligo di dimora nel Comune di Adrano, l’obbligo di non allontanarsi dalla sua abitazione tra le 15:30 e le 03:30 e l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Le indagini, in uno stato del procedimento nel quale non è ancora intervenuto il contraddittorio con l’indagato, hanno fatto luce sulle condotte dell’uomo, verosimilmente poste in essere nel contesto criminale che orbiterebbe attorno alla gestione della raccolta di arance nell’area agricola di Paternò. In particolare, l’attività ispettiva dei Carabinieri è stata incentrata sull’agglomerato di lavoratori stanziali nella tendopoli di Contrada Ciappe Bianche di Paternò, spesso irregolari e impiegati illecitamente per i lavori agricoli in tutto il comprensorio paternese e nei paesi viciniori. Qui, mediante servizi di osservazione discreta e a distanza, gli investigatori hanno individuato un furgone sul quale gli extracomunitari venivano caricati e portati nei terreni ove occorreva raccogliere arance. Nello specifico durante l’attività, era stato seguito e poi fermato un Fiat Iveco, che aveva prelevato 7 lavoratori e li aveva portati all’interno di un fondo agricolo a Mineo. In quella circostanza, i Carabinieri avevano intimato l’alt al mezzo ma, l’autista era fuggito, lasciando gli extracomunitari nel vano posteriore. I successivi controlli avevano quindi consentito di accertare che tutti gli occupanti del mezzo erano privi del permesso di soggiorno e non avevano alcun contratto di lavoro. Ascoltati dai militari, i lavoratori avevano riferito poi, di essere stati “ingaggiati” dall’odierno indagato, raccontando le massacranti condizioni di lavoro che, per stato di necessità, sarebbero stati costretti ad accettare, ovvero turni di 10-12 ore al giorno, 6 giorni su 7, con retribuzione a cottimo condizionata al raggiungimento di determinati obiettivi di raccolta, indipendentemente dalle ore effettivamente lavorate, in violazione di qualsivoglia normativa sul lavoro. Nessuno di loro, inoltre, avrebbe ricevuto una formazione sulla sicurezza o sarebbe stato sottoposto a visite mediche preventive, così come non sarebbero stati forniti loro i necessari dispositivi di protezione individuale, in violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene sui luoghi di lavoro. Uno di loro, infatti, lo scorso mese di febbraio si sarebbe infortunato cagionandosi una frattura, ma sarebbe stato convinto dall’indagato a non raccontare la verità ai medici del pronto soccorso, bensì a riferire di un incidente domestico. Il ruolo predominate del 31 enne sarebbe emerso sia nell’organizzazione del lavoro, che nei rapporti con i lavoratori; lui, infatti avrebbe emanato tutte le direttive in tal senso e si sarebbe occupato di reclutare manodopera irregolare e sfruttarla presso fondi agricoli non solo di sua proprietà ma anche di terzi. Il reclutamento, poi, sarebbe avvenuto sfruttando lo stato di bisogno degli occupanti la tendopoli di Ciappe Bianche, i quali si trovavano in una situazione di vulnerabilità e precarietà che li rendeva facilmente manipolabili. Il modus operandi dell’indagato, sarebbe stato così incentrato su una relazione di subordinazione e dipendenza tipica del caporalato. Oltretutto vieppiù, il coinvolgimento di un numero significativo di persone, oltre tre, è solitamente tipico di una gestione del lavoro non solo irregolare ma criminale, finalizzata a sfruttare massicciamente la manodopera vulnerabile senza alcuna considerazione per la loro sicurezza e benessere. La sussistenza delle esigenze cautelari da parte dell’Autorità Giudiziaria è stata valutata in ordine al pericolo di reiterazione di condotte illegali, in quanto l’indagato avrebbe ammesso che per lui “è normale commettere quel tipo di reati pur di conseguire il risultato del profitto”. Per tale motivo, assodato che le modalità dell’azione, gli espedienti adottati e l’atteggiamento del 31 enne hanno fatto emergere un’abitudine e una disinvoltura nella realizzazione di condotte criminose di assoluta gravità, l’uomo è stato sottoposto a misure cautelari che gli impediscano di allontanarsi dal Comune di residenza e, ancor più, dalla sua abitazione nell’arco temporale pomeridiano e notturno, con obbligo di firma presso la polizia giudiziaria.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Il diritto all'oblio
Questa volta Vortici.it vuole proporre a voi lettori una riflessione generale riguardante la difesa del diritto all’oblio. Lo facciamo proponendovi due contributi a firma AIDR (Fondazione Italian Digital Revolution). L’argomento come scoprirete, riguarda tutti noi e non categorie specifiche, come erroneamente si tende a pensare.
Dario Scrivano e la difesa del diritto all'oblio: una protezione vitale nell'era digitale
di Mauro Nicastri*In un'epoca in cui la digitalizzazione ha pervaso ogni aspetto della vita quotidiana, la reputazione online assume un'importanza paragonabile a quella della realtà fisica. Le false notizie, purtroppo, si diffondono con rapidità e facilità su internet, lasciando dietro di sé una scia di danni spesso irrimediabili. In questo contesto, il lavoro svolto dal nostro Segretario Generale, l'avvocato Dario Scrivano, si rivela essere non solo importante, ma assolutamente fondamentale. L'avvocato Scrivano, nel suo ruolo di segretario generale della Fondazione Aidr (www.aidr.it), ha da sempre posto una particolare attenzione alla tutela della privacy e al diritto all'oblio. La sua difesa è rivolta non solo verso gli associati della nostra fondazione, ma estesa a tutti gli individui che subiscono le conseguenze negative delle informazioni errate diffondendosi online. Il diritto all'oblio, che permette agli individui di chiedere la rimozione di informazioni che li riguardano da risultati di ricerca online sotto determinate condizioni, è una pietra miliare nella protezione della dignità personale nell'ambito digitale. L'avvocato Scrivano ha lavorato instancabilmente per assicurare che tale diritto sia riconosciuto e rispettato, contribuendo a creare un ambiente digitale più giusto e sicuro per tutti. Grazie agli sforzi del nostro segretario generale, numerosi associati hanno visto ripristinata la loro immagine pubblica, liberandosi dall'ombra lunga delle falsità online. Questo non solo migliora la vita degli individui interessati, ma eleva anche il livello di fiducia nell'intero ecosistema digitale. Inoltre, l'Avvocato Scrivano ha svolto un ruolo chiave nell'educare il pubblico e i policymakers sull'importanza del diritto all'oblio. Attraverso pubblicazioni e incontri, ha diffuso la conoscenza su come le leggi esistenti possano essere utilizzate per proteggere efficacemente i diritti delle persone nel mondo digitale. È essenziale continuare a sostenere queste battaglie legali ed etiche, poiché la nostra identità digitale è ormai indissolubilmente legata a quella reale. La Fondazione Aidr rimane in prima linea in questa lotta, assicurando che la tecnologia sia usata come strumento di miglioramento sociale e non come mezzo di distruzione reputazionale. Invitiamo tutti a unirsi a noi in questa causa cruciale, sostenendo gli sforzi dell'avvocato Dario Scrivano e della Fondazione Aidr per un futuro in cui la verità e la giustizia prevale nel dominio digitale.*Presidente Fondazione Aidr (www.aidr.it) La difesa del diritto all'oblio e la protezione della reputazione online
di Dario Scrivano* In un'era digitale dove la diffusione di informazioni è istantanea, proteggere la propria reputazione online è diventato un imperativo categorico, soprattutto per figure esposte come politici, magistrati, medici, avvocati, docenti, rappresentanti della chiesa e aziende. Questi soggetti sono frequentemente oggetto di notizie distorte o completamente false che possono danneggiare gravemente la loro immagine pubblica. In questo contesto, il diritto all'oblio si rivela uno strumento fondamentale per difendere l'integrità e la dignità degli individui. Il diritto all'oblio permette alle persone di richiedere la rimozione di informazioni obsolete o irrilevanti da risultati di ricerca su internet quando tali informazioni ledono la privacy o la reputazione. Tuttavia, far valere questo diritto richiede un intervento legale accurato e tempestivo. È essenziale individuare rapidamente ogni menzione online negativa, valutarne l'impatto e procedere, quando possibile, con la richiesta di rimozione o de-indicizzazione dai motori di ricerca. Per garantire un'azione efficace, è indispensabile utilizzare strumenti tecnologici avanzati che automatizzino il processo di monitoraggio del web. Questi sistemi sono in grado di scansionare continuamente Internet alla ricerca di contenuti potenzialmente dannosi, permettendo di agire rapidamente per mitigarne l'effetto. La tecnologia, unita a una solida strategia legale, permette di affrontare e risolvere le questioni reputazionali nel rispetto della privacy. Inoltre, è cruciale costruire e mantenere un'identità digitale positiva che possa contrastare efficacemente eventuali notizie negative. Questo può essere realizzato attraverso la pubblicazione di contenuti che riflettano veridicità e professionalità, rafforzando così l'immagine desiderata di un individuo o di un'azienda nel mondo digitale. Con la Fondazione Aidr (www.aidr.it) siamo impegnati costantemente nel promuovere l'importanza della protezione della reputazione online e del diritto all'oblio, offrendo supporto legale e formativo per i soggetti più vulnerabili agli attacchi mediatici. Riconosciamo che solo un intervento integrato e basato su competenze legali, tecnologiche e comunicative può offrire una difesa efficace contro le minacce alla reputazione digitale. Per tutti coloro che si trovano a fronteggiare questa sfida, è fondamentale agire con determinazione e affidarsi a professionisti che possano garantire una gestione ottimale della propria immagine online. La nostra reputazione è un bene prezioso e imprescindibile, specie in un mondo sempre più connesso e digitale.*Avvocato e segretario generale della Fondazione Aidr (www.aidr.it) Scoprite la nostra rubrica di Tecnologia Immagine di copertina e foto: AIDR Read the full article
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HondroSol Spray per dolori articolari, recensioni, vantaggi, dove acquistare?
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SITO UFFICIALE
Cos’è Hondro Sol ?
Cos’è lo spray Hondro Sol
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Come usare lo spray Hondro Sol ?
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Come utilizzare Hondro Sol per i dolori articolari è qualcosa che imparerai dal volantino e dal prospetto disponibili. Al suo interno tutte le persone del Italy leggeranno nella loro lingua locale la guida passo passo dall’alto verso il basso con le istruzioni e la dose giornaliera. Per favore, non superare la dose raccomandata. E’ obbligatorio non iniziare la terapia senza aver prima seguito le istruzioni di Hondro Sol . Tieni presente che questo non è un medicinale in farmacia, ma uno spray medico cosmetico e per attivare il suo effetto curativo dovresti essere severo nell’applicazione.
Ecco come utilizzare Hondro Sol nei dettagli:
Apri la confezione del prodotto e leggi le istruzioni
Tieni presente che questo prodotto è solo per uso esterno
Dose giornaliera raccomandata: 2–3 volte al giorno
Durata del percorso terapeutico: almeno 30 giorni
Durata del ciclo di terapia per profilassi: se hai una malattia cronica che provoca il dolore che avverti in questo momento, ripeti il ciclo di terapia 1–2 volte di più nell’arco dello stesso anno solare
Come utilizzare Hondro Sol ? — spruzzare sulla zona interessata al mattino e alla sera. Se hai un forte dolore, spruzzalo anche all’ora di pranzo. Il liquido si assorbe molto velocemente e non lascia macchie o segni
Controindicazioni ed effetti collaterali di Hondro Sol
Le controindicazioni di Hondro Sol non sono annunciate . Non dovresti preoccuparti se puoi continuare a usare i tuoi farmaci quotidiani o applicare qualche crema cosmetica sulla stessa zona. Nessuno di questi interromperà l’azione dello spray. Inoltre, durante gli studi clinici in Italy è risultato chiaro che non esistono nemmeno effetti collaterali dell’Hondro Sol . Tieni presente che per effettuare un ordine online non è necessaria la prescrizione Hondro Sol . Non è nemmeno necessario consultare un medico in anticipo.
CONSIDERAZIONI FINALI: Hondro Sol spray è un’innovativa soluzione naturale antiartrite per applicazione topica. Dalle testimonianze dal Italy abbiamo capito che il prodotto funziona in modo efficace e veloce per traumi articolari, malattie reumatoidi, osteoporosi e profilassi antietà regolare per le persone in età matura. Per favore, evita di acquistare lo spray dalla farmacia, Shopee, Lazada o Amazon. Ottieni uno sconto del 50% dal prezzo economico e dal prodotto originale nel sito ufficiale.
https://medium.com/@HealthCareSupplements/hondro-sol-spray-per-dolori-articolari-a-prezzo-conveniente-in-italia-ddfb59e970f9
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Che cosa si intende per chiusura mental ?
Traduzione di: Margherita Bianca Ferrero.
Esiste veramente la chiusura mentale, oppure in determinati momenti siamo solo assenti e sprofondati nei nostri pensieri ?
Forse per noi può essere difficile definire la nostra chiusura mentale, a causa della mancanza di autoanalisi e dei nostri comportamenti, vale a dire delle nostre " abitudini " ?
Possiamo paragonarla al "sentire ma non ascoltare " ?
Siamo quindi assenti se non ascoltiamo, oppure ci sentiamo al "Settimo Cielo" ?
Ma dov'è il "Settimo Cielo " in noi, nel cervello, oppure noi seguiamo i nostri pensieri ?
Quando dunque ci troviamo di fronte ad un interlocutore, com'è il nostro atteggiamento nei suoi confronti, nella chiusura mentale ascoltiamo senza dare peso, oppure no ?
Oppure aspettiamo che l'interlocutore ci dia l'occasione di riuscire ad esprimere le nostre argomentazioni ed i nostri ragionamenti su una parola chiave colta al volo ?
Capiamo tutto ciò che l'interlocutore cerca di comunicarci, oppure sentiamo senza ascoltare ?
E qui si presenta la domanda se noi dobbiamo sempre ricorrere alla nostra memoria per rispondere all'interlocutore.
Si può quindi giungere a malintesi involontari se non siamo del tutto concentrati e rivolgiamo la nostra attenzione verso i nostri ragionamenti ed i nostri argomenti ?
Quando facciamo terapia ad altre persone, ma i nostri pensieri durante il lavoro sono però rivolti alle nostre faccende private ed ai nostri sogni, quali processi si svolgono a livello energetico e interpersonale ?
Doniamo al paziente un'atmosfera di guarigione oppure con la nostra problematica interiore che ci tiene occupati attiriamo le sue frequenze problematiche e disarmoniche, in modo da influenzare il nostro campo energetico? Quale importanza rivestono la nostra focalizzazione e concentrazione in questo aspetto?
Ma che cos'è allora l'apertura mentale ?
Come si manifesta l'apertura mentale, oppure noi stessi non ci rendiamo conto di quando ci troviamo in questo atteggiamento personale ?
Anche l'apertura mentale è una nostra condotta abituale, oppure solo una questione sporadica quando l'argomento ci interessa ?
Dov'è quindi la nostra attenzione in presenza di apertura mentale: nel nostro interlocutore o piuttosto nel nostro amato “Settimo Cielo” ?
Possiamo capire quando abbiamo apertura mentale e siamo ricettivi, poiché la nostra concentrazione è sull'interlocutore e noi ascoltiamo le sue parole con grande rispetto e senza pregiudizi ?
Apertura mentale significa che si crede a tutto quanto viene raccontato, oppure apertura mentale significa che si può considerare un altro punto di vista come possibilità ed una parte della verità onnicomprensiva, fino a che questo punto di vista sia confutato oppure confermato nella questione in oggetto, a seguito di esperimenti propri ? Naturalmente si devono salvaguardare le condizioni specifiche per la sperimentazione con altri punti di vista.
Se ora noi prendiamo in considerazione scienziati, medici o altre persone che siano assolutamente specialisti nei loro campi, in che modo si sviluppa la cosiddetta “osservazione a tunnel” della quale ci si deve occupare molto spesso a questo proposito ?
Quanto è importante un atteggiamento aperto dal punto di vista mentale per la nostra apertura mentale ?
Quando noi poniamo delle domande, siamo mentalmente più aperti di quando poniamo a noi stessi in modo inconscio domande a cui noi diamo rapidamente una risposta partendo dal valore empirico che abbiamo già memorizzato nel nostro cervello ? Tale fatto consente nuove impressioni ed ampliamenti memorizzati, se per noi non lasciamo aperta nessuna domanda per un ampliamento ?
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Che cosa si intende per chiusura mental ?
Traduzione di: Margherita Bianca Ferrero.
Esiste veramente la chiusura mentale, oppure in determinati momenti siamo solo assenti e sprofondati nei nostri pensieri ?
Forse per noi può essere difficile definire la nostra chiusura mentale, a causa della mancanza di autoanalisi e dei nostri comportamenti, vale a dire delle nostre " abitudini " ?
Possiamo paragonarla al "sentire ma non ascoltare " ?
Siamo quindi assenti se non ascoltiamo, oppure ci sentiamo al "Settimo Cielo" ?
Ma dov'è il "Settimo Cielo " in noi, nel cervello, oppure noi seguiamo i nostri pensieri ?
Quando dunque ci troviamo di fronte ad un interlocutore, com'è il nostro atteggiamento nei suoi confronti, nella chiusura mentale ascoltiamo senza dare peso, oppure no ?
Oppure aspettiamo che l'interlocutore ci dia l'occasione di riuscire ad esprimere le nostre argomentazioni ed i nostri ragionamenti su una parola chiave colta al volo ?
Capiamo tutto ciò che l'interlocutore cerca di comunicarci, oppure sentiamo senza ascoltare ?
E qui si presenta la domanda se noi dobbiamo sempre ricorrere alla nostra memoria per rispondere all'interlocutore.
Si può quindi giungere a malintesi involontari se non siamo del tutto concentrati e rivolgiamo la nostra attenzione verso i nostri ragionamenti ed i nostri argomenti ?
Quando facciamo terapia ad altre persone, ma i nostri pensieri durante il lavoro sono però rivolti alle nostre faccende private ed ai nostri sogni, quali processi si svolgono a livello energetico e interpersonale ?
Doniamo al paziente un'atmosfera di guarigione oppure con la nostra problematica interiore che ci tiene occupati attiriamo le sue frequenze problematiche e disarmoniche, in modo da influenzare il nostro campo energetico? Quale importanza rivestono la nostra focalizzazione e concentrazione in questo aspetto?
Ma che cos'è allora l'apertura mentale ?
Come si manifesta l'apertura mentale, oppure noi stessi non ci rendiamo conto di quando ci troviamo in questo atteggiamento personale ?
Anche l'apertura mentale è una nostra condotta abituale, oppure solo una questione sporadica quando l'argomento ci interessa ?
Dov'è quindi la nostra attenzione in presenza di apertura mentale: nel nostro interlocutore o piuttosto nel nostro amato “Settimo Cielo” ?
Possiamo capire quando abbiamo apertura mentale e siamo ricettivi, poiché la nostra concentrazione è sull'interlocutore e noi ascoltiamo le sue parole con grande rispetto e senza pregiudizi ?
Apertura mentale significa che si crede a tutto quanto viene raccontato, oppure apertura mentale significa che si può considerare un altro punto di vista come possibilità ed una parte della verità onnicomprensiva, fino a che questo punto di vista sia confutato oppure confermato nella questione in oggetto, a seguito di esperimenti propri ? Naturalmente si devono salvaguardare le condizioni specifiche per la sperimentazione con altri punti di vista.
Se ora noi prendiamo in considerazione scienziati, medici o altre persone che siano assolutamente specialisti nei loro campi, in che modo si sviluppa la cosiddetta “osservazione a tunnel” della quale ci si deve occupare molto spesso a questo proposito ?
Quanto è importante un atteggiamento aperto dal punto di vista mentale per la nostra apertura mentale ?
Quando noi poniamo delle domande, siamo mentalmente più aperti di quando poniamo a noi stessi in modo inconscio domande a cui noi diamo rapidamente una risposta partendo dal valore empirico che abbiamo già memorizzato nel nostro cervello ? Tale fatto consente nuove impressioni ed ampliamenti memorizzati, se per noi non lasciamo aperta nessuna domanda per un ampliamento ?
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Che cosa si intende per chiusura mental ?
Traduzione di: Margherita Bianca Ferrero.
Esiste veramente la chiusura mentale, oppure in determinati momenti siamo solo assenti e sprofondati nei nostri pensieri ?
Forse per noi può essere difficile definire la nostra chiusura mentale, a causa della mancanza di autoanalisi e dei nostri comportamenti, vale a dire delle nostre " abitudini " ?
Possiamo paragonarla al "sentire ma non ascoltare " ?
Siamo quindi assenti se non ascoltiamo, oppure ci sentiamo al "Settimo Cielo" ?
Ma dov'è il "Settimo Cielo " in noi, nel cervello, oppure noi seguiamo i nostri pensieri ?
Quando dunque ci troviamo di fronte ad un interlocutore, com'è il nostro atteggiamento nei suoi confronti, nella chiusura mentale ascoltiamo senza dare peso, oppure no ?
Oppure aspettiamo che l'interlocutore ci dia l'occasione di riuscire ad esprimere le nostre argomentazioni ed i nostri ragionamenti su una parola chiave colta al volo ?
Capiamo tutto ciò che l'interlocutore cerca di comunicarci, oppure sentiamo senza ascoltare ?
E qui si presenta la domanda se noi dobbiamo sempre ricorrere alla nostra memoria per rispondere all'interlocutore.
Si può quindi giungere a malintesi involontari se non siamo del tutto concentrati e rivolgiamo la nostra attenzione verso i nostri ragionamenti ed i nostri argomenti ?
Quando facciamo terapia ad altre persone, ma i nostri pensieri durante il lavoro sono però rivolti alle nostre faccende private ed ai nostri sogni, quali processi si svolgono a livello energetico e interpersonale ?
Doniamo al paziente un'atmosfera di guarigione oppure con la nostra problematica interiore che ci tiene occupati attiriamo le sue frequenze problematiche e disarmoniche, in modo da influenzare il nostro campo energetico? Quale importanza rivestono la nostra focalizzazione e concentrazione in questo aspetto?
Ma che cos'è allora l'apertura mentale ?
Come si manifesta l'apertura mentale, oppure noi stessi non ci rendiamo conto di quando ci troviamo in questo atteggiamento personale ?
Anche l'apertura mentale è una nostra condotta abituale, oppure solo una questione sporadica quando l'argomento ci interessa ?
Dov'è quindi la nostra attenzione in presenza di apertura mentale: nel nostro interlocutore o piuttosto nel nostro amato “Settimo Cielo” ?
Possiamo capire quando abbiamo apertura mentale e siamo ricettivi, poiché la nostra concentrazione è sull'interlocutore e noi ascoltiamo le sue parole con grande rispetto e senza pregiudizi ?
Apertura mentale significa che si crede a tutto quanto viene raccontato, oppure apertura mentale significa che si può considerare un altro punto di vista come possibilità ed una parte della verità onnicomprensiva, fino a che questo punto di vista sia confutato oppure confermato nella questione in oggetto, a seguito di esperimenti propri ? Naturalmente si devono salvaguardare le condizioni specifiche per la sperimentazione con altri punti di vista.
Se ora noi prendiamo in considerazione scienziati, medici o altre persone che siano assolutamente specialisti nei loro campi, in che modo si sviluppa la cosiddetta “osservazione a tunnel” della quale ci si deve occupare molto spesso a questo proposito ?
Quanto è importante un atteggiamento aperto dal punto di vista mentale per la nostra apertura mentale ?
Quando noi poniamo delle domande, siamo mentalmente più aperti di quando poniamo a noi stessi in modo inconscio domande a cui noi diamo rapidamente una risposta partendo dal valore empirico che abbiamo già memorizzato nel nostro cervello ? Tale fatto consente nuove impressioni ed ampliamenti memorizzati, se per noi non lasciamo aperta nessuna domanda per un ampliamento ?
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