#condizione delle donne XIX secolo
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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Fiore di tuono di Jean Teulé: La storia inquietante e affascinante di Hélène Jégado, avvelenatrice della Bretagna. Recensione di Alessandria today
Jean Teulé racconta la vita e i crimini di Hélène Jégado, una delle prime serial killer della storia francese, in un romanzo storico che unisce realtà e immaginazione.
Jean Teulé racconta la vita e i crimini di Hélène Jégado, una delle prime serial killer della storia francese, in un romanzo storico che unisce realtà e immaginazione. Fiore di tuono è un romanzo di Jean Teulé che narra la storia oscura e spaventosa di Hélène Jégado, una domestica bretone vissuta nella Francia dell’Ottocento, passata alla storia come una delle più prolifiche avvelenatrici di…
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daniela--anna · 5 years ago
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✓L'abito da sposa ha una lunga storia. Già in epoca romana la sposa indossava una tunica bianca legata con un nodo che poteva sciogliere solo lo sposo, il velo era invece giallo: simbolo del fuoco della dea Vesta che proteggeva il focolare domestico. ✓I matrimoni effettuati durante e immediatamente dopo il Medioevo, soprattutto fra le classi sociali più abbienti, rappresentavano molto più che la semplice unione fra due persone. Si trattava di legami di interesse di carattere politico o economico, pertanto la sposa non rappresentava soltanto se stessa, ma l'intera famiglia, e per tale ragione doveva apparire nella migliore luce possibile. Erano quindi scelti vestiti dai colori accesi e dai materiali pregiati. Non era raro che una sposa indossasse abiti di velluto o seta e spesso persino pellicce. Nelle classi sociali meno facoltose, le spose tentavano al massimo delle proprie possibilità di “copiare” l'abbigliamento delle spose delle famiglie ricche. ✓ Nel corso dei secoli, è rimasta la tendenza a vestire la sposa al meglio che la condizione economica famigliare potesse permettere. Attualmente esistono abiti nuziali di ogni tipo e costo. Benché a metà del XIX secolo si sia diffusa l'abitudine ad indossare abiti lunghi ed ampi, simili a quelli in voga dell'età vittoriana, in realtà lo stile dell'abito da sposa è generalmente molto legato alla moda del periodo. Per esempio negli anni venti le spose vestivano abiti corti davanti, con un lungo strascico, spesso abbinato ad un cappello cloche. L’uso dello strascico comincia intorno al 1500 e continua imperturbato fino ai nostri giorni. All’inizio però la lunghezza dello strascico indicava la ricchezza della sposa. Più era lungo e decorato più ricca era la sposa e quindi la famiglia. ✓Per tradizione l'abito da sposa è di colore bianco* benché sia possibile spaziare in un raggio di colori che includono anche tonalità come l'avorio, il crema, l'écru ecc. Una delle prime donne a vestire di bianco fu Maria Stuarda, quando sposò Francesco II di Francia, una scelta singolare, dato che in quel periodo per i francesi il bianco era il colore del lutto. https://www.instagram.com/p/B6krWqroTbE/?igshid=1entmlskmhfr6
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pangeanews · 6 years ago
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“Serotonina” è la salvezza della letteratura europea o la prova che santifica la mediocrità del suo autore? (Con una lettera a Michel Houellebecq)
No, non è perfetto – quasi nessun romanzo che superi le duecento pagine lo è, troppi elementi da tenere sotto controllo. Non è neppure il suo testo migliore. Eppure è superlativo, micidiale come lo sparo di un cecchino, definitivo. Fatico a credere di poter incappare in un’opera anche solo vagamente al suo livello, durante il corso del nuovo anno.
Purtroppo Houellebecq, in Serotonina, ha un problema troppo grande per non essere notato, che mi porterebbe a bocciarlo senza appello, se non fosse per il tripudio di saggezza esistenzialista – e politicamente scorrettissima – che tracima abbondante dalle sue righe. Il francese ha creato un personaggio – un consulente esterno del Ministero dell’Agricoltura – decisamente inadatto per far uscire dalla sua bocca riferimenti letterari che spaziano con leggerezza all’interno di tutta la letteratura europea. Se la cosa era tranquillamente accettabile per Bruno, il professore di letteratura in Le particelle elementari, oppure nel caso del docente universitario di Sottomissione, con Serotonina sembra proprio che Houellebecq abbia voluto strafare. In verità, qui, il solo protagonista è lui, con le sue idee, e le mentite spoglie che ha scelto come abito di scena non gli si attagliano neanche un po’. Ma forse il mio è un vezzo da critico pieno di rigide convinzioni come quella che il linguaggio debba essere commisurato, in particolare quando si usa la prima persona, al soggetto parlante.
Diciamo allora che adotteremo quella che in gergo tecnico si chiama “sospensione di credibilità”. In sostanza: nella vita reale uno non parlerebbe mai così ma, quando si tratta di fiction, non si possono adottare gli stessi parametri. Difficile dirlo per un romanzo che avrebbe la pretesa di essere realista, se non neonaturalista – almeno questo sembra essere il genere adottato dallo scrittore, da Sottomissione in poi. Noi lo prenderemo per buono.
Detto ciò, Houellebecq vince a mani basse. “Ed ecco come muore una civiltà, senza seccature, senza pericoli né drammi e con pochissimo spargimento di sangue, una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé…”. Vero, verissimo! Direi che non c’è altro da aggiungere. Houellebecq è il medico perfetto per l’Occidente, quello a cui ognuno si vorrebbe rivolgere, quando abbiamo la certezza della malattia e tutti intorno ci prendono oscenamente per il culo. E lui ha ragione, siamo malati terminali e un’ideologia idiota ci impedisce di metterlo nero su bianco – per fortuna, lui di lusingare il pensiero dominante se ne sbatte altamente.
Il resto delle considerazioni, solo apparentemente buttate lì a caso, è ogni volta fulminante: “il porno è sempre stato all’avanguardia dell’innovazione tecnologica”; “di sicuro non c’è alcun settore dell’attività umana che sprigioni una noia così assoluta come il diritto”. Personalmente non avrei alcunché da obiettare.
Al netto, comunque, di tutta la sordità diffusa tra quelli che faranno finta anche questa volta di non sentire, vorrei proprio sapere chi non si ritrova nella vita del protagonista di Serotonina. Certamente, lui è ricco o almeno decisamente benestante – condizione oramai rara, dopo lo sterminio programmato della borghesia. Per il resto, è tutto impietosamente vero: “In Occidente nessuno sarà più felice […], mai più, oggi dobbiamo considerare la felicità come un’antica chimera, non se ne sono più presentate le condizioni storiche”. O vorreste forse negare che “Parigi come tutte le città era fatta per produrre solitudine” e che “il mondo sociale era una macchina per distruggere l’amore”, ovvero l’unica cosa che potrebbe dare un senso alle nostre già miserabili – ontologicamente miserabili – esistenze?
Naturalmente, Houellebecq sa bene che c’è stato un tempo in cui le cose erano più semplici, naturali, normali e francamente meno problematiche. Quell’epoca è tragicamente venuta meno a seguito di tutte le cosiddette “grandi conquiste di civiltà”: “per me come per tutti i miei contemporanei la carriera professionale delle donne era una cosa che andava rispettata prima di ogni altra cosa, era il criterio assoluto”. Sulla base di questo presunto grande principio, infatti, il protagonista perde la possibilità di avere al suo fianco la ragazza che ama. Non è concepibile chiederle di abbandonare il lavoro per diventare “la mia donna”. Sarebbe troppo in controtendenza rispetto al progressismo diffuso. E così l’uomo occidentale si ritrova a dover inghiottire ogni giorno il dosaggio massimo di un farmaco antidepressivo, a ubriacarsi per reggere l’insulso susseguirsi dei giorni, sperando solo che tutto ciò lo porti quanto prima all’estrema conseguenza, la morte. Alla donna, oggetto d’amore del protagonista, non va meglio: dopo un concerto, si è fatta scopare da uno ed è rimasta incinta, ritrovandosi infine a dover crescere un figlio senza padre. Potrebbe unirsi nuovamente a lei, in una di quelle assurde forme altrimenti note oggigiorno con la neutra e quasi dolce dicitura di “famiglie allargate”, che i francesi chiamano letteralmente “ricomposte”? Stando a Houellebecq, pare proprio di no: “io di famiglie ricomposte non ne avevo mai viste, mentre di famiglie decomposte sì, in pratica non avevo visto altro”.
Senza voler essere eccessivi, si può tranquillamente ammettere che nessuno di questi tempi – e malgrado questi siano effettivamente i tempi che stiamo vivendo – parli di ciò, del vero e proprio tramonto dell’Occidente, e meno che mai in letteratura. Perlomeno, nessuno riesce a contemplarlo in tutta la sua portata.
In Serotonina, invece, la visione è totale, non esclude niente: la distruzione della famiglia e di conseguenza della società; i gloriosi e tragici movimenti di rivolta di una borghesia allo stremo – e non una semplice anticipazione dei gilet gialli; l’annichilimento di qualsiasi pulsione vitale in noi; il bisogno di trovare un senso trascendente – le ultime righe sono per Lui: Dio esiste ed è amore, non diversamente da quanto sosteneva Ratzinger nella sua enciclica Deus caritas est. E questo Dio potrà anche “essere un mediocre sceneggiatore”, come sta scritto, ma di certo non lo è lo scrittore francese. Houellebecq è il profeta, la coscienza europea, l’unica possibilità di salvezza della sua letteratura e del continente stesso. Se un giorno avremo dimenticato questo spaventoso incubo europeista, sarà grazie a lui che ci ha brutalmente svegliati, mentre eravamo in caduta libera verso il precipizio.
Matteo Fais
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Caro Michel,
lo sapevo – lo sapevamo tutti – lo sapevi tu, soprattutto. Non avrei dovuto leggere Serotonina, sappiamo tutti che è un romanzo mediocre, d’altronde, lo sai, hai scelto di ergere la mediocrità a genio, dimostrando che si può vendere molto con un libro modesto, che Houellebecq è diventato una griffe dello scemo prêt-à-porter editoriale, ormai sei l’Armani dei depressi, la panacea per gli scrittori ombelicali, il cesso del narcisismo. Intendo, Michel, che sei uno scrittore tipicamente, clamorosamente degli anni Novanta, un reazionario dell’ovvio, lo sai anche tu – la massa lettrice riconosce sempre ciò che gli è noto, che annota da anni, a cui è riconoscente; l’ignoto, che è il carato della profezia, sconvolge il giudizio, viene ammesso con sospetto. Le tue riflessioni sono barbaricamente idiote, meno interessanti delle speculazioni del lavandino. Ne cito una, sull’amore:
Nella donna l’amore è una potenza, una potenza generatrice, tettonica, quando l’amore si manifesta nella donna è uno dei fenomeni naturali più imponenti di cui la natura possa offrirci lo spettacolo, è da considerare con timore, è una potenza creatrice dello stesso tipo dei terremoti o degli sconvolgimenti climatici, è all’origine di un altro ecosistema, di un altro ambiente, di un altro universo, con il suo amore la donna crea un mondo nuovo.
Ecco, una frase come questa va bene come sfondo a una puntata di Grey’s Anatomy, dove turbe di umani esagitati, nella latrina dell’ego, spacciano sentenze esistenziali, esiziali, inesistenti.
Vado avanti, Michel, sperando che questa mia abbia per te un valore catartico, catatonico. Qui definisci la prostituta, senza alcuno sforzo intellettivo:  
La puttana non seleziona i propri clienti, è proprio quello il principio, l’assioma, la puttana dà piacere a tutti, senza distinzione, ed è grazie a questo che accede alla grandezza.
Qui ti fai delle domande che dovrebbero creare qualche sommovimento nel sistema arterioso, invece sono stupide, indotte dal dio del banale, servono per indottrinare i sudditi del giusto mezzo, i vagabondi del niente:
Ero capace di essere felice nella solitudine? Pensavo di no. Ero capace di essere felice in generale? È il tipo di domanda che credo sia meglio non farsi.
Mi viene da dirti, Michel, mai letto Leopardi?, mai sperimentato il suo adamantino rafting nel nulla? Provaci, sfoglia lo Zibaldone, scoprirai il piacere di essere ammutolito, Leopardi zittisce tutti i tuoi incubi da illibata concubina.
Quando vuoi fare il battutista, Michel, mi intristisci con la tua insipienza:
Una Lolita sarebbe stata in grado di far perdere la testa a Thomas Mann; Rhianna avrebbe fatto sbarellare Marcel Proust; quei due autori, vette delle rispettive letterature, non erano, per dirla con altre parole, uomini dignitosi, e si sarebbe dovuto risalire più indietro, all’inizio del XIX secolo, ai tempi del romanticismo nascente, per respirare un’aria più salubre e pura.
Magari possedessi la sontuosità narrativa di Thomas Mann, magari fossi benedetto dalla vastità intellettuale di Marcel Proust, magari riuscissi a scrivere Lolita, magari fossi eroticamente penetrante come Rhianna. I temi definitivi del romanzo, il sesso e Dio, cioè la vita e la morte, cioè il tutto e il nulla, cioè i cardini della letteratura, sono trattati scioccamente, senza il brillio di una intuizione, di una avventatezza narrativa. Sul sesso ti cito questo passaggio:
Pieno di buona volontà, mi tolsi i pantaloni e gli slip per renderle più agevole prenderlo in bocca, ma in realtà ero già preda di una premonizione inquietante, e quando Claire ebbe vanamente masticato per due o tre minuti il mio organo inerte capii che la situazione rischiava di degenerare e le confessai che in quel periodo prendevo degli antidepressivi (“dosi massicce” di antidepressivi, aggiunsi per sicurezza) che avevano l’inconveniente di sopprimere in me ogni traccia di libidine.
Il desiderio annacquato, la libido che sbrodola via, la sessualità incancrenita, la vecchiaia che disintegra ogni bramito di carne, sono elementi che vanno esasperati, esagitati, abusati. Ecco. Non c’è alcun abuso, in te, Michel, che non sia l’abusivismo dei cliché, dottrine retrodatate – te l’ho detto, sei uno scrittore degli anni Novanta che giunge a noi, ora, in ritardo, vent’anni dopo – stinte, antiquate. Leggiti Massimiliano Parente, Michel, che sull’eros, sul porno, sull’eccesso e sull’oltreterra della foia e sul sopruso ha scritto, con la ‘Trilogia dell’inumano’, qualcosa di notevole, di drastico, dovrebbe diventare il tuo abbecedario. Leggiti Andrea Temporelli, che in Tutte le voci di questo aldilà porta la questione letteraria sul tremito del suicidio, Michel, mioddio, bela, ulula, sbraita, abbandonati al gorgoglio dei ghigni, strappati la pelle, spolpaci, portaci in un viaggio mefistofelico dal sottosuolo alla Gerusalemme celeste, dal fango al cosmo, ma questo pantano retorico, ti prego, evitacelo.
 Su Dio, poi, sei quasi pietoso, il beghino del buon credo:
In realtà Dio si occupa di noi, pensa a noi in ogni istante, e a volte ci dà direttive molto precise. Questi slanci d’amore che affluiscono nei nostri petti fino a mozzarci il fiato, queste illuminazioni, queste estasi, inspiegabili se consideriamo la nostra natura biologica, il nostro statuto di semplici primati, sono segni estremamente chiari.
Se hai scoperto il sacro nel dissacrato, sono felice per te, piglia la via del monastero e non farci la predica. Se invece pigli Dio sul serio, sfidalo a duello, prendilo a testate, detronizzalo, dissezionalo, annaffialo nella colpa, coltivalo nel danno, dagli valore di dramma. Si scrive azzannando, mica facendo un valzer sul primo pulpito che capita.
In ultimo, Michel, la tua scrittura, speculare alla mediocrità sponsorizzata nel romanzo. Sciupata, nitidamente anonima, da scrittore sottodotato, frollato nel piagnisteo. Ti cito un esempio, tra i tantissimi:
Alle sette in punto mi alzai e attraversai il soggiorno senza fare il minimo rumore. La porta dell’appartamento, blindata e massiccia, era silenziosa quanto quella di una cassaforte. A Parigi il traffico era fluido in quel primo giorno di agosto, trovai perfino parcheggio in Avenue de la Sœur-Rosalie, a pochi metri dall’albergo.
Come sai, un lettore vuole annegare nella gioia o nell’angoscia. “L’infinito è l’eccesso, l’opposto del giusto mezzo, della misura, del finito”, scrive Benjamin Fondane in un miracoloso saggio che sonda Baudelaire e l’esperienza dell’abisso. In particolare, parlando della filosofia greca, Fondane forgia una memorabile metafora: “si presenta a noi come la Vittoria di Samotracia – una scultura senza testa da cui la testa fu deliberatamente omessa, poiché doveva rimanere esclusiva proprietà degli ierofanti; consegnato il corpo al pubblico, la testa, gelosamente conservata chissà dove, non smetteva di guidarne l’espressione e il significato, come verità occulta e ineffabile su cui riposava il discorso visi bile ed espresso”. Vedi, in te, Michel, non c’è infinito e non c’è eccesso, non c’è occulto né mistero: ma è quello, solo quello, incedere in ciò che inciampa, che squassa, che cerchiamo. Il resto – il giusto mezzo, il visibile – è davvero geometricamente troppo poco. Ora che anche chi ti ha osannato per anni – non sono tra costoro – comincia a nutrire dubbi su di te, caro Michel, ora che soltanto per questo, per spirito di sfida, ti difenderei a spada tratta, non posso che ricordarti, per onore di verità, che sei uno scrittore senza testa, che sei uno scrittore senza palle.
Affettuosamente,
Davide Brullo
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fondazioneterradotranto · 4 years ago
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Gli Imperiali e l'arte. Uno studio sul collezionismo in Terra d'Otranto
Castello-Residenza Imperiali, Francavilla Fontana (Foto Alessandro Rodia)
  di Mirko Belfiore
L’edificio che più di tutti testimonia il potere degli Imperiale nel Salento è sicuramente il Castello-residenza di Francavilla, sede di una delle corte fra le più vivaci dell’area. Sopravvissuto alla caduta del potere feudale e divenuto fra il XIX e il XX secolo, sede del potere civile, Esso è stato recentemente sottoposto a un importante progetto di recupero. Ristrutturato nelle linee architettoniche quanto negli ambienti interni, ciò che si sta delineando per questo edificio è un nuovo ruolo da protagonista come contenitore culturale cittadino, progetto che ha avuto come prima tappa la realizzazione del polo museale archeologico del MAFF.
Il visitatore che percorre queste stanze rimane piacevolmente entusiasmato dalla vista di una moltitudine di elementi che nel corso dell’età moderna hanno portato questo complesso a trasformarsi da rocca fortilizia cinquecentesca a dimora nobiliare: la Sala del camino, il loggiato barocco, l’importante atrio d’ingresso con l’elegante scalone monumentale, l’imponente ballatoio interno, gli affreschi della cappella gentilizia e il caratteristico fossato, antico luogo di “delizie” floreali.
Si volesse trovare il lato negativo nell’analisi delle opportunità offerte da questo interessante luogo, unico nel suo genere anche per il contesto in cui si trova, questo lo possiamo riscontrare nella totale assenza di quelle testimonianze artistiche, arredi o suppellettili che durante i secoli XVII e XVIII, si disponevano nei diversi vani e di cui oggi poco o nulla è rimasto.
La prova che all’interno di questo edificio fosse presente un cospicuo numero di manufatti, anche di un certo valore e fattura, non è il risultato di ricostruzioni a posteriori o ipotesi azzardate, ma è l’esito di un’analisi approfondita di alcuni degli inventari notarili fatti redigere dai principiali membri di Casa Imperiali. In queste importanti carte ritroviamo una consistente lista di oggetti d’arte, opere cartacee e mobilio di pregio, tutti facenti parte di un’importante collezione creata durante i due secoli di governo della famiglia in Terra d’Otranto e disposta non solo in questo luogo ma in altre residenze di proprietà.
Tramite la lettura di questi elenchi possiamo comprendere non solo l’entità del patrimonio immobiliare che la famiglia accumulò, successivamente vittima di smembramenti e dispersioni, ma cogliere anche importanti informazioni sul gusto e sulle scelte di indirizzo artistico che essi perseguirono. A seconda delle opportunità presentatesi, Essi poterono accaparrarsi capolavori provenienti da tutt’Italia, chiamare a servizio maestranze provenienti dalla madre patria genovese, servirsi dell’operato di artisti di grido della scena napoletana o romana, contesti che fra l’altro ben conoscevano, o impiegare artisti facenti parte della vivace scuola pittorica locale, creatasi all’ombra del loro mecenatismo.
Prima di avventurarci nella lettura dei numerosi inventari di Casa Imperiale a noi pervenuti, argomento dei prossimi articoli, trovo illuminante fare chiarezza sulle dinamiche che hanno portato alla realizzazione di queste interessanti raccolte.
Lo studiolo di Federico da Monetefeltro a Urbino (XV secolo)
Decifrare in poche righe il “mestiere” del collezionista non è un proprio un compito facile, visto che lo stesso rimane un percorso affascinante e dai mille risvolti, che nella scena italiana trova numerosissimi spunti e approfondimenti. Tentando di tracciare alcune linee guida, possiamo rimandare alla seconda metà del Quattrocento, durante quel periodo passato alla storia come il Rinascimento, il punto di svolta per la nascita di alcune delle più famose collezioni d’arte.
Tutto ebbe inizio nelle dimore principesche di alcune città del Nord Italia, sedi di corti sfarzose, e dove uomini e donne di alta caratura, amanti di qualsiasi tipo di espressione artistica, fecero realizzare dei piccoli ambienti privati: gli studioli o camerini. Quivi, immersi fra volte affrescate o arredamenti dai pregevoli intarsi lignei, si trovavano gelosamente custoditi un numero impressionante di manufatti: dipinti, sculture, opere in porcellana, gemme preziose, monete antiche e tutto ciò che incuriosiva o accarezzava la curiosità del nobile proprietario. Questo era un luogo intimo e riservato, perfetta sintesi dello status, del carattere personale e degli interessi del committente e dove lo stesso poteva coltivare le proprie passioni nei momenti di riflessione dalle fatiche del quotidiano. Fra i più celebrati ricordiamo quello di Federico di Montefeltro a Urbino, Isabella d’Este a Mantova, Francesco I de’ Medici a Firenze e Alfonso I d’Este a Ferrara. Tutto ciò, naturalmente, era a uso e consumo esclusivo del proprietario di casa, il quale poteva decidere di aprire la visita di questo luogo alla sua cerchia ristretta o consentire visite a personaggi di una certa importanza e di passaggio come potenti, diplomatici o ecclesiasti. Con la realizzazione di questi spazi si delinea un vero e proprio passaggio di consegne fra l’ambiente monastico, fino allora principale tenutario di tutto ciò che era sapere e arte, a quello umanistico, nuovo luogo di sviluppo e proliferazione del clima intellettuale dell’epoca.
Questo percorso vide un decisivo sviluppo nel periodo a cavallo del XVI e del XVII secolo, quando quel piccolo spazio andò a trasformarsi in un ambiente più ampio, più sontuoso e aperto al pubblico: la galleria. Si decise che l’espressione artistica doveva diventare anche e soprattutto esaltazione del potere raggiunto, dove il padrone di casa, nobile o arricchito che fosse, potesse mettere in mostra i propri “muscoli” ostentando la ricchezza, il ruolo politico e il livello del bagaglio di conoscenze culturali e filosofiche raggiunte.
In Italia, gli esempi di questo genere si sprecano. Non si possono non conoscere le vicende di corti principesche dagli echi leggendari come quelle sviluppatesi a Mantova con i Gonzaga, a Ferrara con gli Estensi, a Milano con gli Sforza, a Firenze con i Medici e a Roma con i vari papi saliti al potere, dove artisti dai nomi celebri vennero protetti da mecenati altrettanto celebri come Lorenzo il Magnifico, Vincenzo I e Ferdinando Gonzaga, papa Giulio II o Ludovico il Moro. Questi personaggi ben conoscevano il massaggio che questo genere di opere veicolava, tale da poter garantire una più rapida ascesa nel consenso.
Questa trasposizione di valori avvenne più velocemente e in maniera più diffusa nell’ambito dell’Italia centro-settentrionale, rimanendo inizialmente più anonimo nel contesto meridionale. Persino in un centro importante come Napoli, una città fra le più grandi e popolose dell’epoca, capitale del Regno sia in età angioina che in quella aragonese, non si rintraccia una collezione regia valevole di questo nome. Questa mancanza si rifletteva sicuramente sulle nobiltà partenopea quanto su quella sparsa nelle province periferiche, le quali senza un modello da imitare, non si posero mai il problema o l’obiettivo di realizzare tali raccolte, con tutti i risvolti poc’anzi elencati. Sia chiaro, non che mancassero uomini di cultura, mecenati o artisti di grido, ma la “febbre” del collezionismo mancava ancora di quella spinta che arriverà solo fra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento.
Ciò che scaturì in questo frangente fu una sorta di scontro fra le numerose sollecitazioni esterne e la nascita di una specificità culturale, dibattito che ebbe come risultato l’esplosione di una vera e propria stagione artistica, carica di novità e originalità. Il punto di non ritorno può essere fatto risalire alla diffusione delle disposizioni scaturite dal Concilio di Trento e dal successivo movimento controriformato, evento epocale che dalla seconda metà del XVI secolo ebbe un’influenza diffusa in tutti i campi dello scibile umano. Tutto ciò si tradusse in arte in quella esperienza culturale passata alla storia come Barocco e della quale sempre Napoli fu una delle massime interpreti.
Concilio di Trento, incisione (1545-1563)
  Al sorgere del XVI secolo, il Regno di Napoli era entrato ufficialmente a far parte dei domini spagnoli, e con l’istituzione del Vicereame, tutto il Meridione si ritrovò inserito nel composito Sistema imperiale iberico. Questa nuova condizione non si tradusse in una completa subordinazione alla Spagna asburgica, grazie anche al governo di alcune figure di rilievo come il Viceré Don Pedro de Toledo che contribuì alla diffusione di una certa vivacità in tutti i campi, fra i quali la cultura.
Ritratto di Don Pedro Álvarez de Toledo con le insegne dell’Ordine di Santiago(Tiziano Vecellio, 1542, Monaco di Baviera, Alte Pinakothek)
  L’influenza dell’autorità spagnola, la Controriforma e la massiccia affluenza di genti straniere (fiamminghi, castigliani, toscani e soprattutto genovesi) spostarono sempre di più il baricentro della tradizione partenopea verso una soluzione molto più internazionale. In campo artistico fu paradossalmente sotto una dominazione come quella iberica, che la città conobbe un periodo di ricchezza e prosperità. Questa venne contraddistinta da una maturazione artistica senza precedenti che sfociò in un linguaggio riconoscibile in architettura, nelle decorazioni marmoree, negli stucchi e anche in pittura, grazie alla nascita di una maniera raffinata e fastosa che ben si sposò con l’animo passionale partenopeo. Volendo cogliere gli effetti scatenanti di questa nuova stagione, si possono identificare due eventi nodali.
Le sette opere di Misericordia (Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, 1606-1607, olio su tela, Napoli, Quadreria del Pio Monte della Misericordia)
  In primis, tutto l’ambiente partenopeo venne sconvolto dall’energia cupa e dall’estremo naturalismo dell’artista lombardo Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, presenza che diede un ulteriore spinta alle trasformazioni già in atto. Questi, in fuga da Roma per l’omicidio del rivale Ranuccio Tomassoni da Terni, si rifugiò a Napoli in due occasioni, nei bienni 1606-1607 e 1609-1610, venendo assoldato da committenze partenopee per la realizzazione di alcuni dipinti, vista la grande fama di artista rivoluzionario e dannato.
Ritratto del Cardinale Filomarino (Giovan Battista Calandra, 1642, olio su tela, Napoli, Chiesa dei Santi Apostoli)
  Il secondo grande contributo lo possiamo ricondurre alla comparsa in città di alcune figure di notevole carisma come il Cardinale Ascanio Filomarino, potentissimo vescovo di Napoli dal 1641 al 1666 e il fiammingo Gaspar de Roomer. Il primo fu un riconosciuto protettore delle arti e facoltoso collezionista, mentre il secondo era un ricchissimo mercante giunto a Napoli da Anversa nel 1634, e proprietario di una notevole raccolta di dipinti che annoverava più di 1500 tele. A tutto ciò va aggiunta la fervente attività dei vari ordini mendicanti, figli dell’azione controriformata e attivi in città già dalla fine del XVI secolo.
Queste circostanze diedero l’opportunità ai pittori locali, in alcuni casi già tecnicamente validi, di poter essere presi in considerazione in misura maggiore dalla committenza napoletana. Quest’ultima, naturalmente, non smise mai di accaparrarsi i servigi artistici di maestri provenienti da lontano come Guido Reni (documentato in città nel 1612 e nel 1621-22), Domenichino (presente in città fra il 1631 e il 1641 per dipingere la Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo) e Lanfranco (attivo a Napoli fra il 1634 e il 1646), o di accaparrarsi testimonianze pittoriche di artisti stranieri fiamminghi quotati come il Rubens o il Van Dick. Essa incominciò a prendere in considerazione gli artisti della scuola locale, i quali avevano dimostrato di aver maturato una nuova maniera pronta a rispondere alle loro esigenze.
Il Paradiso, particolare della cupola (Domenichino, Giovanni Lanfranco, pittura a fresco, 1630-1643, Napoli, Real cappela del Tesoro di San Gennaro)
  Questa azione congiunta diede una spinta rivoluzionaria, tale da alimentare quella splendida stagione artistica che contraddistinguerà Napoli durante tutto il Seicento e buona parte del Settecento e che non si limitò ad essere solamente una copia del caravaggismo e dei suoi interpreti più importanti, ma che possedeva la forza di trasformarsi in una fucina creativa molto prolifica. Fra gli artisti che per primi reinterpretarono la lezione caravaggesca troviamo i nomi di Battistello Caracciolo, Artemisia Gentileschi, Jusepe de Ribera, Belisario Corenzio e per i quali venne coniato il termine di “tenebrosi”, epiteto assegnatogli per il potente iperrealismo e l’uso di toni cupi e pacati. Se l’arrivo del Merisi fu l’ascendente sugli artisti della prima metà del secolo, i restanti cinquanta furono condizionati dai traumi della grande peste del 1656, tragico evento che decimò violentemente la popolazione napoletana. Le reazioni a questo avvenimento fecero emergere una decisa avversione al precedente realismo, soluzioni che portarono all’utilizzo di quell’acceso cromatismo di derivazione veneta che andò a illuminare a giorno i colori tenebrosi e gli sfondi scuri delle realizzazioni precedenti. Gli artisti protagonisti e principi di questa stagione furono sicuramente: Luca Giordano e Francesco Solimena, senza dimenticare Mattia Preti e Paolo de Matteis.
Rappresentazione della peste del 1616 (Carlo Coppola, XVII secolo, olio su tela, Napoli, Museo di San Martino)
  Nella capitale partenopea si diffuse quella carica innovativa che oltre a trovare terreno fertile in città, seppe diffondersi capillarmente nelle aree periferiche del regno che, rotte le prime resistenze, non fecero altro che uniformarsi alla nuova tendenza. Ai confini di questo fenomeno emerse nella sua particolarità il territorio salentino, dove si svilupperà una cultura figurativa che coinvolgerà tutte le arti maggiori e che prese il nome di “Barocco leccese”.
L’ambiente pugliese, molto tradizionalista, rimase inizialmente arroccato sulle proprie tradizioni tardomanieriste di ambito veneto, vere e uniche protagoniste dei primi vent’anni Seicento, favorite dalla presenza continua e costante, soprattutto nelle aree del barese e del brindisino, di quei mercanti veneti in viaggio da e verso la Serenissima. Il punto di svolta arriva nel terzo decennio, allorquando incomincerà a farsi spazio la spinta incontenibile del nuovo gusto napoletano, il quale decreterà con le sue novità una vera e propria rivoluzione.
Annunciazione (Artemisia Gentileschi, 1630, olio su tela, Napoli, Museo di Capodimonte)
  Basta elencare le numerose testimonianze dirette di tutti i dipinti che con abbondanza giunsero in Puglia dalle botteghe di pittori affermati e attivi a Napoli come Pacecco de Rosa, Andrea Vaccaro e Jusepe de Ribera, tendenza che continuerà durante tutto il Settecento con le opere di Luca Giordano, Francesco Solimena e Mattia Preti. In aggiunta a ciò, vanno registrati i soggiorni di artisti che a Napoli si formeranno ma che in Puglia troveranno importanti committenze come: Paolo Finoglio a Conversano, Francesco Guarini a Gravina e Cesare Fracanzano a Barletta. Infine, il meglio della pittura pugliese attiva più o meno stabilmente nella regione, fu totalmente influenzata dalla maniera napoletana. Questa tendenza fu incrementata dal fenomeno cosiddetto degli “artisti vicari” e che portò molti artisti delle provincie a spostarsi verso Napoli per apprendere uno stile affermato e prestigioso. Questi poi, ritornando nei luoghi d’origine, diffusero il nuovo “verbo” accaparrandosi le committenze della nobiltà locale desiderosa dei lori servigi.
Il giudizio di Salomone (Francesco Solimena, 1707, olio su tela, collezione privata)
  Ciò fu possibile in maniera evidente in Puglia, dove la nobiltà trovava negli artisti locali una risorsa a buon mercato e molto più incline ad accontentare i propri voleri e i propri capricci.
In Terra d’Otranto e a Francavilla in particolare, gli esempi più rilevanti sono da ricondurre ad alcuni artisti: Domenico Antonio Carella, presente in numerosi centri del barese, del brindisino e del tarantino, Ludovico delli Guanti e la sua bottega, molto attivo a Francavilla, i fratelli Bianchi di Manduria o i maestri cartapestai Pinca e Zingaropoli.
Questa specie di “provincializzazione” o riduzione allo standard napoletano non deve essere letta come una discesa a un livello inferiore perché, mediante il tramite partenopeo, la cultura figurativa pugliese si spostò verso: “una scena ben più ampia e organica di quella alto adriatica e greco bizantina, permeata ancora da influenze lombarde e toscane tutto sommato minori che per decenni erano stati i principali stimoli esterni di differenziazione e di originalità rispetto alle restanti aree meridionali fino a tutto lo stesso periodo umanistico” (G.Galasso).
Basilica di Santa Croce a Lecce, particolare del rosone, massimo esempio del barocco leccese.
  Tutto ciò fu possibile perché la feudalità pugliese non ricevette dall’autorità spagnola duri colpi come nelle altre zone del Meridione. Anzi, antiche e nuove famiglie come gli Acquaviva di Conversano, gli Orsini di Gravina, i Carafa d’Andria e i Caracciolo di Martina Franca, insieme agli Imperiali di Francavilla, raggiunsero proprio nel XVII secolo, il culmine della loro fortuna. Essi incrementarono il loro collezionismo privato commissionando cicli pittorici e creando consistenti quadrerie da inserire nei sontuosi palazzi di proprietà. Questi dovevano essere arredati secondo una vera e propria parata ufficiale, tanto da assomigliare palesemente alle fastose dimore partenopee, sia che questi si trovassero nella provincia più sperduta quanto nella centralissima Napoli.
  Collezioni sterminate che avevano una collocazione ben precisa, e che nel caso degli Imperiali erano disseminate lungo le numerose proprietà di famiglia, dal nucleo feudale francavillese fino ai palazzi di Latiano, Manduria o Avetrana, senza dimenticare le dimore stagionali di Massafra, Carovigno e Mesagne, tutti luoghi dove questi manufatti era disposti con attenzione e cura e che proprio tramite la lettura degli inventari notarili possiamo tentare a riordinare.
(Continua)
Palazzo Imperiali-Filotico di Manduria e Palazzo Imperiali di Latiano
  BIBLIOGRAFIA
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G. P. Bellori, Le vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, [1672], edizione critica di E. Borea con introduzione di G. Previtali, Firenze 1976.
A. Foscarini, Armerista e notiziario delle Famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra D’Otranto (oggi province di Lecce, Brindisi e Taranto) estinte e viventi, edizioni A. Forni, Bologna 1971.
L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, editori Vincenzo Manfredi e Giovanni de Bonis, Napoli 1797-1805, ristampa anastatica Bologna 1969-1971, libro IV.
G. Coniglio, I viceré Spagnoli di Napoli, Ed. Fausto Fiorentino, Napoli 1967.
P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, Bari 1901.
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oubliettemagazine · 6 years ago
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Bahiyyih Nakhjavani, iraniana trapiantata in Occidente(attualmente vive in Francia) ricostruisce in questo ambizioso romanzo “La donna che leggeva troppo“, pubblicato in Italia da BUR, la condizione delle donne nella Persia del XIX secolo e lo fa intrecciando riferimenti storici e fantasia, in un continuo spostamento temporale fra l’anno 1852, in cui venne compiuto il primo attentato nei confronti dello Shah Nasiru’d-Din e il 1896, quando lo Shah venne infine assassinato.
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fondazioneterradotranto · 4 years ago
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Scipione Puzzovivo di Nardò: frammenti
di Armando Polito
Come ben sanno gli addetti ai lavori, si definisce tradizione indiretta la trasmissione di un testo del passato, facente parte di un testo mai pubblicato o andato perduto. In parole povere si tratta di citazioni, impossibile dire se a memoria o meno,  riportate da autori successivi. Possono essere brevi (più spesso è così) che lunghe ed è cura dei filologi raccogliere i frammenti relativi ad una o più opere dello stesso autore in un unico corpo, in pratica un’antologia in cui il compilatore sarebbe stato ben felice di inserire il maggior numero possibile di brani, nella quale non ha voce la sua scelta ma la maggiore o minore ampiezza delle fonti, cioé degli autori citanti.
Se il fenomeno coinvolge tutti i secoli passati, difficilmente si porrà per quelli attuali (e, probabilmente, futuri), in cui il desiderio di esibirsi e di conservare memoria di sé contrasta con una sincera consapevolezza dei propri limiti, il cui ricordo non converrebbe lasciare all’eventuale residuo spirito critico di qualche postero. E se anche molti autori del passato avrebbero fatto probabilmente meglio a ridurre la loro prolificità, per non pochi c’è il rimpianto per un talento che avrebbe meritato un ben diverso destino, alimentato da quel poco che di loro si sa e da qualche frammento che della loro produzione  è rimasto.
Di entrambi i filoni, relativamente alla sfuggente figura del Pozzovivo, fornisco in sequenza gli unici dati a me noti:
1) Pietro Angelo Spera, De nobilitate professorum Grammaticae, et Humanitatis utriusque linguae, Francesco Savio, Napoli,  1641, p. 365:
Scipione Pozzovivo salentino di Nardò, nel quale non mediocremente risplendettero le luci dei filosofi greci, in patria per non pochi anni precettore dei figli dei primi (cittadini) e poeta pregevolissimo in lingua latina  e  toscana, venne infine a Napoli, dove tra persone come lui raggiunse un posto di condizione non inferiore.
2) Giovanni Bernardino Tafuri, Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò, in Opere di Angelo, Stefano,  Bartolomeo,  Bonaventura,  Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1848, v. I, pp. 333-334 (cito da questa edizione, ma il primo dei due libri di cui consta quest’opera di Giovanni Bernardino era uscito nel tomo XI degli Opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Venezia, Zane, pp. 1-315:
Extat MS. apud Jo. Bernardinum Tafuri=Il manoscritto si trova presso Bernardino Tafuri (sulla perdita di tale manoscritto vedi la nota 2 del brano xuccessivo).
pp. 487-488:
In rapporto a questo secondo brano sono doverose le seguenti precisazioni: 
a) sulla sua fine ecco cosa si legge in Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, s. n., Napoli, 1804, tomo VII, p. 10:
b) Credo che il Succinto ragguaglio del sito della Città di Nardò sia una variante di Descrizione della città di Nardò che si legge in 2). Un’ulteriore variante dovrebbe essere il Notizia dell’antichissima città di Nardò, e sua Chiesa Vescovile che si legge in  Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico …, op. cit. p. 10, insieme con l’informazione la quale rimase manoscritta, e fu involata dalla casa de’  signori Tafuri  (credo che qui involata non stia nel significato specifico di rubata ma in quello generico di volata via, scomparsa).
c) L’epigramma latino a p. 104 della raccolta del Grandi non è di Scipione Puzzovivo ma di Stefano Catalano, letterato nato a Gallipoli nel 1553 ed ivi morto nel 1620. Nella biografia che di lui scrisse Giambattista de Tomasi di Gallipoli, inserita nel settimo tomo della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli uscito per i tipi di Gervasi a Napoli nel 1820 sono ricordati i seguenti titoli, tutti rimasti manoscritti ed andati perduti: De origine urbis Callipolis (opera dedicata all’amico e concittadino Giambattista Crispo), Descrizione della città di Gallipoli, Vita di Giambattista Crispo.
d) Il libro che il Tafuri cita nella nota 2 e che recherebbe un epigramma del Puzzovivo in onore di Scipione Spina (che fu vescovo di Lecce dal 1591 al 1639) è, com’era facile ipotizzare, quasi irreperibile e l’OPAC segnala l’esistenza di un solo esemplare custodito nella Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini a Lecce. Impossibilitato a muovermi agevolmente, lascio ad altri il compito di consultarlo e di integrare, se si riterrà opportuno, questo post. In compenso, però, ne ho trovato un altro , che più avanti commenterò, a p. 8 di Peregrini Scardini Sancticaesariensis epigrammatum centuria, Vitale, Napoli,1603 (come si vede è lo stesso autore del libro dedicato  al vescovo Spina):
Su Pellegrino  Scardino di San Cesario vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/.
3) Giovanni Bernardino Tafuri, Serie degli scrittori nati nel Regno di Napoli cominciando dal secolo V fino al secolo XVI, in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, 1738, Tomo XVI, pp. 184-185:
… [L’accademia del Lauro] …
4) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Severini, Napoli, 1753, tomo III, parte III, p. 4:
5) Giambattista Pollidori, De falsa defectione Neritine civitatis ad Venetos regnante Ferdinando I ,  in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Occhi, Venezia, 1739, tomo XIX, p. 225:
Scipione Puzzovivo Seniora coetaneo del  Marcianob  nel libro che ha il titolo ….
a E il Puzzovivo Iunior  molto probabilmente è lo Scipione Puzzovivo menzionato più volte (ma il testo non dà la certezza che si tratti della stessa persona, dal momento che l’omonimia è sempre in agguato anche in sussistenza di compatibilità cronologica) nel Libro d’annali de successi accaduti nella città di Nardò, notati da D. Gio. Battista Biscozzo di detta Città (cito dal testo edito da Nicola Vacca in Rinascenza salentina, anno IV (1936), n. 4:
A 22 Febraro 1646, andarono carcerati in Napoli, Notaro Alessandro Campilongo, Giandonato Ri, Scipione Puzzovivo, Nobile, e otto altre persone del popolo, per imposture fatteli dal Sig. Conte.
A 13 detto [Gennaio 1654] venne ordine dalla Regia agiunta fatta in Napoli, per la morte del D.r Mario Antonio Puzzovivo, che si conferiscanp, il Sindaco del Popolo,Gio. Donato Ri, e Scipione Puzzovivo, figlio del morto Puzzovivo, ordinando nella Regia Udienza di Lecce,che gli sia data quella gente che è di bisogno per la strada, e che possano andare con armi proibite.
A 20 detto [Gennaio 1654] partì per Napoli Scipione Puzzovivo, per la detta chiamatapartì solo senza il Sindaco del Popolo, havendolo portato sino a Conversano Gio. Ferrante de Noha, suo cugino, di là fu provvisto dal Sig. D. Tommaso Acquaviva di cavalcatura e denaro.
A 5 Marzo 1654 furono chiamati da venti persone dal detto Auditore, esamenandoli se il D.r Mario Antonio Puzzovivo era agente in Napoli della città di Nardò, e se avesse inimicizia con il Patrone, se fusse ammazzato, se Gio. Ferrante de Noha havesse portato  Scipione Puzzovivo in Conversano quando fu chiamato da S. E., se avessero inteso, che Mariantonio Puzzovivo fusse stato annazzato in Napoli, ad istanza del sig. duca delli Noci.   
A 16 Giugno 1654 fu carcerato Gio. Tommaso Sabatino per haver andato per servitore a Gio. Ferrante de Noha, e Scipione Puzzovivo, quando andarono a Conversano, acciò testifica che detto Puzzovivo, quando andò in Napoli chiamato da S. E., andò da Conversano, e negozziò con D.Tommaso Acquaviva.   
b Girolamo Marciano (1571-1628), autore di Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto, opera pubblicata postuma per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855.
Alla data del 1739, dunque, il manoscritto del Puzzovivo ancora esisteva prima di fare la fine di cui si parla, come abbiamo visto,  nella nota 2 relativa al secondo brano del n. 3.
  6) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte I, p. 378:
7) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte II, p. 23:
  È giunto ora il momento di riportare, enucleati,  tutti i frammenti che le fonti (tra parentesi tonde il numero relativo) appena passate in rassegna mi hanno consentito di individuare.
Frammenti della Descrizione della città di Nardò:
(2) Nardò una delle città più cospicue della Salentina provincia, o s’ave riguiardo all’antichità della sua origine, vantando i popoli Coni per suoi fondatori, o all’eccellenza del suo sito, vedendosi piantata in una amena, e fertile pianura, e sotto d’un Cielo Benigno, o alla nobiltà degli abitanti, potendo andar gonfia, ed altiera sopra d’ogn’altra del Regno di Napoli , vantando, oltre molti nobili, ventiquattro Baroni di Feudi.
(4) L’Amore costante, La Tirannide abbattuta, ovvero la crudeltà di Tiridate vinta dalla costanza di S.Gregorio Armeno, L’Erminia  (Titoli delle opere sceniche di  Raimondo De Vito).
(5) Sotto Ferdinando I d’Aragona patisce ancora molti danni, per la batteria, et assalto fattali dal Campo Venitiano dopo la presa di Gallipoli.
(6) Visse in questo tempo in qualità d’ottimo, ed esperto Medico Gregorio Muci, a cui da più parti concorreva la gente, o di persona, o con lettere per avere di lui la direzione nelle proprie infermità, ed indisposizioni, e quasi di continuo era fuori di casa chiamato ora in un luogo, ora in un altro. E se la Natura gli fu assai proprizia acciò lasciasse parti ben degni delsuo vivace, e spiritoso ingegno, avendo composte molte opere mediche, e filosofiche, delle quali solamente corre per le mani di tutti un suo dotto parere intorno il cavar sangue alle donne gravide, gli fu molto avara a provvederlo di figliuoli  non ostante d’esser stato ammogliato con Prudenzia Filieri. Gregorii Mucii Medici Neritini Opus Practicis perutile. De Vena sectioni in utero gerenti adversus negantes huiusmodi auxilium pro cautione ab Abortu. Neapoli apud Joannem Sulerbachium 1544 in 4°.
Sui dubbi che suscita il titolo del Muci tramandato dal Tafuri vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/06/gregorio-muci-medico-nardo-del-xvi-secolo-suo-libro-fantasma/
(7) L’antica, e nobile Famiglia Longo s’estinse in Alberigo, il quale siccome per la suua gran dottrina apportò somma gloria, e riputazione alla sua Patria,ed al suo Casato, così per amor della verità, e per difesa degl’Amici mancò miseramente di vivere in Roma da un colpo di Archibugio.
Frammento della commedia in endecasillabi sdruccioli Fortunio:
(2) Così vengo or più pronto a te medesimo/per dedicar la mia nuova Comedia.( Questa, è pur ver, fu parte di quel carcere,/ch’io già provai per le colpe imputatemi,/  e Tu per tormi da man de’ Satelliti,/che mi volean straziar per non requiescere/volesti mai finché me render libero/non vedesti da que’ lacci corporei,/onde legata fu per sempre l’anima.
Epigrammi
(3) Quae fuerant Lauri Phoebo sacra pascua quondam/Musarum cultrix Infima turba colit./Aruerant herbis, Cytisi vel flore carentes/saltus,nec Cantum qui daret, ullus erat./Contulit illa atavis felicia serta Camoenis/vaticinor nostris gloria maior erit./At modo quae gaudet Vatum Turba infima dici/certabit, Phoebo tum decus omne feret. 
Quelli che un tempo erano stati pascoli di alloro sacri a Febo (ora) li cura la schiera Infimaa adoratrice delle Muse. Erano inariditi a causa delle erbe, le balze prive pure del fiore del citiso e non c’era chi intonasse alcun canto. Essab ha recato alle antenate Camenec ricche corone. Annunzio: per i nostri ci sarà gloria maggiore. Ed ora quella schiera di poeti che gode a chiamarsi infima gareggerà, tributerà allora a Febo ogni onore.
  a L’Accademia degli Infimi (per la storia di quest’accademia, sorta sulle cenwri di quella del Lauro, vedi Notizie delle accademie istituite nelle provincie napolitane, in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, pp. 293 e seguenti).
b L’accademia.
c Nome romano delle Muse; molto probabilmente connesso con cànere=cantare e carmen=canto.
  In quest’epigramma composto da distici elegiaci colgo una dichiarazione di modestia, forse anche troppo ostentata, anche se abilmente, attraverso la ripetizione nel secondo e nel penultimo verso (simmetria strutturale)  dell’accoppiamento delle parole infima e turba con inversione chiastica (Infima turba/Turba infima) e grammaticale in una sottile inversione dei ruoli: nella prima sequenza turba con iniziale minuscola, nome comune con significato iniziale notoriamente dispregiativo  ed Infima con iniziale maiuscola (nome proprio dell’accademia); il contrario nella seconda, dove Turba esprime una sorta di già avvenuta nobilitazione, prontamente ridimensionata, però, da infima abbassatosi ad aggettivo dal significato non certo esaltante. Tuttavia va detto che a p. 55 del tomo II dell’edizione della Istoria uscita per i tipi di Mosca a Napoli nel 1748  in testa al componimento si legge AD SCIPIONEM PUTEVIVUM e, poco prima, che l’autore è Tommaso Colucci di Galatone; insomma, dedicante e dedicatario risultano invertiti e buon senso vuole che l’ultima versione sia quella corretta.
(2,  nota d) Ardua res epigramma solet Scardine videri/nec multis unum saepe placere potest./Namque alii verba, et flores sectantur amoenos,/hic pondus rerum, scommatis ille salem,/fabula nonnullis arridet, priscaque multis/historia in laudem ritè retorta virum./Sed benè cunctorum retines tu corda libello/hoc decies claudens carmina dena tuo/queis neque verborum flores, nec copia rerum,/nec doctrinae laus nec charis ulla deest.
O Scardino, l’epigramma suole sembrare cosa difficile e a molti spesso può non piacere una sola cosa. Infatti alcuni amano le parole e i piacevoli fiori di eloquenza, questi l’importanza degli argomenti, quegli il sale del detto faceto, a parecchi piace la favola ed a molti la storia antica giustamente rivolta a lode degli uomini. Ma tu avvinci felicemente i cuori di tutti includendo in questo tuo opuscolo cento canti ai quali non mancano né fior di parole né abbondanza di argomenti né lode della dottrina né alcuna grazia.
Da notare queis, forma arcaica  per quibus, che ha la funzione di conferire solennità più che obbedire ad esigenze metriche.
Della serie dei componimenti elogiativi posti nella parte iniziale dell’opera di Ferdinando Epifanio Theoremata medica et philosophica, Balliono, Venezia, 1640 fa parte un epigramma del nostro formato da tre distici elegiaci, preceduto dall’intestazione Scipionis Puteivivi u(triusque) i(uris) d(octor) hexastichon ad auctorem: Nec melius quisquam te, Ferdinande, medetur/quos mala vis ferri, vel mala febris agit,/Nec facile invenias, doceat qui rectius artes;/quarum mille locos explicat iste liber./Ad te igitur veniat quicumque aud doctus haberi,/aut fieri sanus cum ratione velit.
(Esastico di Scipione Puzzovivo dottore di entrambi i diritti all’autore:  Nessuno meglio di te, Ferdinando, cura coloro che agita la maligna violenza della spada o una febbre maligna e non si potrebbe trovare facilmente chi insegnui più correttamente queste arti, delle quali questo libro spiega mille punti. Da te dunque venga chiunque voglia o essere considerato dotto o diventare sano con serietà scientifica).
Nella presentazione, ormai datata (http://www.lavocedinardo.it/bacheca3-03/ripresa0503-1.htm), di una sua imminente pubblicazione di una storia di Nardò del XVII Giancarlo De Pascalis così scriveva: … Il resto della storia prosegue segnalando le personalità di spicco nell’ambito culturale della città: in particolare sono da rilevare le presenze di Scipione Puzzovivo (che molti studiosi ritenevano non essere affatto vissuto ma pure invenzione storica del Tafuri) …
Non mi è stato possibile fino ad ora leggere tale documento (estremi della pubblicazione in http://www.storiadellacitta.it/associati%20CV/de%20pascalis.pdf:  Nardò nel Seicento: un manoscritto inedito di Girolamo de Falconibus, nella rivista “NERETUM – Annuario della Società di Storia Patria – Sez. di Nardò”, Congedo, Galatina 2003) e, quindi, non sono in grado di dire cosa eventualmente  aggiunga a queste note la parte dedicata al nostro Scipione, né conosco i nomi di coloro che, forse un po’ troppo frettolosamente condizionati dal vizietto della falsificazione notoriamente caro al Tafuri, hanno pensato che fosse un personaggio fittizio. Per fugare definitivamente questo dubbio credo, visto  che l’epigramma 3, per quanto detto, molto probabilmente andrebbe escluso dalla produzione del nostro, basti  il 2, nota d “ospitato” da Pellegrino Scardino proprio all’inizio della sua centuria. Ho detto ospitato, ma avrei fatto meglio a scrivere esibito, insieme con altri tre, rispettivamente di Giovanni Alfonso Massaro, Filippo Antonio Leone e Francesco Mauro, secondo la consuetudine, abbastanza frequente nella letteratura encomistica di quel tempo, di far precedere l’opera da recensioni poetiche di personaggi di una certa notorietà. L’epigramma in questione, inoltre, testimonia, da parte di Scipione, di un certo mantenimento di contatti  con l’ambiente culturale salentino.
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pangeanews · 6 years ago
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“Conosco tutti i Cristi appesi nei musei; ma Tu cammini, Signore, questa sera, i passi miei”: la “Pasqua a New York” di Blaise Cendrars
“L’unico vero poeta che v’incontrai mai fu Blaise Cendrars”, scrive Ernest Hemingway in Festa mobile a proposito del caffè La Closerie des Lilas.
“Costruire la propria vita è una questione di vita o di morte”, scrive Blaise Cendrars a suo fratello Georges da San Pietroburgo nel settembre 1911.
Però non si firma Blaise Cendrars. Perché Blaise Cendrars non esiste. Non ancora… A scrivere è Freddy Sauser e come tale firma parlando dei suoi progetti, inquietudini e ossessioni, dalla Russia in cui si era fatto spedire a lavorare come commerciante d’orologi per allontanarsi dalla troppo borghese, e puritana Svizzera in cui era nato, a La Chaux-de-Fonds, vicino Neuchâtel.
Non vuol diventare giurista di fama come il fratello, né musicista anche se suona il piano e compone, né accademico, anche se ha avuto in mente ben due tesi, alla Sorbona, una su Balzac e gli autori inglesi, l’altra sui teorici del Rinascimento italiano. Perché non vuole avere un mestiere, per essere un uomo libero. Sebbene ciò voglia dire far fatica, vivere di espedienti, galérer.
Sotto l’influenza di Baudelaire e di Verlaine ha cominciato a scrivere, e non solo a disegnare, e nel 1909 c’è stato l’incontro capitale, tramite Apollinaire, con Remy de Gourmont, che in Bourlinger definirà “spirito senza pregiudizi, divoratore, distruttore, universale, scettico, volgarizzatore, irrispettoso, erudito e filosofo, dissociatore d’idee”, personale padre letterario: “Non sono il figlio di mio padre”, afferma infatti in Au cœur du monde, poema in cui millanta d’esser nato al 216 di rue Saint-Jacques, “nella casa in cui fu scritto il Roman de la Rose”, il cui manoscritto, nel primo volume della sua tetralogia autobiografica, L’Homme foudroyé, dice aver chiuso in una cassa inchiodata e riposta in una stanza segreta in una casa di campagna, gesto sepolcrale di crocifissione, poi di confessione e resurrezione, con la poesia che si tramuta in prosa matura senza snaturarsi, perché Cendrars resta fedele a ciò che disse commentando La prosa della Transiberiane e della piccola Jehanne di Francia: “Tutta la vita non è che un poema, un movimento. Non seguo che una parola, un verbo, una profondità, nel senso più selvaggio, più mistico, più vivo.”
Le Livre des masques di Gourmont segna la scoperta del mondo come rappresentazione, da cui lo pseudonimo per dirsi figlio della poesia francofona (Villon, Nerval, i simbolisti) pur non mancando di amare i tedeschi (Novalis, Nietzsche e Rilke). Di nazionalità francese diventerà combattendo con la Legione straniera nelle trincee della Grande Guerra. E quando un amico gli chiederà se Blaise Cendrars è il suo vero nome, gli dirà che è il suo nome più vero.
Forse, mere ipotesi, è l’amore per Charles Baudelaire che gli fa scegliere uno pseudonimo che contiene le stesse identiche lettere, come in un anagramma, imperfetto solo in quanto la “n” serve a evocare le parole francesi che indicano la cenere, il sangue, la rarità. Dietro c’è tuttavia anche una ragione famigliare e pratica, non volendo nuocere alla reputazione del fratello…
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L’io che da Pasqua a New York arriverà alle opere autobiografiche è la messa in scena di un essere che tutto assorbe del mondo per osmosi diretta. E ovviamente attraverso la scrittura e la poesia. E che ovviamente assorbe anche l’altrui poesia. Su tutte quella del suo “maestro” Gourmont: Sixtine è all’origine del romanzo Moravagine; i suoi versi all’origine di Pasqua a New York. In quello che l’amico letterato Albert t’Serstevens chiama “stile d’incantamento” quest’opera conserva una ritmica ottocentesca che si fa però improvvisamente moderna, già quasi pronta a esplodere a bordo della Transiberiana per poi mutarsi, con una lenta trasfigurazione, nella pazzesca prosa di Moravagine e poi della tetralogia autobiografica, in un linguaggio che lo stesso t’Serstevens dice essere un “fiume amazzonico che trasporta a un tempo pepite d’oro e fango, diamanti grezzi e scorie, alberi morti e isolotti di fiori esotici [e che] non poteva che sommergerli nella sua corrente impetuosa”.
Blaise Cendrars… Sarà tacciato di antisemitismo, nel XIX e XX secolo un imprimatur per la grandezza letteraria. Sarà indirettamente attaccato da Breton per via del suo girovagare. A sua volta accuserà il gruppo surrealista di esser dei figli di papà. Dadaista della prima ora, non può sopportare critiche e manifesti… Fa ben altre scelte. “A partire dal 10 maggio 1940 il surrealismo era sceso in terra, non opera dei poeti assurdi che si pretendono tali e che sono tuttalpiù dei sub-realisti, visto che predicano il sub-cosciente, ma l’opera cosciente del Cristo, l’unico poeta del surreale…” (Verità).
Cendrars rompe col milieu letterario di Parigi, cui preferisce i viaggi, e nel corso di dieci anni, in un castello fuori città scrive in modo intermittente Notre pain quotidian, opera leggendaria che pare abbia chiuso in alcuni bauli, in giro per il mondo, buttandone a mare le chiavi. Mitomania? Forse invece bisogno di anonimato. Lo stesso delle incessanti partenze… Come in Russia. Poi a New York. Occhio alle parole: partir, compartir, pain, copains. È l’amico t’Serstevens a evidenziare questa serie… Partire e dividere-spezzare, il pane, con gli amici. Partire è rinascere. C’è Cristo nell’aria.
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Con le donne è stato timido, nonostante una certa spacconeria verbale e legionario, poi virile ma morigerato, fertile condizione per artisti e mistici. Le sue prime tre fidanzate hanno subìto morti violente e prematuro, un colpo di fucile, una condanna per cospirazione in Russia, un incendio in casa. A New York aveva raggiunto l’amata Féla, la madre dei suoi tre figli, prima di incontrare la sua “Beatrice” Raymone, attrice di Carné e di Duvivier. Féla sta insegnando francese agli immigrati… Ma per Cendrars lavorare è una maledizione. Vuol solo scrivere. Per un po’ si piega. Ma solo per poco… La notte di Pasqua, in un minuscolo alloggio nella metropoli, colto dalla disperazione per sé e per l’umanità che si vede attorno, si rivolge a Gesù… Troppa morte lo circonda, ma crede in ciò che è eterno, Dio. La vita, l’amore e l’arte sono per lui parole per la stessa cosa. È la sua religione… Per la prima volta si sente libero scrivendo… Per la prima volta si firma Blaise Cendrars…
Nel 1949, ne Le Lotissement du ciel, l’ultimo capolavoro autobiografico, esplode in grida di gioia: “Ah! […] Non c’è che questo di vero per non condannare la vita e maledirla. I Santi, i Bambini, gli Uccelli e i Fiori, dei pazzi, dei doni gratuiti”. I Padri della Chiesa sono tra i suoi maestri… Scrive l’amico Henry Miller: “Non è inattivo: rifiuta, rigetta”. È un sì o no molto cristiano. A proposito di sì, nel 1959, a settantadue anni, si sposerà con Raymone dopo un matrimonio bianco, facendosi battezzare poco prima della morte…
Marco Settimini
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Pasqua a New York
A Agnès
  Flecte ramos, arbor alta, tensa laxa viscera Et rigor lentescat ille quem dedit nativitas Ut superni membra Regis miti tendas stipite…
Fortunat, Pange lingua
  Fletti i tuoi rami, albero gigante, rilascia un po’ la tensione delle viscere, E che il tuo naturale rigore s’allenti, Non squartare cosi rudemente le membra del Re superiore…
Remy de Gourmont, Il latino mistico
  Signore, oggi è il giorno del tuo nome, Ho letto in un vecchio libro le gesta della tua Passione,
La tua angoscia e i tuoi sforzi e la tua parola clemente Pianger nel libro, monotona, dolcemente.
Mi parla della tua morte un monaco di tempi passati. Tracciava la tua storia in caratteri dorati
In un messale che sulle sue ginocchia posava. Piamente, ispirandosi a Te lavorava.
Seduto al riparo dell’altare nella sua bianca tunica, E lentamente lavorava dal lunedì alla domenica.
Il tempo oltre la soglia del suo ritiro si fermava. Chino sul tuo ritratto, di sé si dimenticava.
Il buon fratello non sapeva se era il suo d’amore O se era il Tuo, o di tuo Padre, Signore,
I cui grandi colpi alle porte del monastero battevano Ai vespri, quando nella torre le campane salmodiavano.
Sono come quel buon monaco, stasera, sono agitato. Nella stanza a fianco, un essere muto e sconsolato
Attende dietro la porta, attende che io lo chiami – io! È l’Eterno – sei Tu ed è Dio, sono io.
Non Ti ho conosciuto quand’ero bambino, – né ora. Non ho mai pregato da piccolo, nemmeno allora.
Stasera tuttavia penso a te con paura atroce L’anima mia è una vedova in lutto ai piedi della tua Croce.
L’anima mia è una vedova in nero, – è tua Madre Senza lacrime e senza speranza, come la mostra Carrière.
Conosco tutti i Cristi appesi nei musei; Ma Tu cammini, Signore, questa sera, i passi miei.
Scendo ai bassifondi della città, con passo spedito Schiena curva, spirito febbrile, cuore avvizzito.
Come un grande sole son le tue coste spalancate Di scintille le tue mani son tutte contornate.
I vetri delle case tutti coperti di sangue E le donne, dietro, son come dei fiori di sangue,
Delle orchidee, strane malvagie piante appassite, Calici rovesciati sotto le tue tre ferite.
Del tuo sangue raccolto, mai si sono abbeverate. Col rosso le labbra e col pizzo il culo si son decorate.
Della Passione come ceri son bianchi i fiori, Del Giardino della Buona Vergine ecco i più dolci fiori.
È verso quest’ora, è verso le nove, Signore, Che la tua Testa cadde sul tuo Cuore.
Io, di quest’oceano siedo sul bordo E di un cantico tedesco ora mi ricordo.
In cui si dice, con parole dolci, semplici e pure, La bellezza del tuo Volto durante le torture.
Nella cripta di una chiesa a Siena ho scorto, Alla parete, sotto una tenda, lo stesso Volto.
E a Bourrié-Wladislasz, in una dimora isolata, In una teca per reliquie, è tutta dorata.
Gemme opache al posto dei tuoi occhi; Per baciarli i contadini si metton sui ginocchi.
Impressa è sul velo della Veronica; Ed è per questo che la Tua santa è Santa Veronica.
È la miglior reliquia portata per le campagne, Guarisce tutte le malattie e forze maligne.
Fa anche mille e mille altri miracoli, Ma io non ho mai assistito a questi spettacoli.
Forse la fede e la bontà mi mancano, Signore, Per veder della tua Bellezza cotale splendore.
Tuttavia, Signore, un pericoloso viaggio ho dovuto fare Per la tua immagine di berillo, per poterla contemplare.
Fa’, Signore, che nelle mani cui è appoggiato il mio volto Esso lasci cader la maschera d’angoscia da cui sono avvolto.
Fa’, Signore, che le mie due mani che alla bocca sto per portare La schiuma di una feroce disperazione non debban leccare.
Sono triste e sofferente. Forse a causa Tua, Forse a causa di un altro. Forse a causa Tua.
Signore, la folla di poveri per cui ti sei sacrificato È qui, stipata negli ospizi, come bestiame ammassato.
Immensi battelli neri giungon dagli orizzonti E li sbarcano alla rinfusa su banchine e ponti.
Ci son dei greci, degli spagnoli, degli italiani, Dei mongoli, dei russi, dei bulgari, dei persiani.
Ci son delle bestie da circo che scavalcano i meridiani. Gli gettano un pezzo di carne nera, come si fa coi cani.
Questa schifosa razione è la loro felicità, Signore, dei popoli sofferenti abbi pietà.
Signore, nei ghetti le turbe d’ebrei brulicano Sono tutti fuggitivi che dalla Polonia sbarcano.
Ti han fatto il Processo, lo so perfettamente; Ma t’assicuro, non tutta malvagia ne è la mente.
Nelle loro botteghe sotto delle lampade d’ottone, Vendon vecchi abiti, libri, qualche arma e munizione.
Rembrandt dipingerli nelle loro vecchie vesti ha molto amato. Io stasera un microscopio ho mercanteggiato.
Ahimè! Signore, dopo Pasqua Tu qui più non ci sarai! Signore, pietà per gli Ebrei nelle baracche, se puoi.
Signore, le umili donne che sul Golgota ti accompagnarono In fondo ai cabaret, su immondi divani, si nascondono.
Dalla miseria degli uomini sono inquinate. Nel rum nascondono il vizio incallito che le ha spogliate.
Dei cani gli han roso le ossa, Signore, E quando una di queste donne mi parla, sento un malore.
Vorrei esser Te per amar le prostitute. Signore, abbi pietà delle prostitute.
Sto nel quartiere del ladruncolo, Signore, Del vagabondo, di chi va a piedi nudi, del ricettatore.
Penso ai due ladroni che eran nel Supplizio ad accompagnarti So che di sorrider della loro sfortuna sai degnarti.
Signore, uno vorrebbe un nodo in fondo a una corda Ma non è gratis, costa venti soldi, quella corda.
Ragionava come un filosofo, quel vecchio bandito, Gli ho dato dell’oppio e più in fretta in paradiso l’ho spedito.
Penso al monco col suo organo di Barberia, al musicista, Che vive in strada, e anche al cieco violinista,
Alla cantante col cappello di paglia con le rose di panno; So che son loro che l’eternità accompagneranno.
Signore, fagli la carità, e non solo il bagliore di un faro, Signore, fagli la carità, quaggiù in terra, e in denaro.
Quando tu moristi, la cortina si fendette, Le cose che si videro dietro, nessun mai le ha dette.
La strada è nella notte come uno squarcio, Piena d’oro e di sangue, di fuoco e di marcio.
Quelli che hai scacciato dal tempio con le tue frustate Flagellano ora i passanti con malefatte a manciate.
La Stella che scomparve allora dal tabernacolo, Brilla sui muri nella luce cruda d’avanspettacolo.
Signore, la Banca illuminata è una cassaforte, In cui s’è coagulato il sangue della tua morte.
Le vie si fan deserte e diventan più nere. Io barcollo come un uomo ubriaco sul marciapiede.
Ho paura dei gran lembi d’ombra, sono i palazzi a proiettarla. Ho paura. Qualcuno mi segue. La testa, non oso voltarla.
Un passo zoppicante si avvicina sempre più, mi fa la posta. Ho paura. Ho le vertigini. Mi fermo apposta.
Questo strano tipo agghiacciante, uno sguardo m’ha lanciato Penetrante, e poi, malvagio come un pugnale, m’ha superato,
Signore, da quando non siete più Re non è cambiato nulla. Il Male con la tua Croce s’è fatto una stampella.
Scendo i gradini malandati di un caffè Ed eccomi, seduto, davanti a un bicchiere di tè.
Sono da dei cinesi che con la schiena pare sorridano Sono gentili come macachi, quando s’inchinano.
Il locale è piccolo, le pareti di rosso son decorate E delle curiose fotografie nel bambù sono incorniciate.
Hokusai i cento aspetti di una montagna ha colto Come sarebbe, dipinto da un cinese, il tuo Volto…?
Quest’ultima idea mi ha fatto dapprima sorridere, Signore, Ti vedevo stilizzato, martire nel tuo dolore.
Ma il pittore, invero, vi avrebbe dipinto sofferente, Con più crudeltà che i nostri pittori d’Occidente.
Delle lame ondulate le tue carni avrebbero segato, Delle pinze le unghie e i denti avrebbero strappato,
Degli immensi dragoni ti avrebbero attaccato, E delle fiamme sul collo ti avrebbero soffiato,
La lingua e gli occhi avrebbero potuto strapparti, Su di un piolo avrebbero finito con l’impalarti.
E avresti sofferto tutta l’infame punizione, Perché di quella non c’è più crudele posizione.
Per finire, ai porci ti avrebbero gettato, Che il ventre e gli intestini ti avrebbero divorato.
Sono solo in questo momento, le altre persone sono uscite. Son steso su una panca contro la parete.
Avrei voluto entrare, Signore, in una delle chiese; Ma non ci son le campane, Signore, in questo paese.
Penso: – dove son le antiche campane qui non più squillanti? Dove sono i lunghi offici, dove i bei canti?
Dove son le dolci antifone e le litanie? Dove son le musiche e le liturgie?
Dove sono i tuoi fieri prelati, Signore, e le tue monache, Dove l’alba bianca, dove dei Santi e delle Sante le tonache?
Le gioie del Paradiso annegano impolverate, I fuochi mistici più non rutilano nelle vetrate.
L’alba tarda a venire, e in questo tugurio desolante In una visione di rosso in sfondo nero, tremolante,
Delle ombre agonizzano sul muro come in una crocifissione, E in uno specchio del Golgota di notte ho l’impressione.
Il fumo, sotto la lampada, è come quella stoffa sbiadita Che fa il giro, attorcigliata, intorno alla tua vita.
Sopra, la pallida lampada è sospesa, Come la tua Testa, triste e morta ed esangue.
Dei riflessi strampalati palpitano sui vetri… Ho paura, –  e sono triste, Signore, d’esser così triste.
“Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?” – La luce rabbrividire, umile nel mattino.
“Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?” – Dei biancori perduti palpitare come mani.
“Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?” – L’auguri della primavera trasalirmi in seno.
Signore, l’alba è scivolata come un sudario, gelidamente, E su in alto ha messo i grattacieli a nudo, completamente.
Già sulla città un rumore immenso risuona. Già il treno sobbalza, e sfilando tuona.
Nel sottosuolo la metro marcia e rimbomba I ponti ferroviari son scossi da un’onda.
La città trema. Delle grida, fumi e fuochi Sirene a vapore emetton muggiti rochi.
Nella febbre per l’oro la folla è persa In lunghi corridoi si urta e si riversa.
Il sole, offuscato nella trama dei tetti fumanti, È il tuo Volto ricoperto dagli sputi oltraggianti.
Signore, torno stanco, solo e molto tetro… La mia camera è nuda come una tomba…
Signore, sono solo e ho la febbre… Il mio letto è freddo come una bara…
Signore, chiudo gli occhi e batto i denti… Son troppo solo. Ho freddo. Ti chiamo…
Centomila trottole volteggian davanti ai miei occhi… No, son centomila donne… No, centomila violoncelli…
Penso, Signore, alle mie ore infelici… Penso, Signore, alle mie ore lungo le strade…
Non penso più a Te. Non penso più a Te…
New York, aprile 1912
Blaise Cendrars
[traduzione italiana di Marco Settimini]
 *
*Il 15 novembre 1912 Cendrars invia alla cognata Agnès una versione diversa del poema, ben più allucinata, in cui descrive i grattacieli vertiginosi di una New York nel cui cielo fanno capolino “immense nubi nere che si mescolano, turbinano e passano in forma di croce”. Tre frammenti meritano di esser riprodotti. Si noterà l’identificazione Cendrars-Cristo. La mano mozza ne è il sacrifico redentore.
“Sul suo letto d’insonnia il Cristo si alza sconvolto. Si è così tanto dibattuto, che ha potuto liberarsi un braccio strappandosi una mano, inchiodata ormai al Legno spugnoso, come una coscienza. Il suo braccio monco fa dei gran gesti”.
“D’improvviso due braccia calcinate, magre, nere fuoriescono dal mare spumeggiante, spuntano, e le due mani torturate dalla disperazione si congiungono in un gesto supplicante, giusto sul disco solare. Piovono lacrime di sangue…”
“Una nube s’ispessisce, scende, cade, sipario troppo pesante. Chiudo gli occhi! Sotto il mio cranio la città d’apostasia rimbomba come un tuono infernale. Pietà!”
    L'articolo “Conosco tutti i Cristi appesi nei musei; ma Tu cammini, Signore, questa sera, i passi miei”: la “Pasqua a New York” di Blaise Cendrars proviene da Pangea.
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oubliettemagazine · 6 years ago
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Bahiyyih Nakhjavani, iraniana trapiantata in Occidente (attualmente vive in Francia) ricostruisce in questo ambizioso romanzo “La donna che leggeva troppo“, pubblicato in Italia da BUR, la condizione delle donne nella Persia del XIX secolo e lo fa intrecciando riferimenti storici e fantasia, in un continuo spostamento temporale fra l’anno 1852, in cui venne compiuto il primo attentato nei confronti dello Shah Nasiru’d-Din e il 1896, quando lo Shah venne infine assassinato. #iran #bahiyyihnakhjavani #donna #donne #persia
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oubliettemagazine · 6 years ago
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La donna che leggeva troppo di Bahiyyih Nakhjavani: la condizione delle donne nella Persia del XIX secolo
La donna che leggeva troppo di Bahiyyih Nakhjavani: la condizione delle donne nella Persia del XIX secolo
“La poetessa di Qazvin era nota con una quantità di nomi diversi. Alla nascita le era stato dato quello solito, quello dato a tutte le ragazze di famiglia religiosa, il nome santo della figlia del Profeta. Gli studiosi dei centri teologici di Najaf e Karbala la citavano come fosse un oracolo, oppure la condannavano come fosse una strega. Alcuni dicevano che la sua bellezza era un piacere per gli…
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