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#cogliere e restituire
armandoandrea2 · 5 months
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25 aprile 1945
"Non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento", scrive il 28 novembre 1943 Giaime Pintor, motivando la scelta partigiana che lo avrebbe portato alla morte. In queste parole vi è il senso profondo, l’etica individuale e di una generazione che si oppose al fascismo.
Oggi, pur in un mondo completamente diverso, dove però la guerra è riemersa drammaticamente come orizzonte di realtà, quelle parole consentono di cogliere quanto di attuale c’è nella scelta di allora, di individuare una "utilità" della conoscenza della storia per l’oggi e per il futuro, di restituire un senso al 25 aprile.
Per quella generazione era la guerra che aveva imposto la "presa di possesso del concreto”, mettendo la società di fronte ai pericoli “che minacciano i presupposti di ogni vita individuale" e spingendo ad una "corsa verso la politica" destinata secondo Pintor a riprodursi "ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo pericolo". Questo, che per Pintor costituiva il "senso morale" della mobilitazione collettiva, è, oggi come allora, il valore intimo, essenziale, necessario della scelta di impegnarsi per l'utilità comune riassunta nel 25 aprile.
Dal web
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fashionbooksmilano · 6 months
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Un mondo di sguardi
Gianluigi Sosio
copia 56/100, 180 pagine + CDRom, 30x21,5cm
euro 80,00
email if you want to buy [email protected]
… e poi gli sguardi e la necessità della loro emozionante ricerca.  Sguardi fugaci e indecifrabili, sguardi che sfuggono per non rivelare segreti e sguardi taglienti come spade, traboccanti di dignità e di vita.  Sguardi che raccontano schegge d’esistenza, sguardi talvolta così simili, anche se incontrati agli opposti angoli del mondo, da restituire quasi un senso di familiarità, un significato più profondo e completo al mio mondo.  Negli occhi di quelle persone ho visto ciò che non si può toccare, emozioni che si possono rivivere o raccontare solo attraverso le immagini. Scorci che lasciano solo intuire senza mai definire, regalando a chi guarda la libertà di cogliere quel tutto e quel niente che prende forma solo nell’intimità più profonda, tra le pieghe della propria sensibilità.  Uno sguardo è un momento unico ed irripetibile, un attimo che basta a se stesso, un impalpabile contatto empatico che viene fissato attraverso la luce per restituire, in un lampo, un mosaico fatto di colori e di misteri. Non solo fatti ma vite, non solo pezzi di mondo ma visioni del mondo.  Davanti a certi volti ci si trova costretti ad andare oltre i singoli avvenimenti per approdare ad esistenze intere, una dopo l’altra, anima dopo anima.
17/03/24
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti 
IL SENTIMENTO STRUGGENTE
La scultura ha il potere di ammaliare forse più della pittura: il tutto tondo sembra cogliere un’essenza nascosta di umano spirito, una presenza viva, una dignità silenziosa. Mi rimarranno per sempre impresse certe figure umanissime scaturite dalla sensibilità di Giovanni Pisano. Ma esiste qualcosa capace di suscitare un sussulto di sentimenti altrettanto memorabile: il monumento funebre a Ilaria del Carretto, realizzato tra il 1406 e il 1408 da Jacopo della Quercia (1374 – 1438), conservato a Lucca, nell’area del transetto nord nella Cattedrale di San Martino. Dall’opera emerge la fragilità del corpo in sonno, reso morbido dal leggero adagiarsi dei panneggi sulle membra colte nell’istante dell’ultimo palpito rimasto miracolosamente integro sullo scalpello dell’artista senese. Mi colloco tra gli ultimi di una lunghissima sequela di ammiratori. Versi sono sorti dall’anima di grandi poeti per raccontare la tenerezza, la commozione, persino l’amore per Ilaria, morta giovanissima nel dare la luce ad una figlia. Eppure, a costo banalizzare e mettermi in fila tra modesti nessuno, non posso fare a meno di lasciare in queste pagine il segno di quella fugace percezione. Promana, da questa scultura, un’emozione antica, antichissima, l’unica che possa attribuire all’arte un riconoscimento incontestabile: l’emozione della memoria. Ilaria del Carretto, nobile genovese andata in sposa a Paolo Guinigi, signore di Lucca, non è più nel mondo dal 1404. Tuttavia, grazie a Jacopo della Quercia ed a colui che volle questo monumento, il consorte innamorato, ella non è scomparsa più di seicento anni fa. Si è trasformata. Lasciando di sé la forma che la natura le ha concesso, quella stessa forma nella quale la condizione umana si sostanzia, quella forma ridotta al nulla e che solo l’arte ha il potere di restituire alla relazione con i sensi. Certo, Ilaria non vede, non sente, non è corrotta dal dinamismo vitale. Ma esisterà finché gli uomini e le donne di tutti tempi avranno cura di conservarne l’essenza ormai eterna. L’essenza che è forma ma è anche spirito. Che è possanza dei sentimenti immediatamente manifesti al volgere dello sguardo su quel viso, risparmiato dall’oltraggio che la morte, schiva dal plagiare in una smorfia di doloroso panico, ha accarezzato in un afflato di affettuosa, delicata cura.
In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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lamilanomagazine · 4 months
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Biancavilla: le ruba l'auto e tenta di estorcerle 700 euro per riaverla. Arrestato 53enne.
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Biancavilla (Catania): le ruba l'auto e tenta di estorcerle 700 euro per riaverla. Arrestato 53enne. Continua senza sosta l’impegno dei Carabinieri la lotta all’illegalità diffusa che, nelle sue diverse forme, mina la sicurezza dei cittadini, reale e percepita. Tra queste, in particolare, la criminalità predatoria che, a prescindere dall’entità del danno economico, rappresenta spesso un trauma non solo per le vittime, ma anche per la collettività, che si trova ad avvertire una maggiore vulnerabilità a questo tipo di eventi. Proprio nell’ambito di questa quotidiana e costante attività di contrasto, i Carabinieri della Stazione di Biancavilla sono riusciti a ritrovare e restituire alla proprietaria la sua nuova Fiat 500 L, che le era stata rubata a Catania due giorni prima, arrestando contestualmente per “estorsione e resistenza a pubblico ufficiale” un 53 enne catanese, pregiudicato. L’attività di indagine che ha portato all’arresto è scaturita appunto dalla denuncia di furto di una 40enne di Biancavilla, che ha raccontato ai Carabinieri di non aver più trovato la propria auto, dopo averla parcheggiata nella serata nei pressi di un bar sul lungomare catanese ed essere andata a cena con degli amici. In particolare la donna, presa dallo scoramento, non appena si era accorta del furto, aveva condiviso con alcuni suoi contatti in rubrica la triste esperienza, ricevendo in risposta da un vecchio conoscente di Catania, il consiglio di recarsi in un noto quartiere popoloso della città per provare a trovarla e recuperarla, magari chiedendo in giro. Lei, ovviamente, sorpresa da quello strano consiglio, non gli aveva dato seguito, decidendo correttamente di rivolgersi ai Carabinieri. Il giorno seguente, però, l’uomo dello “strano consiglio” l’aveva ricontattata, insistendo perché lei lo raggiungesse a Catania dove, a suo dire, grazie alle sue “conoscenze”, era riuscito a ritrovare il veicolo e, previo pagamento di 700 euro, i ladri glielo avrebbe fatto “ritrovare”. Lodevole a quel punto la scelta della 40enne di riferire tutto ai militari dell’Arma, che in meno di un’ora hanno organizzato un dispositivo sul campo per accompagnarla a Catania, seguirla a distanza e cogliere sul fatto lo svolgimento del “cavallo di ritorno”. Organizzati, quindi, in due squadre, una a bordo di auto “civetta” e una assieme alla vittima, i militari hanno quindi ascoltato le indicazioni che l’uomo man mano forniva telefonicamente alla donna, come nella più tipica scena di un film d’azione, facendole dapprima raggiungere un chiosco nel quartiere Montepo, e subito dopo – essendosi accertato che la vittima fosse da sola – il tondo Gioeni. Qui finalmente i Carabinieri hanno scorto una utilitaria, con a bordo il 53 enne, che si stava avvicinando. Quest’ultimo, ignaro di essere seguito e che l’accompagnatore della donna, presentato come un cugino, fosse un militare dell’Arma, è quindi salito a sulla loro auto, indicandogli la strada per la periferia sud della città, dove, giunti nei pressi di un distributore di benzina nel quartiere Librino, hanno trovato parcheggiata la Fiat 500 L rubata. La proprietaria, a quel punto, fingendosi grata, è subito entrata nel suo mezzo, mentre il 53 enne, ancora ignaro della trappola, ha chiesto di essere riaccompagnato al tondo Gioeni per riprendere la sua auto. In quei momento, durante il tragitto l’uomo, convinto di trovarsi in compagnia del cugino della donna, ha spiegato che senza il suo intervento il veicolo non si sarebbe mai ritrovato: “Ama mangiari tutti…tu m’ha capiri, u sai comu funziona st’ambiente, si nu mi mitteva ndo menzo iu, sta machina mancu a truvauvu”. Quando infine, arrivati sul posto, è giunto il momento della consegna del denaro, i 700 € pattuiti, la squadra di Carabinieri che era in appostamento è entrata in azione, bloccando l’estortore che, tra la rabbia e la sorpresa, ha tentato di scappare, aggredendo anche i militari. L’uomo è stato chiaramente subito messo in sicurezza, venendo arrestato e, su disposizione dell’Autorità Giudiziaria, che ne ha convalidato l’arresto, stato sottoposto agli arresti domiciliari. La cittadina biancavillese, ringraziando di cuore i Carabinieri per il loro operato, ha potuto così riavere “legalmente” la sua utilitaria, senza cedere al cosiddetto “cavallo di ritorno”, una pratica criminale diffusa che, però, si può sconfiggere rivolgendosi alle Forze dell’Ordine.  ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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notiziariofinanziario · 6 months
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Aprilia è tornata in auge con tantissimi nuovi modelli
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Con la bella stagione la voglia di balzare in sella ad una nuova moto è altissima. Ecco come ottenere i migliori bonus per risparmiare. Che siate amanti delle moto da cross o da strada vi sono tantissime novità che vi lasceranno a bocca aperta. Dopo i difficili anni della pandemia la voglia di libertà su due ruote è esplosa. I numeri, infatti, hanno messo in luce il boom delle moto touring, ma anche per le naked e le scrambler. La passione per le moto versatili è nata dall’esigenza di poter affrontare qualsiasi superfice in qualsiasi momento dell’anno. Le naked sono fatte per gli animi corsaioli. L’Aprilia è tornata in auge con tantissimi nuovi modelli che hanno fatto impazzire gli appassionati. La Tuono 660 può essere presa al volo in promozione con la formula DreamRide Now, con rate da 129 euro (TAN 7,90%, TAEG 9,04%) e dopo 3 anni è possibile tenerla, cambiarla o restituirla. L’Aprilia Tuono V4 e V4 Factory sono proposte con rate da 159 euro al mese (TAN 7,90%, TAEG 8,91%) sempre con la medesima formula dopo un triennio. La BMW G 310 è possibile tenerla 2 o 3 anni per poi decidere se tenerla o restituirla. Il Free2Ride by BMW consente un anticipo 0 e 47 rate da 113 euro (TAN 7,99% TAEG 11,45%). Dopo 48 mesi o 20.000 km VFG di 2.441 euro. Con il Free2Ride BMW F 900 R è proposta con anticipo di 3.350 euro e 35 rate da 100 euro (TAN 7,99% TAEG 11,35%). Il VFG dopo 30.000 km o 3 anni è di 4.213 euro. Le offerte non mancano nemmeno per BMW R 1250 R e BMW S 1000 R. Tornando in Italia, la casa di Borgo Panigale consente l’acquisto, con Ducati Bike Value, della Monster a rate a partire da 99 euro al mese – TAN 6,89 % fisso – TAEG 8,56%. La Ducati Streetfighter V2 può essere tua con rata a partire da 169 euro al mese – TAN 6,89 % fisso – TAEG 8,10%. Si tratta di offerte sensazionali che faranno esplodere, ulteriormente, i fatturati della casa emiliana.  Moto, ecco tutte le migliori proposte La Honda propone la CB750 Hornet con la formula Easy Honda. Dopo 2 o 3 anni si può scegliere se tenere, restituire o acquistare una nuova moto. Stesso ragionamento anche per la regina Honda CB1000R. In questo modo il centauro ha piena libertà di scelta, non sentendosi legato all’acquisto obbligato, ma coloro che scelgono di continuare a guidarla dovranno saldare la maxirata finale in un’unica soluzione o rateizzarla. Sulle Husqvarna Svartpilen e Vitpilen 401 sono previsti 500 euro di vantaggi. Col programma StartNow Valore Futuro Garantito, importo finanziabile da 3.000 a 22.000 euro. KTM, invece, propone la 1290 Super Duke R ed EVO con 2.000 euro in meno, 4 di garanzia e silenziatore Akrapovic in omaggio. Con finanziamento 1290 Super Duke R è disponibile con anticipo di 7.750 euro, 35 rate mensili da 100,30 euro e maxirata finale di 12.570 euro (TAN 6,75% tasso fisso – TAEG 8,30% tasso fisso). Volando in Giappone la Kawasaki Z 900, sino al 31 marzo, è disponibile con un 4 cilindri ed uno sconto di 1.300 euro: il prezzo è a partire da 8.990 euro. La Suzuki SV650 è proposta fino a fine mese con finanziamento Way2Ride: 79 euro al mese per 24 mesi, anticipo 1.384,70 euro e maxirata finale di 3.984 euro (TAN 5,95%, TAEG 8,65%). Date una occhiata anche alle promo della Suzuki GSX-8S e della Suzuki GSX-S1000. Fari accesi anche sulla MV Agusta Brutale 800 RR, proposta con una prezzo vantaggioso di 2mila euro. Sulle moto di Schiranna, inoltre, il finanziamento è a 36 mesi con importo finanziabile da 3.000 a 20.000 euro e balloon del 50% (TAN 4,95%), oppure 12-36 mesi e importo da 1.500 a 20.000 euro (TAN 2,95%) e ancora 12-72 mesi per importi da 1.500 a 30.000 euro (TAN 6,75%). Triumph, Yamaha, Benelli e tanti altri top brand offrono offerte da cogliere al volo. Read the full article
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lampadaperimieipassi · 8 months
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O Eterno Presente,
mio “qui” ed “ora”;
o Alfa,
mio Principio che mi fa “essere”
perché tu “sei”.
Tu, Soffio sul primo granello di sabbia
della mia clessidra,
mi hai dato “tempo”
perché io consolidi il mio essere
preparandolo per l’eternità.
Tempo…
un dono che non si può trattenere,
ma si può cogliere,
si può usare e poi restituire.
Battito…
come quello del cuore:
ogni giorno rallenta
e segna l’arrivo alla meta.
O mio Omega,
fine del mio correre
e fine ultimo del mio essere,
grazie per il tempo che mi doni
come opportunità per giungere a te.
Sia questa la vera conversione:
adesione totale a Te, Eterno Presente,
e a me, Tempo che scorre.
Amen.
Maria, Madre della Grazia, prega per noi.
BUONA E SANTA DOMENICA DELLA PAROLA.
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carmenvicinanza · 9 months
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Judi Dench
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Judi Dench, pluripremiata attrice britannica, è una immensa interprete di cinema e teatro.
Dopo tanti successi nella Royal Shakespeare Company, dalla metà degli anni Ottanta, è diventata nota anche sul grande schermo, grazie alla sua incisiva carica comunicativa, interpretando ruoli di donne eccentriche o vendicative in film di successo.
Nel 1999 ha vinto l’Oscar alla miglior attrice non protagonista per il suo ruolo della regina Elisabetta I in Shakespeare in Love.
Ha ricevuto ben otto nomination per gli Oscar, di cui l’ultima nel 2021, ha vinto anche undici Premi BAFTA, due Golden Globe, otto Olivier Awards, due Screen Actors Guild Award  e un Tony Award. Nel 2011 è stata insignita della BAFTA fellowship, il più alto riconoscimento assegnato, ogni anno, dalla British Academy of Film and Television Arts. Fa parte della Royal Society of Arts.
Diverse Università tra cui quella del Surrey, di Durham, la Queen Margaret, la St. Andrews, East Anglia e Leeds le hanno conferito Dottorati Honoris Causa per il suo contributo alla cultura cinematografica e televisiva. 
Nata col nome di Judith Olivia Dench, il 9 dicembre 1934 nella provincia di York, ha ascendenze nobiliari britanniche e danesi. Entrata a contatto col teatro grazie al padre, medico di alcune compagnie, ha studiato alla Central School of Speech and Drama di Londra prima di entrare nella Royal Shakespeare Company nel 1961. Ha debuttato al cinema tre anni dopo. Negli anni Settanta e Ottanta ha girato svariati film tv per la BBC e riscosso grandi soddisfazioni teatrali.
La prima importante interpretazione al cinema è stata nel film di James Ivory Camera con vista del 1986.
Nel 1988 è stata insignita dalla Regina del titolo di Dame, l’equivalente del cavalierato maschile, che ha seguito la nomina di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 1970.
La grande celebrità è arrivata con il ruolo di M nella serie di film di James Bond a partire da GoldenEye del 1995 fino a Spectre del 2015. Da allora è stato tutto un susseguirsi di importanti interpretazioni diretta dai più grandi registi hollywoodiani.
Straordinaria interprete, utilizza al meglio il linguaggio della recitazione per arrivare al cuore del pubblico e farlo riflettere sugli assilli dell’anima.
Sostiene da molti anni Survival International, organizzazione che difende i diritti dei popoli indigeni di tutto il mondo.
Nel 2012 le è stata diagnosticata la degenerazione maculare senile, malattia degli occhi che le rende sempre più difficile lavorare. Ma, nonostante abbia costante bisogno di aiuto, non ha mai smesso di recitare e si è guadagnata l’ultima nomination agli Oscar nel 2022 per il suo lavoro in Belfast. 
Non ha alcuna intenzione di lasciare i set, nonostante i gravi problemi di vista. È talmente determinata a vivere il presente e ciò che la vita ha ancora da offrirle che, a 81 anni, si è tatuata la scritta “carpe diem” sul polso.
Molto impegnata per l’ambiente, ha recentemente rivelato che, da un po’ di anni, ogni volta che una persona amica le muore, fa piantare un albero nel suo giardino. Per rendere metaforicamente la  morte un’occasione per restituire al pianeta una nuova vita.
Questo dice molto sullo spirito di questa donna inarrestabile che, ogni giorno, sceglie di cogliere la vita dal suo lato più bello e reagire alle cattive notizie chiedendosi cosa fare per bilanciare le cose.
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silviascorcella · 10 months
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Caftanii Firenze: il caftano, una nuova storia di charme senza tempo
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È anch’essa una forma d’arte, un talento silente, una dote sofisticata, quella di saper godere appieno dell’inconsapevole amore per la bellezza come i classici, i nostri intramontabili antenati, ce l’hanno illustrata: il bello che appaga il desiderio di armonia estetica, mentre soddisfa i sensi tutti con l’alta qualità della sua fattura, così da attraversare indenne e intrigante lo scorrere implacabile del tempo. Tale dote sofisticata può cogliere chiunque abbia l’animo pronto ad accoglierla, e a farne uno strumento per plasmare ancora bellezza, nuova bellezza ben fatta: magari nella forma di un capo iconico, simbolo di raffinata confortevolezza, ma al contempo tela grezza su cui scrivere una nuova storia di stile con l’allure della contemporaneità elegante.
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Ecco, questa è l’arte pregiata, il talento quieto allacciato a Ginevra e Ludovica Fagioli: le menti curiose, gli animi leggeri e charmant, i cuori appassionati che fondano il marchio, tutto orgogliosamente italiano, ribattezzato Caftanii Firenze.
Guardate quelle due gocce nel logo: son simbolo del loro legame di gemelle all’apparenza identiche, eppur così diverse ma profondamente complementari nella sostanza personale e artistica. Giovani sì, ma portatrici di quel prezioso bagaglio d’arte e consapevolezza cui s’accennava sopra: il brand lo svela, la terra a cui appartengono non a caso è denominata “la culla del Rinascimento”, Firenze, la città dove fiorirono le arti più eccellenti, quel groviglio di strade dove la bellezza e la maestria artigiana ancora suscitano meraviglia.
Ebbene, in quel logo resta una parola da illustrare, che rivela il cuore creativo attorno al quale  ruota tutta la realtà di vita e mestiere di Ginevra e Ludovica: il caftano.
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Quella di Caftanii Firenze è dunque una storia recente, ma allo stesso tempo sospesa nel tempo: Ludovica e Ginevra accolgono sin da piccole l’amore per la bellezza con cui la famiglia le attornia, fanno tesoro di quei caftani che la madre raccoglie numerosi nell’armadio e indossa con classe e nonchalance, lo riscoprono il capo prediletto per accompagnare i viaggi innumerevoli in giro per il mondo, ma anche il capo perfetto per riscrivere una storia di eccellenza materiale e di suggestioni sensoriali. Nonché il capo d’abbigliamento che libera lo spirito femminile dai capricci estetici dei trend rapidi: mentre, invece, lui, il caftano, può abitare il guardaroba di qualsiasi donna, durante qualsiasi epoca, appartenente a qualsivoglia area geografica. La sua bellezza non ha confini, ha solo il potere di restituire valore alla bellezza di chi l’indossa.
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La collezione Primavera-Estate 2018 è un delicato racconto estivo: il caftano s’indossa in purezza, nella sua forma gentile con il profilo del corpo, morbida eppur così netta, allacciata in vita con una fusciacca mentre ricorda il rigore affascinante del kimono orientale, diventa uno chemisier lieve e candido che accompagna la passeggiata sulla battigia, un abito lungo che scopre le spalle mentre i raggi caldi del sole le accarezzano, s’allunga nella gonna le cui balze racchiudono la forza dei colori estivi, bianco, ocra e blu intenso, come quelle onde da cui vengono le goccioline che danno sollievo alla pelle scoperta dall’abitino corto e dalle bretelle infiocchettate. 
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I tessuti sono puri come la natura nel pieno rigoglio estivo: lino opulento che restituisce purezza, cotone strutturato ed essenziale, la seta ricca di luce e morbidezza pregiata. Anche i dettagli sono scelti con lo stesso amore per la bellezza autentica: pietre e tessuti per i bottoncini, mani artigiane che ricamano i decori, altrettanto sapienti come le mani delle sarte fiorentine che assemblano ogni abito firmato Caftanii Firenze. Italianità allo stato puro: caratteristica di ogni tessuto scelto, riprodotta con amore come solo il vero, riscoperto made in Italy sa fare.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
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nuovi-materiali · 2 years
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Le origini della Quaresima non sono molto chiare. Le diverse tradizioni ecclesiali d’Oriente e d’Occidente presentano una interpretazione e comprensione diversificata di essa. Le costanti e le varianti rituali e teologiche espresse dalle loro attestazioni denotano universalmente la Quaresima come tempo di digiuno e di preparazione al Triduo Pasquale.
 In Egitto, alla fine del III secolo, si praticava un digiuno di quaranta giorni che iniziava dopo il 6 gennaio ed era memoria del digiuno di Gesù dopo il suo battesimo; tale digiuno divenne preparazione alla Pasqua. Il quinto canone del concilio di Nicea attesta come prassi consolidata la Quaresima che precede e prepara alla Pasqua. A Roma, la forte valenza simbolica del numero quaranta legato agli eventi storico-salvifici fece in modo che tra il 354 e il 384 si passasse da un iniziale periodo penitenziale di tre settimane ai quaranta giorni. Girolamo è il primo testimone del tempo quaresimale caratterizzato dal digiuno e con indole penitenziale (Lettere 22,35; 24,4). I caratteri ascetici e morali, il digiuno e l’esercizio delle virtù sono le costanti dei sermoni quaresimali di Leone Magno. …
 «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto». (Romani 12,1-2)
 Il sacrificio non ha una buona reputazione nel nostro mondo. “Fare un sacrificio” significa per i nostri contemporanei non fare ciò che ci piacerebbe fare o fare ciò che non si vorrebbe fare. E per chi conosce la storia delle religioni, il termine evoca spesso vittime cruenti offerte alle divinità. Ed ecco che l’apostolo esorta i credenti di Roma a fare un sacrificio della loro vita concreta nel mondo (questo è il significato che lui qui dà alla parola “corpo”). Come comprendere una simile proposta?
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Prima di tutto, bisogna cogliere che il significato di questa pratica non è negativo. Il sacrificio è un’offerta a Dio, in altre parole un dono o regalo. Scambiati tra umani, i regali vengono usati per creare o approfondire una relazione. Dono all’altro un oggetto che mi è caro, che mi “costa” qualcosa, e da quel momento tra noi esiste un legame o, se già esisteva, si rafforza. Possiamo fare un regalo per diversi motivi: per chiedere perdono dopo la rottura di una relazione, per rendere l’altra persona più propensa a prendermi sul serio o, il più delle volte, per far piacere all’altro e dimostrargli che conta ai miei occhi.
 Nel mondo antico, i sacrifici a volte servivano allo scopo di suscitare l’interesse di un dio lontano o di persuadere un dio malintenzionato. In Israele, invece, non era così, perché il Dio della Bibbia aveva già un amore appassionato per la sua creazione. Andando al Tempio per fare offerte al Signore, i fedeli volevano soprattutto restituire a Lui, simbolicamente, un po’ di ciò che aveva loro donato facendo di essi il suo popolo (cfr Esodo 19,4-6; Deuteronomio 26,1 -11). Quindi era essenzialmente un atto di riconoscimento. Tutto viene da Dio e tutto deve ritornare a Lui, dopo essere passato attraverso la vita degli umani.
 Gesù opera un cambiamento importante: nel suo caso, l’offerta non è un oggetto qualsiasi, bestiame o parte del raccolto, ma la vita intera. Gesù viveva nella consapevolezza che tutto gli veniva da Colui che egli chiamava Abba, Padre – «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35) – e il senso della sua esistenza era cercare di mettere in pratica ciò che Dio gli aveva dato da compiere: «Faccio sempre le cose che gli sono gradite» (Gv 8,29). Esisteva così tra i due una comunione perfetta.
 L’apostolo Paolo vuol far entrare i credenti a Roma in questa stessa relazione. Egli parte dalla “misericordia di Dio”, cioè dal fatto che, in Cristo, Dio ha dato loro tutto, facendoli passare “dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1Pt 2,9). L’esperienza dell’amore divino provoca in loro un rinnovamento interiore. Da quel momento, non devono più seguire i valori della società circostante. Al contrario, sono chiamati a fare della loro intera esistenza una lode a Dio, cercando di compiere, in ogni cosa, ciò che Dio vuole. E cosa vuole? Paolo dopo ci dice tutto ciò che Dio desidera, che «qualsiasi comandamento si ricapitola in questa parola: amerai il tuo prossimo come te stesso... pienezza della legge, infatti, è la carità» (Rm 13, 9-10).
 Paolo chiama questa ricerca della volontà divina “un culto logikos”, aggettivo greco difficile da tradurre. Renderlo con “spirituale” rischia di far pensare che si tratti solo della vita interiore, mentre la menzione di “corpo” prima significa chiaramente che tutto l’essere è implicato. Un culto logikos è quello praticato da un essere dotato di ragione e capacità di prendere decisioni. Non consiste, quindi, in offerte materiali, ma in un atteggiamento di disponibilità e in un discernimento per cercare, in ogni situazione, ciò che può favorire l’amore. Fare della nostra vita un sacrificio, quindi, non significa rifiutare la felicità o avere una volontà perversa di soffrire, ma rendere grazie a Dio in ogni momento e spendersi per i nostri fratelli e sorelle in umanità.
 Fonti
https://www.taize.fr/it
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sguardimora · 5 years
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Inaugura domenica 16 giugno la nuova mostra nel foyer del teatro. sarà possibile visitarla fino alla fine di agosto.
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D.E.A. #2
[…] sotterrando, de-costruendo e sotilizzando le strutture naturali, i loro ordini algebrici e sinuosi, le loro simmetrie come le loro discrepanze, l’artista ci consegna quasi una “geografia del profondo”, dove l’elemento paesaggistico ed elemento fisico/chimico, in una incomprensibile e perpetuosa specularità, finiscono per disegnare quello che è il profilo più remoto del mondo. 
Roberta Bertozzi
COGLIERE E RESTITUIRE  (cartografie dal mondo vegetale)
Cogliere e restituire non è solo il titolo della mia ultima serie di tavole ma è per me una filosofia e un atteggiamento che accompagna quotidianamente il mio esistere e di conseguenza il mio lavoro come artista. Costantemente immersa in ambienti naturali raccolgo, fisicamente e visivamente, gli indizi lasciati dalla terra, dalle piante, dalla roccia, dall’acqua. Colleziono informazioni nascoste tra i ritmi ripetuti da ogni elemento, tra i disegni metodici all’interno di ogni seme, germoglio, fiore… mi perdo tra le texture di ogni roccia che incontro, mi lascio ipnotizzare dai mantra millenari delle comunità di fili d’erba. Colgo tutto questo con la piena coscienza di un disegno enorme e ordinato e con lo smarrimento di un essere umano che ha perso parti di memoria e che tenta di assemblare i pezzi, guidato dall’entusiasmo dello scienziato e un agire prevalentemente intuitivo. Quindi cogliere e raccogliere per poi osservare, interiorizzare e restituire per immagini che non vogliono avere la pretesa di spiegare qualcosa ma solo sottolineare e ricordare una parte precisa tra i tanti appunti, con la speranza un giorno di poterli unire tutti e trovare non tanto una risposta quanto più una domanda precisa. Con il forte desiderio di indagare passo per passo tutti gli elementi naturali che hanno un forte legame, nonché ascendente, sul nostro esistere, parto con questa nuova seria dedicata al mondo dei vegetali, rivolgendo un’attenzione particolare alle specie autoctone primitive ancora esistenti sul territorio italiano e che hanno una memoria molto antica. Questo guardare lo scorrere del tempo attraverso tutti gli elementi appartenenti alla natura per rivelare (spesso in maniera incomprensibile all’uomo) le memorie più antiche di questo pianeta ci mantiene connessi con le nostre origini.  Le piante hanno da sempre avuto un ruolo importantissimo nella storia dei popoli, sono state per noi nutrimento, fonte di ispirazione creativa, cura e spesso hanno decodificato la simbologia sacra. Non potevo che dedicare una serie di lavori a quelle piante “superstiti” che da centinaia di anni abitano il territorio in cui vivo. Esse arrivano direttamente dal mare e si sono abilmente adattate alla vita di superfice trasformando lentamente la loro anatomia e mutando il comportamento e il sistema di circolazione del nutrimento. Hanno in loro la forza e una straordinaria bellezza. Vivono inevitabilmente le zone più umide dei boschi a contatto con la penombra e i terreni soffici e scuri, sono strettamente legate all’acqua che è simbolo di femminilità e fertilità. Costruiscono gli scenari più affascinanti e misteriosi dei boschi Italiani, luoghi da me prediletti e tutti i giorni parlano del mare che è stato e ne restituiscono la memoria attraverso il suo profumo una volta morte. Colgo indizi e informazioni tra le zone umide e verdi dei luoghi che attraverso e restituisco brandelli di mappe da ricomporre cercando di orientarmi, cercando di ricordare e di conservare la memoria. Faccio luce su una storia già scritta da tempo e che è solo da rileggere. Focalizzo lo sguardo sui piccoli processi, sui dettagli, sulle manifestazioni nel micro, perché li nasce tutto ciò che vediamo allontanando lo sguardo.           
Veronica Azzinari
Bio
Veronica Azzinari nasce a Milano nel 1986.Si diploma presso la Scuola del Libro ad Urbino nella sezione di Cinema di Animazione e nel 2010 inizia una personale ricerca nel mondo dell’incisione grazie all’incontro con Opificio della Rosa, studio e stamperia dedicato alla grafica originale. Sin dall’adolescenza sente il forte desiderio di interrogarsi sulle origini, desiderio che diventa ben presto ricerca umana/individuale ed artistica. Comprende ben presto che è necessario partire dalla comprensione della natura circostante per porsi domande giuste rispetto alla nostra esistenza. Camminare come unica pratica utile al “ridimensionamento”, quasi un metodo per riportarci in asse con la linea del tempo e connetterci con lo spazio e con i perpetui messaggi antichissimi portati dal vento, dalle piante, dall’acqua. Dalle camminate, dalle esplorazioni, dallo studio e dai preziosi incontri con professionisti e scienziati nasce Cogliere e restituire-cartografie dell’origine, una serie lunga tutta la vita e che parte a cavallo del 2017/2018 facendo luce sui vegetali considerati preistorici ancora esistenti sul territorio Italiano. Piante preziosissime, impressionantemente forti e affascinanti ma allo stesso tempo, poco considerate che vivono le zone più umide dei nostri boschi e portano in loro la memoria del mare. Tutte le carte che compongono la serie sono stampate in calcografia su carta di cotone fatta a mano presso il laboratorio del mastro cartaio Lorenzo Santoni di Fabriano.
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edsitalia · 3 years
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EDSXEROS
5 sensi più uno
Guardami.
Guardami, con il tuo sguardo penetrante. Con quegli occhi che mi raccontano la voglia che hai di me, prima di avermi davvero. Mi sono truccata e vestita per l’occasione. Eppure sono qui nuda, davanti ai tuoi occhi. Solo per i tuoi occhi. Ma domani no. Domani altri occhi mi guarderanno. Oh, non con il tuo stesso sguardo. Tu guardi la mia anima. Gli altri sguardi che si poseranno sul mio corpo osserveranno semplicemente la merce in mostra.
Il mio tubino rosso con scollatura profonda lascia intravedere i miei seni pieni e grandi. Ma sono nuda davanti a te e se mi guardo intorno capisco quanto lo sono davvero.
Ah, le foto dei miei nudi che tu hai scattato non lasciano nulla all’immaginazione, è vero! Ma non è lo scatto in sé. È l’espressione di nudità del mio essere donna a trasparire dal mio sguardo nelle foto, che tu hai saputo cogliere nel profondo, attraverso la tua arte. Il mio “io” più profondo. La mia anima. Indissolubilmente legata alla tua.
“Facciamo un gioco” dicevi. “Incontriamoci in un posto”. Ricordi? Il nostro primo appuntamento… Come dimenticare! Dopo tanto chattare finalmente ho deciso di incontrarti a quella mostra. Ti ricordi vero? La mostra Erotica che a tuo avviso dovevo assolutamente vedere per arricchire il libro d’amore che stavo scrivendo. Perché il sesso è il condimento dell’amore, dicevi.
La stanza era piena di telefoni di ogni epoca, posti ognuno su un piedistallo. Bastava alzare la cornetta e il piedistallo si illuminava, mentre una voce sensuale recitava una frase erotica. Ne ascoltai tre. Ad ogni telefono ti facevi più vicino. Già al terzo eri dietro di me. Ti sentivo respirare l’odore dei miei capelli. Sentivo il tuo fiato caldo sul mio collo, il tuo corpo più vicino al mio e il tuo dito salire leggero lungo il mio braccio. Un tocco delicato, ma che mi procurava brividi indescrivibili. Sentivo il mio corpo prendere fuoco. La mente non rispondere più ai comandi. Ebbi paura e scappai mormorando scuse insensate.
Sono passati cinque anni e ancora mi fai lo stesso effetto. E ne sei consapevole. E ne sei vittima.
Ora la mostra è la tua. Sei tu l’artista. Il fotografo famoso. Domani l’apertura, ma stasera...Stasera hai voluto che fossi qui. Da sola con te. Domani ci sarà troppa gente a complimentarsi con te. A catturare la tua attenzione. Per questo siamo qui stasera. Una visita privata con tanto di guida: tu. Volevi che mi guardassi. Ma non con i miei occhi, ma con i tuoi. Così. È così che mi vedi. Sono io. La tua musa. Non una semplice modella che ha posato per le tue foto. Quelle che hai voluto esporre previo mio consenso ovviamente. Ma se avessi immaginato... È questo che facciamo: Immaginare. È tutto nella nostra mente. Il prima che eccita. Che prepara i corpi all’amore. Due menti affini, legate insieme dalle stesse fantasie.
Siamo soli. Sono andati via tutti. Il riposo dopo tanta fatica. Domani ne raccoglieremo tutti i frutti. Ognuno il suo. Ma stasera...Stasera mi avrai. Come sempre. E come sempre sarà unico. Ma ora...
Ora vieni qui. Avvicinati, toccami.
Toccami, la pelle, il cuore. Accarezzami. Segui la geografia dei miei brividi. Sono tua e lo sai. Ti appartengo nella stessa misura in cui tu appartieni a me. E non importa se altre mani ci toccheranno mai. Sarà come essere toccata da te. Sarà come toccarti.
Mi sospingi al centro della sala e...Eccomi lì! Nuda! Quattro foto di me in quattro parti. Un punto rosso sul pavimento per indicare la migliore angolazione dalla quale ammirare le foto. Mi posiziono e... E sono intera. Quattro foto perfettamente allineate per restituire l’immagine di un corpo intero. Il mio. Io. Nuovamente intera. Qui con te, ora. Come la prima volta che abbiamo fatto l’amore. Prima ero a pezzi come un puzzle con un pezzo mancante. E poi tu. Dentro me. E il puzzle fu completo. 
Sei di nuovo dietro di me, come a quella mostra. Il tuo respiro tra i miei capelli. Le tue mani sui miei fianchi sembrano bruciare la stoffa e la pelle.
Annusami.
Annusa la mia pelle che cambia odore al tuo tocco. Lo senti il mio profumo? È l’odore della mia eccitazione, della mia voglia. Morde dentro come animale affamato che preme per uscire e per farlo ha scelto la mia pelle.
Baciami. Cerca la mia bocca.
Gustami.
Gusta l’eccitazione sulla mia pelle. Lecca il sale del mio sudore. Bevi i miei umori, nel posto più profondo che ormai conosci e che ad ogni tuo tocco rompono gli argini come un fiume che straripa. Un fiume in piena che impetuoso invade e inghiotte ogni cosa. Assaggia cosa provochi tra le mie gambe. Usa le dita. Fammele leccare e leccale tu a tua volta. Mordimi. Mangiami. Divorami. Saziati di me. Come la nostra prima vacanza insieme. Ricordi? Certo che lo ricordi! La nostra vacanza al sud. Uscimmo per una breve escursione per ammirare le meraviglie del posto quando bucammo una gomma. In un posto sperduto, ovviamente. Il caldo di agosto era insopportabile. Avevamo i vestiti completamente incollati addosso. Soprattutto io. Quel giorno indossavo un abito cortissimo a fiori e a causa delle bretelline fine non avevo messo il reggiseno. Entrammo in un bar ed ordinammo due granite alla frutta sedendoci al bancone. L’arredamento era squallido, ma ci accontentammo. In un angolo era posizionato un biliardino e due ragazzini si sfidavano gridando parole incomprensibili nel dialetto del posto. Due ragazzi sui trent’anni gustavano una birra nell’unico tavolino del locale.
La granita però era davvero superlativa e fresca. Ne bevemmo un sorso che ci diede subito sollievo. Sapeva d’estate. Di pesca, melone e limoni. Si sentiva il calore e la forza della terra. Goccioline di sudore presero a scendermi lungo il collo, tra i seni e poi giù per la schiena. Presi il bicchiere e me lo appoggiai sulla guancia. Uno dei ragazzi più grandi fu attirato da quel gesto e prese a guardarmi insistentemente, come a volermi spogliare con gli occhi. Te ne accorgesti anche tu. Ti eccitò. Vedere che gli uomini mi desideravano ma non potevano avermi ti rendeva sicuro del tuo potere su di me. Consapevole del mio appartenerti. Decisi di stuzzicarlo. Volevo vederti eccitato. Volevo provocarti affinché mi punissi per la mia sfrontatezza una volta in camera da letto. Mi passai il bicchiere sul collo e lungo la scollatura per poi risalire e bere un sorso di granita. Con la lingua giocavo sul bordo del bicchiere. Lasciavo scendere il liquido fresco nella gola. Mi leccavo le labbra guardando ora te, ora lui. Allargai leggermente le gambe come a cercare un po’ di refrigerio e presi a sventolarmi con il vestito mostrando le mutandine visibilmente bagnate. Ero eccitatissima da quel gioco e lo era anche il ragazzo a giudicare da come si toccava da sopra i jeans. Lo eri anche tu, si vedeva dal rigonfiamento dei tuoi pantaloni che rischiavano di esplodere. In quel momento arrivò il gommista per informarci che la macchina era pronta. Pagammo e andammo via. Arrivati in albergo non facemmo in tempo ad entrare in camera che già eravamo nudi a fare l’amore. Lentamente, prima. Assaporando ogni centimetro di pelle. Con urgenza poi. La voglia che avevo risvegliato in te e in me stessa, con il mio spettacolino al bar ci travolse. Ci divorammo letteralmente. Fu una delle notti che mai più avremmo dimenticato.
Ora qui in questa sala, davanti queste foto mi sento di nuovo come quel giorno, eccitata dal tuo sguardo ammirato. Sento le tue labbra sfiorarmi il collo. Sospiro.
Sento già la voglia impossessarsi del mio corpo e della mia mente. Gemo. Mi senti?
Ascoltami.. Ascolta il mio piacere che cresce e donami il tuo come musica che riempie le orecchie. Come una di quelle canzoni che entra in testa e non ne esce più. Ascolta il mio respiro che cresce, si trasforma. Sussurro, gemito d’eccitazione, grido di godimento che racconta il piacere, la passione.
Come quella volta che mi regalasti il vibratore a farfalla munito di un piccolo pene in gel e un telecomando. La funzione era quella di stimolare vagina e clitoride contemporaneamente.
Andammo in un centro commerciale pieno di gente.
Una tua brillante idea che accolsi con entusiasmo. A volte penso che la nostra perversione cresca ogni giorno di più e non abbia più limiti ormai. Quella volta è stata una delle più belle esperienze che abbiamo vissuto. Tu che non smettevi di giocare con il telecomando, aumentando e diminuendo l’intensità della vibrazione facendo crescere la mia eccitazione. E poi la mettesti al massimo livello ed io non riuscii più a trattenermi. Ti ricordi? Le persone ci guardavano in modo strano. Mi  trascinasti nel bagno perché iniziai a gemere senza freni mentre l’orgasmo montava lento ed inesorabile. Persi il controllo e mi lasciai travolgere dalla lussuria mentre tu mi guardavi impazzito di voglia. Mi aiutasti a toglierla, non riuscivi a smettere di guardare il mio sesso trasudare umori. Lo facemmo lì…nel bagno del centro commerciale.
Ora sento il tuo corpo reagire come quella volta. Sento le tue mani alzarmi il vestito. Le sento scivolare sulla pelle, tra le mie gambe. Si, ti prego!
Entra in me in profondità. Regalami un piacere che faccia male. Che divori, che uccida per poi farci rinascere. Unisci il tuo corpo al mio. Entrami dentro, duro e fiero. Prenditi gioco di me, entra ed esci mentre io ti cerco, ti invoco, ti bramo. 
Adesso…
Ora…
Ti prego...
Godimi...
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magicnightfall · 5 years
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MAN OR WOMAN, SHE’S THE BOSS ANYWAY
Tumblr media
La mia vita è un pendolo che oscilla incessantemente tra “Ma cosa campo a fare?” e “Se non altro c’è Taylor Swift”. Non c’è infatti cataplasma migliore, contro il logorio della vita moderna, di un po' di tempo speso a cercare di capire cosa passa per la mente della gattara. Stavolta l'occasione per tale approfondimento psicologico è data dal video di The Man. Ora, sui social hanno già scritto e detto tutto su tale argomento, hanno anche già individuato tutti i singoli easter egg e i riferimenti esoterici alla circoscrizione dei Templari di Baranzate bassa, quindi in questo post, che viaggia con Trenitalia, non troverete nulla che non avete già letto in tempo reale su cosechenessunovidirà.covid19.com: pertanto se volete saltare direttamente alla fine dove ci sono le previsioni del tempo, fate pure. The Man è una delle canzoni più interessanti di Lover (ne ho parlato qui), e il video che l’accompagna non è da meno. Innanzitutto, è stato scritto, diretto, prodotto, interpretato e posseduto — non nel senso demoniaco del termine — da Taylor stessa, la quale ha evidentemente deciso di darsi all’autarchia. Siamo, devo dire, ancora lontani dalla compiuta realizzazione del concetto “Se vuoi che le cose vengano bene devi fartele da solo” perché, per esempio, la scena della pipì sul muro — per quanto d’impatto — è zoomata troppo e zoomata a caso, ma comunque la gattara merita un plauso per aver provato a mettersi in gioco su un’arte complicata come la regia. In realtà, la ragione sottesa a questo suo coinvolgimento così capillare nella realizzazione del video è anche e soprattutto un’altra, e origina dal contenzioso sulla discografia precedente a Lover, e i master di cui non è riuscita a ottenere la proprietà. Con la (quasi) totalità della sua produzione artistica in mano a plutocrati viscidi, falsi e tracotanti, a un certo punto Taylor ha deciso che l’unica padrona di se stessa doveva essere, appunto, se stessa (emblematico il disclaimer con l’indicazione del copyright: Taylor Swift in luogo della casa discografica, come invece accadeva in passato). Così non passa certo inosservata la “denuncia” cui dà voce il cartello appeso a un muro decorato con i graffiti con i titoli dei suoi album: “Smarriti: in caso di ritrovamento restituire a Taylor Swift”. (sia messo a verbale che, se dovessi smarrirmi, anche io vorrei essere restituita a Taylor Swift. Federica Sciarelli prendi nota) E nemmeno passa inosservata la frecciatina a Scooter Braun, uno dei tracotanti di cui sopra, affidata a un secondo cartello che vieta i monopattini elettrici (“scooter”). (certo che uno che decide di darsi al business col soprannome “Scooter” dovrebbe essere preso a botte alla stregua di uno che sceglie di farsi chiamare, che ne so, “Apecar”, ma il mondo non è mai stato un posto troppo razionale) Ora, sebbene questi siano un aspetti senza dubbio importanti da menzionare, il video si concentra principalmente su altre questioni, così come, in effetti, il testo della canzone: i due pesi e le due misure che la società applica tra donne e uomini. E sceglie di mostrarcelo in modo letterale, lasciando tuttavia che sia lo spettatore a unire i puntini, portandolo (si spera) a una riflessione su come sarebbe percepita una donna se facesse quelle stesse cose. Così Taylor mette in scena non solo i comportamenti odiosi degli uomini come il manspreading, cioè l’allargare le gambe sui mezzi pubblici occupando tre posti invece di uno, l’aggressività sul luogo di lavoro (che però viene vista come un atteggiamento sicuro e vincente), ma anche i comportamenti odiosi della società stessa, la quale considera padre dell’anno l’uomo che fa il minimo indispensabile nei confronti della sua progenie, o celebra il playboy che passa da una ragazza all’altra (consapevoli che, a parte invertite, la donna verrebbe invece messa alla gogna). C’è chi dice che il video avrebbe avuto maggiore impatto se protagonista fosse stata una donna invece di un uomo, ma io non sono tanto d’accordo. Abbiamo già avuto modo di vedere come, fondamentalmente, i media e buona parte della società siano stolidi buoi che, come dire, non capiscono mai un cazzo: se ancora, dopo sei anni, molti faticano a cogliere l’ironia e le metafore del video di Blank Space, non vedo perché si possa pensare che quegli stessi soggetti siano in grado estrapolare un sottotesto. Secondo me ha avuto ragione Taylor a voler fare un video che rinuncia a qualsiasi intento allegorico per mostrarci invece le cose come in effetti sono. Così è, se vi pare. “Gli uomini si comportano in questo modo, gli uomini pensano in questo modo, la società consente loro di comportarsi in questo modo, è ora che ve ne rendiate conto: ecco perché ho messo tutto qui, nero su bianco” parrebbe dirci Taylor. Credo che con questo espediente sia meno marcato il rischio che la “morale della favola” finisca per perdersi.
Se da un lato, però, un video così testuale paga per forza lo scotto di risultare un tantino banale, dall’altro il vero guizzo di originalità è data dalla circostanza che l’uomo è Taylor stessa. Il reparto trucco e parrucco ha fatto un lavoro davvero straordinario (forse secondo soltanto ai miracoli degli addetti Photoshop di Giorgia Meloni). Sebbene fin dalla prima immagine rilasciata in anteprima, con l’uomo di spalle, mi aspettavo una trovata del genere (un po’ a là Drew Barrymore e Cameron Diaz in Charlie’s Angels più che mai), confesso che non l’ho riconosciuta fino all’ultimo, e per ultimo intendo proprio quando fanno vedere la trasformazione. Anche se la voce di The Rock (quella sì che l’avevo riconosciuta) mi aveva insospettita, sono proprio cascata dal pero. A rivederlo, col senno di poi, si capisce che non poteva essere che lei (il modo in cui si muove, tipo quando fa l’occhiolino o allarga le braccia, è inconfondibile), ma per il resto sono ancora F4 basita. Questo sotterfugio, devo dire, mi è piaciuto tantissimo: dopotutto, nella canzone Taylor riflette su come sarebbe percepita se fosse un uomo, e si può dire che, con questo ben riuscito artificio, abbia toccato con mano le sue teorie. Nella canzone la gattara afferma anche che, se fosse un uomo sarebbe un tipo “Alpha”. Ebbene, credo di parlare a nome di tutti dicendo che, per quel che ci riguarda,  donna o uomo, Taylor è l’intero alfabeto greco. Meteo: chicchi di grandine grandi come furgoncini su tutta Baranzate bassa.
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pangeanews · 4 years
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“Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile”. Come si traduce la poesia russa? Intervista a tre voci: Maurizia Calusio, Alessandro Niero, Serena Vitale
“Tanto grande e popolare la diffusione delle opere dei grandi prosatori dell’Ottocento, quanto scarsa e manchevole la conoscenza, anche nell’ambiente letterario, dei poeti lirici russi”.  Con queste parole, nel 1949 Franco Fortini (recensendo l’antologia Il fiore del verso russo di Renato Poggioli) constatava la scarsa diffusione della poesia russa in Italia. Anche oggi, certamente, quando si parla della grande letteratura russa si fanno prima di tutto i nomi di Tolstoj e Dostoevskij, eppure molto è cambiato da quel 1949: Puškin, Mandel’štam, Cvetaeva, Pasternak, Brodskij e molti altri hanno infittito gli scaffali di poesia nelle nostre librerie, grazie agli sforzi di numerosi traduttori che si sono adoperati per dar loro una voce italiana. Tre di questi traduttori (Maurizia Calusio, Alessandro Niero e Serena Vitale) hanno accettato di rispondere a quattro domande sulla poesia russa e su che cosa significhi tradurla.
Quali sono le qualità e gli strumenti necessari a un traduttore di poesia? E cosa di specifico richiede e offre la poesia russa?
Maurizia Calusio Un traduttore di poesia deve essere un lettore di poesia, ossia deve essersi formato dentro la propria tradizione poetica, avere familiarità, nel nostro caso, con la poesia italiana. Deve avere orecchio, perché altrimenti non potrà cogliere e restituire il ritmo della poesia, e per farsi l’orecchio può essere di grande aiuto imparare a memoria molte poesie italiane, e poi cercare di tradurre poeti russi che in qualche modo non siano lontani dai poeti lontani amati. Puoi essere ferratissimo nella metricologia, ma se non hai orecchio, se per te la tradizione poetica italiana non è qualcosa di vivo e costantemente frequentato, è difficile che si avverta la poesia dell’originale nelle tue traduzioni. Se non è un poeta, un traduttore di poesia deve essere un filologo dotato di orecchio. Nel mio caso, non essendo poeta, utilizzo gli strumenti del filologo. E il filologo deve studiare l’opera del poeta che si appresta a tradurre, e sulla base di questa conoscenza scegliere le edizioni migliori da cui trarre i testi (la scelta dell’edizione dice già molto della qualità di una traduzione). Occorre poi usare i (numerosi) vocabolari giusti: penso a Dal’, Ušakov, Ožegov, a seconda dell’autore che si ha davanti. È importante anche conoscere bene tutte le migliori traduzioni già esistenti dell’autore, in italiano, come anche nelle altre lingue più o meno note. Accostarsi alla traduzione con una voce originale, portando con sé ciò che ci ha spinti a tradurre un poeta, non significa farlo “ingenuamente”, ignorando per esempio quanto prima di noi è stato fatto. Il traduttore di poesia si inserisce infatti in una doppia tradizione: quella della poesia italiana (sulla quale il poeta che traduce è destinato a influire – perlomeno, se ha scelto di tradurre un grande poeta) e quella della traduzione poetica italiana, e in particolare dal russo.
Alessandro Niero Credo che un traduttore di poesia debba essere, come minimo, un suo frequentatore assiduo, nelle varie forme in cui ciò può avvenire; ossia deve essere, imprescindibilmente, un lettore (appassionato ma non superficiale) e un grande utente della lingua, cioè avere la consapevolezza tecnica di cosa significhi comporre versi. Se, poi, a questi due aspetti (già, a loro modo, operativi e pratici), si affianca anche una qualche forma di “produzione propria”, meglio ancora, anche se ciò – vorrei precisare – non credo che sia da considerarsi né un obbligo né una norma. La poesia russa, oltre ad aver sempre intrattenuto un rapporto vero con la dimensione popolare (anche folclorica) della poesia е con i suoi strati non culti, ha di specifico un non tramontato e naturale attaccamento ai presìdi formali (metro, rima, strofa), sebbene sempre meno. Ciò pone al traduttore il dilemma se sforzarsi o meno di riproporre analoghi presìdi anche nella lingua di arrivo.
Serena Vitale Qualità? Pazienza e testardaggine. È necessario un buon orecchio (musicale). Più di tutto, forse, è necessaria una buona (preferibilmente ottima) conoscenza della lingua come pure della letteratura – in particolare la poesia – italiana. La conoscenza della lingua e della cultura russa mi sembra l’ovvio punto di partenza. “Strumenti” per tradurre? I dizionari – non ne vedo altri, ma a chi traduce poesia serviranno ben poco. Molto più utile, credo, è cercare nel Korpus della lingua russa le occorrenze del vocabolo che si vuole tradurre, ricostruirne la “storia”, i contesti in cui è già apparso. Sono convinta che volgere versi russi in italiano non presenti al traduttore difficoltà e/o problemi diversi da quelli che pone ogni traduzione poetica, salvo forse la maggiore libertà della poesia italiana, dal ’900 in poi, nei confronti della metrica e delle rime.
«Se il traduttore è una persona coscienziosa, cercherà di imitare la forma». Così categoricamente si esprimeva Iosif Brodskij nel 1979, in un’intervista con Eva Burch e David Chin. Siete d’accordo con quello che dice Brodskij? La riproduzione della forma è un elemento imprescindibile della traduzione poetica?
Maurizia Calusio Per me tradurre significa cercare di portare quanto più possibile del testo originale russo nella lingua italiana. Non si può portare tutto, le perdite sono irrimediabili, e implicite nell’atto stesso del tradurre. Nelle mie traduzioni, il metro e la rima dell’originale vanno perduti, mentre cerco di conservare quanto più possibile sintassi, immagini, lessico. In ogni caso, il rimando alla tradizione russa contenuto nella scelta di un metro come di un singolo vocabolo va pressoché sempre irrimediabilmente perduto. Il ritmo che mi sforzo di conservare è quello della sintassi (cercando di preservare la posizione delle parole a fine verso, ad esempio) e per fare questo cerco di procurarmi (quando ci sono) letture del testo russo, se possibile d’autore, altrimenti di un madrelingua (meglio se poeta in proprio). In questo senso anche il ritmo della lettura può essere una guida per restituire la sintassi.
Alessandro Niero Credo che le opinioni di Brodskij vadano viste alla luce della sua vicenda privata e delle sue predilezioni personali. Essendo egli stesso un acceso cultore della forma (anche se, con il tempo, divenne più allentata, sempre meno pressante), non poteva che richiamare il traduttore al rispetto della stessa; tanto più che si trovò nella singolare situazione di chi decise, a un certo punto, di autotradursi e, quindi, di sperimentare, con tutte le difficoltà del caso, ma anche con autorevolezza e autorialità, cosa voglia dire traghettare se stesso su altre sponde linguistiche cercando di trasmettere “tutto”. Quanto alle predilezioni personali, ricorderei che Brodskij (e non solo lui, ovviamente) stimava grandemente figure di calibro mondiale come Anna Achmatova, Osip Mandel’štam, Marina Cvetaeva, Boris Pasternak; i quali sono tutti autori primonovecenteschi che, nella loro scrittura, si sintonizzavano “fisiologicamente” sulle esigenze dettate da un certo tradizionalismo formale. Brodskij, da madrelingua qual era, ma anche da figura in grado di inserirsi potentemente nel contesto anglo-americano che lo adottò nel 1972 dopo l’emigrazione forzata dall’URSS, non poteva che leggere come inadeguati gli sforzi di chi impiegava uno strumento apparentemente lassista come il verso libero per spostare da una cultura all’altra testi di straordinario valore contenutistico e formale. Se poi questa sia una posizione da condividere pienamente, è un altro discorso. Traducendo poesia si cade inevitabilmente nel contesto di arrivo, dove vigono regole, spesso tacite, che reindirizzano quella stessa poesia, la adattano a ciò che quel contesto ritiene lecito, praticabile, rientrante nel gusto. È tra due confini – la spinta a rispettare gli istituti formali dell’originale e la cultura di accoglienza – che il traduttore deve ricavarsi uno spazio praticabile, una specie di “zona franca”. In questo non ci sono regole e non vi è nulla di scontato. Se posso, rimanderei, per complicare ulteriormente la cosa (e farmi un po’ di goffa pubblicità), a un mio volume che affronta queste tematiche: Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi (Quodlibet, 2019).
Serena Vitale Chissà se ha detto proprio “imitare”… E chissà se il termine “riproduzione” si può applicare all’arte del tradurre. Per la poesia russa la “forma” è un elemento imprescindibile, una necessità quasi ontologica. Nel 2000 sempre Brodskij ha detto: “…Il poeta dovrebbe ripercorrere le strade della letteratura che lo ha preceduto, cioè passare attraverso una scuola formale. Altrimenti il peso specifico della parola nel verso si azzera”. La “forma” per Brodskij, è strettamente legata al Tempo, e il metro gli offre la possibilità (o soltanto l’illusione) di riorganizzare un tempo quasi mai amico. Del resto Brodskij ricorre al metro con una grande libertà e, seppure raramente, si cimenta anche nel vers libre, capace di rendere il “miracolo della lingua quotidiana”.
Esistono poeti russi intraducibili? Se sì, quali e perché?
Maurizia Calusio Puškin, naturalmente. In Puškin c’è una perfezione originaria che è al contempo il massimo della semplicità e il massimo della raffinatezza. L’italiano, con i suoi meravigliosi e ingombranti ottocento anni di tradizione poetica, è del tutto impotente a restituirla. Bisognerebbe tornare alla purezza della lingua primigenia di Dante, e coniugarla con la felicità di tutta la poesia successiva… bisognerebbe mettere dentro tutto, e questo non si può fare. Un altro poeta che si avvicina per difficoltà a Puškin è l’ultimo Boratynskij, quello della raccolta Sumerki (Crepuscolo), un poeta che io amo molto. Si può tradurne bene la sintassi, ma il suo lessico – al contempo lessico filosofico e lessico dell’elegia russa – è molto difficile da rendere. Continuo a provarci.
Alessandro Niero Se volessi essere sbrigativo e categorico le direi che in varia misura lo sono tutti. Ma sarebbe una posizione inutile, non produttiva e, soprattutto, irrispettosa di quanto è stato ottimamente fatto da molti traduttori italiani. Un nome, però, mi sento di farlo, ed è, paradossalmente, quello del poeta più grande di tutti, ossia Aleksandr Puškin (1799-1837), soprattutto per quanto riguarda la sua lirica (il suo miracoloso romanzo in versi Evgenij Onegin è un capitolo a parte). Con tutto il rispetto per i miei colleghi traduttori, devo dire che in pochi, pochissimi casi mi è capitato di sentire una voce italiana che abbia saputo contemplare, nel volgere di un testo, il romanticismo ammantato di eleganza classica, la capacità di essere tragico ma con straordinaria levità, la scarsa inclinazione alla pirotecnia formale esibita e perfino all’uso dei tropi e l’invidiabile tecnica di versificazione che costituiscono, ancorché sommariamente, la mia idea di Puškin.
Serena Vitale Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile. Sono stati tradotti poeti, ad esempio, come Chlebnikov e Cvetaeva, che pure in alcune loro opere sembrano rifiutarsi a ogni tentativo di resa in un’altra lingua.
Quali sono i poeti russi che non hanno ancora voce in Italia, o che aspettano una ritraduzione?
Maurizia Calusio Tra i poeti novecenteschi che non hanno voce in Italia c’è sicuramente Boris Poplavskij (1903-1935), grande talento della giovane generazione dell’emigrazione russa. Poplavskij è un autore su cui sto lavorando e che spero di poter pubblicare in un futuro non troppo lontano. Poi ci sono casi come quello di Nikolaj Zabolockij, poeta dell’età sovietica che, come non pochi altri russi, è noto solo per qualche scelta antologica.
In generale sarebbe importante anche dare versioni aggiornate di antologie che – come quelle di Ripellino e Poggioli – hanno consentito la ricezione dei poeti russi nel ’900 italiano. Oggi sarebbe il caso di riunire gli sforzi di più traduttori, che potrebbero lavorare ciascuno sui poeti e i testi più amati e meglio studiati. Un progetto che poi si potrebbe ampliare, grazie alle possibilità che oggi offre il digitale, per riprodurre la trama delle relazioni strettissime tra poeti russi e italiani. E sul fatto che per i poeti italiani i poeti russi siano importantissimi, non credo servano qui degli esempi.
Alessandro Niero Per quanto riguarda il XVIII secolo, sarebbe opportuno riproporre un poeta come Gavrila Deržavin. L’Ottocento – come dicevo sopra – ha il “problema” di Puškin. Il primo Novecento è stato ampiamente frequentato e annovera ormai dei lavori che sono o si avviano a essere dei “classici della traduzione” (penso ai lavori di Angelo Maria Ripellino, soprattutto, e più recentemente, a Serena Vitale, Remo Faccani e Caterina Graziadei). Ciò non significa che non si debba procedere a “rinfrescare”, per esempio, la ricezione italiana di Anna Achmatova e di Velimir Chlebnikov, così come quella di un autore ingiustamente negletto, Nikolaj Zabolockij. La poesia dell’emigrazione, poi, manca in Italia dei nomi di Boris Poplavskij e di una scelta vasta di Georgij Ivanov. Per il secondo Novecento, le cose si fanno certamente più complicate, giacché non esiste ancora un “canone” stabilizzato del who is who. Certo, un poeta come Iosif Brodskij – già in parte tradotto – andrebbe riconsiderato, così come andrebbero riconsiderate la sua generazione e quella immediatamente successiva, che comunque ha visto già alcuni volumi editi, ma aspetta ancora il traduttore di Bachyt Kenžeev, Inna Lisnjanskaja, Jurij Kublanovskij, Oleg Čuchoncev. Forse un’idea complessiva della poesia di Evgenij Evtušenko e di Andrej Voznesenskij pure non sarebbe da trascurare… Ma sono sicuro di aver fatto torto a qualcuno. Ecco perché, se ci spostiamo verso il contemporaneo in senso stretto, temo che i nomi si infoltiscano a tal punto da indurmi a scaricare la patata bollente sul collega e traduttore Massimo Maurizio, che ne sa più di me e che ha già strumenti affilati per distinguere il grano dal loglio.
Serena Vitale A mio avviso tutte le buone traduzioni (di poesia o prosa) sono sempre importanti e benvenute, quindi anche le “ritraduzioni” – purché affrontate con modestia, amore, senza alcuna pretesa di dimostrare “quanto sono più bravo io di X o Y”… Tra i poeti “che non hanno ancora voce in Italia” (salvo qualche lirica in raccolte antologiche e una versione non a stampa, che si può leggere on line, dеllo splendido poema Terra bruciata) devo forzatamente limitarmi e segnalo soltanto Nikolaj Kljuev, un grande del ’900 russo.
*Interiste a cura di Stefano Fumagalli; in copertina: Anna Achmatova (1889-1966)
L'articolo “Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile”. Come si traduce la poesia russa? Intervista a tre voci: Maurizia Calusio, Alessandro Niero, Serena Vitale proviene da Pangea.
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lamilanomagazine · 8 months
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"QUASI AMICI" con Massimo Ghini e Paolo Ruffini: al Teatro Manzoni di Milano dal 16 al 28 gennaio 2024
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"QUASI AMICI" con Massimo Ghini e Paolo Ruffini: al Teatro Manzoni di Milano dal 16 al 28 gennaio 2024. Dal 16 al 28 gennaio 2024 al Teatro Manzoni di Milano. Quasi Amici è una storia importante, di quelle storie che meritano di essere condivise e raccontate. Anche con il linguaggio delle emozioni più profonde: quello teatrale. Un adattamento per il teatro del soggetto e della sceneggiatura di Quasi amici è affascinante perché permette di dilatare, in drammaturgia teatrale, quelle emozioni che nascono per il cinema con un altro linguaggio, non solo visivo, ma anche filmico. Emozioni che devono irrobustirsi però con parole e simboli precisi sul palcoscenico per poter rimandare tutti noi a un immaginario condiviso con il quale far dialogare il proprio. E partecipare. Ed è straordinario raccontare ancora più nell’intimità delle parole, degli scambi, delle svolte narrative, delle luci, dei movimenti, che solo una drammaturgia teatrale può cogliere e restituire, dando il senso profondo di una grande amicizia in fieri. Osservando poi il percorso che compiono i due protagonisti per crescere, ognuno nella rispettiva vita e in quella dell’altro e di come uno diventi assolutamente necessario all’altro per poter proseguire indenne, o quasi, il proprio cammino su questa terra. Due uomini talmente diversi da costituire una teorizzazione dell’antimateria. Due particelle che potrebbero portare a un’esplosione, un annichilimento delle proprie personalità e invece avviene il miracolo. Ed è questo Miracolo laico che vorrei raccontare. Un uomo molto agiato, ricco, molto ricco, troppo ricco, intelligente, affascinante; un uomo che vive di cultura e con la cultura vive, che si muove e conquista e soddisfa il proprio ego narcisistico con il cervello più che con il corpo. Un uomo a cui il destino ha voluto, per contrappasso, relegare a solo cervello, facendolo precipitare con il parapendio e fratturandogli la quarta vertebra cervicale e riprendendosi il corpo. Quel corpo, che era solo un bagaglio della mente, ora nell’assenza, diventa il fantasma di un’identità da inseguire e recuperare. E un altro uomo che entra ed esce di galera, sin da ragazzino, svelto, con una sua intelligenza vivace e una cultura fatta sulla strada e nei film di serie b, che ha visto. Ma decisamente smart. Un uomo che preferisce porre il suo corpo avanti a tutto e lasciare il cervello quieto nelle retrovie. Un corpo che, da subito, ha cercato di farsi strada nelle periferie degradate, in cui un’incertezza diventa come in natura, essenziale per determinare il proprio posto nella catena alimentare. Un predatore che in realtà̀ è una preda delle proprie debolezze. Un uomo che si è privato della carica del cervello che avrebbe potuto essere per lui determinante. Questi due uomini si incontrano per un caso e questo caso farà sì che diventino uno per l’altro indissolubili, l’uno indispensabile alla vita dell’altro e lenitivo alla ferità fatale che ognuno ha dentro di sé. Non lo sanno ma loro possiedono un dono che ognuno può donare all’altro: la leggerezza. Come in Pigmalione assistiamo per osmosi a un’educazione alla vita e alla cultura e un’istruzione alla leggerezza. È l’assenza di leggerezza, più̀ che la malattia, che tiene ancorato sulla sedia Philippe, la sua pesantezza della vita, della sua percezione del mondo, che lo inchioda a decisioni sbagliate con la figlia adottiva, con i suoi collaboratori, ma soprattutto con sé stesso. Non si perdona mai. Da cosa non si è ben capito. Dalla difficoltà di vivere? E l’altro uomo che ha fatto della sua leggerezza un modo per non occuparsi di nulla, di scansare ogni problema, ogni profondità, ogni disagio. Una leggerezza frivola, gassosa, che lo porta a risolvere tutto con il corpo, fisicamente e caso strano, pesantemente. Una leggerezza che ha la pesantezza di un dirigibile senza l’idrogeno. Una leggerezza senza controllo. Paul Valéry ha detto: «Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume». Uno usa il corpo e uno la mente. Occorre una ridistribuzione totale dei talenti. Nell’adattamento teatrale il ruolo di Philippe, l’uomo sulla sedia, dovrà essere riequilibrato, perché nella versione cinematografica è molto sbilanciato il racconto a favore di Driss, l’uomo che arriva ad aiutarlo. Nella versione teatrale i due ruoli saranno equiparati per poter scavare molto di più nel loro rapporto e nella loro ricerca di questa leggerezza calviniana che ci faccia emozionare, godere, ridere fino alle lacrime Ho immaginato quindi, di inserire anche quei momenti di sconforto che nel film, per necessità del tempo di racconto non hanno probabilmente trovato spazio, invece nella versione teatrale ci permettono di entrare nella psiche di un uomo completamente paralizzato che diventa tutt’uno con la sua sedia a rotelle elettrica. E nella testa di un altro uomo che ha considerato la vita fino allora come un aperitivo leggero da ingurgitare e poi tranquillamente digerire. Ad esempio: un sogno in cui Philippe si sveglia e lo vediamo camminare. E questa cosa ci disorienta. Philippe chiama subito Driss, è entusiasta della notizia che gli deve dare e Driss arriva ma è lui sulla sedia a rotelle. Philippe, come nel peggiore incubo, si rende conto che è solo un sogno e si sveglia madido di sudore nel suo letto. Ma nel sogno, per una volta, ha capito la strada. Ha perso la gravità che gli dava pesantezza. Ma la ricerca alla leggerezza passa anche per la comicità. Ridere sarà il veicolo segreto per arrivare a comprendere ancora di più i meccanismi che regolano la vita e i destini di questi uomini. Ridere di sé e dell’altro per conoscere di più in profondità chi ci sta davanti: nudo, senza schermi. Un uomo macchina che custodisce gelosamente l’essenza del suo essere uomo in un incontro epistolare con una donna che potrebbe risultare la sua ragione di vita. Che alla fine potrà restituirci uno scampolo di vita reale. Per la regia mi sono immaginato un grande spazio aperto, un grande panorama illuminato come una giornata estiva, una notte autunnale, un pomeriggio piovoso. E un piano inclinato che dirada verso il proscenio e che racchiuda al suo interno tutti i luoghi della vicenda, che si aprono e diventano a volte studio, camera da letto, salotto, a volte ristorante eccetera. Ma poi richiudendosi all’interno del praticabile ci restituiscono solo una pianura inclinata in cui far scivolare dolcemente la sedia a rotelle o faticosamente spingerla in salita. Un non luogo esterno che potrebbe essere una spiaggia con il mare davanti, la platea, o un prato dove volano i parapendii e dove nel finale, per realismo magico, seguendo un aquilone che Driss fa volare nel vento di un pomeriggio, Philippe finalmente acquisisce la sua leggerezza e si stacca dalla sua sedia a rotelle e vola come se fosse sul parapendio lasciando finalmente quella sedia che lo schiacciava verso la gravità più̀ pesante del mondo. Philippe ha perso la gravità. Ha imparato la leggerezza e Driss, la leggera profondità̀ che non lo fa volare e tiene Philippe ancorato a sé, come un riferimento importante. La loro amicizia, una centratura, per vivere ed essere uomini un po’ più̀ consapevoli della meraviglia e poter ridere, finalmente a crepapelle. Alberto Ferrari Enfi Teatro presenta - Dal 16 al 28 gennaio 2024 - feriali ore 20,45 - domenica ore 15,30 - sabato 27 gennaio ore 15,30 e 20,45 QUASI AMICI dal film “Quasi amici” di Eric Toledano e Olivier Nakache con MASSIMO GHINI e PAOLO RUFFINI Adattamento e regia - Alberto Ferrari con - Claudia Campolongo - Francesca Giovannetti - Leonardo Ghini - Giammarco Trulli - Giulia Sessich - Diego Sebastian Misasi Scene Roberto Crea - Costumi Stefano Giovani Disegno luci Pietro Sperduti - Musiche Roberto Binetti Assistente alla regia Cristiano Malacrino - Video Robin studio Interpreti e personaggi - Massimo Ghini - Filippo - Paolo Ruffini - Driss - Claudia Campolongo - Yvonne, La Voce della Navigator - Francesca Giovannetti - Magda ed Eleonora - Leonardo Ghini - Adamo, Candidato, Badante, Gallerista - Giammarco Trulli - Alberto, Giardiniere, Antonio Legenda, Cameriere, Candidato - Giulia Sessich - Deb ed Elisa - Diego Sebastian Misasi - Bastiano, Candidato, Badante, Violinista BIGLIETTI Da martedì a venerdì - Prestige € 36,50 - Poltronissima € 33,00 - Poltrona € 25,00 - Poltronissima under 26 anni € 16,00 Sabato e domenica - Prestige € 41,00 - Poltronissima € 36,50 - Poltrona € 26,50 - Poltronissima under 26 anni € 18,50 Per acquisto: - biglietteria del Teatro Online - telefonicamente 027636901 - circuito Ticketone... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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gregor-samsung · 5 years
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Ma chi è questo Giovanni Leone, quest'uomo che da anni conserva l'aspetto bonario di un affettuoso papà? Giorgio Gaber, uno chansonnier che sa spesso cogliere spunti di verità, lo chiama, insieme agli altri capi democristiani, un "gag-man" dotato di una comicità innata che in teatro vien detta "buffo naturale", e che con l'iterazione dei comportamenti o delle frasi raggiunge effetti di straordinaria ilarità. Sì, Leone è un gag-man, non molto diverso per la verità dai suoi colleghi di recitazione, dai Moro, Rumor, Fanfani, Gui e Colombo che con le loro gag partecipano a quella tragica rappresentazione che è l'Italia democristiana; tutti legati da un patto di ferro che si chiama omertà e protezione, tesi unicamente alla conservazione del potere. Sotto la presidenza di Leone l'Italia è stata segnata da tappe sanguinose e dal proliferare delle trame nere; ecco l'assassinio dell'agente Marino a Milano da parte dei sanbabilini, l'attentato del finto anarchico Bertoli alla questura, le bombe di Brescia, la bomba all'Italicus, il complotto della "Rosa dei venti", il golpe bianco di Sogno e Cavallo, l'uccisione da parte di polizia o fascisti di Franceschi, Varalli, Zibecchi, Brasili a Milano, Miccichè a Torino, Boschi a Firenze, Campanile a Reggio Emilia, tutti di sinistra, oltre al missino Ramelli. E poi l'assassinio del comunista De Rosa durante un comizio del deputato missino Saccucci. Una striscia di sangue che si allunga con le morti violente del consigliere missino Pedenovi a Milano, del procuratore generale della repubblica Coco a Genova, del sostituto procuratore della repubblica Occorsio a Roma. Quanto alle vergogne della magistratura, per ora ci limiteremo a citare il passaggio di tutte le istruttorie scottanti sulle trame fasciste alla Procura della repubblica di Roma, tutte le decisioni della cassazione dal '72 in avanti, il proscioglimento in istruttoria di Pino Rauti nel processo di Catanzaro, la decisione della Corte costituzionale (cioè della più alta magistratura dello stato) di bocciare i quattro referendum popolari, il record di assoluzioni nei confronti dell'estremismo armato fascista. I primi ministri scelti da Leone hanno messo in piedi governi dello sfacelo economico: la borghesia di stato parassitaria non ha mai imperversato come in questi anni; il terrorismo è diventato l'innesco necessario della politica di repressione. I servizi segreti si sono rivelati il vero centro dell'eversione. Obbediente alla legge democristiana del potere ad ogni costo, dimenticando il giuramento di fedeltà alla Costituzione, Leone ha sciolto le camere tutte le volte che faceva comodo alla Dc o ai giochi del partito. Eletto coi voti fascisti, ligio alle regole del ventennio, non ha mai usato i suoi poteri per correggere le deviazioni, per restituire al parlamento le funzioni che ogni giorno gli vengono espropriate, per impedire l'assurdo comportamento dei partiti che creano, conducono, risolvono crisi di governo e accordi programmatici sempre in sede extraparlamentare, o per richiamare un presidente del consiglio di un governo in crisi che compie atti di importanza estrema come la nomina dei capi dei servizi segreti.
Camilla Cederna, Giovanni Leone. La carriera di un presidente, Milano, Feltrinelli, 1978; pp. 23-24.
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iltrombadore · 2 years
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Dipinto di blu: Antonio Finelli e le sue vedute marinare
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Antonio Finelli dipinge da anni lontano dal mondo, per il suo privato piacere, assolutamente indifferente ma non ignaro di quanto accade nel mondo dell'arte odierno tutto pieno di fragori e rumori, popolato di grida visive condite dal moltiplicarsi di quella che già quaranta anni fa veniva definita 'avanguardia di massa' e figuriamoci oggi come la si potrebbe chiamare. Finelli ama il piccolo formato, dipinge per lo più paesaggi che nascono dal vero ma sono filtrati dalla sua mente in un ordito formale di accostamenti semplificati di proporzioni, colori e luci. I suoi quadri sono la stenografia visiva di un diario in pubblico dove il pittore enuncia un dialogo con i suoi fari prediletti e prescelti nel campionario della tradizione moderna italiana, quel 'novecentismo' che vide nella lezione 'francese' di Corot, Seurat e Cézanne un modello su cui indirizzare l'espressione. 
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Si vede che ama Carlo Carrà, Francesco Trombadori, Riccardo Francalancia, Antonio Donghi,  Felice Casorati, Ottone Rosai, per dirne alcuni; si vede che ha sapientemente studiato le luci e le calme inquadrature di Edward Hopper, ha colto la misura di forma-colore implicita nelle tele di Andrè Derain o Albert Marquet. Un pittore 'attardato' si direbbe; se non valesse il monito di Jusep Torres Campalans, il pittore immaginario descritto da Max Aub, che, dopo l'esperienza vissuta dell' avanguardia storica, cercava 'una pittura che non passi di moda, che non sia una moda ma un modo di dipingere. Un modo umano di dipingere.Non una copia fedele per buona o discreta che sia. Una pittura geniale, ma non ingegnosa...che la gente non dica 'come è bella!', ma che si senta sorpresa da qualcosa di nuovo, di creato...'.
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 Ecco dove mi pare che il solitario Antonio Finelli si diriga quando con diligenza meticolosa impagina i suoi spettacoli dipinti di paesaggi elementari e tutti rifiniti nel dettaglio, pieni di luce immersa nel colore, interessato com'è a scoprire il 'nuovo' in ciò che appare consueto, a 'creare' là dove tutto appare scontato e più che conosciuto. Frequentare alberi dai 'nomi poco usati' è impresa difficile tanto quanto fare della poesia 'onesta', ci ricordano Montale e Saba. Esercitare la pittura fino a cogliere il grammo di poesia che ci può restituire un lembo di paesaggio, è un modo analogo di intendere la legge prima della espressione autentica. Antonio Finelli, ha scelto questa via. Egli è un pittore nel vero senso della parola. Non ne fa professione. Vive appartato la sua avventura visiva. E' stato ed è un collezionista, un amatore d'arte, prima ancora di stendere colore sulla tela. Ho visto in passato i suoi paesaggi romani e berlinesi, con i tetti e i cieli capitolini, ed anche gli orizzonti grigi con il verde e bruno liquido della Sprea... Sono pitture valide, che confermano la idea attribuita da Max Aub al fantomatico Campalans: perché sono pitture che non passano di moda e scelgono uno stile, una maniera di vedere, un singolare e coerente 'modo di dipingere'. 
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E con la medesima soddisfazione dello sguardo e della mente, posso oggi osservare la qualità delle nuove 'marine', che Antonio Finelli ha inteso dipingere costruendo una serie di cammei ben torniti ('au four de l'émailleur' direbbe Gautier) e che l'autore ha voluto immettere nel 'diario in pubblico' che da anni puntualmente viene annotando con l'accuratezza di un diligente stenografo dei sentimenti suscitati dalle 'cose viste' . Ne risulta un racconto visivo di preziosi e compiuti quadretti che isolano la linea d'orizzonte e formano un tripartito di zone di colore, tra l'azzurro, il bianco, l'ocra e qualche tocco di rosso intenso dedicato a fissare la sagoma di qualche pattino sulla sabbia, un tavolinetto, una banderuola. E' la rifinitura di queste isolate presenze, sagomate per una semplificazione descrittiva, a persuadere lo sguardo in una scala armonica di natura silente, e pure piena di allusioni e di richiami visivi. E' il tocco poetico, che mi pare raggiunga Antonio Finelli, col suo modo di vedere e di farci vedere (in modo 'nuovo') la consueta figura delle spiagge vuote, bagnate dalla luce settembrina, con gli ombrelloni appena tirati giù disposti in fila, con le ombre meridiane bene accentuate, e la mesta e sempiterna poesia del mare calmo, e pieno di luce, che ancora una volta ci riporta all' indimenticabile sintesi illuminata da Arthur Rimbaud: '...Elle est rétrouvée. Quoi? L'Eternité. C'est la mer allée avec le soleil...'.
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