#come cazzo guidate???
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natostanco · 7 months ago
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Lunedì: tamponato mentre sono in coda al semaforo
Giovedì: tamponato mentre sono fermo in sosta parcheggio
No no, ma tutto bene dai ☺️👍🏻
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tuttalamiavitarb · 1 year ago
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Sono una persona che si è fatta impigrire e corrompere del sistema
Comandato da ladri e opportunisti
Con la vita che mi merito
Con un futuro che se ci pensassimo bene tutti insieme, dovremmo reindissare le felpe rosse con cappuccio del G8 di Genova, e iniziare a distruggere e dare alle fiamme tutto , finché non ci dicono, ok avete ragione voi , ecco i soldi che vi abbiamo sottratto, da adesso, guidate il cazzo che vi pare, fate la casa come cazzo vi pare etc
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der-papero · 3 years ago
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Cultura slava del cazzo, e questi hanno pure preso dagli austriaci, quindi figurati che cazz ne esce fuori.
Che po', passi stare sempre con gli alcolici in mano, ma guidano come le bestie di Satana 'sti stronzi (e ve lo dice uno sempre a tavoletta) . Altro che non mettere la freccia, se guidate qua con gli standard west-europe vi mettete una corda al collo senza sapone.
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spokenitalics · 4 years ago
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The Old Guard Soundtrack but it's M¥SS KETA
(it's @rododaktvlos's fault)
UNA VITA IN CAPSLOCK // Intro: Questo mondo è al collasso/Se non mi faccio mi ammazzo/È una vita del cazzo
CLIQUE // Kill room floor scene: Non scopare, baby, con la clique (la clique)/Non fare arrabbiare la tua M¥SS (la M¥SS)/I danni, i danni, ti metto in conto i danni
UNA DONNA CHE CONTA // Andy's theme: Sì, non sono una santa/Ma erano altri tempi gli anni '90/Di vodka nel cuore/Ne ho versata tanta/La vita oggi è dura/Per una donna che conta
LA CASA DEGLI SPECCHI // Nile's theme: Vorrei andare a casa, ma non riesco a fare exit/Sono intrappolata nella casa degli specchi/Mi manca il respiro, c'è una pupa troppo sexy/Ma faccio un altro giro nella casa degli specchi
BOTOX // Merrick's theme: Un nuovo rimedio è arrivato in città/Botox/Ti ribalta la faccia, non ci credi/Botox/Se vuoi provare la novità/Botox
AFTER AMORE // Joe's theme: Apri il tuo cuore/Incondizionatamente/Cerca l'amore/Nella tua mente
XANANAS 80 // Nicky's theme: Non sono nichilista scelgo Prada a Nietzche/Io sono l'opera e tu sei la cornice
B.O.N.O. // Van scene: Sto guardando te perché sei un bono da paura/Te lo giuro, anche di più di quanto è bona la tempura
ULTIMA BOTTA A PARIGI // Booker's theme: Dedico un’ultima botta/A questa vita di merda/Praticamente già morta
FA PAURA PERCHÉ È VERO // Andy in the pharmacy: Mi chiamano l'angelo dall'occhiale da sera/Ma sono una donna di umana natura/Matura forse non troppo
MORTACCI TUA // Booker's betrayal: Guidava una Ford Fiesta/Era bellissimo/Un serpente dentro la testa/Velenosissimo/Quindi non posso che dirti: "Ma te possino"
COL CUORE IN GOLA // Nile in the elevator: Col cuore in gola/Le chiavi in mano/La strada vola/Non vado piano/Aria pulita/Come la mia coscienza
LE RAGAZZE DI PORTA VENEZIA - Versione ferro e fuoco // Final fight scene: Siamo le ragazze di Porta Venezia/Guidate dalla fama, lanciate con violenza/Regine della strada, mancanza di coscienza/Tu portaci rispetto, io non ho pazienza
BATTERE IL FERRO FINCHÉ È CALDO // The End: Battere il ferro finché è caldo (Oh)/Si tira avanti finché scappa il morto (Mhm)
MAIN BITCH // Post-credit scene: Non scherzare con la main bitch/Se vuoi ritrovare la tua wig/Sulla mia targa c'è scritto "Quynh"/Questa è la storia di una main bitch
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alepagni · 4 years ago
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La rana, la guardia e lo scorpione
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15/04/2021
La corsa di due giorni fa, dall'inizio alla fine, è stata la conferma di quanto il mio corpo rigetti questo genere di attività, come fosse un organo trapiantato che il sistema immunitario classifica come estraneo.
Non conta la passione che ci metto.
Dolori all'anca, fitte alla coscia e al ginocchio, il piede destro da metà percorso comincia a coprirsi di formiche, i polmoni si spalancano solo quando manca un chilometro alla fine. Un disastro.
Da quanti anni è che va così?
Comincio a correre, prendo sicurezza, riesco a farlo con un minimo di regolarità, poi puntualmente esagero, mi faccio male e sono costretto ancora a fermarmi per settimane. Mi rimetto in sesto, ricomincio e la forma sembra quella inesistente del primo giorno.
Tutto si azzera quando ti fermi, tutto il lavoro accumulato si smaterializza, evapora, come se non avessi mai corso. Alla fine stare all'erta è diventata la condizione di ogni uscita e questa specie di tensione si mangia grossi bocconi di quel piacere che spettava a me.
Forse c'entra o forse non c'entra, ma mentre soffrivo per l'infinita salita che sbuca a pochi metri da San Giovannone, mi è venuto in mente Ettore, che è scomparso pochi giorni fa.
Una vita intera passata a stare esattamente nel posto in cui intendeva stare, facendo solo ciò che voleva. Prima con il piglio irresistibile dello spregiudicato che se la gioca e poi con gli occhi arresi di chi guarda con tenerezza l'inevitabile ostinazione della propria natura. Così mi sono sempre immaginato che fosse, le poche volte che ho intercettato il suo cammino. E così ho sentito parlare di lui in paese, con altre parole, ma il senso restava lo stesso.
Era la favola della rana e dello scorpione, per intenderci.
Visto da angolazioni diverse vestiva i panni del barbone, del ricco finito in rovina, del matto, o del custode silenzioso di un vecchio paese al confine fra tre province. Chiunque lo guardasse, con qualsiasi sentimento, non poteva negare di avere davanti un essere libero, nel senso più animale del termine.
Il mio primo incontro con lui risale ai tempi del liceo quando andavo a studiare nella biblioteca comunale.
Quel giorno ero solo nell'ultima sala di lettura in fondo al corridoio. Mancava poco più di un'ora alla chiusura e il tardo pomeriggio di gennaio somigliava già alla notte.
Entrò quest'uomo alto, di un'età che non avrei saputo dire, barba incolta e un cespuglio di capelli che somigliava a un nuvolone pronto a vomitare acqua e bestemmie. Il parka militare che gli copriva le spalle senza calzare le braccia come un mantello, era in condizioni migliori del mio. I pantaloni di velluto a coste lasciavano intravedere attraverso piccole finestre sfrangiate altra stoffa sotto, una calzamaglia, un pigiama, qualcosa buono per sopportare il freddo.
Si guardò intorno tenendo in mano un grosso dizionario, poi si mise seduto a un tavolo al centro della stanza. Inforcato gli occhiali cominciò a sfogliare una pagina dopo l'altra senza soffermarsi mai per più di un paio di secondi su una definizione.
A un tratto si bloccò e alzò il capo nella mia direzione, in realtà senza rivolgersi a me, ma a qualcosa di invisibile che doveva trovarsi a un metro dalla mia postazione.
«Guardi, qua occorre fare silenzio per cortesia. Stiamo cercando di quagliare, ecco», assertivo e con voce misurata rimproverò pacatamente il nulla che occupava la sua traiettoria.
Io alzai gli occhi perplesso e mi guardai attorno cercando indizi di una qualche presenza. Eravamo gli unici utenti della stanza, immersi in un silenzio quasi totale.
Ripresi il filo di quello che stavo leggendo, cercando di schiacciare una risata fra i denti. Ma dopo pochi minuti con la coda dell'occhio lo vidi alzare di nuovo la testa dal suo tomo.
«Allora non ci siamo capiti», tolse gli occhiali e li appoggiò sul tavolo per dare consistenza alle parole, «io le ho chiesto di fare piano e lei disturba? Questo è un luogo per famiglie. Così proprio non va. Come la mettiamo?».
Con gli occhi completamente aperti, cercavo di individuare il suo interlocutore senza alzare il naso dal libro. Mi resi conto che si stava rivolgendo allo stesso vuoto indifferente di prima, a uno sputo da me, mentre intorno a noi non volava una mosca.
«Lei capisce che è una questione di educazione? Io le chiedo una cortesia e lei che fa? Ignora sfacciatamente le mie istanze!», stavolta alzò di qualche tacca il volume della voce sbattendo sul legno la mano aperta.
Ignorando chi fosse, ricordo che pensai: «ecco, ora questo mi ammazza…e siamo pure soli».
Ma era la persona meno pericolosa sulla terra, lo capii col tempo.
Una volta gli regalarono un'auto usata, una station wagon, una roba abbastanza spaziosa mi pare, forse una Passat – non c'ho mai capito un cazzo di macchine – in ogni caso una carcassa che fungeva da casa. Un amico mi raccontò che il benzinaio vicino al cimitero, di notte, per un breve periodo, lo lasciò sostare con l'auto nella sua stazione di rifornimento. Questo fino a quando, una sera, non si dimenticò di spegnere le pompe prima di chiudere.
Passata l'ora della cena, Ettore tornò alla sua casa a quattro ruote e cominciò ad aggirarsi intorno al distributore (è così che me lo sono immaginato. Come si fa quando una storia è troppo bella e non si hanno tutti gli elementi fra le mani, ma la si vuole comunque raccontare?). Forse prese a vagabondare fra i pochi oggetti lasciati incustoditi, a toccare un po’ qua e un po’ là, a premere pulsanti a caso, non saprei dirlo, ma si rese conto che una delle pompe era sbloccata e si mise di vedetta in attesa di clienti.
Il primo fu uno dei ragazzi del bar: «Oh Ettore, che fai?»
«Ciao bimbo, quanto ti metto?»
Dopo qualche secondo di perplessità il giovane gli chiese venti euro di benzina, sicuramente con un sorriso incredulo stampato sulla faccia e gli allungò una banconota blu.
Lui col fare un po’ sornione di chi manda avanti la baracca da anni, gli buttò lì un, «ma dammi cinque euro e siamo a posto», alzando le spalle per sottolineare che per lui non c'era alcun problema.
Il cliente ben contento si fece subito aggiungere altro carburante e corse a telefonare agli amici per informarli che al distributore del cimitero c'era Ettore che regalava benzina a prezzi ridicoli.
Nel giro di mezz'ora una fila di macchine aveva completamente invaso l'area di sosta e un pieno non veniva negato a nessuno.
«Dammi dieci euro e facciamola finita!»
«Bah, quanto mi vuoi dare? Facciamo venti via.»
«Per te stasera offro io. Insisto!»
E così via, per buona parte della notte. O almeno così si diceva in giro, quasi venti anni fa.
Va da sé che fu invitato a trasferirsi con la sua Passat (o quello che era) altrove e nei primi anni dell'università, quando la mattina presto prendevo il treno per Firenze, lo trovavo parcheggiato dietro la Stazione a dormire al posto di guida, con a fianco, sdraiata sul sedile reclinato del passeggero, la marmitta dell'auto, da tempo divenuta inutilizzabile.
Una delle ultime volta che l'ho incontrato, prima di trasferirmi a Siena, ci trovavamo entrambi di nuovo in biblioteca. Io collaboravo con loro per quanto riguardava le visite guidate, i corsi di alfabetizzazione informatica e la catalogazione libraria; lui era un utente fisso delle sale di lettura: arguto e simpatico, a volte intratteneva i presenti, altre volte gli assenti, sempre con le tasche piene di verità universali e massime di vita che avrebbero fatto impallidire il più navigato fra i filosofi.
Quel giorno stava seduto a un tavolo davanti al bancone del reference dando un'occhiata al giornale, mentre chiacchierava con l'allora responsabile dell'ufficio cultura.
«Come va Ettore?», gli domandò lui, non per cortesia, ma con sincera curiosità.
Ettore alzò gli occhi da una pagina di cronaca e visibilmente compiaciuto per ciò che stava per dire, rispose: «Eh Luigi, come va? A dire bene è abbassare la guardia!». E poi si rimise a leggere.
E oggi quella risposta, più o meno, è diventata il mantra pessimista per le mie corse e per troppe altre cose.
Godersi il momento, quando è un buon momento, sarebbe forse la scelta migliore.
Ma siamo fatti come siamo fatti, sia rane che scorpioni. E a volte non c'è rimedio a questo.
Alessandro Pagni
Ascolto: The Black Angels, Currency
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Arte di/per colmare il vuoto. Grazie Yves Klein
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Avevo deciso di prendere un giorno di pausa dal blog, causa scarsità di idee. Ma per una serie di circostanze, mi sono trovato a pensare che, queste pagine che apriamo per condividere le nostre passioni, in realtà, altro non sono che i diari segreti della nostra generazione. Beh, non vi nego che stasera tra una discussione e l’altra, ho avuto un immagine di me quattordicenne, pieno di brufoli, depresso da far schifo e pieno di rabbia dentro che un vulcano in piena eruzione al confronto è una barzelletta. Dodici anni fa il mio rifugio dalla realtà quotidiana fatta di insuccessi, del “signora è dotato ma non si applica” e dal “se continui così nella vita non concluderai mai niente”, altro non era che l’arte; e forse non è un caso che appena ho potuto scegliere per il mio futuro ho deciso di studiare beni culturali prima, storia dell’arte poi! ma soprattutto non è stato un caso il fatto che ho deciso di scrivere la tesi di laurea in museologia. Eh già! studiare i musei, analizzarli in tutti i loro aspetti;  studiare uno spazio al fine di creare qualcosa di unico e poter affermare con orgoglio “questo l’ho fatto io, e questa volta nessuno può dire che ho sbagliato!”. La comunicazione, che sia verbale, non verbale, pittorica, scultorea o nella tecnica di allestimento, questo è il caposaldo della mia vita e della mia ricerca, anche se, ripeto, non mi piace scrivere e sono bravo ad essere un oratore nelle mie visite guidate alle mostre, ma al mio dover esprimere giudizio, dare il mio punto di vista o parlare di qualunque cose con gli altri, preferisco la birra. Tutto questo per parlarvi di quello che è stato un esperimento formidabile che, se questo coronavirus non mi ammazza, prima o poi proverò, di modo da dare conferma a tutti quelli che lo pensano che in realtà nella mia vita non faccio un emerito cazzo!
Ma parliamo, finalmente, di questo artista, ovvero quel maledetto genio assoluto di Yves Klein, meglio conosciuto come l’inventore del colore blu. 
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Klein nacque a Nizza da Fred Klein e Marie Raymond, entrambi pittori. Dal 1942 al 1946, Klein frequentò l’Ecole Nationale de la Marine Marchande e la Ecole Nationale des Langues Orientales, dove cominciò a praticare il judo. Divenne amico di Arman e Claude Pascal, e cominciò a dipingere. Klein compose la sua prima Symphonie monoton nel 1947. Tra il 1948 e il 1952 viaggiò in Italia, Gran Bretagna, Spagna e Giappone, finché nel 1955 si stabilì permanentemente a Parigi dove tenne una "personale" al Club des Solitaires. I suoi dipinti monocromi vennero esposti alla Galerie Colette Allendy e alla Galerie Iris Clert di Parigi nel 1956. Klein morì a Parigi di infarto del miocardio nel 1962 a soli 34 anni di età, poco prima della nascita di suo figlio, anch'egli destinato ad essere "battezzato" Yves e a diventare artista, seppur scultore.
Considerato il precursore francese della Body Art, Yves Klein, realizzò più di mille tavole in soli sette anni, ed è noto soprattutto per i suoi dipinti monocromi. Ognuno di noi è a conoscenza delle tavole totalmente dipinte di Blu, la tonalità su cui l’artista decise di concentrarsi e di cui ne creò la “più perfetta espressione” nel 1956, un oltremare saturo e luminoso, che doveva unificare il cielo e la terra e dissolvere il piano dell’orizzonte. 
Nei suoi lavori immateriali, una sua celebre opera performativa, avvenuta il 28 aprile 1958 nella Galleria Iris Clert di Parigi, prevedeva che gli acquirenti sperimentassero Il vuoto. Klein eliminò tutto l’arredamento della piccola galleria di soli 20m², ed in 48 ore pitturò di bianco l’intera stanza, con lo stesso solvente che usava per le sue tele monocrome. Intervennero più di tremila persone, cui era loro servito un cocktail blu, preparato per l’occasione. I visitatori si sentirono ispirati dalla freschezza della peregrina ed eccentrica idea, che considerarono come l’opportunità di dividere un’esperienza del qui ed ora, una manifestazione della profonda visione dell’artista, liberato dalle restrizioni del tempo e dello spazio, ai limiti di ogni percezione.  “Non esistono limiti obiettivi all’espressione artistica, né nel contenuto, né nella forma. L’unica autorità che ho sempre riconosciuto è la voce dell’intimo.” Il Vuoto per Klein è senza influenze materiali, un’area dove entrare in contatto con la propria sensibilità, per vedere la realtà come appare nella sua essenza, oltre la rappresentazione. Klein esprimeva i suoi atti creativi strappando alla forma artistica l’intero contenuto: i dipinti non avevano immagini, i libri erano senza parole, la musica era una sola nota senza composizioni. La pienezza delle cose, i pieni poteri, come nel vuoto, nella loro assenza.
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Grazie a Klein ho avuto la mia radicale e totale conversione al mondo dell’arte contemporanea. Il fatto che io lo ami così tanto è legato proprio a questa performance, se così la si può definire. Klein è stato capace di colmare il suo vuoto interiore con quello che amava, esattamente come ho fatto io e come facciamo tutti, del resto. Rifletteteci un attimino... Chi di voi non si è sentito una nullità e non ha provato quel senso di vuoto che non si riusciva a colmare con nulla? E quando questo senso di vuoto è stato colmato? Bravi, nel momento in cui avete cominciato a fare il cazzo che volevate della vostra vita.
Ecco svelato il motivo per cui amo Klein, non aggiungo altro. 
Valerio Hank Vitale
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cartacei · 6 years ago
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ti innamori di me e non capisco nemmeno come possa essere successo. intanto nelle librerie facciamo i reading. alessandro cita garcía lorca e marco legge una sua poesia impregnante metà in italiano e metà in francese molto beat col sottofondo di antonio e massimo alla chitarra e alle percussioni. e non sono più stato apatico da quando a fine duemilasedici mi hai voltato le spalle e gli occhi a piazza antonello. probabilmente la cosa migliore che tu abbia mai fatto per me in circa tre anni. la spia dello scaldabagno è l'unica luce che resta accesa in casa di alessia. le fissazioni sulla plastica da non utilizzare mai più come le droghe sintetiche. mi porti sul lago grande e mi fai un pompino con de andré e poi battisti e poi battiato nelle casse della tua macchina e penso di essermi innamorato anch'io di te mentre sto per venire. le ansie stratosferiche delle visite guidate dietro le quinte del teatro dedicato al primo monarca d'italia e sulla terrazza del palazzo dell'inps dove nessuno si può suicidare se no finiremmo tutti a fare processi infiniti. processi che non processano nessuno. processi che diventano processioni. venera da regina siberiana è diventata un'amica. i trampolini di lancio sopra le discariche di amianto. luca seguirà mia cugina a barcelona e mi mancherà tantissimo ma non glielo dirò. che dirà mia madre quando mi vedrà. che dirà mia madre. da qui vanno via tutti ma io no. ti faccio le foto perché sei un sogno spostatosi dalla parte della realtà. ci diciamo dolcezze hypercaloriche vicino a una scultura a forma di cazzo. salveremo l'ambiente nei gruppi whatsapp. avrei molto da dire sulla temperatura corporea bilanciata della tua mano. il mio collo termoelettrico. i tuoi capelli come le code delle lucertole. devi andare a firenze per un master da settemila euro. ma se lo fai entro luglio hai il venti per cento di sconto. e l'ansia ti divora come fosse un drago di nuvole. spariremo ma mai del tutto. mio padre e il non rapporto genitoriale. le pupille dilatate dall'eccitazione. le parole che tornano come i fuori sede al centro storico sotto le feste. gli stomaci sottosopra per le incomprensioni e le tempeste. i ti amo che credevo non avrei mai più direzionato a un bipede di sesso femminile. facciamo gli interrail nei paesi limitrofi. il liquido pessimo della tua scarsissima sigaretta elettronica. gli ossi di seppia di montale. le piazze che resuscitano. i pannelli delle mostre che si schiantano per terra. che cadevano solo quelli coi quadri di merda. e cadevano solo quelli fatti da persone di merda.
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Ragazza che guida con occhi sul telefono.
Io scendo dal pullman➡️strisce pedonali.
Mi dico "non attraverso, non alzerà mai lo sguardo e partirà dietro il pullman".
Va esattamente come previsto. Non ha alzato lo sguardo per un attimo. Toglietevi sti cazzo di cellulari quando guidate. Fine.
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mdma-mao · 6 years ago
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e come ogni anno più s'avvicina er natale e più guidate a cazzo.
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essercipertuttienonperse · 3 years ago
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non sono l* stess* anon di prima ma mi piacerebbe condividere i miei 2 cents: come premessa sono una ragazza lesbica e sono stata una fan dei 1d come band e almeno inizialmente anche come solisti. Già nel 2019 ho iniziato a storcere il naso verso harry perché molte cose mi sapevano di falso, poi evito di commentare il covid merch e arriviamo a estate 2020 quando esce il video di ws. Non riuscii a guardarlo tutto, talmente mi sentivo a disagio per la feticizzazione e quando scrissi come mi fossi sentita ricevetti parecchi commenti offensivi, oltre ad alcuni di natura omofoba e altri ancora che accusavano ME di omofobia, tutti da parte di persone cisetero, e già lì pensai:"ma che cazzo?? voi non fate neanche parte della comunità lgbt e volete dire a me come mi devo sentire????" comunque, visto l'accaduto ho deciso di tenere per me i miei pensieri; questo fino al Coachella di pochi giorni fa, quando ho scritto un commento sotto un post e ho iniziato a ricevere commenti dalle sue fan, tutte cisetero per cui ovviamente della comunità lgbtq non gliene frega un cazzo. Da qui la mia conclusione: il suo fanbase sono quasi tutte ragazze/ine cisetero misogine e una minoranza di ragazzi gay misogini + le larries (misogin* al quadrato) , per cui non importa se è offensivo verso le donne, lo difendono, non importa se è offensivo verso la comunità lgbtq lo difendono, ma se vedono che invece il gp inizia a vederlo per quello che è esce la frase "le etichette sono inutili" e bla bla bla così da placare le acque e se anche non funzionasse a lungo termine, almeno fino al 2025 ci arrivano, poi con il suo giro di amici può anche mollare tutto, sarà un miliardario
hei ! mi fa sempre piacere sentire I 2 cents di tutti non ti preoccupare <33 anche se pultroppo in questo caso non sono cose che mi sorprendono o che mi giungono nuove :// ho ricevuto anche io la mia porzione di insulti ogni volta che ho provato a dire qualcosa fino al punto che sono stata definitivamente ostracizzata da quel lato del fandom, mi dispiace che sia accaduto anche a te e da persone che sono guidate dal semplice egoismo e stupidità :( pultroppo ho paura che la situazione sia solo in peggioramento perchè piu lui fa schifezze grandi (come quella canzone/video) piu cresce l' aggressività con cui lo difendono e con cui attaccano chi osa dire la sua ( non so forse sarà lo stesso meccanismo per cui gli animali che si sentono alle strette diventano più aggressivi? ) in ogni caso ormai penso sia inutile anche cercare di parlare con loro perchè non gliene frega se tu fai parte del gruppo che viene ferito/offeso da quello che fa, la loro priorità sarà sempre lui (e indirettamente e subconsciamente proteggere le loro stesse opinioni/storie che si sono raccontat* in tutti questi anni, perchè alla fine è per quello che sono tutt* cosi intens* e testard*, perchè stanno difendendo loro stess*) e alla fine si come hai detto te lui il culo parato lo avrà sempre, anche se dubito molto che ce ne libereremo cosi presto rip
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giorgio-conese · 4 years ago
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LA MACCHINA
Cosa che odio! Si! Detesto guidare. Uno dei miei pochi rimpianti della mia vita è aver preso sta minchia di patente.
I viaggi lunghi mi piacciono, ma quando devo guidare per Roma, no! Lasciamo perdere.
Una delle cose che non capisco è perchè le persone, la gente, le people alle 7 del mattino vanno già di corsa.
Che vita di merda hai se già stai in ritardo a giornata iniziata?!
Capisco che uno non riesce a organizzarsi, ha tante cose da fare, impegni, doveri...ma sono le cazzo di 7 del mattino! Quanto Nevrotica è Caosotica è la tua vita??!! ( Caosotica mi piace come parola inventata)
I peggio sono quelli che usano il cellulare in macchina. I numeri uno! Che sbandano e rischiano d'invadere l'altra corsia perchè devono guardare il cel.
"ma io ci lavoro con il cel"
Ma vattene a fan...per favore. Quindi visto che tu ci lavori con il cel mettiamo a rischio la vita di tutti e alziamo le probabilità di fare un uccidente perchè "SIgnori scusate ma lui/lei ci lavora con il cel".
Riusciamo da solo a renderci conto di quanto è assurda questa frase o bisogna anche spiegarla?!
Bisogna spiegarla! Si! Le persone pensano che le loro motivazioni per i gesti che fanno siano giuste, indiscutibili.
La legge divina!
No! Non si usa il cel mentre si guida! PUNTO! Nessuna delle tue fottute motivazioni va bene! Non si fa! Basta! Non esiste!
Ma come fai a far capire una cosa del genere a delle persone che a giornata appena iniziata già si sentono in ritardo, già stanno di corsa. Velocizzano tutto, perchè bisogna correre, anda di fretta. Boh!
Non fa per me! Ne faccio di cose durante la giornata e anche io ero uno di quelli che andava sempre di corsa che non aveva "TEMPO". Poi ho imparato a farci pace con questo tempo, a gestirlo, a capirlo. Ho "Rallentato", mi sono tolto quell'ansia, frenesia e quell'essere nevrotico, che fa tanto male, godendomi l'unica cosa che per me importa, la giornata.
Il guardarmi intorno e sentirmi collegato con tutto, stare nel qui e ora, godermi veramente la mia vita. Con gli alti e bassi, ma godermela.
Ma forse sono solo uno che non capisce niente e va bene così, alla fine importa solo una cosa...
NON USATE STI CAZZO DI CELLULARI QUANDO GUIDATE!
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giancarlonicoli · 4 years ago
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7 lug 2020 15:56
LORO E LUISS - DAGO-LECTIO AL MASTER IN COMUNICAZIONE POLITICA DIRETTO DA GIORGINO PER I 20 ANNI DI DAGOSPIA: PERCHÉ OGGI L’UNIVERSITÀ NON SERVE A UN CAZZO! - “NESSUNO DEGLI ATTUALI PADRONI DEL MONDO HA CONSEGUITO UNA LAUREA. JOBS, BEZOS, GATES, ZUCKERBERG, I DUE DI GOOGLE DEVONO SOLO RINGRAZIARE GLI HIPPY, I FREAK, I BEAT DELLA CALIFORNIA DEGLI ANNI '60/’70 - LONTANI DALL'IDEOLOGIA POLITICA CHE HA UCCISO LE MIGLIORI MENTI EUROPEE, AVEVANO CAPITO CHE ABBATTERE IL POTERE ERA SOLO UNA INUTILE PERDITA DI ENERGIE CREATIVE: MEGLIO INVENTARSI UN ALTRO MONDO. E LO HANNO FATTO” - VIDEO
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1 – LA RIVINCITA DEL RAGIONIERE
Roberto D’Agostino per “Vanity Fair”
Orgoglioso del mio diploma di ragioniere, e in virtù dei primi vent'anni di Dagospia, sono stato invitato lo scorso 19 giugno dall'Università Luiss di Roma a tenere una cosiddetta lectio. Ho pensato bene di gonfiare la loro sapienza con il seguente tema: perché oggi gli anni dell'università non servono a un cazzo...
Ho iniziato pompando vaselina: «Il web è diventato il nuovo sistema nervoso del mondo». Finita la vaselina, è partita la rivincita del ragioniere: «Cari ragazzi, non perdete tempo a domandarvi che tipo di sapienza universitaria ha partorito le utopie di Steve Jobs (Apple), le visioni di Bill Gates (Microsoft), il marketing di Jeff Bezos (Amazon), le idee di Mark Zuckerberg (Facebook), gli algoritmi di Larry Page e Sergey Brin (Google), chiedetevi piuttosto che tipo di mente ha generato uno strumento come Facebook e Google.
Nessuno degli attuali padroni del mondo ha conseguito una laurea a Stanford o un master ad Harvard e atenei limitrofi».
Come siamo passati dai Rockefeller di ieri ai Jeff Bezos di oggi, un tipino che vendeva cheeseburger nei McDonald's? Come sono arrivati 'sti «strafattoni», senza titoli scolastici e senza titoli in Borsa, al potere globale?
Gli attuali miliardari della Silicon Valley devono solo ringraziare gli hippy, i freak, i beat della California degli anni '70. Che, tra una «canna» e un «acido», avevano un proposito ben chiaro: «fuck the system», prendere le distanze dall' American dream. E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi al «pensiero forte» dell'ideologia, alla politica, al terrorismo, come in Europa. Come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l'hippismo di San Francisco aveva messo radici profonde nel buddismo zen del Vicino Oriente.
Joni Mitchell e Neil Young, Jobs e company avevano capito che l'energia dell'essere umano non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, mejo rinchiudersi in un garage e inventarsi un computer, come appunto fece Steve Jobs.
Non è un caso che Stewart Brand, padre spirituale della controcultura californiana degli anni 70, teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, Spacewars: «Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo».
Brand non aveva in mente un progetto preciso se non questo, affascinante e molto hippie: niente più confini, niente più élite, niente più caste mediatiche, politiche, intellettuali.
Questo è l'unico principio ideologico del Web. Basta un computer su ogni scrivania per avere un «potere personale» che liquidava con un clic il '900. Ecco: il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all'esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale.
Non c'era più una casta di colti che sapeva dove si trovava la conoscenza: a saperlo era un algoritmo che ti conduceva direttamente a quello che cercavi. Via tutte le mediazioni. Niente esperti. Niente più confini. Niente flussi ideologici. La loro scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con tanta determinazione che scatenò l'intellighenzia europea, messa fuori gioco dalla Rete, con violente accuse di qualunquismo.
E si ritorna alla domanda di Stewart Brand: perché sprecare energia contro il vecchio mondo? Per ricevere un manganello in testa e finire in galera? Non è più eccitante creare un nuovo mondo.
E per farlo basta solo inventare uno strumento. II 19 gennaio 2007, a San Francisco, Jobs fece felice Brand presentando al mondo il primo modello di iPhone, un computer da tasca mascherato da telefonino detto smartphone. E nulla fu come prima.
DAGO ALLA LUISS
Il testo integrale della lectio di Dago al Master in Comunicazione Politica diretto da Francesco Giorgino alla Luiss
Molte sono le rivoluzioni che cambiano il mondo, ma sono poche quelle che cambiano gli uomini e lo fanno radicalmente perché capaci di generare nuovi modi pensare.
Il Web è diventato il nuovo sistema nervoso del mondo poiché, grazie in particolar modo a Internet, esso diventa in qualche modo un ampliamento della nostra intelligenza e della nostra memoria. Qui non si sta cambiando qualcosa, ma tutto. Non è il mondo che si fa globale ma noi. Un trauma culturale.
La tecnologia è una sfida rivoluzionaria destinata a cambiare la nostra vita esattamente come è avvenuto nell’’800 e nel ‘900. L’invenzione del treno fu un grande sovvertimento, l’arrivo della macchina fu una grande rivoluzione, adesso siamo alla vigilia di innovazioni superiori a quelle che la nostra immaginazione può tentare di descrivere. Nei prossimi vent'anni il mondo cambierà più di quanto sia cambiato negli ultimi 300.
Ma il mondo digitale non è la causa di tutto bensì l’effetto: la conseguenza di qualche rovesciamento mentale. Quindi, non perdete tempo a domandarvi che tipo di potere oscuro può generare l’uso di Facebook e di Google, chiedetevi piuttosto che tipo di mente ha generato uno strumento come Facebook e Google.
Perché l’uomo nuovo non è quello che ha prodotto quel computer camuffato da telefono chiamato smartphone: l’uomo nuovo è quello che lo ha inventato. La tecnologia, attraverso delle macchine, ha sciolto il mondo in un clic. Come dice Yoda in “Star Wars”: “Impossibile da vedere, il futuro è”.
ALL’INIZIO FU UN GIOCO. ANZI, UN VIDEOGIOCO
All’inizio fu un gioco. Anzi, un videogioco. Non si capisce molto della rivoluzione digitale se non si ricorda che i vari “PacMan”, “Space Invaders”, “SuperMario”, erano la reincarnazione della mitologia al tempo della tecnologia.
Perché ogni volta che si impugna la console, diventiamo come Teseo che si inoltra nel labirinto per dare la caccia al Minotauro. E proprio come gli eroi del mito antico viviamo una esperienza multitasking. Fatta di azione e visione, narrazione e invenzione, partecipazione ed emozione.
Affrontiamo una sfida in prima persona che è al tempo stesso eroica e ludica. Entriamo cioè in un'avventura vera anche se virtuale. Lì, attraverso una macchina, generiamo e abitiamo un ampliamento di realtà, una moltiplicazione del mondo, la possibilità di poter vivere in un altrove un'esistenza alternativa.
Il segreto del successo dei videogames è l’interattività, la stessa che sta all’origine della rivoluzione del Web. Mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, la rivoluzione digitale, al pari dei videogiochi, include.
Mi attiva perché, scrive Marshall McLuhan, “recupera la modalità di Narciso”; la moltiplicazione dell’Io come protagonista del gioco. Ognuno di noi si mette lì davanti, prende la pistola, guida la macchina o fa comunque azioni guidate dal gioco e diventa protagonista di quella azione, di quella storia.
Dalla platea al palcoscenico. Non siamo più semplici spettatori. Ma piuttosto spettatori di noi stessi. Spingendo fino al cortocircuito tecnologico i ruoli tradizionali della società dello spettacolo. Con un'identificazione totale tra chi vede, chi è visto e chi agisce.
Questo coincide perfettamente con l'avvento dei social network – Facebook, Instagram, Twitter etc. - dove il tema centrale è proprio questo narcisismo impazzito, dove ognuno in qualche modo si sente protagonista di una storia, è al centro di qualche cosa, che sia reale o meno, che sia vero o falso.
Il videogame ti dà questa sensazione, il Web ti dà questa emozione di generare un ampliamento di realtà, una moltiplicazione del mondo. Definire un computer una mediazione è magari una cosa ragionevole per un uomo del ‘900, ma uno sciocchezza per un ragazzo di oggi: che considera le macchine una estensione di se stesso, non un qualcosa che media il suo rapporto con le cose.
Uno smartphone è un’estensione del suo Io. Sono articolazioni del suo stare al mondo destinate a cambiare l’idea stessa di cosa debba essere l’esistenza.
COSE, NON IDEE. MECCANISMI, NON IDEOLOGIE
Non è un caso che Stewart Brand, padre spirituale della controcultura californiana degli anni ’70 (a cui Steve Jobs rubò la frase “Stay hungry, stay foolish”), teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, “Spacewars”, che metteva il dito nel nuovo orizzonte mentale da cui tutto proviene.
Scrive Stewart Brand (a lui si deve l’espressione ‘’personal computer’’): “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo”.
Non aveva in mente un progetto preciso se non questo, affascinante e molto hippie: niente più confini, niente più élite, niente più caste mediatiche, politiche, intellettuali. Questo è l’unico principio ideologico del Web. Basta un computer su ogni scrivania per avere un “potere personale” che liquidava con un click il ‘900.
Ecco: il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all’esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale, individuale, da mettere sulla tua scrivania. Covava, in quell’idea, la singolare volontà di concedere a qualsiasi individuo un potere che era stato creato per pochi.
Non c’era più una casta di colti che sapeva dove si trovava la conoscenza: a saperlo era un algoritmo che scattava invisibile e ti conduceva direttamente a quello che cercavi. Via tutte le mediazioni. Niente esperti. Niente più confini. Niente più caste. Niente flussi ideologici. Addio élite a cui si era soliti riconoscere una particolare competenza, un’autorità e alla fine un certo potere.
La storia della civiltà umana sulla Terra si può benissimo ripercorrere attraverso gli oggetti che l’hanno trasformata e manipolata: dall’invenzione della ruota e del coltello di pietra che duecentomila anni fa hanno consentito all'uomo di diventare più forte mangiando carne, alla ideazione delle armi da fuoco.
A seguire, l’invenzione della macchina fotografica, della lampadina, della catena di montaggio, dell’automobile, della ferrovia, della radio, della televisione, della carta di credito, della lavatrice, della pillola anticoncezionale, del computer, fino allo smartphone. Cose, non idee. Meccanismi, non ideologie. Oggetti, non filosofie. Soluzioni, non chiacchiere.
Certo, il pensiero è azione, è la prima e fondamentale delle forme del nostro fare. Bisogna però riconoscerlo: più ancora che dai grandi movimenti artistici, dalle ideologie, dalla letteratura, sono gli oggetti che trasformano la storia del mondo e il nostro modo di vivere.
Scrive Alessandro Baricco nel suo saggio “The Game”: “Con la rivoluzione digitale non c’è bisogno di un’idea del mondo: occorre uno strumento per fare il mondo”.
Come siamo arrivati a questo? Grazie agli hippies, ai freaks, ai beatnick della california degli Anni 70. Che avevano un proposito ben chiaro, prendere le distanze dal sistema, dall’American Dream, dal maledetto Secolo Breve delle guerre mondiali e dell’Atomica.
E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi all’ideologia, alla politica politicante, come in Europa. Dove l’obiettivo finale è abbattere il potere, la rivoluzione, il sole dell’avvenire. No, come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l’hippismo, tra una canna e un acido, aveva messo radici profonde nel buddismo del vicino oriente.
E fra Zen e Budda, l’hippismo aveva capito che l’energia dell’essere umano, non essendo illimitata, non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, intrupparsi in qualche partito da combattimento, o mettersi in fila per un posto all’IBM, mejo rinchiudersi in un garage a inventarsi un computer, come appunto fece Steve Jobs.
Non a caso nessuno degli attuali padroni del mondo, da Bezos a Zuckerberg, da Jobs al duo di Google fino a Bill Gates, ha conseguito una laurea a Stanford o ad Harvard. Non a caso nei social c’è un termine fondamentale per la sottocultura hippie: comunity. Non a caso facebook segue i dettami del Peace & Love e ha solo il “mi piace”.
La scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con determinazione e spirito pratico, magari senza avere un’idea precisa di quello che sarebbe poi avvenuto. Da una parte. Dall’altra il Sistema, il Potere era ben felice e tranquillo, visto le insurrezioni e il terrorismo che stava dinamitando l’Europa, del fatto che le comunità freak e hippie si trastullavano inventando videogiochi e computer, senza dar fastidio al manovratore, fuori da ogni contestazione politica. Una miopia che poi hanno pagato in termini pesantissimi: Microsoft si è mangiata l’IBM, Netflix ha oscurato Hollywood, Spotify ha conquistato l’industria musicale.
Avete mai letto dichiarazioni politiche dei vari pionieri del web Zucherberg, Bezos, Jobs? No, perché sprecare energia contro il vecchio mondo? Più facile creare un Nuovo Mondo. Anzi, un Ultramondo partendo da Space Invaders che ha portato via il calciobalilla dai bar e che per la prima volta ci ha fatto interagire con uno schermo, maturata venti anni dopo ed esplosa con la presentazione del primo modello di Iphone (9 gennaio 2007, San Francisco).
IL RINASCIMENTO DIGITALE
Che cosa lega l'invenzione della stampa nel 1450 a Google e Facebook? È possibile paragonare il tipografo tedesco Gutenberg all’informatico britannico Tim Berners-Lee, padre del Web?
Che distanza c'è tra quella Età del Caos che chiamiamo Rinascimento, i suoi Savonarola, e quel primo esperimento di globalizzazione che furono le grandi esplorazioni navali iniziate con la scoperta dell'America e i populismi di oggi?
L’invenzione di Gutenberg fu una mossa che ebbe colossali conseguenze: permetteva il passaggio della conoscenza dalla élite di papi, principi e monaci alle nuove classi emergenti.
Mentre lasciava sul campo, stecchita, buona parte della cultura orale (ai tempi dominatrice indiscussa di un mondo di analfabeti), apriva orizzonti sconfinati al pensiero umano, alla sua libertà e alla sua forza. Di fatto scardinava un privilegio che per secoli aveva inchiodato la diffusione delle idee e delle informazioni al controllo dei potenti di turno.
Per far circolare le proprie idee non era più necessario disporre di una rete di monaci amanuensi. Una smagliante accelerazione tecnologica che ha terremotato la postura mentale degli umani, dando vita al Rinascimento, alla modernità, all’Illuminismo.
Io credo che quello a cui noi stiamo assistendo con la rivoluzione digitale sia un procedimento tutto sommato simile, anche se in scala enormemente più vasta, al Rinascimento.
In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini ai villaggi del Bangladesh o in un’isola sperduta della Polinesia, chiunque con una connessione e un computer può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. C’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre che un Rinascimento Digitale, una mutazione che noi adesso non possiamo neanche immaginare.
1989, FINISCE UN’EPOCA, NE INIZIA UN’ALTRA
L’urgenza di mandare in soffitta il passato e di inventare il presente avvenne nel 1989. Venne giù il Muro di Berlino, carico di tutte le disastrose ideologie del ‘900, da una parte.
Dall’altra, l’informatico britannico Tim Berners-Lee, lavorando su un computer americano chiamato NEXT prodotto da Steve Jobs, inventò e regalò al mondo il World Wide Web, una ragnatela percorribile da tutti, in cui tutti i documenti del mondo, che siano testi, foto, suoni video, saranno a portata di mano.
Berners-Lee definisce il Web con appena 21 parole. Una frase chiave è: “Non c’è un top nel Web. Puoi guardarlo da molti punti di vista”. Ad una civiltà che da secoli era stata abituata a cercare la struttura del mondo mettendolo in fila dall’alto in basso, dal più grande al più piccolo, quell’informatico stava dicendo che il Web era un mondo senza un inizio o una fine, senza prima e dopo, senza sopra e sotto: ci potevi entrare da qualsiasi lato, e sarebbe stata sempre la porta principale, e mai l’unica porta principale.
La Rete è il riconoscimento che la cultura è circolare o meglio, labirintica, mischia elementi di epoche diverse, non ha il senso moderno dell’andare avanti su un’unica strada giusta e implacabile, ma gira intorno alle incertezze in un continuo scambio di alto e basso, sopra e sotto.
Non era solo una questione tecnica, di ordinamento del materiale: era una questione di struttura mentale. E’ un modo di muovere la mente, e sta a te la scelta di come muovere la mente.
Nel 1989, finisce un’epoca, ne inizia un’altra. Fantastica e sconcertante. L'adozione di nuove tecnologie è sempre più rapida. Ce lo insegna la storia: ci sono voluti 45 anni dalla sua invenzione perché l'elettricità raggiungesse il 25% delle persone, 35 anni per il microonde, 28 per la tv, 15 per il computer, 7 per il telefono cellulare, 5 per Internet. Oggi tutto sta accadendo simultaneamente.
Non solo. I computer non sono più macchine da programmare: sono diventati macchine che possono imparare cose. Sanno trasformare i dati in conoscenza: sono ormai dei veri e propri sistemi cognitivi.
È per questo che le cose diventano sempre più intelligenti: ormai tutti quegli oggetti che una volta erano disconnessi sono collegati a Internet, continuamente aggiornati. E con il ‘deep learning’ sono sempre più in grado di elaborare norme e strategie che noi non saremmo in grado di pensare.
FACEBOOK
Uno degli aspetti che distinguono la rivoluzione tecnologica è la realtà digitale. Ovvero il trasferimento della conoscenza e della vita degli individui dalla realtà reale al mondo di internet. I social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione. Del resto l’umanità moltiplicata attraverso la connessione è l’antitesi della solitudine.
Le piattaforme digitali hanno infatti dispositivi che incitano gli utenti a dare la stura alle proprie emozioni e a svelare le loro preferenze e i loro gusti intimi. Sotto questo profilo, il modello è Facebook.
Sono passati 16 anni da quando l’allora ventenne Mark Zuckerberg, da un dormitorio della Harvard University, ebbe l’idea di creare una rete sociale online capace di connettere i suoi colleghi universitari. “Mi resi conto che in rete si poteva trovare qualsiasi cosa: musica, libri, informazioni: eccetto la cosa più importante: le persone. Così ho creato Facebook”. Era il 4 febbraio 2004, il successo fu immediato.
A differenza di Google, dove gli internauti cercano informazioni “oggettive”, Facebook vuole connettere la gente e, per farla sentire viva e attiva, fa leva su pratiche cariche di dimensioni affettive: conversare con nuovi amici, condividere dati personali, ritrovare vecchi amori, conoscere gente, colmare il sentimento di solitudine o di noia, esprimere emozioni soggettive. Il suo successo è inseparabile dalla possibilità di esprimere stati affettivi, sentimenti e passioni della sfera delle relazioni private.
Tre miliardi di persone nel mondo si mettono in scena quotidianamente cercando di affascinare i loro amici, proiettare un’immagine favorevole di se stessi, attirare l’attenzione su di sé in vista di like che lusingano il loro ego.
Una ricerca generalizzata di seduzione, non più orientata verso la conquista dell’altro, ma centrata sui bisogni emotivi del Sé. Il principio della forza d’attrazione di Facebook è il suo uso di ordine emotivo.
Esprimo quello che mi piace e i miei amici fanno lo stesso pigiando il pulsante “mi piace!” e altre emoji o emoticon evocanti il riso, la gioia, lo stupore, la tristezza, la collera. Ciò che conta è ricevere like di approvazione ed esprimere le proprie emozioni. “Mi piace”, ed è tutto.
I messaggi negativi, naturalmente, sono possibili (vedi i cosiddetti “haters”, i le jene da tastiera) ma non sono “istituzionalizzati”: non esiste il pulsante “non mi piace” nel social. Proprio per questa assenza volontaria, la piattaforma è organizzata per favorire l’espressione dell’empatia, delle reazioni affettive positive, degli slanci di seduzione.
Si è potuto affermare che Facebook fosse una “utopia sociale” perché è basata sulla “negazione del nemico”. Tuttavia, non sembra affatto uno spazio privo di ferite soggettive, da rischi emotivi e perfino da una forma di competizione simbolica legata alla ricerca di riconoscimento.
Giacché su Facebook gli internauti cercano di uscire dall’anonimato, rivaleggiano in originalità o in humour e danno un’immagine lusinghiera di se stessi per ottenere un gran numero di like, suscitare attenzione e interesse, essere popolari, diventare “minicelebrità”.
Il rischio non è lo scontro con gli altri ma quello di avere pochi amici, di essere irrilevanti, di non ricevere like e commenti positivi. In compenso, questi permettono di rafforzare la stima di sé, lusingare l’ego, rassicurare il soggetto sul suo potere di seduzione.
L’espressione delle emozioni è diventata centrale sul web non in ragione delle incitazioni a interagire per rivelare dei dati, ma in risposta alla destabilizzazione della personalità, alla incertezza crescente dell’identità, al desiderio di essere integrati in una comunità, al bisogno di gratificazione rapide e di guadagni narcisistici degli individui.
INSTAGRAM
Ma è Instagram, lanciata il 6 ottobre 2010, il social più nuovo e interessante perché ha instaurato un nuovo linguaggio globale che ha preso il sopravvento sulla parola scritta. Grazie a Instagram, “io scrivo foto”.
Perché la velocità della tecnologia deride la lentezza di un sms, di un tweet, di un testo. Instagram ci fornisce una filosofia di salvezza. La realtà come volontà e rappresentazione fotografica.
Avere diciotto anni, almeno sul fronte del digitale, significa ragionare con lo sguardo e non più per vocaboli. Niente risulta più insopportabile di una persona anonima, neutra, priva del suo codice di immagine. Perché la qualità della vita si misura sulla qualità dell'immagine.
E pubblicare una propria foto privata diventa un “pensiero visivo” per catturare l’attenzione degli altri. “Mi vedo vedermi. Siamo degli essere guardati nello spettacolo del mondo” (sentenziava lungimirante Lacan).
Fatta fuori l’ingombrante macchina fotografica, la foto - prima arte democratica della storia - si è reinventata come semplice applicazione di quel supermedium tascabile che è lo smartphone. McLuhan è stato il primo a sostenere che la macchina fotografica rende obsoleta la privacy.
Aveva perfettamente ragione: ora tutto �� visibile, le persone, le case, gli oggetti, le azioni. I selfie da questo punto di vista non aggiungono niente di nuovo. O meglio: uniscono lo specchio e la macchina fotografica.
IO SONO LA MIA FICTION
Partendo da questa tesi (lo smartphone è il mio terzo occhio), entra in ballo l’aspetto più disturbante e seduttivo: la nostra identità digitale. In un mondo globalizzato che non dà lavoro né assicura benessere - i Millenials ieri, la Generazione Z oggi - devono fare affidamento sul proprio “marchio”. Si tratta di un'esperienza interiore di sé, piuttosto che uno stato oggettivo di essere famoso.
Se l’invenzione della fotografia è stata il preludio dell’arte moderna, la smaterializzazione dell'immagine – la trasmigrazione dalla carta al display - è diventata l’arte di costruire il proprio “brand”, il proprio marchio personale. Io sono di fatto il presidente, amministratore delegato e responsabile marketing dell’azienda chiamata “Io Spa”.
Benvenuti alla “Società dello spettacolo” preconizzata nel 1967 da Guy Debord. Io sono la mia fiction, perché la rivoluzione digitale ci dà la possibilità di creare una vita parallela attraverso i social.
Ecco un essere umano multitasking che non è cpiù ostretto a essere lineare. A essere inchiodato in un luogo mentale. A farsi dettare dal mondo la struttura dei suoi pensieri e i movimenti della sua mente.
La nostra rappresentazione sociale non può più, ormai, non passare per la rete in modalità immagine. Infatti la vita, grazie ai social network, è diventata una battaglia per inventare se stessi. Una battaglia tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
Pubblicare una propria foto privata e un modo per catturare l’attenzione degli altri. Come scriveva George Bernard Shaw: ‘’La vita non consiste nel trovare te stesso. La vita consiste nel creare te stesso’’.
Foto dopo foto, post dopo post, arriviamo al punto più centrale. Nessuno è soddisfatto di se stesso. Perfino i nostri antenati greci, che hanno inventato la civiltà, dalla politica alla letteratura, dall’arte allo sport, hanno sentito la necessità di inventarsi e nutrirsi di un mitologico mondo parallelo, un Olimpo affollato di Marte e Giove, Venere e Mercurio, per lenire la propria insoddisfazione.
Lo sappiamo bene di essere fatti male: la felicità dipende dalle nostre aspettative e non dalle effettive condizioni in cui viviamo. Quindi, nonostante i miglioramenti enormi di quest'ultime, l'insoddisfazione è sempre la stessa. La normale reazione umana al piacere non è soddisfazione, ma ulteriore ricerca del piacere.
DAGOSPIA ON LINE
Nel 1991 c’era un solo sito Web: quello di Berners-Lee. L’anno dopo diventano 9. Nel ’93 erano 130. Nel ’94, 2 mila 738. Nel ’95, 23.500. Nel ’96, 257 mila. Il 23 maggio del 2000 appare in rete Dagospia.com: avevo 52 anni, avevo lavorato in tutti i grandi giornali e settimanali e, tra la diffidenza di moltissimi, avevo capito che quell’era cartacea apparteneva al secolo scorso.
Iniziai da solo, postando tre articoli al giorno. Dopo appena una settimana mi girarono una notizia clamorosa che riguardava l’acquisizione da parte dell’Enel di una rete televisiva: uno scoop che, per motivi pubblicitari, nessun giornale poteva permettersi di pubblicare.
Ebbi allora la conferma che c’era gente che aveva bisogno di Dagospia, di un mezzo ibero dalla ragnatela del potere economico e finanziario. Google era ancora agli inizi, i social e le App erano di là a venire, in libreria esistevano enormi libri con gli indirizzi dei siti, una specie di Pagine Gialle di Internet: mi ricordo bene di quando consegnavo alle persone dei biglietti con su scritto www.dagospia.com.
Dagospia vide la luce con l’idea di creare un boutique dell’informazione, una portineria elettronica capace, davanti al ciclone di fatti e opinioni di cui cominciavamo ad essere sommersi, di sintetizzare per il lettore ciò che contava davvero sapere, dalla politica al pettegolezzo, dall’economia ai retroscena della finanza.
A tutto ciò, va ad aggiungersi il ruolo nevralgico e fondamentale di “spia”. Nel mondo politico e in gran parte del giornalismo italiano assistevo da tempo a un fenomeno: la "scomparsa dei fatti".
Come l'informazione in Italia, salvo rarissime eccezioni, era programmaticamente svuotata di contenuti, smarrendo del tutto la sua funzione originaria. Era successo che tutta la stampa italiana non era più in mano a editori puri ma a imprenditori che avevano acquisito quotidiani soprattutto per esaltare i loro interessi e per far scomparire le notizie scomode che li riguardavano.
La principale tecnica della disinformazione operata dai media in Italia era, ed è tuttora, l'arte del parlar d'altro o nel concentrarsi su aspetti marginali e fuorvianti della notizia stessa, così da oscurarne il ben più importante contenuto: titoli “pettinati”, interviste senza domande, articoli da prima pagina che finiscono con taglio basso e senza foto a pagina 15.
Un'altra importante tecnica di disinformazione: la trasformazione delle opinioni in fatti. Ossia, per evitare di raccontare dei fatti, molte volte scomodi al potere, si lascia la cronaca dei fatti agli opinionisti, in modo da sostituire i fatti con le loro opinioni.
In un paese dove lo scontro ideologico è diventato la prassi, gli esempi di questa manipolazione abbondano ovunque. C’è chi li nasconde perché non li conosce e non ha voglia di informarsi, perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, perché contraddicono la linea del giornale, perché è meglio non scontentare nessuno e magari ci scappa una consulenza con il governo o con la regione. Il vecchio motto del giornalismo - “I fatti separati dalle opinioni” - è stato soppiantato da uno molto più pratico: “Niente fatti, solo opinioni”.
Nietzsche dice che esistono le interpretazioni, ed è vero, ciascuno di noi interpreta le informazioni che riceve. Ma quelle informazioni devono pur esistere. Possiamo avere interpretazioni diverse sul significato di una cifra, ma devo almeno avere una cifra, e deve essere corretta.
Diceva Aldous Huxley: ‘’I fatti non smettono di esistere solo perché li nascondiamo’’. Dagospia mira ad agire come un agente segreto tra le pieghe e le piaghe di una informazione istituzionalizzata: insomma quella che negli anni Sessanta si chiamava “controinformazione” e funzionava con il ciclostile sfornando volantini. Questo è stato il talento di Dagospia in 20 anni di esistenza e lo dimostra ogni giorno con 3,5 milioni di pagine viste: dar vita a un ciclostile digitale.
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pangeanews · 7 years ago
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Bisogna essere proprio coglioni ad andare a Pisa a pasquetta. Ovvero: paghiamo il biglietto per non vedere le opere d’arte, asfissiati dalla folla
Avete presente l’odore degli umani? Quando sono raccolti in massa, gli umani hanno l’odore del petto di pollo in avaria da giorni. Carne bacata, bruciata, sfatta. Certo, avete ragione. Coglione io. Il Lunedì dell’Angelo, secondo i cattolici, Pasquetta’ per tutti gli altri, sono andato a Pisa. Mi garbava la gita dall’Adriatico al Tirreno. Mare fermo come un lago da una parte. Mare che si muove, contorto, come il corpo del drago dall’altra. Per puro istinto dannunziano – anche se leggo altro – mi sono sporto su Marina di Pisa. Nella desolazione – mura delle case scavate dal sale, crollano come palpebre – mi ricordo di Meriggio. Qualche verso è inciso su una targa e piombato sopra uno scoglio, al porto. “A mezzo il giorno/ su Mare etrusco/ pallido verdicante”, tempestato dalla solitudine (“Perduta è ogni traccia/ dell’uomo”), D’Annunzio va in estasi, si perde (“Non ho più nome”), s’inerpica nella divinità (“E la mia vita è divina”). La poesia termina qui. Ritorno sull’Adriatico alle due di notte. Ovvio. Automobili guidate da umani ovunque. Claustrofobia d’acciaio. Il punto, però, non è la mia coglioneria. L’odore degli umani l’ho sentito a Pisa, la tanto amata da Leopardi (“L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze… non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma”). Piazza del Duomo. Quella con il prato verde e la torre che pende. Appena fuori le mura. Ristorante cinese. Bazar che ghigna “Italian Fashion”. Botteghe in serie. Date in concessione a stranieri. Se vuoi comprarti il portachiavi con la torre che pende paghi – senza scontrino in cambio – un bengalese. Una falange di neri – perché solo i neri, poi, chissà, perché non italiani o ‘bianchi’? – aprono borselli pieni di orologi sussurrando, maliardi, ‘Rolex, Rolex, costa poco’. Peggio di tutti, i turisti. A vagoni. Fanno gesti all’aria. Che cazzo fanno?, mi dico, coglione. Si fanno fare la foto. Le braccia si curvano all’aria nell’atto di tenere su la torre che pende. Che minchiata. L’odore degli umani mi sorprende tanto è potente. Preferirei essere un piccione. Dopodiché, sia chiaro, a prescindere penso che le vite degli altri siano più affascinanti della mia e che a nessuno – a nessuno – son degno di fare la lavanda dei piedi. Mi sento anche io, da altrove, parte di questo odore. Ma il problema è un altro. Come fai a vedere la piazza in mezzo alla folla? Come fai a vedere il Duomo stordito da questo odore di carne eretta? Lo stesso accadrebbe al Louvre o agli Uffizi, è ovvio. Come fai a ‘vedere’ se sei attorniato da una museruola di umani? L’arte è un messaggio dall’artista a te, è un’intimità. L’Annunciata di Antonello sta guardando te, proprio te, come la Muta di Raffaello, guarda te, proprio te, non gli altri, altrimenti non sarebbe arte ma messaggio pubblicitario. Lo sguardo di un’opera d’arte è impagabile, ti schianta. Ma per farti guardare dall’opera devi essere solo. Se non lo sei, è come se guardassi il quadro di spalle. L’evento artistico non esiste. Il paradosso clamoroso, perciò, è che di solito paghiamo un biglietto per non accedere all’evento artistico. In un romanzo appena pubblicato in Italia, Pony selvaggi (Edizioni E/O, 2018), Michel Déon, straordinario scrittore francese, controcorrente, che era ora di tradurre a dovere, s’inventa uno sketch pazzesco. Cyril, poeta inglese piuttosto abbiente e alquanto affascinante, con “la faccia da angelo perverso”, un giorno decide di rubare dagli Uffizi “un ritratto di giovane donna del Bronzino”. Il furto non è compiuto con intenti economico-ricattatori. Il poeta, “affascinato da quel ritratto, desiderava psicanalizzarlo, ma non ci riusciva nella baraonda degli Uffizi, veniva distratto dalla voce squillante delle guide che commentavano le opere d’arte per turisti dai piedi doloranti”. Il poeta, che si dilettava a tradurre Dante, ideò un’ode, trionfante, dopo aver rubato il quadro del Bronzino. Il quadro, dopo una manciata di giorni, fu restituito ai legittimi. Ecco a cosa ispira la grande arte, che richiama magneticamente l’individuo. A rubarla. A sottrarla dal chiasso. A estirparla dal ludibrio delle migliaia di sguardi equini – anche dai nostri – perché lei, l’arte, pretende la dedizione di un clamoroso amante. Avete ragione. Rimango un coglione. Però. Tramortito dal traffico, direzione Tirreno, svolto a Pistoia. C’è gente. Nei soliti posti. A riempire la panza di cibo. Cammino felino. Scovo la piccola Chiesa di San Leone, alle spalle della basilica centrale. Dentro c’è una Visitazione di Luca della Robbia. Maria ha un viso da bambina, di deliziosa bellezza; Elisabetta è in ginocchio, le abbraccia il grembo, ha il viso rugoso di un’aquila. Sembra, commossa, ferina, voler penetrare il grembo appena annunciato di Maria, come se fosse un planetario da cui vedere il destino del mondo. Le sculture sono totalmente bianche, in mezzo alla chiesa, che è decorata in modo eccessivo, sgargiante, barocco. Ma è proprio il contrasto a rendere quella Visitazione una icona dell’innocenza. Ero solo. Solo al cospetto dell’accaduto. Solo al cospetto dello sguardo che trafigge di Maria. L’opera era per me, e avrei potuto convertirmi all’improvviso, e lasciare tutto e vagare per il mondo annunciando l’innocenza come un folle. Non fossi il coglione che sono. (d.b.)
L'articolo Bisogna essere proprio coglioni ad andare a Pisa a pasquetta. Ovvero: paghiamo il biglietto per non vedere le opere d’arte, asfissiati dalla folla proviene da Pangea.
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