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CI VOLEVA IL RULLO
Lavori e lavoretti domestici, fai da te e bricolage: se fatti in clima vacanziero diventano piacevoli incombenze; se devono essere poi realizzati non dentro ma sull’uscio di casa, sono una fantastica occasione di socializzazione. Le case della Costa si ripopolano d’estate e via Rossi ti si rianima. La Costa.. si.. Mormanno pur a 840 m ha un Faro, il quartiere Costa e perfino via Marinella.Se gli…
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La rana, la guardia e lo scorpione
15/04/2021
La corsa di due giorni fa, dall'inizio alla fine, è stata la conferma di quanto il mio corpo rigetti questo genere di attività, come fosse un organo trapiantato che il sistema immunitario classifica come estraneo.
Non conta la passione che ci metto.
Dolori all'anca, fitte alla coscia e al ginocchio, il piede destro da metà percorso comincia a coprirsi di formiche, i polmoni si spalancano solo quando manca un chilometro alla fine. Un disastro.
Da quanti anni è che va così?
Comincio a correre, prendo sicurezza, riesco a farlo con un minimo di regolarità, poi puntualmente esagero, mi faccio male e sono costretto ancora a fermarmi per settimane. Mi rimetto in sesto, ricomincio e la forma sembra quella inesistente del primo giorno.
Tutto si azzera quando ti fermi, tutto il lavoro accumulato si smaterializza, evapora, come se non avessi mai corso. Alla fine stare all'erta è diventata la condizione di ogni uscita e questa specie di tensione si mangia grossi bocconi di quel piacere che spettava a me.
Forse c'entra o forse non c'entra, ma mentre soffrivo per l'infinita salita che sbuca a pochi metri da San Giovannone, mi è venuto in mente Ettore, che è scomparso pochi giorni fa.
Una vita intera passata a stare esattamente nel posto in cui intendeva stare, facendo solo ciò che voleva. Prima con il piglio irresistibile dello spregiudicato che se la gioca e poi con gli occhi arresi di chi guarda con tenerezza l'inevitabile ostinazione della propria natura. Così mi sono sempre immaginato che fosse, le poche volte che ho intercettato il suo cammino. E così ho sentito parlare di lui in paese, con altre parole, ma il senso restava lo stesso.
Era la favola della rana e dello scorpione, per intenderci.
Visto da angolazioni diverse vestiva i panni del barbone, del ricco finito in rovina, del matto, o del custode silenzioso di un vecchio paese al confine fra tre province. Chiunque lo guardasse, con qualsiasi sentimento, non poteva negare di avere davanti un essere libero, nel senso più animale del termine.
Il mio primo incontro con lui risale ai tempi del liceo quando andavo a studiare nella biblioteca comunale.
Quel giorno ero solo nell'ultima sala di lettura in fondo al corridoio. Mancava poco più di un'ora alla chiusura e il tardo pomeriggio di gennaio somigliava già alla notte.
Entrò quest'uomo alto, di un'età che non avrei saputo dire, barba incolta e un cespuglio di capelli che somigliava a un nuvolone pronto a vomitare acqua e bestemmie. Il parka militare che gli copriva le spalle senza calzare le braccia come un mantello, era in condizioni migliori del mio. I pantaloni di velluto a coste lasciavano intravedere attraverso piccole finestre sfrangiate altra stoffa sotto, una calzamaglia, un pigiama, qualcosa buono per sopportare il freddo.
Si guardò intorno tenendo in mano un grosso dizionario, poi si mise seduto a un tavolo al centro della stanza. Inforcato gli occhiali cominciò a sfogliare una pagina dopo l'altra senza soffermarsi mai per più di un paio di secondi su una definizione.
A un tratto si bloccò e alzò il capo nella mia direzione, in realtà senza rivolgersi a me, ma a qualcosa di invisibile che doveva trovarsi a un metro dalla mia postazione.
«Guardi, qua occorre fare silenzio per cortesia. Stiamo cercando di quagliare, ecco», assertivo e con voce misurata rimproverò pacatamente il nulla che occupava la sua traiettoria.
Io alzai gli occhi perplesso e mi guardai attorno cercando indizi di una qualche presenza. Eravamo gli unici utenti della stanza, immersi in un silenzio quasi totale.
Ripresi il filo di quello che stavo leggendo, cercando di schiacciare una risata fra i denti. Ma dopo pochi minuti con la coda dell'occhio lo vidi alzare di nuovo la testa dal suo tomo.
«Allora non ci siamo capiti», tolse gli occhiali e li appoggiò sul tavolo per dare consistenza alle parole, «io le ho chiesto di fare piano e lei disturba? Questo è un luogo per famiglie. Così proprio non va. Come la mettiamo?».
Con gli occhi completamente aperti, cercavo di individuare il suo interlocutore senza alzare il naso dal libro. Mi resi conto che si stava rivolgendo allo stesso vuoto indifferente di prima, a uno sputo da me, mentre intorno a noi non volava una mosca.
«Lei capisce che è una questione di educazione? Io le chiedo una cortesia e lei che fa? Ignora sfacciatamente le mie istanze!», stavolta alzò di qualche tacca il volume della voce sbattendo sul legno la mano aperta.
Ignorando chi fosse, ricordo che pensai: «ecco, ora questo mi ammazza…e siamo pure soli».
Ma era la persona meno pericolosa sulla terra, lo capii col tempo.
Una volta gli regalarono un'auto usata, una station wagon, una roba abbastanza spaziosa mi pare, forse una Passat – non c'ho mai capito un cazzo di macchine – in ogni caso una carcassa che fungeva da casa. Un amico mi raccontò che il benzinaio vicino al cimitero, di notte, per un breve periodo, lo lasciò sostare con l'auto nella sua stazione di rifornimento. Questo fino a quando, una sera, non si dimenticò di spegnere le pompe prima di chiudere.
Passata l'ora della cena, Ettore tornò alla sua casa a quattro ruote e cominciò ad aggirarsi intorno al distributore (è così che me lo sono immaginato. Come si fa quando una storia è troppo bella e non si hanno tutti gli elementi fra le mani, ma la si vuole comunque raccontare?). Forse prese a vagabondare fra i pochi oggetti lasciati incustoditi, a toccare un po’ qua e un po’ là, a premere pulsanti a caso, non saprei dirlo, ma si rese conto che una delle pompe era sbloccata e si mise di vedetta in attesa di clienti.
Il primo fu uno dei ragazzi del bar: «Oh Ettore, che fai?»
«Ciao bimbo, quanto ti metto?»
Dopo qualche secondo di perplessità il giovane gli chiese venti euro di benzina, sicuramente con un sorriso incredulo stampato sulla faccia e gli allungò una banconota blu.
Lui col fare un po’ sornione di chi manda avanti la baracca da anni, gli buttò lì un, «ma dammi cinque euro e siamo a posto», alzando le spalle per sottolineare che per lui non c'era alcun problema.
Il cliente ben contento si fece subito aggiungere altro carburante e corse a telefonare agli amici per informarli che al distributore del cimitero c'era Ettore che regalava benzina a prezzi ridicoli.
Nel giro di mezz'ora una fila di macchine aveva completamente invaso l'area di sosta e un pieno non veniva negato a nessuno.
«Dammi dieci euro e facciamola finita!»
«Bah, quanto mi vuoi dare? Facciamo venti via.»
«Per te stasera offro io. Insisto!»
E così via, per buona parte della notte. O almeno così si diceva in giro, quasi venti anni fa.
Va da sé che fu invitato a trasferirsi con la sua Passat (o quello che era) altrove e nei primi anni dell'università, quando la mattina presto prendevo il treno per Firenze, lo trovavo parcheggiato dietro la Stazione a dormire al posto di guida, con a fianco, sdraiata sul sedile reclinato del passeggero, la marmitta dell'auto, da tempo divenuta inutilizzabile.
Una delle ultime volta che l'ho incontrato, prima di trasferirmi a Siena, ci trovavamo entrambi di nuovo in biblioteca. Io collaboravo con loro per quanto riguardava le visite guidate, i corsi di alfabetizzazione informatica e la catalogazione libraria; lui era un utente fisso delle sale di lettura: arguto e simpatico, a volte intratteneva i presenti, altre volte gli assenti, sempre con le tasche piene di verità universali e massime di vita che avrebbero fatto impallidire il più navigato fra i filosofi.
Quel giorno stava seduto a un tavolo davanti al bancone del reference dando un'occhiata al giornale, mentre chiacchierava con l'allora responsabile dell'ufficio cultura.
«Come va Ettore?», gli domandò lui, non per cortesia, ma con sincera curiosità.
Ettore alzò gli occhi da una pagina di cronaca e visibilmente compiaciuto per ciò che stava per dire, rispose: «Eh Luigi, come va? A dire bene è abbassare la guardia!». E poi si rimise a leggere.
E oggi quella risposta, più o meno, è diventata il mantra pessimista per le mie corse e per troppe altre cose.
Godersi il momento, quando è un buon momento, sarebbe forse la scelta migliore.
Ma siamo fatti come siamo fatti, sia rane che scorpioni. E a volte non c'è rimedio a questo.
Alessandro Pagni
Ascolto: The Black Angels, Currency
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